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Venerdì 3 Febbraio 2017
7
La nipote di Romano, consigliera regionale Pd, contro Renzi. Come segretario vuole Enrico Rossi
Silvia Prodi: no a elezioni e scissione
«Improponibile un nuovo Ulivo, la società è più complessa»
DI
CARLO VALENTINI
D
i spine prodiane nel
fianco, Matteo Renzi
ne ha due. Oltre a Romano c’è la nipote Silvia, dalla travolgente carriera
politica. A quattro anni dalla discesa in campo è già consigliera
alla Regione Emilia-Romagna
e ora sta facendo proseliti nel
Pd emiliano a favore della candidatura di Enrico Rossi (il
presidente della Toscana) alla
guida del partito. Dice: «Niente congresso frettoloso. Bisogna
puntare sui contenuti e il Pd
deve ritrovare la sua anima di
sinistra. Enrico Rossi interpreta questa svolta. Ma la sinistra dev’essere unita, arrivare
al congresso non dilaniata né
da scissioni né da meccanismi
competitivi che vanno poi a
scapito delle sue possibilità di
successo».
Nella regione ove il Pd è
più forte, sia elettoralmente
che come iscritti (anche se in
calo), un tempo bersaniana
(Pier Luigi Bersani è stato
presidente della Regione dal
1993 al 1996) poi passata al
renzismo, Silvia Prodi cerca di
costruire il consenso attorno a
Rossi. E boccia ogni velleità verso un nuovo Ulivo, che per altro
era stato adombrato proprio
dallo zio e rilanciato in questi
giorni da Bersani: «In quel momento storico», spiega, «l’Ulivo
aveva un senso, bisognava raggruppare tutte le forze disponibili contro il berlusconismo. Ora
la situazione è cambiata, la società è diversa e più complessa,
le spinte liberiste hanno finito
per penetrare anche nel Pd. Pri-
ma di parlare di Ulivo si deve
alienare il berlusconismo che è
in noi. Non mi piacciono le operazioni in provetta. Il tema vero
è far tornare in gioco le parti sociali, che senso ha avere messo
i sindacati nell’angolo»?
Quindi anche su quanto è rimasto dopo il pronunciamento
della Consulta sul referendum
promosso dalla Cgil per abrogare il Jobs act sarà meglio che
il partito faccia attenzione: «Risulta pienamente legittima la
posizione di chi dice no a un utilizzo improprio dei voucher».
Insomma, nessun revival
dell’Ulivo, neanche nella versione 4.0 sbandierata da Bersani. Ma pure niente scissione:
Massimo D’Alema e Bersani
sbaglierebbero ad andarsene.
Così come ha sbagliato Pippo
Civati, al quale la Prodi guardava con simpatia (quando
veniva a Bologna per lui era
obbligo fare visita a Romano
Prodi) e con cui non ha rotto i
rapporti, tanto che con lui ha
partecipato ad alcune manifestazioni a favore del Sì. Civati
contraccambia: «Silvia è stata
tra i primi a dichiararsi contraria alla riforma costituzionale,
il senato è stato salvato e lei sarebbe un’ottima senatrice».
Con Rossi segretario, Civati potrebbe anche rientrare
nel Pd, magari con la mediazione della Prodi. Comunque in
questi giorni meglio impegnarsi
per un congresso che sconfigga
Matteo Renzi e per andare al
voto non subìto ma alla naturale scadenza della legislatura
come auspicato da Rossi: «Correre insieme a Beppe Grillo
e a Matteo Salvini verso le
elezioni anticipate è un errore
grave. Il Paese ha bisogno di
essere governato. E il Pd ha
bisogno di un congresso».
Le adesioni incominciano ad arrivare, soprattutto
da amministratori locali: Mirko Tutino, Matteo Nasciuti,
Lanfranco De Franco, Matteo Sassi. Dice Silvia Prodi:
«Crediamo che il partito debba
ritornare a essere un punto di
riferimento per tutti gli elettori di centrosinistra. Abbiamo
deluso chi lavora nelle fabbriche, chi vive nelle periferie, chi
opera nel mondo della scuola,
chi si mobilita per la tutela
dell’ecosistema e per i beni comuni. Abbiamo perso 100 mila
voti a Torino, oltre 200 mila a
Roma e più di metà delle città
che governavamo prima della
tornata elettorale di questo giugno Abbiamo perso in tre delle
prime quattro città italiane soprattutto perché abbiamo perso
nelle periferie. Non si riforma
il paese senza il consenso degli
italiani, e tanti buoni amministratori hanno visto calare il
proprio consenso per le scelte
del partito nazionale, che si
è chiuso in una linea politica
distante dalle proprie origini
e dalla propria base. È stata
smantellata la struttura del
Pd, trasformato in poco più
di un comitato di supporter
all’azione del governo Renzi».
Aggiunge: «Questo è il punto
irrinunciabile: saper ascoltare
e non essere autoreferenziali.
Così come sapere che essere di
sinistra è una condizione che
fissa delle priorità, che al capitale si preferisce comunque
il lavoro, al profitto lo stato
sociale, al verticismo la partecipazione, come vanno dicendo Jeremy Corbyn, Bernie
Sanders e Martin Schultz».
Silvia Prodi ha 48 anni,
quarta di sette figli, laurea in
ingegneria nucleare. È sposata, ha due figli: «Grazie a loro»,
dice, «ho iniziato a frequentare i luoghi di rappresentanza
nelle scuole, prima comunali e
poi statali. Spinta dai tagli della Gelmini, mi sono convinta
della necessità di spendere più
tempo nella difesa della scuola
pubblica e negli anni mi sono
impegnata prima come rappresentante di classe, poi in consiglio di istituto».
Nella recente consultazione
referendaria sulla Costituzione si è schierata per il No,
nonostante l’outing dello zio
Romano, all’ultimo momento, per il Sì. Lei comunque ha
festeggiato la vittoria: «Dopo
anni di progressiva disaffezione verso la politica, si è riacceso il dibattito nella società, nei
luoghi di lavoro e nelle piazze,
e l’alta partecipazione legittima
ancora di più l’esito del voto. Il
Pd è uscito sconfitto da questo
referendum per l’alto livello
di politicizzazione che il suo
segretario ha voluto dare alla
campagna referendaria. L’errore è stato a monte, quando si è
deciso di proporre, in alcuni casi
imporre, una riforma intricata
e complessa tramite un Bignami ottimistico, a suon di slogan
e presenza mediatica. Com’è
avvenuto in altre elezioni e referendum in Europa, la scelta
di rendere i governi gli attori
politici principali e indebolire
il ruolo dei partiti, sempre più
simili tra loro e sempre più
sbiaditi, è una scelta che porta alla disaffezione e al voto di
protesta».
Quanto a Renzi: «Un segretario del partito che ha in
maggioranza sostenuto la riforma dovrebbe da subito aprire il
dibattito per ricostruire l’unità
su obiettivi comuni che ci consentano di superare questa fase
così complessa e dare corso a
una fase politica conseguente.
Sembra che stia avvenendo il
contrario».
Twitter: @cavalent
SCOVATI NELLA RETE
PARTITI GLOBALIZZATORI, IN ITALIA SONO IL PD E FI. SOVRANISTI INVECE M5S, LEGA E FRATELLI D’ITALIA
Destra e sinistra sono diventate categorie scadute. Adesso
si scontrano i globalizzatori e i sovranisti (cioè i nazionalisti)
DI
L
LUIGI CHIARELLO
a fine del ’900, detto il Secolo
breve per la tumultuosità di
eventi che ha ospitato, ci ha
regalato la crisi delle categorie
politiche: destra e sinistra non sono
più due monoliti l’un contro l’altro armati, ma due vasi comunicanti. Molte
battaglie di destra sono diventate di
sinistra e viceversa. Anche perché gli
elettorati, entrambi interclassisti, sono
intercambiabili. L’alba del Terzo millennio, invece, ci ha catapultato, mani e
piedi, nella globalizzazione e, con essa,
nella perdita progressiva di sovranità
degli Stati, che si sono scoperti fragili
rispetto alla pressione speculativa dei
giganti finanziari e industriali. Le pulsioni dei mercati, nello spazio di 15 giorni, possono spedire in fallimento paesi
non troppo grandi per fallire, come la
Grecia. E possono mettere alle corde
colossi della manifattura come l’Italia,
che è pur sempre membro del G8. Cioè
del primo mondo.
Così oggi la forbice politica -
quella vera che si impone a livello
mondiale - non è più nel confronto tra
destra e sinistra, ma tra i partiti mercatisti, favorevoli alla globalizzazione
e alle società aperte, e i movimenti che
propongono, anche con toni urlati, il recupero della sovranità perduta, della
moneta perduta, dell’identità perduta. Nell’agenda politica il duello tra
capitalismo e socialismo ha ceduto il
passo allo scontro tra globalizzazione
e sovranismo. Si tratta di un vero e proprio ribaltamento del tavolo da gioco,
che genera nuove opportunità elettorali, ma spiazza i partiti tradizionali.
In particolare, Pd e Forza Italia, i due
cartelli a vocazione maggioritaria che
hanno fatto da cardine al bipolarismo
di coalizione italiano. Per loro, la contrapposizione tra globalisti e sovranisti (cioè legati ai valori nazionali) è un
incubo, perché entrambi non hanno
mai messo in discussione il dogma del
libero scambio, la società aperta, l’Unione europea, il patto atlantico. A questi
postulati sono fedelissimi e questo oggi
li manda in fuorigioco, perché assieme,
Pd e Forza Italia, rappresentano solo
metà della mela, quella global.
Per evitare tutto ciò, questi due partiti tendono a bollare come populisti i
movimenti sovranisti, cioè nazionalisti.
Quasi a negare loro pari dignità politica, nel tentativo di spingerli oltre il perimetro di gioco. Mentre a loro stessi, i
due partitoni della seconda repubblica,
riservano i crismi dell’interesse nazionale, quindi il politicamente corretto,
l’etico, il giusto.
La stessa cosa accade in America: Donald Trump, il sovranista
(nazionalista), che vince contro tutti,
soprattutto contro i malumori del suo
stesso partito, non è altro che questo: la
rottura dello schema destra/sinistra a
favore del sovranismo. Ma gli Usa non
sono un paese qualunque, sono la culla
della globalizzazione. Per questo, vanno letti con attenzione i tanti distinguo
preventivi emersi prima e dopo la vittoria del neo presidente. La raffica di ordini esecutivi che Trump ha impartito
ha scatenato feroci prese di distanza da
parte di multinazionali, stilisti di moda,
attori e cantanti; tutti alfieri del grande
mercato globalizzato. Non un lamento
è giunto dai metalmeccanici impoveriti
o dal ceto medio asciugato dalla globalizzazione.
Ma l’Italia è come gli States?
L’unico Trump non riciclato sul mercato
è Grillo, che, infatti, non si apparenta
con nessuno. Ma, come i partiti tradizionali anche Grillo resta sotto traccia
in questa fase di incertezza. Nonostante i riposizionamenti dei mesi scorsi, il
ritorno al proporzionale (e alla prima
Repubblica) ha colto i partiti impreparati. Pesa la conferma della validità del
premio di maggioranza per il partito
(e non la coalizione) che raggiunge il
40%; cosa che impone la creazione di
indistinti contenitori politici, proprio
mentre cresce negli elettori l’esigenza
di identità definite, certe, sovrane. La
parola d’ordine, dunque, è «restare allineati e coperti». In attesa di cosa? Che
la pensione maturi? Il tripolarismo italiano ricorda sempre più il gioco delle
tre carte.
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