Così nasce il partito di Matteo

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Così nasce il partito di Matteo
di Marcello Sorgi
Il 7 dicembre verrà ricordato, non solo come il giorno delle
dimissioni formali del premier e della fine del suo governo, ma anche
del battesimo del Partito di Renzi. Un partito nuovo, nato domenica
nelle urne del referendum in cui la riforma costituzionale è stata
sconfitta, ma oltre tredici milioni di elettori hanno votato «Sì». Un
partito che forse non sarà del 40 per cento, il numero magico che ha
accompagnato fin qui la carriera del leader del Pd – dalla sconfitta
alle primarie del 2012 contro Bersani, alla vittoria alle Europee del
2014, alla crisi di governo, provocata dall’exploit del «No» al 60 per
cento -, ma secondo gli studiosi dei flussi elettorali può puntare
tranquillamente al consenso di un italiano su quattro, una percentuale
ragguardevole, per giocare nella nuova (o vecchia?) stagione che sta
per aprirsi del ritorno al proporzionale e alla Repubblica
partitocratica.
Renzi ha detto che i
risultati referendari, a suo giudizio, hanno abbattuto la riforma, il
Parlamento che l’aveva votata sei volte e il governo che
conseguentemente va a casa.
Ma non lui, che solo temporaneamente si fa da parte per prepararsi
alle prossime elezioni, portando il bilancio dei suoi mille giorni, le
riforme fatte e non fatte, il miglioramento delle condizioni del
Paese, che magari avrebbe voluto più consistente ma considera non
trascurabile. Va da sé che Renzi, anche se non lo ha detto
esplicitamente, considera irrimediabile la frattura aperta dalla
minoranza del suo partito schierandosi con il «No»; e per definire i
contorni della sua iniziativa guarda al popolo del «Sì» e alla linea
di fondo che ha accompagnato il suo lavoro a Palazzo Chigi, «più
diritti e meno tasse»: sarà questo lo slogan con cui si ripresenterà
presto davanti agli elettori.
Guardando, a sinistra, non ai suoi avversari interni, che
sdegnosamente non ha neppure citato, ma al progetto dell’ex sindaco di
Milano Pisapia: mirato, tra molte difficoltà, a riunire in Italia le
possibili frange di uno schieramento frastagliato, dentro e fuori il
Pd, con la sola discriminante di volersi impegnare in una prospettiva
riformista, e non nella serie infinita di vendette che animano il
partito dalla sua fondazione. L’addio a D’Alema, Bersani, Speranza e
agli ex comunisti del «No» non potrà certo essere stabilito nei
termini di uno sfratto: ma è ormai consumato, e Renzi, sforzandosi di
non mostrare rancore, ha fatto capire che non intende tornare
indietro. Del resto, bastava guardare sotto la sede del Nazareno la
folla degli iscritti divisa in due schiere che stavano per venire alle
mani, per capire che la separazione tra le due anime del Pd, che
dev’essere ancora formalizzata al vertice, nella base è già avvenuta.
Resta ancora da capire quali saranno le conseguenze della svolta di
ieri sulla crisi. Renzi non parteciperà neppure alle consultazioni, al
Presidente della Repubblica ha spiegato che è disposto ad appoggiare
un nuovo governo, per il tempo breve necessario all’approvazione della
nuova legge elettorale, solo se anche gli altri partiti di opposizione
saranno disposti a condividerne la responsabilità. In altre parole,
pur rispettoso delle prerogative del Capo dello Stato, si dichiara
indisponibile a pagare il conto presentato dagli elettori a Bersani
nel 2013, dopo che il centrodestra era passato all’opposizione e il
peso delle scelte del governo Monti era ricaduto per intero sulle
spalle del centrosinistra.
Il Quirinale avvia oggi le consultazioni: ma a parte Berlusconi, che
non s’è pronunciato chiaramente, Salvini, Meloni e Grillo hanno già
detto che vogliono il voto. Se non ci saranno novità, dunque, a
Mattarella non resterà che decidere se mandare in Parlamento un
governo del Presidente, tecnico o istituzionale, a cercarsi la
maggioranza, oppure, a sorpresa, in assenza di alternative, chiedere a
Renzi di fare il bis.
commento tratto dal quotidiano La Stampa