Trump mitiga il proprio furore anti-cinese?

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Trump mitiga il proprio furore anti-cinese? | 1 venerdì 27 gennaio 2017, 18:00

Legami Usa-Cina

Trump mitiga il proprio furore anti-cinese?

Una serie di mosse recenti potrebbe preannunciare la svolta di Giacomo Gabellini

La dialettica di fuoco nei confronti della Repubblica Popolare Cinese che Donald Trump ha costantemente impiegato come arma sia in campagna elettorale che nelle settimane immediatamente successive al voto sembra ora

subire un netto ridimensionamento alla luce delle ultime mosse pratiche varate dal presidente appena entrato

in carica. Pechino non ha certamente dimenticato le minacce del presidente di imporre una tariffa del 45% sulle importazioni cinesi, né la sua messa in discussione della politica di 'una sola Cina' che dagli anni '70 rappresenta un punto fermo delle relazioni tra Washington e Pechino, né l'inserimento nella sua amministrazione di personaggi saliti

agli onori della cronaca per le loro posizioni iper-critiche nei confronti dell'affermazione cinese, a partire da

Peter Navarro e Roberto Lightizer. Eppure, firmando l'ordine esecutivo che sancisce il ritiro degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership (Tpp), il tycoon ha non solo tenuto fede alla promessa di sciogliere gli accordi di libero scambio ritenuti i principali responsabili del trasferimento di milioni di lavoro dagli Stati Uniti ai Paesi dotati di cospicui serbatoi di manodopera a basso costo, ma anche lanciato un segnale decisamente distensivo nei confronti della Cina. Il Tpp

rappresentava infatti la punta di lancia della strategia mirata ad accerchiare economicamente l'ex Impero Celeste inglobando tutti i suoi principali partner commerciali in uno spazio unificato di libero scambio; un progetto che rientrava a pieno titolo nel piano di riorientamento dell'apparato politico, economico e militare

verso Oriente descritto nel dettaglio nel 2011 dall'allora segretario di Stato Hillary Clinton in un articolo per 'Foreign Policy'.

L'uscita degli Usa determina l'affossamento del programma che a Pechino era visto con grande ostilità. La Cina ha accolto con favore anche la promessa di Trump di ridurre la sovraesposizione militar-imperiale statunitense, i cui avamposti sono costituiti dalle centinaia di basi militari oltremare che ospitano nel complesso oltre 200.000 soldati e un numero imprecisato di civili. In Corea del Sud Usa stazionano rispettivamente 28.000 militari, mentre in Giappone ne schierano 45.000 militari che vanno sommati alla Settima Flotta ancorata a Yokosuka ufficialmente in funzione di protezione dall'espansionismo cinese e dalla minaccia nord-coreana. Anche se le spese di mantenimento dei contingenti militari sono coperte da Seul e Tokyo rispettivamente per il 40 e il 75%, Washington è comunque obbligata a stanziare notevoli risorse per tenere in via permanente un simile dispiegamento di forze sull'altra sponda del Pacifico. Gli Stati Uniti spendono inoltre una ragguardevole quantità di denaro per schierare migliaia di soldati nel sud-est asiatico con lo scopo di contenere il presunto espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, dove l'amministrazione Obama ha moltiplicato le Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/trump-mitiga-furore-anti-cinese/ L'Indro è un quotidiano registrato al Tribunale di Torino, n° 11 del 02.03.2012, edito da L'Indro S.r.l.

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Trump mitiga il proprio furore anti-cinese? | 2 installazioni militari e ridislocato portaerei, incrociatori ed altre navi da guerra munite del sistema anti-missilistico Aegis – in grado, all'occorrenza, anche di lanciare missili da crociera armati con testate nucleari – che fungono da basi galleggianti.

Una limitazione di questo colossale dispiegamento di forze Usa nelle aree che Pechino conta di estendere la

propria influenza non può che rasserenare il clima tra i due Paesi. L'altro gesto distensivo di Trump, potenzialmente gravido di implicazioni non meno importanti rispetto agli altri due, è stato quello di aprire un dialogo diretto con alcuni

dei principali attori economici cinesi, cui Pechino non disdegna solitamente di affidare le mansioni di

ambasciatori del Partito Comunista. Così, nei primi giorni di gennaio, si è recato alla Trump Tower di New York nientemeno che Jack Ma, fondatore del colosso del commercio on-line Alibaba (azienda quotata a Wall Street) che 'Forbes' classifica come secondo uomo più ricco della Repubblica Popolare Cinese, con un patrimonio stimato in 28,2 miliardi di dollari. In occasione del vertice, Ma ha annunciato il proprio piano strategico di espansione negli Stati Uniti che potrebbe portare alla creazione di qualcosa come 1 milione di posti di lavoro nell'arco di un quinquennio. Una sfida diretta contro Amazon, l'altro gigante dell'e-commerce guidato da Jeff Bezos, il quale non a caso è anche editore del giornale – il 'Washington Post' – da cui provengono gli attacchi più pesanti nei confronti di Trump. Il presidente repubblicano ha ottimi motivi per accogliere con favore la proposta di Ma non solo per le relative ricadute occupazionali negli Usa, ma perché il magnate cinese ha messo sul piatto anche la prospettiva di trasformare Alibaba nella piattaforma

multimediale di riferimento delle piccole e medie imprese statunitensi interessate a vendere i propri prodotti

sullo sterminato mercato cinese. Il ricchissimo imprenditore cinese ha

con i commenti

consapevole che, come ha affermato sottolineato la necessità di «rafforzare e rendere più amichevole il rapporto tra Cina e Stati Uniti», e dichiarato che questo obiettivo potrebbe essere raggiunto proprio con il nuovo inquilino della Casa Bianca, giudicato «intelligente e mentalmente aperto». Esternazioni sostanzialmente in linea

del 'Global Times' di Pechino, secondo il quale Trump avrebbe cavalcato il pregiudizio anti-

cinese soltanto per assicurarsi maggiori chance di essere eletto. Anche perché il nuovo presidente è indubbiamente lo stesso Ma al World Economic Forum di Davos, che solo un decennio fa «la

globalizzazione sembrava una strategia perfetta per gli Usa. Il loro discorso era questo: noi ci teniamo la proprietà intellettuale, la tecnologia e il marchio, e lasciamo il resto del lavoro ad altri Paesi come Messico e Cina […]. Le multinazionali statunitensi hanno incassato milioni e milioni e milioni di dollari dalla globalizzazione. Quando mi sono laureato all'università in Cina ho provato ad acquistare un cercapersone. Costava l'equivalente di 250 dollari, io ne guadagnavo 10 al mese come insegnante. Ma il prezzo per produrlo era 8 dollari. Ibm e Microsoft facevano più utili delle più 4 più grandi banche cinesi messe insieme. Dove sono finiti quei soldi? […]. Trent'anni fa le compagnie Usa di cui i cinesi avevano sentito parlare erano Ford e Boeing. Oggi sono nella Silicon Valley. E a Wall Street, dove sono stati investiti tutti i profitti. La crisi finanziaria ha cancellato 19,2 trilioni di dollari, e ha distrutto 34 milioni di posti di lavoro. In questo lasso di tempo, gli Stati Uniti hanno combattuto 13 guerre al costo di 14,2 trilioni di dollari. Immaginate cosa sarebbe successo se quei soldi fossero stati investiti nel Midwest, per sviluppare industrie e infrastrutture, e soprattutto educazione per chi non se la può permettere […]. Non sono gli altri paesi a rubarvi il lavoro. È colpa della vostra strategia. Siete voi che non avete

distribuito i profitti nel modo giusto». Quello di Trump è quindi l'opportunismo tipico degli uomini d'affari. Lo stesso opportunismo che lo ha però portato , una volta conquistata la Casa Bianca, a «lasciare le porte aperte per un cooperazione pragmatica con le aziende cinesi che potrebbe favorire la crescita dell'economia Usa e creare nuovi posti di lavoro». Il

tycoon sa che la politica del muro contro muro con Pechino è destinata a produrre effetti disastrosi, dal momento che l'interscambio tra i due Paesi si aggira sui 700 miliardi di dollari annui, gli investimenti diretti cinesi negli Stati Uniti sono in crescita costante e la Cina detiene ancora una parte più che considerevole del

debito pubblico Usa – sebbene da anni sia in atto un processo di dismissione generalizzata dei Treasury Bond. Non a caso, una vecchia volpe come Henry Kissinger, che il magnate newyorkese avrebbe reclutato come proprio consigliere informale, aveva invitato il presidente Xi Jinping e la leadership cinese a «non insistere a inchiodare Trump a posizioni che ha tenuto in campagna elettorale sulle quali non insisterà da presidente». Per il momento, Trump sembra confermarsi un

personaggio decisamente pragmatico che ai grandi tavoli negoziali predilige le trattative bilaterali votate al mutuo interesse reciproco, che essendo modulabili a seconda delle necessità specifiche del momento ed adattabili alle caratteristiche del soggetto con cui si dialoga gli assicurano un maggiore margine di manovra e

quindi la possibilità di ottenere maggiori vantaggi. Un modus operandi impiegato che il presidente ha impiegato anche lo scorso dicembre, quando si incontrò con Masayoshi Son, l'amministratore delegato della giapponese SoftBank con cui è stato concordato un piano di investimento da 50 miliardi di dollari che, secondo le indiscrezioni, potrebbe comportare circa 50.000 assunzioni negli Stati Uniti.

di Giacomo Gabellini

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