Inpiù storia e ricerca 14.01.2017

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Transcript Inpiù storia e ricerca 14.01.2017

L
a creazione della bandiera
fu il primo inconsapevole
passo verso l’Unità d’Italia.
Il tricolore italiano nasce a
Reggio Emilia. È il 7 gennaio
1797 quando il deputato
Giuseppe Compagnoni propone
al congresso costitutivo
che si rendesse “universale
lo Stendardo o bandiera
Cispadana di tre colori: verde,
bianco e rosso, che questi tre
colori si usino anche nella
coccarda cispadana e che
questa debba portarsi da tutti“.
Il tricolore guiderà le truppe
nelle guerre d’Indipendenza
contro l’Austria, verrà poi
adottato dal neonato Regno
d’Italia (1861) e infine
introdotto nel testo della
Costituzione all’articolo 12,
il quale recita “La bandiera
della Repubblica è il tricolore
italiano: verde, bianco e rosso,
a tre bande verticali di eguali
dimensioni“.
Ma perché proprio questi tre
colori? Su questo tema hanno
profuso rime anche poeti di
fama come Giosuè Carducci,
Giovanni Pascoli, Renzo
Pezzani, Ada Negri.... La storia
narra che nel vessillo dell’Italia
ci sarebbe il verde per ricordare
i nostri prati, il bianco per le
nostre nevi perenni e il rosso
in omaggio ai soldati che sono
morti in tante travagliate
guerre. È difficile identificare
tra i tanti chi e come abbia
inventato una simile leggenda,
una leggenda romantica, ma
non vera.
La bandiera italiana deve le
sue origini al 1794, quando
due studenti di Bologna,
Giovanni Battista De Rolandis
e Luigi Zamboni, tentarono
una sollevazione contro
il potere assolutista che
governava la città da quasi
200 anni. I due presero come
distintivo la coccarda della
rivoluzione parigina, ma, per
non scimmiottare la Francia,
cambiarono l’azzurro col
verde. Il significato allegorico
è rimasto comunque lo stesso:
un Tricolore come traguardo
di un popolo che mirava ad
avere giustizia, uguaglianza,
fratellanza.
La cronologia del vessillo sta
in poche date: il 14 novembre
1794 appare per la prima
volta come coccarda puntata
sugli abiti dei patrioti nella
sommossa di Bologna. Il 18
maggio 1796 i colori di questa
coccarda sono accettati da
Napoleone, a Milano, e questi
consegna alla Guardia Civica,
alla Legione Lombarda e
alla Guardia Nazionale una
bandiera a strisce verticali
verde bianca e rossa. Il 9
ottobre 1796 (18 vendemmiaio
anno V) la Legione Italiana,
emanazione della Legione
Lombarda, riceve dal Bonaparte
un Tricolore con la stessa
composizione della coccarda
di De Rolandis e Zamboni. Il
28 ottobre dello stesso anno
(27 vendemmiaio) il senato
di Bologna decreta: “Bandiera
coi colori Nazionali”. Richiesto
quali siano i colori Nazionali
per formarne una bandiera, si
è risposto il verde il bianco e
il rosso, simbolo della nuova
Repubblica Cispadana, prima
tappa di una nuova Repubblica
Italiana. Il 7 gennaio del 1797
a Reggio Emilia, i convenuti
delle assise fanno proprio il
nuovo stendardo e s’impegnano
affinchè esso diventi universale.
Il 17 marzo 1861 viene
proclamato il Regno d’Italia,
ma soltanto nel 1925 si
definiscono, per legge, i modelli
della bandiera nazionale e
della bandiera di Stato. Dopo
la nascita della Repubblica, un
decreto legislativo presidenziale
del 19 giugno 1946 stabilisce
la foggia provvisoria della
nuova bandiera, confermata
dall’Assemblea Costituente
nella seduta del 24 marzo 1947
e inserita all’articolo 12 della
Carta Costituzionale italiana.
la Voce
del popolo
storia
www.edit.hr/lavoce
Anno 13 • n. 100
sabato, 14 gennaio 2017
SECONDO UN’ANTICA LEGGENDA E
VARIE TRASPOSIZIONI POETICHE, NEL
VESSILLO DELL’ITALIA CI SAREBBE
IL VERDE PER RICORDARE I PRATI
E LA RIFIORITURA PERPETUA
(SPERANZA), IL BIANCO
PER LE NEVI PERENNI
(E FEDE ALLE IDEE)
E IL ROSSO (PASSIONE
E SANGUE)
IN OMAGGIO
AI SOLDATI
MARTIRI E
aGLI EROI
I 220 ANNI
DEL NOSTRO TRICOLORE
Intervista
PILLOLE
TASSELLI
PROGETTI
La «jugoslavizzazione»
della terra istriana
Curarsi in Istria dopo
la Grande Guerra
Fare soldi con le librerie
a Pola tra ’800 e ’900
«Histria», sfide vinte
e quelle future
La ricostruzione nel saggio
di Orietta Moscarda Oblak
«Il potere ‘popolare’ in Istria»
Le misure messe in atto per
tutelare la salute pubblica e
combattere mali cronici atavici
Alla scoperta dei primi
negozi, grazie a una piccola
mostra zeppa di informazioni
Dieci anni compiuti, la Società
umanistica capodistriana
è pronta a nuovi progetti
2|3 4|5 6|7
8
2
sabato, 14 gennaio 2017
storia&ricerca
la Voce
del popolo
INTERVISTA
di Gianfranco Miksa
|| Un disegno anni Cinquanta di Bruno Mascarelli con un motivo patriottico
Lo sport
fiumano
narrato
in un libro
Una grande e gloriosa avventura
ripercorsa da due Azzurri, entrambi
esuli: il fiumano Abdon Pamich
e il polese Roberto Roberti. La
presentazione a Roma il 18 gennaio
La città di Fiume, appartenuta all’Italia
nel corso del Novecento, ha dato
molti atleti nelle varie discipline dello
sport. Dopo l’esodo avvenuto alla fine
della Seconda guerra mondiale, la
fiumanità sportiva non scomparve,
anzi, andò esaltandosi sempre più
con campioni del calibro di Orlando
Sirola, Gianni Cucelli, Sigfrido Volk,
Ezio Loik e tanti altri. Affinché non
se ne perda la memoria e anche allo
scopo di trasmetterla al pubblico più
vasto – e soprattutto alle generazioni
di domani – la Società di Studi Fiumani
ha contribuito alla realizzazione di un
libro firmato da due atleti esuli: Abdon
Pamich e Roberto Roberti.
Classe 1933, fiumano, Azzurro
dal 1954 al 1973, Abdon Pamich,
partecipò a cinque edizioni dei Giochi
olimpici, conquistando l’oro al terzo
tentativo. Nel 1956 a Melbourne finì
quarto nei 50 chilometri, poi terzo
nel 1960 a Roma. Raggiunse il primo
grande traguardo della sua carriera
nel 1961, vincendo i 50 chilometri
nell’edizione inaugurale del Lugano
Trophy. L’anno seguente vinse sulla
stessa distanza ai campionati Europei
di Belgrado. Nel 1964 conquistò a
Tokyo il successo più ambito, vincendo
il titolo olimpico. Allenatore di marcia
e responsabile atletico del Centro
federale di tennis di Latina, applicò
anche le sue due lauree in psicologia
e sociologia nel campo sportivo,
diventando psicologo della Nazionale
italiana di pallamano. Lo scorso anno
il campionissimo dal sorriso triste e
dal cuore colmo di nostalgia per la
sua Fiume, ha pubblicato “Memorie
di un marciatore” (a cura di Roberto
Covaz, con prefazione di Bruno Pizzul,
Edizioni Biblioteca dell’Immagine).
Per tutti il Generale Roberto Roberti,
nato a Pola nell’aprile del 1922 e
scomparso a Roma il 6 febbraio
2016, è stato nazionale di Pentathlon
Moderno, poi tecnico e in seguito
segretario dell’Associazione Nazionale
Atleti Azzurri d’Italia (ANAAI).
Memoria storica dello sport italiano,
nel corso della sua esperienza
umana e sportiva ha impersonato
l’essenza più profonda dell’essere
Azzurro, spendendosi in molteplici
iniziative a favore di quel mondo
che ha sempre amato. Un uomo
esuberante e dotato di una spiccata
ironia, caratteristiche che ha profuso
nella vita associativa e sulle pagine
di Magliazzurra, di cui è stato molto
più che il coordinatore. Dopo essere
stato calciatore dell’Unione Sportiva
Fiumana, nel 1938 si trasferì a Roma,
ingaggiato dalla S.G. Lazio. Il padre
era accompagnatore della squadra
Ragazzi. Militare con i Bersaglieri sino
al grado di Generale, nel dopoguerra
si dedicò al Pentathlon Moderno.
Nel 1950 indossò per la prima volta
la maglia azzurra della nazionale
italiana in occasione di un Criterium
in Svizzera. Per un brutto incidente
partecipò solamente come riserva ai
Giochi Olimpici di Helsinki nel 1952.
Gareggiò sino al 1957 collezionando
complessivamente 14 presenze in
azzurro. Nel 1958, peraltro, concluse
le sue presenze in maglia Azzurra,
in maniera singolare, a San Antonio
(USA), alla Quadrangolare Usa,
Mexico, Brasile, Italia, dove recatosi
come tecnico, a causa di un incidente
occorso a un atleta azzurro, decise di
gareggiare (dopo quattro anni) per
evitare che la squadra non potesse
rientrare nella classifica per nazioni.
In totale indossò la maglia Azzurra
14 volte, in anni in cui il Pentathlon
Moderno prevedeva pochi incontri
di carattere internazionale. Divenne
responsabile tecnico dei pentatleti
italiani partecipando alle Olimpiadi
di Roma del 1960. Rimase sempre
nello sport come scrittore, tecnico e
dirigente. Rivestirà l’incarico di capo
ufficio sport del Ministero della Difesa
dal 1967 al 1970. Nella seconda metà
degli anni Settanta fu presidente della
squadra di baseball dell’Amaro Harrys
in A1, quindi dell’Algida Pallavolo
Femminile e nel 1978-1979 della
sezione Pallacanestro della Lazio.
Per ringraziarli e ricordare insieme la
Fiume sportiva, il prossimo 18 gennaio
(ore 11.30) nella Sala della Giunta, in
Largo Lauro De Bosis 15, a Roma, verrà
presentato il libro di Abdon Pamich e
Roberto Roberti “La grande avventura
dello sport fiumano. Cronaca e ricordi”
(Aracne editrice, Roma). Interverranno
nell’occasione Giovanni Malagò,
presidente nazionale del Comitato
Olimpico Nazionale Italiano – CONI,
Amleto Ballarini, presidente della
Società di Studi Fiumani, Vanni Loriga,
giornalista sportivo e Abdon Pamich;
moderatore sarà Marino Micich,
direttore dell’Archivio Museo storico di
Fiume. È inoltre previsto un omaggio
musicale che sarà offerto dal maestro
Francesco Squarcia, violista fiumano di
fama internazionale. (ir)
U
n saggio che affronta gli anni
difficili e complessi del secondo
dopoguerra che interessarono la
Comunità Nazionale Italiana. Il fenomeno
della “jugoslavizzazione”, che interessò non
soltanto le terre del nostro insediamento
storico, ma anche l’intero sistema sociale,
politico, economico e demografico esteso
anche a quello scolastico, quando sulla
base dell’etimologia dei cognomi si
decretò il passaggio forzoso dei ragazzi
dalle scuole italiane a quelle croate, con
la conseguente chiusura di molte scuole.
E poi ancora la politica di colonizzazione
e di urbanizzazione del nuovo regime
comunista che portò nei “nuovi” territori
occidentali dello Stato jugoslavo
popolazioni eterogenee dal punto di vista
linguistico, religioso e sociale, andando a
colmare il vuoto lasciato dall’esodo. Sono
questi alcuni aspetti di fondo affrontati
nel saggio Il “potere popolare’ in Istria
(1945 – 1953)”, della ricercatrice e storica
Orietta Moscarda Oblak, studiosa in forza
al Centro di ricerche storiche di Rovigno.
Il volume è stato pubblicato a fine 2016 da
CRS, Unione Italiana – Fiume e Università
Popolare – Trieste, nell’ambito della Collana
Monografie dell’istituto rovignese, di cui
costituisce la tredicesima tappa.
“Il saggio nasce come tesi della Scuola
dottorale in Scienze umanistiche-Indirizzo
storico, titolo che ho conseguito presso
l’Università degli Studi di Trieste due anni
fa – esordisce Orietta Moscarda Oblak,
spiegando la genesi dell’opera –. Costatando
che sul versante degli studi sull’Istria
nel dopoguerra, mancavano analisi che
prendessero in esame il periodo successivo
al 1945, ho ritenuto opportuno concentrare
la ricerca sulle modalità dell’intervento
delle autorità jugoslave sul territorio
istriano e alla costruzione del nuovo potere.
Soltanto in questo modo saremo in grado di
comprendere complessivamente i fenomeni
sviluppatisi nei territori istro-quarnerini nel
dopoguerra, di cui l’esodo giuliano-dalmato
costituì soltanto una conseguenza, anche se
per molti versi drammatica”.
Su quali fonti si basa la ricerca? Quali
difficoltà ha incontrato durante la ricerca?
“La ricerca è sostenuta da un ampio
repertorio di fonti archivistiche conservate
presso gli Archivi di Stato di Pisino e di
Zagabria. Un primo blocco documentario
è quello relativo ai Comitati popolari,
gli organismi del nuovo sistema politicoamministrativo jugoslavo, che sono
articolati nei fondi dei comitati cittadini,
distrettuali e regionale. L’altro grosso blocco
documentario consultato, sia a Pisino sia
CO
LA «JUGOS
DELL
a Zagabria, è stato quello riguardante
le strutture organizzative del partito
comunista croato esistenti sul territorio
istriano, che ricalcavano l’organizzazione
piramidale degli organismi amministrativi.
Di conseguenza i fondi esaminati hanno
riguardato i comitati di partito - komitet
cittadini, distrettuali e regionale. L’attività
di ricerca presso l’Archivio di Stato di
Zagabria, in particolare, ha riguardato
alcuni filoni d’indagine, che hanno permesso
di integrare i materiali rinvenuti a Pisino,
come il fondo relativo all’organismo
regionale del partito comunista croato/
jugoslavo (Comitato regionale del PCC
per l’Istria). All’interno del fondo della
Presidenza del Governo della RP di Croazia,
è risultata utile la documentazione delle
sezioni repubblicane che si occupavano
o che avevano competenza anche per il
territorio istriano, come la Commissione
per le questioni istriane (1945) e l’Ufficio
per le informazioni (1948-1952), nonché la
Sezione Consolare, che si è rivelata copiosa
in fatto di documentazione sulle richieste
di opzione per la cittadinanza italiana. Altri
filoni presi in esame hanno riguardato i
fondi del Ministero per i territori neoliberati
– l’organismo federale formato nel 1948,
che coordinò i piani economici, sociali e
culturali per l’Istria – e quello del suo ufficio
repubblicano, la Direzione per i territori
neoliberati, ma che rientrava all’interno
della Presidenza del governo croato”.
Consultate fonti rese disponibili solo recentemente
“L’impegno maggiore e originale della
ricerca è stato quello di analizzare questi
materiali, che soltanto da poco tempo sono
stati messi a disposizione dei ricercatori,
pur sempre con qualche limitazione. Infatti,
la Voce
del popolo
storia&ricerca
sabato, 14 gennaio 2017
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Violenze e soprusi portarono all’esodo che, almeno inizialmente,
non era un obiettivo del governo jugoslavo. L’intento
era piuttosto «ripulire il territorio dagli elementi inaffidabili»
Gli italiani, vittime della necessità
di mettere i confini «in sicurezza»
“I nuovi centri del potere
creati dal regime furono
espressione di politiche,
che applicate in un
territorio plurietnico qual
era l’Istria, produssero
violenza e privazione
dei diritti a danno
dell’intera popolazione,
ma soprattutto
generarono le spinte
che, nell’ambito di un
processo rivoluzionario
complessivo, indussero
all’emigrazione fuori dai
nuovi confini politici
un gruppo nazionale,
quello italiano, quasi
nella sua totalità. In
questo senso, l’esodo
istriano è apparso quale
conseguenza diretta del
processo di presa del
potere, di costruzione e
di consolidamento del
nuovo stato jugoslavo
– afferma la studiosa,
rispondendo alla nostra
domanda inerente le
conseguenze per la
OME FU CONDOTTA
SLAVIZZAZIONE»
LA TERRA ISTRIANA
trattandosi di materiali che secondo
la legge sugli archivi croati non sono
ancora disponibili all’uso pubblico, la
loro visione completa, ma soprattutto
la stessa possibilità di accedere a
quella dei comitati di partito, è stata
possibile soltanto previa autorizzazione,
dopo sei mesi d’attesa, della direzione
dell’Archivio di Stato di Zagabria. Ciò
che ha reso particolarmente difficile la
ricerca, soprattutto a Pisino, è il fatto
che non esiste un supporto, una guida
che agevoli lo studioso nella ricerca dei
contenuti delle varie buste, che variano
da un minimo di 20 a un massimo di
65. Concretamente, ogni fondo è dotato
soltanto di un sommario provvisorio, che
consiste in una paginetta manoscritta a
forma di appunti, in cui sono indicati il
numero complessivo di scatole e di registri
che contengono determinati argomenti e
blocchi di documenti. Principalmente per
questo motivo, ho scelto in prima battuta
di visionare il contenuto dei fondi meno
voluminosi, per poi passare a quelli più
corposi.
Come ha descritto l’instaurazione del
regime comunista in Istria?
“Nel dopoguerra, ma già durante il
secondo conflitto mondiale, la storia
dell’Istria diventa parte integrante della
storia del movimento di liberazione e
poi della storia della costruzione di uno
stato comunista. L’Istria però è una realtà
già profondamente lacerata da conflitti
nazionali intrecciati con quelli sociali,
che ha visto l’affermarsi di una società
antidemocratica con ambizioni totalitarie
e inoltre appartenente nell’anteguerra a
uno stato diverso (quello italiano); ed è
questa società che nel dopoguerra vive il
passaggio all’amministrazione jugoslava e
all’annessione vera e propria da parte di
un potere che si presenta con una facciata
‘popolare’, ma che in effetti instaura
e organizza un nuovo potere civile e
politico rivoluzionario, ovvero uno stato
comunista. Per studiare la costruzione
di questo potere popolare in Istria,
l’attenzione è stata rivolta al complesso
dei cambiamenti politici, sociali ed
economici introdotti nell’area istriana con
il passaggio all’amministrazione jugoslava.
Il taglio analitico adottato in questa
ricerca ha cercato di cogliere la specificità
della situazione istriana, paragonandola
con le esperienze maturate e nel quadro
dei rivolgimenti che interessarono l’intero
territorio jugoslavo del dopoguerra.
Ho preferito evitare una ricostruzione
particolareggiata dell’instaurazione del
regime comunista in Istria e in Croazia/
Jugoslavia, per concentrarmi piuttosto
sull’esame di alcuni importanti centri
del potere jugoslavo – esercito, polizia
segreta, partito, CPL – allo scopo di
coglierne le caratteristiche principali e
di proporre un quadro d’assieme circa
la politica attuata nei confronti della
popolazione istriana, sia quella italiana
che quella croata, nel periodo compreso
fra il 1945 e il 1953. In generale, si
tratta di forti novità politiche, sociali
ed economiche introdotte nell’area
istro-quarnerina, con modalità e fini di
quello che si rivela ben presto essere un
regime comunista, già ben sperimentato
dai popoli jugoslavi. La Jugoslavia che
incorpora l’Istria, ma ben prima anche
il suo movimento di liberazione, è
quella dove Tito e il partito comunista
componente italiana
delle terre in questione
–. L’abbandono pressoché
totale del territorio
da parte degli italiani,
peraltro, si conferma
non essere stato, almeno
inizialmente, un obiettivo
del governo jugoslavo, né
fu da esso organizzato,
ma le condizioni create
dall’esercizio del potere
da parte delle autorità
jugoslave portarono
le comunità italiane a
quella scelta dell’esilio
che si consumò nell’arco
di più di un decennio,
attraverso l’esercizio
del diritto d’opzione
per la cittadinanza
italiana e le fughe
clandestine. Tuttavia,
agli italiani delle terre
del nord-Adriatico,
attraverso un processo di
integrazione/espulsione
fu riconosciuto il ruolo
di ‘minoranza’ e nei loro
confronti fu adottata
la politica ‘dell’unità e
fratellanza’, che nella
variante istriana diventò
la ‘fratellanza italoslava’. Si trattava però
di una nazionalità che,
nelle mutate condizioni,
faceva riferimento a una
‘madrepatria esterna’ –
lo Stato italiano – che
durante la guerra aveva
aggredito, smembrato
e occupato lo stato
jugoslavo: da parte del
regime, quindi, l’intento
di ‘ripulire’ i confini dagli
elementi ‘inaffidabili’per
mettere i confini in
‘sicurezza’ rivestì un
ruolo decisivo nei
confronti degli italiani.
Da queste pregiudiziali
nascevano anche la
diffidenza, la sfiducia
e il sospetto che per
lungo tempo il potere
comunista manifestò
nei confronti della
minoranza nazionale
italiana”.
già detengono saldamente il potere,
dopo essersi sbarazzati delle provvisorie
alternative democratiche”.
vista linguistico, religioso e sociale, andò poi
a colmare il vuoto progressivamente lasciato
dall’esodo”.
Quali erano gli obiettivi prefissi dagli
organi del potere “popolare”?
Perché il saggio è importante per la
nostra Comunità nazionale italiana?
“L’instaurazione del regime comunista
e più segnatamente la costituzione del
nuovo potere popolare in Jugoslavia, fu
il prodotto di un processo rivoluzionario,
che dal 1945 al 1948, durante la
fase staliniana del regime jugoslavo,
comportò oltre all’instaurazione di
un sistema politico-amministrativo
basato sui CPL, anche l’attuazione di
rigide misure economiche attraverso gli
ammassi, i sequestri e le confische dei
patrimoni, l’istituzione di cooperative,
la riforma agraria e tutta una serie di
altri provvedimenti; l’onnipresenza di un
apparato poliziesco e repressivo molto
efficiente, nonché l’uso assai disinvolto di
una giustizia “rivoluzionaria”, attraverso
i tribunali del popolo, completano il
quadro generale. In Istria, come a Fiume,
l’obiettivo principale dei “poteri popolari”
fu quello di assicurare a ogni costo
l’annessione dei territori alla Jugoslavia
socialista. I maggiori sforzi, quindi, anche
sul piano legislativo, furono rivolti a tale
fine, almeno sino al febbraio del 1947,
quando con il Trattato di pace, fu evidente
che a Fiume e l’Istria sarebbero state
cedute alla Jugoslavia”.
“Ritengo che il saggio sia importante
per tutta l’Istria, ma in particolare per la
Comunità nazionale italiana in quanto
affronta gli anni difficili e complessi del
secondo dopoguerra, che hanno visto
la componente italiana trasformarsi in
un gruppo nazionale senza più alcuna
competenza in campo politico ed
economico. Una delle questioni principali
è stata proprio quella di capire come si
sviluppò la politica della fratellanza italoslava nei confronti della popolazione
italiana nei vari periodi (1945-1947,
1948-1953) e, soprattutto, quali furono
le linee e i comportamenti della nuova
classe politica, che a diversi livelli (locale,
regionale, repubblicano, federale) gestì tale
strategia. Tale politica prevedeva che nello
stato jugoslavo potessero vivere tutti quegli
“onesti e buoni” italiani che accettavano
l’annessione alla Jugoslavia, la costruzione
del socialismo e la loro condizione di
minoranza nazionale sganciata da qualsiasi
rapporto con la madrepatria esterna. Se
da un lato però, si puntò ad acquisire
il consenso e ad integrare nello stato
diversi strati popolari italiani, dall’altra
gravi problemi si manifestarono proprio
nei rapporti nazionali all’interno delle
medesime strutture popolari, dove i
comitati distrettuali, composti da croati,
creavano enormi difficoltà nei rapporti
gerarchici con quelli cittadini, composti
quasi esclusivamente da italiani”.
“Dal 1948 in poi, quando in senso
sociale e nazionale emersero gli aspetti
rivoluzionari del sistema, anche gli strati
popolari non proletari, che in un primo
momento avevano dimostrato solidarietà,
rifiutarono sia lo stato sia il regime
jugoslavo. La caccia ai cominformisti
rappresentò infine la frattura definitiva
fra il comunismo jugoslavo e i comunisti
italiani. Nei confronti di quest’ultimi, le
autorità jugoslave avviarono una violenta
epurazione, che lasciò loro, schieratisi
quasi compattamente con Stalin, la sola
via dell’emigrazione, attraverso la richiesta
d’opzione a favore della cittadinanza
italiana, quale possibilità di scampare
ai processi, alle condanne al ‘lavoro
socialmente utile’ e alla deportazione nel
campo di prigionia dell’Isola Calva. In
definitiva, la Comunità nazionale italiana
odierna è anche il risultato di tali politiche
del secondo dopoguerra”.
Sistematica e progressiva trasformazione:
via bilinguismo e toponimi italiani
“Più tardi, invece, con la creazione di un nuovo
ministero ‘per i territori neoliberati’ e del suo
ufficio amministrativo sul territorio istriano,
tali organismi furono chiamati a intraprendere
le funzioni e le azioni determinanti nel
processo di inclusione dell’area alla Croazia,
ovvero alla Jugoslavia, che comprendeva
un insieme di misure economiche, politiche
e culturali, indispensabili per l’opera di
omologazione politica e nazionale in chiave
croata/slovena/jugoslava. Fu perciò avviata
la sistematica trasformazione dei toponimi
italiani e la scomparsa della pariteticità
della lingua italiana dalla vita civile, che
fino al 1949 era stata comunque osservata
e tollerata. Progressivamente le misure di
‘jugoslavizzazione’ si estesero al sistema
scolastico, quando sulla base dell’etimologia
dei cognomi si decretò il passaggio forzoso
dei ragazzi dalle scuole italiane a quelle
croate, con la conseguente chiusura di molte
scuole. La politica di colonizzazione e di
urbanizzazione del nuovo regime comunista
che portò nei ‘nuovi’ territori occidentali del
Paese popolazioni eterogenee dal punto di
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Voce
del popolo
del popolo
sabato, 14 gennaio 2017
C
on la firma, il 3 novembre 1918,
dell’armistizio di Villa Giusti
con lo sconfitto impero austroungarico, terminava in l’Italia la Grande
Guerra. Nei giorni che seguirono le
armate del Regio Esercito italiano,
seguendo le direttive del Comando
Supremo, procedettero all’occupazione
dei territori appartenuti all’impero
austro-ungarico tra i quali vi era l’Istria,
occupata dai reparti della III armata che
già il 13 novembre raggiunsero la linea
armistiziale, definita convenzionalmente
“linea blu”, chiudendo di fatto il confine
con i territori dell’ex Impero asburgico.
Dal novembre 1918 l’Istria fu
incorporata in una nuova entità politicoamministrativa provvisoria denominata
Regio Governatorato per la Venezia Giulia,
al cui interno le questioni attinenti la
salute pubblica furono affidate all’Ufficio
Sanitario diretto dal tenente colonnello
medico Giangiuseppe Sebastianelli. Nel
dicembre 1918, tuttavia, l’assistenza
territoriale e la vigilanza igienicoprofilattica furono assunte dalla
Direzione di Sanità della III armata, la
quale, costatato il degrado igienico e
sanitario nel quale versava la penisola,
provvide immediatamente ad assicurare
l’assistenza sanitaria a tutti i comuni ed
alle frazioni minori mediante l’impiego
di ufficiali medici, creando sezioni per la
popolazione civile negli ospedali militari
e lazzaretti per contrastare il diffondersi
di malattie infettive.
La stessa Direzione non poté esimersi
dall’affrontare l’annosa questione legata
allo sradicamento della tubercolosi e
della malaria, quest’ultima affrontata
con esami batteriologici identificativi,
con la somministrazione di chinino e con
un programma di piccola bonifica che,
alcuni anni dopo, sfocerà in un più vasto
progetto di risanamento territoriale e di
approvvigionamento idrico dell’intera
penisola, di capitale importanza
nell’interruzione della catena infettiva
malarica.
profughi o internati, oppure fuggiti
all’estero perché di nazionalità tedesca
o slovena. Nei comuni e frazioni della
penisola la vigilanza sanitaria fu
affidata inizialmente a ufficiali medici
del Regio Esercito italiano, quindi fu
imposto ai medici condotti di rioccupare
i loro posti ed ai comuni che ne erano
sprovvisti di bandire i relativi concorsi;
inoltre, data la proverbiale deficienza
di personale sanitario di cui godeva
la provincia, furono aumentati gli
emolumenti per attirarlo dal Regno
d’Italia e si concesse sovvenzioni ai
comuni i cui bilanci non consentivano
l’onere della spesa per il medico.
Ogni comune per di più fu dotato
di un’apposita baracca sanitaria con
funzione di ambulatorio.
Non meno preoccupanti erano le
condizioni degli istituti ospedalieri
e di beneficienza. Al momento
PILLOLE
di
Rino Cigui
CURARSI IN I
ALL’INDOMANI
DELLA GRANDE
Problemi ereditati dall’Austria
Ancora prima della grande deflagrazione
l’Istria poteva vantare un tasso di
mortalità generale superiore a quello
di tutte le regioni italiane, Basilicata
e Puglia escluse. Particolarmente
elevata, era la percentuale di decessi
per tubercolosi e anche la mortalità
infantile era la più alta tra i paesi
dell’Austro-Ungheria, per non parlare
del numero di vittime dovute al tifo
petecchiale o dermotifo, dissenteria
ed altre infezioni, imputabili, secondo
il parere del dr. Mauro Gioseffi, uomo
di spicco della classe medica istriana,
“a una matrice comune di miseria e di
ignoranza”. Gioseffi poneva al centro
delle problematiche sanitarie di allora
le responsabilità individuali, ignorando
completamente la connotazione sociale
delle manifestazioni morbose, un
atteggiamento abbastanza diffuso tra
gli operatori medici dell’epoca, che si
collocava in un contesto ideologicoconcettuale tipicamente di regime,
tendente a ricercare le cause e le
responsabilità nell’individuo e nelle sue
reali capacità di apprendere ed accettare
i dettami imposti dall’autorità sanitaria e
l’operato delle istituzioni.
Dopo l’occupazione italiana delle terre
adriatiche orientali, il nuovo governo
s’impegnò alacremente per rendere
efficienti i servizi igienico-profilattici e
assicurare alla popolazione il supporto
indispensabile per far fronte all’insorgere
di emergenze sanitarie dagli esiti spesso
funesti. Si cercò di ovviare ai tanti
problemi igienico-sanitari e d’assistenza
ereditati dall’Austria ripristinando
il Consiglio Sanitario provinciale, la
Commissione Pellagrologica, le Camere
Mediche, i Gremi farmaceutici ed altri
organi consultivi e di tutela delle classi
sanitarie soppressi dall’Austria o inattivi
da anni, i quali apportarono certamente
dei vantaggi alla salute pubblica
quantunque in questo campo restasse
ancora molto da fare.
Assistenza sanitaria precaria
Che in fatto di assistenza la situazione
istriana fosse alquanto spinosa era
ampiamente dimostrato dal fatto che
solo la città di Pola garantiva il servizio
sanitario per i poveri ed aveva un
numero di medici esercenti sufficiente
a coprire i bisogni della popolazione,
mentre quasi tutti gli altri comuni ne
erano sprovvisti perché sotto le armi,
|| Il comunicato della Vittoria del 4 novembre 1918 (Collezione del Crs)
dell’occupazione, infatti, erano in
funzione i soli ospedali di Trieste e Pola
e quelli minori di Capodistria, Cormons
e Gorizia, i quali scarseggiavano però di
viveri, di biancheria, medicinali e mezzi
di trasporto, che furono provveduti
gratuitamente dalle autorità militari e
civili.
Ripristino dei servizi ospedalieri
Grazie al concorso finanziario dello
stato, dopo pochi mesi divenne
funzionante il Sanatorio di Ancarano
come pure l’Ospizio Marino di Valdoltra
della Società Amici dell’Infanzia, al
quale furono elargite 50.000 lire di
sussidio e, curiosamente, 150.000 lire
per il risarcimento dei danni di guerra. I
comuni di Parenzo e Volosca ottennero i
materiali di arredamento per l’impianto
di nuove strutture ospedaliere, mentre a
Rovigno l’Ospizio Marino di S. Pelagio fu
rimesso in funzione grazie alla sensibilità
del Governatorato, il quale, dopo
un’erogazione iniziale di 320.000 lire,
stabilì una sovvenzione fissa di 20.000
lire mensili per il ricovero di cento
bambini della Venezia Giulia.
S’intervenne pure nel servizio
farmaceutico ed ostetrico. Le città,
benché provviste di farmacie,
scarseggiavano di medicinali, laddove
nei comuni minori i cittadini erano
spesso obbligati a percorrere decine
di chilometri per avere il farmaco
indispensabile. Si cercò di ovviare a tale
inconveniente prelevando i medesimi
dai magazzini sanitari militari, ed ai
farmacisti furono concesse agevolazioni
per la ricostruzione delle farmacie ed il
rifornimento di medicinali. Ogni comune
ebbe a disposizione un’ostetrica e fu
rimessa in funzione la scuola di ostetricia
di Trieste: borse di studio furono
concesse alle aspiranti levatrici al fine di
affinarne l’esercizio professionale.
Prigionieri, profughi, internati
Tuttavia, il gravoso problema
dell’assistenza sanitaria e della
vigilanza igienico-profilattica divenne
drammaticamente evidente all’indomani
del rimpatrio degli ex prigionieri
italiani restituiti o fuggiti dall’Austria.
Si trattava, secondo il responsabile
dell’Ufficio Sanitario Sebastianelli, di
160.000 persone malnutrite, lacere e
scalze, giunte in gran parte con treni
sudici e freddi insieme a malati ancora
convalescenti e appena dimessi dagli
|| L’Ospizio
ospedali. Precedenti affezioni, fame,
mancanza d’indumenti, freddo intenso
avevano causato un gran numero di
malattie ed agevolato lo sviluppo di una
grave epidemia influenzale, che colpì in
due settimane oltre 20.000 rimpatriati.
Le autorità dovettero inoltre farsi carico
degli oltre 200.000 profughi di guerra e
internati civili, provenienti da provincie
e paesi dell’ex impero austro-ungarico,
e delle migliaia di reduci provenienti
da zone infette da vaiolo e dermotifo, i
quali rischiavano di diffondere i morbi
in ogni angolo della Venezia Giulia; per
tale motivo si rese necessario stabilire ai
confini stazioni di visita e di pulizia per
i militari e isolandoli per un periodo di
contumacia.
Porre rimedio alla diffusione delle
malattie infettive nella popolazione civile
e tra i militari rimaneva, ad ogni modo,
la preoccupazione maggiore e, vista la
drammatica assenza di un qualsiasi tipo
di dispositivo profilattico in grado di
ovviare a tali patologie, fu necessario
da principio ricorrere ai mezzi di cui
disponeva l’autorità militare per passare
in seguito a strutture civili provvisorie.
Furono pertanto riattati e arredati i
lazzaretti di Volosca, Pola e Parenzo
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la Voce
del popolo
sabato, 14 gennaio 2017
organi sanitari del Governatorato
riguardarono però l’enorme numero dei
non vaccinati, una circostanza imputabile
al fatto che in Austria la vaccinazione
antivaiolosa era facoltativa.
A Trieste, nei mesi di ottobre e novembre
1920, fece una fugace apparizione
il morbo per eccellenza, la peste,
originatasi in seguito a un’epidemia
pestosa scoppiata fra i ratti del porto.
Che si trattasse solamente di un fatto
episodico lo dimostrò il numero ridotto di
ammorbati, cinque in tutto, che spinsero
comunque le autorità ad introdurre
rigorosi provvedimenti profilattici per la
città, il porto e le navi. Fu rapidamente
istituita una commissione con il compito
di organizzare la derattizzazione, alla
direzione della quale fu posto l’ing. Sauli
del Magistrato Civico coadiuvato dal prof.
Müller.
|| Il sanatorio per la cura della tubercolosi di Ancarano
ISTRIA
GUERRA
Tubercolosi e malaria
|| Carta della Venezia Giulia (dalla Collezione del Centro di ricerche storiche di Rovigno)
|| Il sanatorio di Ancarano
marino di Rovigno (Collezione del Crs)
ed allestiti locali d’isolamento in
molti comuni; i distretti ricevettero
in dotazione apparecchiature per la
disinfezione e molti impianti, sorti in
origine per l’esercito, furono adeguati
ai bisogni della popolazione civile.
Materiale batteriologico fu distribuito
gratuitamente al Gabinetto dell’Ospedale
provinciale di Pola, al lazzaretto
di Volosca, all’Ospizio rovignese
di S. Pelagio e al tubercolosario di
Cernizza, mentre per quanto concerne
la sanità marittima, il lazzaretto di S.
Bartolomeo di Muggia, adibito durante
la guerra all’acquartieramento di
truppe e vandalicamente saccheggiato
e devastato, fu completamente rimesso
a nuovo, arredato per 1200 posti letto e
fornito di un laboratorio batteriologico
per i bisogni della popolazione locale.
La minaccia delle malattie infettive
Questi ed altri interventi si erano resi
necessari a causa dall’incombente
minaccia rappresentata dalle patologie
infettive, che già durante il conflitto non
avevano smesso di funestare la vita delle
popolazioni adriatiche. Una di queste,
il tifo addominale o febbre tifoide, un
contagio che si trasmetteva per via oro-
5
fecale in condizioni igienico-sanitarie
infime, fin dal 1914 aveva assunto
connotati epidemici a Capodistria,
Scoffie, Maresego e Pirano, accrescendo,
nel quadriennio bellico, la sua morbilità
in molti comuni istriani per via delle
condizioni igieniche e sociali, definite
dal dr. Gioseffi tra le peggiori e tristi che
si potessero concepire.
All’indomani della cessazione delle
ostilità apparvero invece i primi
casi di tifo esantematico negli ex
militari austriaci e nei profughi
che giornalmente rimpatriavano a
migliaia provenienti dalla Polonia,
Bessarabia, Ucraina, Serbia ed altre
aree contaminate. Le autorità sanitarie
dovettero confrontarsi pure con la
dissenteria, molto diffusa nei comuni e
soprattutto nelle campagne istriane, e
con il tracoma, un’infezione degli occhi
portata dai soldati reduci dal fronte
ed infiltratasi tra le popolazioni rurali
dei territori di Parenzo, Rovigno e del
distretto di Pisino. Per soccorrere il
migliaio e mezzo di tracomatosi della
provincia il nuovo governo procedette
per un triennio a un’intensa campagna
profilattica condotta dal dr. Giuseppe
Mastrocinque, culminata con l’apertura
di specifici centri di cura nelle località
maggiormente esposte all’infezione.
Furono intraprese iniziative anche
contro la scabbia di cui da anni
soffrivano in particolare gli abitanti
della campagna, abbandonati al loro
destino e senza aver mai beneficiato
di alcun trattamento. Alle famiglie,
opportunamente consigliate circa i
mezzi di cura e prevenzione del male,
fu distribuito il sapone e la pomata
antisporica, mentre gli organi sanitari
avviarono le pratiche di pulizia e, in
alcuni casi, la fondazione di scabbiosari.
E non si arrestò neppure la lotta
contro una delle piaghe secolari della
provincia, il vaiolo, di cui, al momento
dell’annessione, esistevano ancora
focolai a Trieste e in Istria. Pare che
dalla città di S. Giusto il male epidemico
si diffondesse rapidamente nella
penisola, colpendo, tra la fine del 1918
e i primi mesi del 1919, i comuni di
Buie, Verteneglio, Umago e il villaggio
di Dracevaz nel comune di Parenzo;
altre manifestazioni morbose si ebbero
a Monte di Crevatini, Lussingrande
e in altri luoghi della penisola, per
complessivi 214 contagi e 48 decessi.
Le difficoltà maggiori incontrate dagli
Le patologie che destavano la maggior
preoccupazione dal punto di vista
sanitario erano, tuttavia, la tubercolosi e
la malaria.
La recrudescenza della tubercolosi,
destinata a diventare in futuro un
importante punto programmatico e
propagandistico del regime fascista,
spinse il Governatorato a riaprire
l’ambulatorio antitubercolare della
Società per la tubercolosi di Trieste,
esistente da molti anni ma non
funzionante, e ad istituire un Comitato
provinciale contro la tubercolosi per
soccorrere la popolazione e coordinare
l’azione statale e le iniziative private. Il
contenimento della malattia, divenuto
sempre più pressante, fu realizzato
anche tramite un’intensa propaganda
e con l’erezione di dispensari sanitari a
Pola e Rovigno e di un tubercolosario
nell’ospedale baraccato di Cernizza,
ceduto gratuitamente dalle autorità
militari alla Società per la tubercolosi
di Trieste con tutto l’arredamento per
300 posti letto e con annesso gabinetto
di batteriologia e di radiologia. Qualora
fosse stato possibile, un secondo
tubercolosario sarebbe stato edificato a
Pola.
Altrettanto intenso fu il coinvolgimento
delle autorità sanitarie nei riguardi della
malaria, la più subdola delle malattie
infettive. “Il flagello della malaria –
rammentò il Sebastianelli – che ha
tanta parte sul depauperamento organico
di vaste regioni della Venezia Giulia,
specie nel Friuli orientale, nei distretti
di Parenzo, Pisino e Pola, e nelle Isole di
Lussino e Cherso, era stato completamente
trascurato dalle Autorità Austriache
durante gli anni di Guerra, tanto da
diffondersi in regioni prima immuni”.
Costatata l’impossibilità di una soluzione
radicale del problema malarico si
ricorse al reclutamento di medici e
fiduciari per il tradizionale trattamento
degli ammorbati col chinino, la
cosiddetta “bonifica individuale”, e alla
somministrazione obbligatoria e gratuita
di chinino sia ai malati sia agli individui
sani delle zone più infette, per la quale
furono utilizzati oltre 1500 chilogrammi
di prodotto. E non mancarono iniziative
di zooprofilassi quali la bonifica dei
terreni, dove facilmente si formavano
stagni e pozzanghere in cui proliferavano
le zanzare, la disinfestazione delle
raccolte d’acqua con petrolio greggio o la
protezione meccanica delle abitazioni.
Campagna antimalarica e bonifica
Nel biennio 1919-1920 i costi della
campagna antimalarica assommarono a
oltre tre milioni di lire, cui si aggiunsero
le spese per alcune opere di bonifica, tra
le quali il prosciugamento del Lago Roia
presso la stazione ferroviaria di Rovigno
e gli interventi di arginatura e colmata
nelle zone di Capodistria e Parenzo, per
un ammontare di oltre due milioni di
lire. Nella zona di Pola invece, anch’essa
tradizionalmente malarica, non si poté
procedere alla soppressione dei laghi
ed alla loro sistemazione per la mole
dei lavori occorrenti e la forte spesa,
ma, soprattutto, perché utilizzati dagli
animali e in alcuni luoghi anche dalla
popolazione.
Altri grandi progetti che prevedevano il
concorso dello stato erano comunque al
vaglio degli esperti, come ad esempio la
bonifica della valle del Quieto e dell’Arsa
e la realizzazione dell’Acquedotto
istriano, che avrebbero portato in seguito
ampi benefici alla popolazione sia dal
punto di vista agricolo sia sanitario.
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sabato, 14 gennaio 2017
storia&ricerca
la Voce
del popolo
TASSELLI
|| Una pubblicità per biblioteche commerciali circolanti
|| Guida per turisti dell’Imperial e Regio stato
|| Guida turistica con design... germanico
QUANDO SI POTEVA
FARE SOLDI CON LE
P
rima di chiudere i battenti per le feste, la
Biblioteca civica di Pola aveva cercato di
individuare la risposta a un curioso quesito, che continua a meritare attenzione. Fino a
quando a Pola vigeva un certo oscurantismo culturale, ovvero quando si popolarizzò la lettura e
specificatamente a quando risale l’apertura delle
prime librerie, in quanto attività commerciale?
L’arcano è stato rivelato in una piccola mostra
zeppa di informazioni relative alla fioritura dei
primi negozi di libri, per i quali la Città dell’Arena aveva dovuto attendere l’epoca del grande
e organizzatissimo Impero dell’aquila bicipite.
Si apprende che la produzione libraria e la distribuzione di volumi e giornali a Pola risale agli anni
60 del XIX secolo e che compare in concomitanza
con il grande progresso e la trasformazione della
città nel principale porto dell’Imperial e Regia
marina da guerra austroungarica. Grazie all’impegno dell’arciduca Ferdinando Massimiliano,
nel 1856, l’Austria avviò la costruzione dell’Arsenale marittimo e del cantiere, il che incise
profondamente sullo sviluppo economico, urbanistico, demografico e culturale di Pola. L’avvio
dell’industria navale e marittima esigeva l’impiego di numerosi operai altamente qualificati e
personale tecnico, il che comportò un’improvvisa
immigrazione.
Sotto l’egida dell’aquila bicipite
La manodopera arrivava da tutta l’Istria, dalla
Dalmazia, gli ufficiali, gli impiegati statali,
gli ingegneri prevalentemente dall’Austria.
Indirettamente, l’Imperial e Regia marina da
guerra, con tutto il suo esercito di marinai, ufficiali e amministratori, attirò anche fior di
commercianti, artigiani e ristoratori (proprietari
di trattorie, alberghi, osterie, caffè). Nella carovana dei neo-arrivati si inserirono anche i librai
e i tipografi, che allora guadagnavano principalmente dalla vendita di materiale cartaceo per la
K.u.K.
Le prime librerie di Pola aprirono i battenti nel
sesto decennio del XIX secolo, mentre l’attività
libraria si sviluppò come vero e proprio settore
economico, ininterrottamente fino alla fine della
prima guerra mondiale. Gli anni della comparsa
di questo tipo di commercio a Pola, segna in
contemporanea l’inizio dello sviluppo culturale
della Città e la necessità di proporre al pubblico
un’offerta di letture tedesche e italiane in volumi,
periodici, quotidiani e stampe, nonché di articoli
da cartoleria al servizio delle attività amministrativa, economica, politica e culturale. Le librerie
attive nella seconda metà del XIX secolo e nei
primi decenni del XX secolo sono pertanto meritevoli d’aver distribuito tra il pubblico lettore, libri
e periodici che ebbero un’influenza particolare
sulla diffusione delle informazioni e sull’alfabetizzazione. L’accessibilità dei testi letterari, di giornali
e riviste, non fu soltanto un sostegno all’istruzione
e allo sviluppo culturale, ma anche al settore economico e tecnico-scientifico.
|| Il Piano della Città di Pola del 1886
|| Il primo numero dell’’Illustrierte Oesterreichische Riviera-Zeitung (1904, cimelio della Biblioteca Universitaria)
seconda edizione della medesima guida, il che
rivela l’alta richiesta per questo tipo di informazione. Si parla della prima guida illustrata di
Pola, stampata su 64 pagine, arricchita da numerose fotografie dei più importanti monumenti
e palazzi di Pola, da illustrazioni e dalla piantina
della città. La moderna ed elegante veste grafica
cui Scmidt riservava particolare attenzione, era
ispirata alle pubblicazioni tedesche del tempo.
Libri anche in prestito commerciale
A partire dal 1868, aprì anche la libreria C.
Mahler, che nel 1880 venne rilevata dal libraio
F.W. Schrinner. La vendita delle pubblicazioni,
Il più antico: il «Buchhandlung W. Schmidt» in piazza Foro
Quale fu il negozio di libri più antico di Pola?
Quello del libraio Wilhelm Schmidt. Venne
aperto nel 1865 con l’insegna “Buchhandlung
W. Schmidt” in piazza Foro. Più tardi, le fonti
storiche indicano quale proprietario, tale E.
Schmidt, che la gestì fino al crollo imperiale.
Il primo proprietario, Wilhelm Schmidt, è sepolto al Cimitero della Marina di Pola. Che cosa
vendeva la libreria Schmidt? Varie edizioni di
romanzi allora in voga, le prime guide turistiche, mappe della città di Pola, giornali e riviste
prevalentemente in lingua tedesca. Oltre alla
vendita di libri, l’offerta riguardava gli articoli
da cartoleria, accessori per l’ufficio o per la
scuola. Ma l’intraprendente Wilhelm Schmidt si
occupò anche di attività editoriale.
All’inizio degli anni 80 del XIX secolo si fanno
sempre più intense le villeggiature di ospiti
provenienti da tutte le parti del territorio austroungarico e dall’estero. Schmidt ne approfittò
iniziando a pubblicare le prime moderne guide
turistiche illustrate al servizio dei protagonisti
dell’era del turismo pionieristico. Nel 1882 uscì
con il “Fuhrer fur Pula und Umgebung” (Guida
per Pola e dintorni), e sette anni dopo con la
allora fu condizionata dalle norme di legge vigenti per il settore artigianale commerciale,
perciò prima di poter avviare le vendite andava
richiesta una concessione speciale. I primi librai
di Pola, Schmidt e Schrinner furono in grado di
offrire anche una qualità in più: il prestito commerciale di volumi e di riviste, servizio molto in
voga nei Paesi germanici. Nel 1885, la Schrinner
al suo sportello Journal-Lesezirkel, offriva a nolo
oltre 6mila volumi e giornali in diverse lingue
dell’Impero. E dagli anni 70-80 del XIX secolo i
proprietari delle due librerie furono in grado di
avviare anche l’attività editoriale.
A fare loro da concorrenza, le librerie esclusivamente italiane doc, aperte verso la fine
dell’Ottocento, che snobbavano l’editoria tedesca e vendevano libri e giornali prevalentemente
in lingua italiana. Le testimonianze storiche, infinite pubblicazioni e giornali italiani d’epoca,
mettono bene in luce la Libreria Slocovich di
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la Voce
del popolo
L’ATTIVITÀ SI SVILUPPA A POLA
NELLA SECONDA METÀ DEL XIX
SECOLO E NEI PRIMI DECENNI
DEL XX SECOLO. L’ACCESSIBILITÀ
DEI TESTI LETTERARI, DI GIORNALI
E RIVISTE NON FU SOLTANTO
UN SOSTEGNO ALL’ISTRUZIONE
E ALLO SVILUPPO CULTURALE,
MA ANCHE AL SETTORE ECONOMICO
E TECNICO-SCIENTIFICO
di Arletta Fonio Grubiša
ANO
LIBRERIE
sabato, 14 gennaio 2017
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La chiesa cimiteriale
di San Giovanni
Altra tappa nella Pola visibile e invisibile, ricordando ciò che
rimane di un tempo remoto e ciò che invece è stato cancellato
sione editoriale della medesima Schmidt. Da
questa stessa Buchhandlung tra il 1871 e il
1872 uscì anche il settimanale “Neptun”, uno
dei più vecchi giornali in lingua tedesca mai
pubblicati a Pola, mentre nel 1873 si assunse
il ruolo di editrice committente per il manuale
specializzato in attrezzature e manovre di
bordo “Takelung und manover”.
La fiorente impresa di Schrinner
|| Piazza Foro e la Buchhandlung W.Schmidt (a destra)
Via Giulia n.ro 5 e la Libreria Marinuzzo (si presume fondata nel 1897), proprietà di Lorenzo
Marinuzzo, che si trovava al civico 8 di via
Comizio. Naturalmente la potente K.u.K. privilegiava il proprio.
Incentivi allo spirito dell’unitarietà monarchica
A dimostrarsi molto rivelatore a tale proposito è il celebre quotidiano Polaer Tagblatt, in
un’edizione del 1907, in cui viene spiegata la
distribuzione del bilancio riservato all’Imperial
e Regia Marina. Su un complessivo di 43 milioni di corone, 5 milioni all’anno giungevano
in usufrutto al suo principale porto di guerra.
|| Libreria Slocovich italiana doc
Seconda per ordine di fondazione (1868),
la libreria C.Mahler, che era ubicata in via
dell’Arsenale, vicina alla direzione di Scoglio
Olivi, poi rilevata, probabilmente in subaffitto,
da F. W. Schrinner, sbarcato dalla provincia tedesca di Kurhessen. Con quest’ultimo cambiò
nome e divenne nota come “Schrinnersche
Buchhandlung”. Oltre alla rivendita in via
dell’Arsenale 16, Schrinner aprì una cartolibreria anche in via Circonvallazione 59, con ricca
offerta di romanzi, manuali, calendari, giornali, riviste, fotografie, guide turistiche, piani
della città e cartoline. Da vero commerciante
affarista, Schrinner seppe farsi pubblicità
mediante annunci su periodici della seconda
metà del XIX e dell’inizio del XX secolo, che richiamavano l’attenzione dei lettori con i titoli
delle ultime novità sul mercato letterario. La
pubblicità appariva sia su giornali austriaci sia
su quelli italiani, come pure su “Pola”, settimanale bilingue (in tedesco e italiano), edizione
della Schrinner presente dal 1883 al 1885, che
riportava notizie locali, con gran ricchezza di
annunci pubblicitari anche per negozi, artigianati e impianti di produzione. Tanto di
inserzioni promuovevano pure l’acquisto di
abbonamenti, di materiale da cartoleria e
l’invito al prestito commerciale di volumi e
riviste. L’attività editoriale di Schrinner fu
a dir poco fiorente e di alta qualità grafica:
libri, giornali, albi e guide illustrate di Pola e
dell’arcipelago delle Brioni, piani della città
|| Via dell’Arsenale, sede della Libreria Schrinner, in una cartolina d’epoca
La lista delle maggiori imprese foraggiate dai
fondi di bilancio K.u.K. colloca ai primi due
posti le municipalizzate del gas e del rifornimento idrico (con un’assegnazione pari a
153.781 corone) e addirittura al terzo posto la
cartolibreria Schrinner, con 28.099 corone. Un
vero investimento nella diffusione dello spirito
dell’unitarietà monarchica e nella cultura austroungarica.
Tornando ai precursori dell’attività libraria a
Pola, i medesimi resero un vero servizio da storici e testimoni dell’epoca. Dal 1873 al 1886 la
libreria Schmidt riuscì a dare alle stampe cinque
libri in lingua tedesca e sette almanacchi della
Marina (Almanach für Sr.Maj. Kriegs-Marine).
Dopo la prima guida illustrata del 1882 e successive edizioni, nel 1876 Schmidt pubblicò
il primo “Almanach” per la Marina, che poi
continuò a uscire come edizione permanente
dell’importante Istituto idrografico, su commis-
con toponomastica in lingua italiana, bellissime cartoline e pregiate fotografie. Si fu editori
committenti per la rivista illustrata “Illustrierte
Oesterreichische Riviera-Zeitung (1904-1906)”,
che con una tiratura di ben 2.500 copie, celebrava in lingua tedesca la bellezza della costa
adriatica da Trieste, a Pola e alla Dalmazia. Tutto
fuorché apprendisti librai di provincia, dalla
feconda fucina di Schrinner uscirono numerosissime pubblicazioni delle immagini artistiche
firmate da Alojs Beer (1840-1916), noto fotografo ufficiale di corte che si fregiava del titolo
di K. K. Hoffotograph, con studi a Vienna e a
Klagenfurt, la cui attività in Istria fu legata sia
alla committenza della Marina Imperiale, sia
alla clientela turistica delle zone balneari. Nel
suo catalogo del 1910 fra 10mila fotografie si
contano ben 1.009 immagini inerenti Pola. E in
un ulteriore catalogo edito nel 1914, sono elencate altre 375 inquadrature della città.
Arriviamo a un’altra tappa del nostro
viaggio nella Pola visibile e invisibile,
per rileggere e ricordare ciò che rimane
di un tempo remoto e recuperare,
segnalandone la presenza in epoche
precedenti, ciò che l’uomo o le
intemperie della storia hanno invece
cancellato. Nell’area compresa tra le
mura cittadine e l’Arena, nel parco tra
via San Giovanni e piazzale Carolina,
vicino al bivio da cui si biforcavano
le strade per Nesazio e Trieste, si
estendeva nell’antichità una grande
necropoli.
Nel 1396 il pellegrino francese
Ogier d’Anglure, in viaggio verso
Gerusalemme, registrò nell’area fra
l’Arena e il mare circa 400 tombe. Nel
V sec., nei pressi dell’antico ninfeo,
davanti alle mura cittadine, venne eretta
la chiesa cimiteriale di San Giovanni.
Nel tempo venne demolita, ma nel
corso degli scavi eseguiti nel 1906
lungo le sue fondamenta meridionali
si ebbe conferma dell’esistenza
di sepolcri murati e sarcofagi. La
chiesa era ad aula unica e a pianta
rettangolare. Nel presbiterio erano
situati gli stalli semicircolari per il
clero. Particolarmente bello il mosaico
pavimentale policromo del presbiterio,
che riportava motivi decorativi
geometrici (quadrati e rosette formate
da rombi con crocette, motivi a treccia
e altre forme). Probabilmente nella
prima metà dell’XI secolo la chiesa ebbe
un ciborio, scolpito in pietra d’Istria. Di
questi restano soltanto alcuni frammenti
epigrafi di cornice. Nel XII sec. l’Ordine
dei Templari fece costruire vicino alla
fonte del ninfeo un ospizio, rilevato,
dopo la soppressione dell’Ordine dai
Cavalieri ospitalieri di San Giovanni
di Gerusalemme. Per motivi strategici,
nel 1357 Venezia fece demolire molti
edifici esterni alle mura e probabilmente
pure il complesso della chiesa di San
Giovanni al Ninfeo. (cierre)
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storia&ricerca
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la Voce
del popolo
|| Uno scorcio della mostra
PROGETTI
di Gianni Katonar
«HISTRIA», DIECI ANNI
DI IMPORTANTI SFIDE
E L’OPERA CONTINUA
conografia e presentate le indagini sulla
Pala d’altare per il Duomo di Capodistria,
dipinta 500 anni fa dall’artista e che rimane
una delle opere più preziose presenti sul
territorio. È stato rievocato anche il mezzo
millennio della Porta della Muda, con una
visita guidata. Infine, non va dimenticato
il convegno su Francesco I d’Austria, uno
degli imperatori più importanti che ha allestito il Catasto franceschino, restaurato
le antichità di Pola, fatto costruire molte
strade e altre opere. Abbiamo celebrato i
200 anni dalla sua visita a Capodistria e in
Istria, accompagnato da Pietro Nobile”.
All’esame le perdite umane nella Grande Guerra
|| Dean Krmac, Matej Župančič e Robert Matijašić
C
on la fine del 2016 la Società umanistica capodistriana “Histria” ha
tagliato il traguardo del primo decennio d’attività. Fondata nel 2006 da un gruppo
di appassionati per favorire, come recita il
loro Statuto, lo sviluppo degli studi e delle
ricerche nel campo della storia patria, della
conservazione e della valorizzazione dei beni
artistici e della cultura multietnica del territorio istriano, ha saputo ritagliarsi in questi
anni uno spazio rilevante sulla scena internazionale e regionale, sviluppando numerosi
progetti importanti per fare conoscere la storia delle nostre terre e i suoi personaggi.
“Ricorderò sempre volentieri le serate passate a discutere nelle nostre abitazioni
private delle nostre idee e dei nostri progetti”, ha rilevato il primo e, finora, unico
presidente della Società, l’archeologo Matej
Župančič, che in questi giorni abbandona
l’incarico. “È giunto il momento di lasciare
spazio ai più giovani. Partiti con risorse
la Voce
del popolo
Anno 13 / n. 100 / sabato, 14 gennaio 2017
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
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STORIA
Edizione
Caporedattore responsabile f.f.
Roberto Palisca
Redattore esecutivo
Ilaria Rocchi
Impaginazione
Vanja Dubravčić
Collaboratori
Rino Cigui, Arletta Fonio Grubiša, Gianni Katonar, Gianfranco Miksa,
Carla Rotta
modeste, abbiamo sviluppato numerosi
progetti, che esulano anche dal comparto
umanistico. Mi compiaccio del fatto che
molte delle nostre iniziative siano state poi
recepite e si siano sviluppate a livello regionale e anche nazionale. Ciò ci ha riempito
d’orgoglio, ma ci ha addossato anche gravosi
impegni. Un esempio su tutti è stato l’anniversario del Carpaccio. Il peso della parte
organizzativa del nostro primo decennio è ricaduto in buona parte sulle spalle del nostro
segretario, Dean Krmac, che con un’intensa
attività ha sviluppato importanti rapporti di
collaborazione con istituzioni e studiosi”, ha
ricordato Župančič, dal quale si è poi congedata simbolicamente, con un omaggio, la
vicepresidente, Deborah Rogoznica.
Recuperati diversi aspetti storico-culturali
L’anno di lavoro dell’“Histria” è stato chiuso
con la consueta conferenza stampa, alla
quale hanno preso parte anche alcuni amici
e collaboratori della società. “È stato un
anno intenso e fecondo, forse quello in cui
si è prodotto di più di tutto il decennio passato”, è stata la valutazione del segretario
Krmac. “Abbiamo concluso prima di tutto
il progetto su Pietro Nobile, Viaggio artistico attraverso l’Istria, durato cinque anni,
con la stampa del catalogo trilingue e con
l’allestimento della mostra a Trieste e poi
a Roma ed esiste la possibilità di replicarla
ancora a Bellinzona, a Vienna o a Lubiana.
Di rilievo ancora il 140.esimo anniversario
della Ferrovia istriana, cui abbiamo dedicato una mostra di 25 foto, in buona parte
inedite, allestita attualmente al Castello di
Pola. Si tratta delle immagini tra le più antiche a disposizione in Istria e per questo
motivo hanno anche un valore storico, oltre
che documentario e artistico. Da citare poi
il Convegno scientifico internazionale su
Carpaccio, Sacra Conversatio, nel corso
del quale è stato tracciato il contesto, l’i-
Interpellato sui progetti futuri il segretario
dell’“Histria”, Dean Krmac, ha posto in risalto
un’altra iniziativa che comporterà molto
impegno: lo studio degli elenchi delle perdite della Prima guerra mondiale. Assieme
allo storico e archeologo polese, Robert
Matijašić, controlleranno 709 fascicoli d’archivio, ossia liste contenenti due milioni di
nomi, dei Caduti, feriti e dei prigionieri austriaci nella Grande guerra. Saranno censiti i
dati sugli istriani, che si stima possano essere
almeno 12mila e che la storiografia ufficiale
ha finora soltanto sfiorato.
“Non si tratterà soltanto di uno studio di demografia storica, ma andrà oltre gli aspetti,
sociali, economici o bellici. In Istria non
esiste una stima dei coinvolti nella Grande
guerra. Con la trascrizione integrale dei registri dei Caduti, dei feriti e dei prigionieri,
curata dal professor Matijašić, collaboratore
sin dagli albori della Società, finalmente chi
si occupa di demografia storica potrà avere
una base su cui poggiare le proprie ricerche”,
promette Krmac.
Tra i fatti importanti dell’anno appena passato, è stata ricordata ancora la nomina del
professor Salvator Žitko, stretto collaboratore dell’“Histria”, a membro del Comitato
permanente per la valorizzazione del patrimonio culturale veneto in Istria, che è un
riconoscimento per il lavoro svolto dal noto
studioso, ma anche un po’ per la Società
umanistica stessa, che ne ha proposto la
candidatura.
Le prospettive per il 2017 e per il futuro in
generale potrebbero essere più rosee per
le Società come la “Histria” e le altre organizzazioni simili. Il Comune di Capodistria,
infatti, sta sviluppando l’idea di attribuire
loro sedi adeguate al lavoro che svolgono, riadattando i vani del palazzo che ospitava un
tempo la Croce rossa capodistriana e altre
organizzazioni umanitarie.