IL MISTERO GRANDE. Intervento di mons. Mario

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Transcript IL MISTERO GRANDE. Intervento di mons. Mario

IL MISTERO GRANDE
Rileggendo Efesini 5,21-33
Incontro interdiocesano dei diaconi e delle loro famiglie
(Diocesi di Caltanissetta, Piazza Armerina, Agrigento, Nicosia)
Caltanissetta, 15 gennaio 2017
Carissimi diaconi e spose, è motivo di profonda gioia per me incontrarvi e pregare
con voi e per voi in questo incontro interdiocesano. Ho pensato di offrivi una
riflessione sul ben noto testo della Lettera di San Paolo agli Efesini, e precisamente
Ef 5,21-33, anche perché parlo non solo a diaconi, ma a diaconi sposati qui presenti
insieme alle loro spose.
Mediteremo dunque sul mistero grande della sponsalità di Cristo con la Chiesa, della
quale gli sposi cristiani sono sacramentale segno e rivelativa attuazione. Mettiamoci
dunque in ascolto profondo della Parola del Signore, rimuoviamo in questo prezioso
momento ogni preoccupazione, affanno, dolore… e lasciamoci attirare dallo sguardo
di Gesù. Egli ancora una volta desidera condurci nel deserto del silenzio interiore e,
poggiando il suo capo sul nostro cuore, ha tanta voglia di parlare cuore a cuore a
ciascuno, personalmente e come coppia. Lasciate che Gesù possa sussurrare al vostro
cuore la sua gioia e dichiararvi ancora una volta che vi ha amato e ha dato se stesso
per voi.
1. Le dinamiche del testo
«21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.
22
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Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo
della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del
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suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli
siano soggette ai loro mariti in tutto.
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E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato
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se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro
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dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la
sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunchè di simile, ma santa
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e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il
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proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai
infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa
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Cristo con la Chiesa,
poiché siamo membra del suo corpo.
Per questo
l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due
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formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a
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Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria
moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito».
1
Il testo che abbiamo ascoltato viene in genere chiamato dagli studiosi “codice
familiare”. A me piace definirlo “svelamento del mistero della Chiesa-casa”. Questo
testo di Paolo è stato spesso frainteso e molto criticato da coloro che lo leggevano
solo in chiave sociologica e, dunque, non accettavano il criterio della sottomissione
della donna al proprio marito.
Alcuni predicatori hanno cercato di difendere Paolo dicendo che il testo riflette la
mentalità e i costumi del tempo in cui l’Apostolo ha scritto la Lettera agli Efesini.
Questo è anche vero, ma quello che Paolo scrive è Parola di Dio, deve dunque valere
per ogni persona e in ogni tempo. In questa lectio proverò a “leggere” con voi le
parole dell’Apostolo, per capire cosa il Signore ha voluto e intende oggi dire di Sé e
del matrimonio a tutti noi.
La chiave di lettura si trova alla fine del testo nel v. 32: «Questo mistero è grande, lo
dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!». Siamo perciò davanti e dentro un grande
mistero. E questo mistero è l’unione sponsale di Cristo con la Chiesa. Solo alla luce
di questo mistero nuziale trova luce e significato il mistero dell’unione matrimoniale
di un uomo e una donna, ma anche il mistero della diakonia dell’amore nella Chiesa.
Il capitolo 5, di cui fa parte il nostro testo, comincia con una esortazione: «Fratelli,
fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che
anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi» (Ef 5,1). L’Apostolo nel
capitolo sviluppa il tema annunciato in questo versetto e conclude scrivendo “come”
imitare Dio: «sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo» (Ef 5,21). Tale
esortazione così chiude la sezione precedente e si fa tema del testo di questa nostra
lectio.
La reciproca sottomissione nell’Amore e nella tensione di Cristo viene applicata da
Paolo agli sposi cristiani. In questo modo l’Apostolo ci fa capire che la vita cristiana
è indivisibile e senza soluzione di continuità: non ci possono essere due campi
distinti: chiesa e casa, domenica e giorni feriali, liturgia e vita. E Paolo sviluppa il
tema in tre parti:
- vv. 22-24: sottomissione a chi e come; capo di chi e come;
- vv. 25-30: amore per chi e come;
- vv. 31-33: il principio della principialità di Cristo.
2. Sotto lo stesso giogo
In tutto il brano si intrecciano e si raccontano reciprocamente in un solo grande
mistero l’unione sponsale di Cristo con la Chiesa e quella dell’uomo e della donna.
È importante sottolineare l’avverbio “come” che Paolo ripete ben sette volte:
Ø le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore (v. 22)
2
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
il marito è capo della moglie come Cristo è capo della Chiesa (v. 23)
come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli (v. 24)
voi mariti amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa (v. 25)
i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo (v. 28)
(il marito in riferimento alla propria carne) la nutre e la cura, come fa Cristo
con la Chiesa (v. 29)
Ø ciascuno ami la propria moglie come se stesso (v. 33).
Se notate bene, solo due “come” sono riferiti alla moglie-Chiesa nell’esercizio di
sottomissione, mentre ben cinque “come” sono riferiti al marito: due volte il “come”
si confronta con Cristo, le altre volte con il “proprio corpo”, con la “propria carne”,
con “se stesso”.
Concludendo queste osservazioni possiamo affermare che Paolo, se proprio deve
correggere qualcuno, se la prende con i mariti e non con le mogli. Ben cinque
ammonizioni-confronti rivolge ai mariti e solo due alle mogli.
Paolo ci tiene ad affermare che la vita cristiana, e non solo quella matrimoniale, è
fatta di diaconale reciproca sottomissione: «sottomettendovi gli uni agli altri» (Ef
5,21). Il motivo però non è di carattere naturale o sociologico bensì cristologico: tutto
parte e trova senso nell’esempio di Cristo e nell’atteggiamento della Chiesa-Sposa,
sempre ri-volta e sottomessa al suo Capo-Sposo che l’ha amata e ha dato se stesso per
lei.
Tant’è che dopo aver parlato della sottomissione delle mogli ai mariti “come” al
Signore, chiude questa prima parte affermando: «come la Chiesa sta sottomessa a
Cristo, così anche le mogli ai loro mariti» (Ef 5,24).
La sottomissione della moglie al marito e l'amore del marito per la propria moglie,
come per il proprio corpo, non sono che due facce della diaconale reciproca
sottomissione. Un marito che ama gratuitamente e disinteressatamente, cioè senza
pretese di diritti acquisiti, è una novità assoluta nel contesto sociale del tempo di
Paolo, certamente molto più di una moglie sottomessa! Ma la novità sconvolgente è
che la misura della sottomissione della moglie è la Chiesa-Sposa e la misura
dell’amore del marito è Cristo-Sposo. L’amore sponsale così viene svelato nella sua
radice ultima: la diaconale reciproca sottomissione scaturisce dalla grazia d’amore di
Cristo Gesù che fa «santa e immacolata» la Chiesa sua sposa. Volendo esaltare il
matrimonio cristiano, Paolo non poteva dire e fare di più: oltre non si può andare;
siamo infatti alle soglie del Mistero.
La diaconale sottomissione è allora un aspetto e un'esigenza dell'amore. Per chi ama,
sottomettersi all'amato non è umiliazione ma via alla felicità. Il «sottomettendovi gli
uni agli altri» implica il tener conto della volontà del coniuge, del suo parere e della
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sua sensibilità; dialogare e non decidere da solo; saper rinunciare per amore anche al
proprio punto di vista. Insomma, gli sposi devono sempre ricordare di essere “coniugi”, cioè persone che stanno sotto “lo stesso giogo” liberamente accolto.
3. Amare… da Dio
«E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei» (Ef 5,25).
Israele lungo la sua storia viene condotto a constatare la differenza tra l’amore di Dio
e la propria risposta: mentre il proprio amore è parziale, infedele ed egoistico,
l’amore di Dio è gratuito, fedele e misericordioso.
Prima di Cristo niente di visibile nel mondo poteva assomigliare maggiormente
all’amore di Dio se non l’amore coniugale nella sua forma ideale: è stata questa la
ragione per cui la metafora nuziale è stata assunta dall’AT per indicare l’amore di
Dio per l’umanità. Ma con l’incarnazione del Figlio di Dio, svelamento dell’Amore
trinitario, ogni uomo e ogni donna sono chiamati ad apprendere l’amore amando da
Dio e come Dio: «Voi mariti amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa»
(Ef 5,25). Pertanto, con la venuta di Cristo avviene un capovolgimento rispetto
all’AT: prima dell’incarnazione l’amore divino era significato attraverso la metafora
nuziale, ma con l’incarnazione del Verbo di vita è l’amore coniugale a ispirarsi
all’amore di Dio rivelato in Cristo Gesù.
«Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei» (Ef 5,25). Con il NT è l’amore di Cristo verso la Chiesa a diventare il
modello dell’amore coniugale. Ma occorre chiedersi: come Cristo ha amato la
Chiesa?
La risposta ci viene dallo stesso Paolo in Fil 2,5-11, in cui descrive la kenosis del
Verbo di Dio per amore dell’umanità.
«Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Il termine “tesoro
geloso” in greco è harpagmos, che di per sé significa “rapina, preda, bottino”. Il
Figlio-Dio allora fa un ragionamento, opera un discernimento, arriva ad una
valutazione: è uguale a Dio perché è Dio e tuttavia decide di non considerare un suo
“bottino” tale uguaglianza con Dio, divenendo così l’anti-Adamo.
La storia di Gesù è esattamente all’opposto di quella di Adamo: se l’uomo aveva
provato ad innalzarsi fino a Dio per «diventare come Dio», Gesù-Dio si svuota di
questa sua divina dimensione per abbassarsi fino all’uomo in una assunzione di
solidale responsabilità. Il ragionamento in Dio non porta Gesù a tenere avidamente
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per sé il bottino della sua divina dimensione, bensì a valutare la sua incredibile
decisione in termini di condivisione oblativa nella solidarietà più radicale.
«Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini»
(Fil 2,7). Il verbo “spogliare” in greco è kenoo, mentre “assumere” è lambano e il
sostantivo “servo” è doulos.
Il verbo kenoo significa “svuotare, annientare” come un pozzo svuotato d’acqua, una
casa spogliata di tutto l’arredamento, una città annientata e senza abitanti, un
deserto… Questo verbo richiama l’inizio della creazione: «Ora la terra era disadorna
e deserta» (Gen 1,2). Mentre però in Genesi si constata il vuoto e il nulla della terra,
l’inno canta il “farsi nulla”, la decisione di “svuotarsi” completamente di sé da parte
del Figlio-Dio fino a rendersi “deserto”, doulos cioè schiavo. Il doulos è uno che non
si appartiene perché è di qualcun altro. E questa “appartenenza” alla dimensione e
alla condizione umana, Gesù non l’ha assunta bensì l’ha volutamente presa e afferrata
(lambano). Non è dunque la condizione umana ad essere entrata in Dio per
assunzione, ma è Dio ad essere entrato da schiavo, e dunque da espropriato e svuotato
di sé, nel mondo degli uomini.
E così Gesù, rinunciando al geloso “bottino” (harpagmos), cioè ai “privilegi” della
sua dimensione divina, sposa per “svuotamento di sé” la dimensione umana…
«divenendo simile agli uomini»: «Egli non si prende cura degli angeli, ma della stirpe
di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli… allo
scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,16-17). Un testo dei primi tempi della
Chiesa dice: «Poiché la sua bontà fece piccola la sua grandezza, egli divenne come
io sono» (Od. Sal 7,3s).
Porsi più in basso dell’uomo fino a farsi schiavo a Gesù non basta, perché «umiliò se
stesso (etapèinosen eauton)» (Fil 2,8). Il verbo greco tapeinoo significa “essere
situato in basso”: socialmente in basso, cioè povero, privo di potere e di posizione
sociale, insignificante, schiavo, non libero… Il verbo indica l’estremo opposto del
potente, ricco, orgoglioso, dominatore. In generale nel mondo greco la condizione di
inferiorità, espressa con il termine tapeinos, è una vergogna da evitare.
Ma proprio questa vergogna è sposata da Dio, è vissuta da Maria che nel suo
magnificat canta: «Ha guardato l’umiliazione (tapeinosis) della sua schiava (doulè)…
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umiliati (tapeinous)» (Lc 1,48.52).
Gesù, lo schiavo svuotato di sé per amore, invita tutti a seguirlo nella sua via di
umiliazione: «Imparate da me, perché sono mite e dal cuore umiliato (tapeinos)» (Mt
11,29).
L’umiliazione (tapeinosis) è uno stile di vita, un modo d’essere nei confronti di Dio e
degli uomini, più che una condizione sociale o morale. L’antica tentazione:
«Diventerete come Dio» è da sempre nell’uomo. Egli cerca di salire: avere di più,
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contare di più, sapere di più, godere di più, vivere di più. Essere il primo e ricevere
onori è il suo grande sogno. In un mondo in cui il vecchio Adamo rinasce in ogni
uomo, Gesù viene come l’uomo nuovo. Va nel senso opposto… umiliandosi fino alla
vergogna della schiavitù. Scende in basso il Solo che sta in alto! Ma non è tutto. Alla
dimensione di schiavitù e di umiliazione, Gesù aggiunge quella dell’obbedienza:
«facendosi obbediente» (Fil 2,8).
Ecco allora come Gesù ama: il suo è un amore di donazione gratuita, con cui
assumendo la natura umana ha rinunciato non già alla natura divina, ma alla gloria
che aveva presso il Padre prima che il mondo fosse (Gv 17,5). E non solo si abbassò
fino a prendere la nostra natura, ma la donò in sacrificio per l’espiazione dei nostri
peccati: «apparso in forma umana umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce» (Fil 2,8).
Questo mette in evidenza un altro aspetto essenziale dell’amore di Cristo, che Paolo
esprime in Rm 5,7-8: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo
ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Si tratta di un amore incondizionato, cioè
di un amore che non dipende dalla risposta della persona amata. In questo amore
incondizionato c’è la rinuncia alla reciprocità, che pure è un’esigenza naturale
dell’atto di amore. In Cristo Gesù l’amore gratuito e incondizionato diventa amore
sacrificato: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui
stesso maledizione per noi» (Gal 3,13).
A queste tre caratteristiche dell’amore se ne aggiunge una quarta: l’amore di Cristo
per noi è un amore misericordioso: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che
fanno» (Lc 23,34).
Ecco dunque le caratteristiche dell’amore con cui Cristo ha amato la Chiesa sua
Sposa: un amore gratuito, incondizionato, sacrificato, misericordioso. L’amore di
Cristo è amore sponsale perché Cristo dona tutto se stesso alla Chiesa come sua
sposa, legandosi ad essa in modo fedele, indissolubile e fecondo. Ma è, nello stesso
tempo, amore verginale perché è un amore di donazione senza quella reciprocità, che
è la nota essenziale dell’amore coniugale. Cristo dona se stesso alla Chiesa fino alla
morte di Croce mentre non è riamato, ma è lasciato solo e tradito.
Come afferma Han Urs von Balthasar: «Dall’apparire del Figlio nel mondo non c’è
nessun’altra forma di amore, per noi, all’infuori della forma in cui egli ci ha amato…
Questo è dunque il canone per ogni amore cristiano, anche per l’amore e la fedeltà
matrimoniale».
Un uomo e una donna sono in grado di amarsi perché Dio li ha generati con questa
capacità. Egli ha messo nel loro cuore e in tutto il loro essere questa sublime potenza.
Nel momento in cui questo amore trova espressione nel dono incondizionato e
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gratuito di sé all'altro/a diventa "sacramento", espressione stessa dell'amore di Dio
per quella creatura.
Di conseguenza ogni gesto, ogni parola, ogni espressione d'amore sincero teso al
bene del coniuge è manifestazione di Dio-Amore. È necessario però riuscire a
cogliersi amati per poter essere amanti. È importante cioè fare esperienza dell'amore
di Dio nella tua vita per essere in grado, a tua volta, di fare dono di te all'altro/a
nell'amore.
San Giovanni Crisostomo esprime delle conseguenze molto belle dal confronto tra il
matrimonio di un uomo e una donna e quello tra Cristo e la Chiesa. Rivolgendosi ai
mariti dice: «Vuoi che la tua sposa ti ubbidisca come la Chiesa a Cristo? Abbi cura
anche tu di lei, come Cristo della Chiesa... Come il Cristo - non con minacce né con
sevizie né incutendo timore né in alcun modo simile, bensì con la sua grande
sollecitudine - portò ai suoi piedi colei che gli volgeva le spalle... così comportati
anche tu verso tua moglie... Uno, con il timore, potrebbe legare a sé un domestico, ma
la consorte della propria vita, la madre dei propri figli, colei in cui si ha tutta la
propria felicità, non la si deve legare a sé con il timore e le minacce, bensì con
l'amore e l'intimo affetto».
4. Chiesa della ferialità
Fare del legame sponsale Cristo-Chiesa la sorgente e il modello del legame sponsale
di un uomo e una donna cristiani, significa affidare al sacramento del matrimonio una
altissima e sorgiva vocazione e una altissima fondamentale missione. Nella famiglia
cristiana la Chiesa diviene “Chiesa della ferialità”, Chiesa del quotidiano scorrere
della vita. Pur nella fragilità del cammino a due e nella fatica del rapporto genitorifigli, la famiglia è il luogo dove l’Amore si mostra possibile nella ferialità, nel tessuto
paziente della quotidianità a cui non è affatto facile rimanere fedeli, nelle relazioni
quotidiane che possono alternativamente divenire oscure, grigie, banali o anche
ricche di senso e di possibilità di vita. Nella famiglia cristiana vive la Chiesa, che
celebra il quotidiano con tutte le sue pieghe di luci e di ombre; la Chiesa per la quale
Dio si fa presente dentro le case degli uomini; la Chiesa che rivela le orme di Dio sui
passi che salgono e scendono le scale dei condomini.
Famiglia e Comunità ecclesiale devono essere la Chiesa dell'amore possibile e
sempre da costruire, dell'amore che cresce e matura nella fatica di reciproca ricerca,
accoglienza, perdono. Nell'amore in divenire degli sposi è presente il dinamismo di
una Chiesa in cammino, che ogni giorno nutre la storia degli uomini di attesa, di
ricerca di senso, di speranza, senza impazienze né sentimenti di sconfitta. Come si
legge in Isaia: «Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come
aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,31).
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Così racconta un saggio: «Un discepolo domandò al maestro: parlaci dell’amore.
Rispose il maestro: quando l’amore vi chiama seguitelo anche se le vie dell’amore
sono scoscese, dure, faticose e quando l’amore vi parla credete in lui. L’amore non
possiede ne vuol essere posseduto, perché l’amore basta all’amore. Quando amate
non dite: ho Dio nel cuore; dite piuttosto: io sono nel cuore di Dio. E quando vi amate
la comunione sia davanti a voi, comunione tra uomo e donna, comunione tra gli
amanti con tutti gli altri, comunione con Dio. È sull’amore che sarete giudicati alla
fine dei tempi, su nient’altro che l’amore. E Dio ha come nome l’Amore perché Dio è
amore».
5. Il principio nella principialità di Cristo
«Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due
formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo
e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come
se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito» (Ef 5,31-32).
Questa affermazione di Paolo rappresenta una teologia della storia in chiave nuziale.
Riferendosi a Genesi 2,24 («per questo l'uomo lascerà...») l'autore scorge nella
nuzialità uomo-donna la prefigurazione della nuzialità Cristo-Chiesa: questo mistero
per lungo tempo sconosciuto, ora è rivelato. La novità che Paolo annuncia consiste
nell'affermare che l'alleanza di Cristo con la Chiesa rappresenta lo svelamento
definitivo del significato della prima coppia umana e l'inaugurazione del mistero
nuziale definitivo della storia.
Chiesa-casa e coppia credente non devono cessare di interrogarsi su questo mistero e
di porsi alla ricerca del senso ricchissimo di questa Parola, per la quale sono chiamate
a riproporre il matrimonio cristiano non come categoria sociologica, non sotto
l’aspetto giuridico o sentimentale, ma come parola di Dio, come il continuo sponsale
dirsi e darsi di Cristo-Sposo alla Chiesa-umanità sua Sposa.
Il mistero particolare del matrimonio cristiano fra un uomo e una donna consiste
principalmente nel rivelare Dio amando da Dio, nell'incarnare ogni giorno l'amore e
la tenerezza nella reciprocità del dono, dell'accoglienza e della solidarietà, della
misericordia e del perdono.
Ecco una descrizione della felicità coniugale fatta dal grande scrittore Dostoevskij in
“Memorie del sottosuolo”: «Se una volta c'è stato l'amore, se per amore ci si è
sposati, perché dovrebbe passare l'amore? È forse impossibile alimentarlo? Il primo
amore coniugale passa, è vero, ma poi viene un amore ancora migliore. Allora ci si
unisce nell'animo, tutti gli affari si decidono in comune; non si hanno segreti l'uno per
l'altro. E quando vengono i figli, ogni momento, anche il più difficile, sembra una
felicità... Come potrebbero allora il padre e la madre non unirsi ancora più
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strettamente? Dicono che avere bambini sia gravoso. Chi lo dice? È una felicità
celeste… un piccino tutto roseo, che ti succhia il petto… quale sarà il marito che
prenderà in odio la moglie, a vederla così col proprio bambino?».
«Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef 5,31). Il
mistero grande è svelato nell’amore di Dio Padre che fa dono del Figlio suo
all'umanità che tradisce, rinnega e si ribella a Lui. È il dono "incomprensibile"
(secondo le nostre fragili vedute) di Colui che ama coloro che lo rifiutano e gli
chiudono la porta in faccia.
Entrare nel mistero grande significa aprire la porta della propria casa a Dio-Amore. E
aprire la propria nuziale casa a Dio Amore significa fare dell'Amore la propria casa,
"abitando" in Dio e cogliendosi "abitati" da Dio-Amore.
Amare da Dio incarnando nella vita coniugale e familiare l’amore nuziale di Cristo
(incondizionato, gratuito, sacrificato e misericordioso) significa assumere l’altro/a
come il proprio corpo e la propria carne; significa dire ogni giorno con segni e gesti
concreti al proprio coniuge: Io voglio amarti come Dio ama te e me.
Amarti come Dio ti ama è amare di puro dono, che tutto dà e nulla attende; è amare il
coniuge per se stesso e non per quello che può dare. Amarti come Dio ti ama significa
dire all’altra: «È per te che io ti amo!». Amarti come Dio ti ama significa imitare Dio
fino a «volgere sé contro se stessi» (Deus Caritas est, n. 12), fino all’esplosione della
Pasqua attraversando la via della Croce.
Perché «se perseverando nell'amore si cade fino al punto in cui l'anima non può più
trattenere il grido: "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?", se si rimane in quel punto
senza cessare di amare, si finisce col toccare qualcosa che non è più la sventura, che
non è la gioia, ma è l'essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla
gioia e alla sofferenza, cioè l'amore stesso di Dio» (Simone Weil).
+ Mario Russotto
Vescovo di Caltanissetta
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