Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo

Download Report

Transcript Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo

Dissonanze normative
e giurisprudenziali nel
sequestro preventivo
Opinioni
Piero Gualtieri
Sommario : 1. Le tipologie di sequestro preventivo. – 2. Il sequestro preventivo impeditivo. – 3. Il sequestro finalizzato alla confisca – 4. La motivazione del provvedimento dispositivo della misura. – 5. Il
termine di trasmissione degli atti al tribunale del riesame. – 6. Il rinvio dell’udienza di riesame. – 7. Il
ricorso per cassazione. – 8. La partecipazione (negata) alla discussione davanti alla corte di cassazione.
– 9. Le conclusioni.
1. Le tipologie di sequestro preventivo.
Nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale è stato evidenziato come la potenzialità lesiva di diritti costituzionali che si ricollegano all’uso della cosa
sequestrata avesse reso “necessaria una previsione normativa tale da obbligare il giudice
ad enunciare le finalità della misura al momento della sua applicazione, in modo da consentire sempre, alla persona che ne è colpita, di provocare un controllo sul merito e sulla
legittimità della stessa, anche per quanto attiene alla ragione d’essere della sua persistenza.
Si è ritenuto infine di sottolineare che fondamento dell’istituto in questione resta l’esigenza
cautelare: precisamente quella di tutela della collettività con riferimento al protrarsi dell’attività criminosa e dei suoi effetti”.
L’intenzione dichiarata era quindi quella di creare un quadro normativo dai contorni
precisi, onde limitare il rischio di abusi e ottenere un “equilibrio fra difesa sociale e garantismo”, attraverso una riserva di giurisdizione e un principio di tassatività, assegnando al
solo giudice il potere di disporre la misura e determinandone i casi.
Ma questi lodevoli obbiettivi sono stati traditi dalla imprecisa formulazione delle norme
e da poco garantiste applicazioni giurisprudenziali e sostanzialmente vanificati con l’introduzione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.
Bisogna anche precisare preliminarmente che in realtà esiste una molteplicità di sequestri preventivi, ciascuno con proprie peculiari caratteristiche.
Nell’art. 321, comma 1, c.p.p. trova la sua disciplina il sequestro preventivo c.d. impe-
Piero Gualtieri
ditivo, ispirato all’esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa pertinente al
reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di altri
reati, mentre il comma 2 regola quello finalizzato alla confisca, facoltativa o obbligatoria,
delle stesse cose.
È stata più recentemente introdotta con il d.l. 3.12.2012, n. 207, una nuova forma di
sequestro preventivo relativa agli stabilimenti di interesse nazionale (almeno 200 lavoratori
occupati da almeno un anno), ove la misura non ha, singolarmente, la finalità di inibire
un’attività, bensì di consentire una facoltà d’uso controllata dei beni aziendali.
Ha altresì avuto una espansione esponenziale il sequestro finalizzato alla confisca per
equivalente, nel quale è stato reciso il nesso di pertinenza tra reato e res: e in questa categoria assume una notevolissima importanza il sequestro disciplinato dall’art. 12 sexies d.l.
306/1992, la cui applicazione è stata nel tempo continuamente estesa e che ha la caratteristica di portare all’applicazione della misura in caso di condanna per uno dei numerosi
reati previsti dalla norma allorquando l’indagato non giustifichi la provenienza dei beni
dei quali egli abbia a qualsiasi titolo la disponibilità, anche per interposta persona, con
alcune analogie con il sequestro di prevenzione, specie in materia di esecuzione e amministrazione.
Vi è, infine, il sequestro preventivo introdotto con il d. lg. 8.6.2001 n. 231, che riguarda
la responsabilità per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato degli enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica (artt. 19 e 53),
per determinate tipologie di reato (tra i quali mancano incredibilmente quelli tributari).
Va anche segnalata l’esistenza di una serie di profili problematici, di carattere generale o riferito alla singola tipologia di sequestro, in materia di individuazione del giudice
competente alla sua applicazione (vi è in particolare un vuoto normativo relativamente
al giudice dell’udienza preliminare), di esecuzione della misura e di amministrazione dei
beni ad essa assoggettati (specie in relazione ai rapporti con il sequestro di prevenzione),
di tutela dei terzi in buona fede, di garanzie difensive anche in tema di gravami (la cui labilità normativa è aggravata da indirizzi giurisprudenziali molto restrittivi) e recentemente
di ammissibilità della confisca senza condanna.
Nell’impossibilità di trattare questa pluralità di argomenti, soffermeremo la nostra attenzione sui punti più incerti e delicati.
2. Il sequestro preventivo impeditivo.
214
In tema di presupposti, l’art. 321 è avaro di indicazioni, limitandosi ad un sintetico e
molto generico riferimento alla esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa
pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di nuovi reati.
Tali carenze nella disciplina dei presupposti applicativi dell’istituto hanno comportato
serie conseguenze negative in termini di garanzie.
Per lunghi anni la corte di cassazione, riprendendo acriticamente i principi affermati
in una pronuncia delle sezioni unite [C SU 23.4.1993, n. 4, Gifuni], ha sostenuto (salvo
qualche sporadica decisione di segno contrario) che in sede di applicazione di una misura
cautelare reale, ai fini della doverosa verifica della legittimità del provvedimento è preclusa
ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza e sulla gravità degli stessi e
che il controllo del giudice non può investire la concreta fondatezza dell’accusa, ma deve
limitarsi all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato.
D’altro canto, tale interpretazione è stata avallata dalla corte costituzionale, la quale ha
affermato in proposito che, pur essendo stati tracciati marcati parallelismi tra le cautele
reali e quelle personali, il codice non si è spinto al punto da aver assimilato in toto le
condizioni che devono assistere le due specie di misure. La scelta di non richiamare per
le misure cautelari reali i presupposti sanciti dall’art. 273 per le misure cautelari personali
non contrasterebbe con l’art. 24 Cost. poiché il diritto di difesa ammette diversità di disciplina in rapporto alla varietà delle sedi e degli istituti processuali in cui lo stesso è esercitato, e i valori che l’ordinamento prende in considerazione sono graduabili fra loro: da
un lato, l’inviolabilità della libertà personale, e, dall’altro, la libera disponibilità dei beni,
che la legge ben può contemperare in funzione degli interessi collettivi che vengono ad
essere coinvolti. Il giudice delle leggi ha aggiunto che il sequestro preventivo attiene, del
resto, a “cose” che presentano un tasso di “pericolosità” tale da giustificare l’imposizione
della cautela, e, pur raccordandosi ontologicamente ad un reato, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di “colpevolezza”: ma, potendo essere oggetto della misura “le
cose pertinenti al reato” è evidente che al giudice sia fatto carico di verificare che esista
un reato, quanto meno nella sua astratta configurabilità e con il corrispondente obbligo di
motivazione. E anche in sede di gravame non va riconosciuto un potere di controllo sul
merito della regiudicanda, dal quale scaturirebbe una specie di “processo nel processo”
che sposterebbe, allargandolo, il tema del decidere da quello suo proprio della verifica del
pericolo della libera disponibilità di taluni beni, all’oggetto del procedimento principale
[Corte Cost. 48/1994 e 153/2007].
Solo recentemente si sta finalmente assistendo al consolidamento di indirizzi per cui,
ai fini dell’emissione del sequestro preventivo, il giudice deve valutare la sussistenza del
fumus delicti in concreto, indicando nella motivazione in modo puntuale e coerente gli
elementi in base ai quali desumere l’integrazione del reato configurato, tenendo conto sia
degli elementi forniti dall’accusa, sia delle argomentazioni difensive, in quanto la serietà
degli indizi costituisce presupposto per l’applicazione delle misure.
Il percorso verso una sostanziale equiparazione tra i presupposti applicativi delle misure cautelari personali e reali ha tuttavia e finalmente trovato un solido, ancorché non
ancora limpido, supporto normativo nella modifica (introdotta dall’art. 11 l. 26.4.2015, n.
47) dell’art. 309, comma 9, richiamato dall’art, 324, comma 7, secondo il quale il tribunale
del riesame annulla l’impugnato provvedimento dispositivo della misura cautelare “se la
motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle
esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. Ed ovviamente tali
regole valgono pure per il provvedimento dispositivo del sequestro.
Sollecitate ad intervenire sulla corretta interpretazione della norma, le sezioni unite
Opinioni
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
215
Piero Gualtieri
216
hanno riconosciuto la compatibilità con le misure cautelari reali della parte appena citata
del comma 9, osservando tuttavia che queste previsioni devono essere coordinate - nei
limiti dell’adattamento possibile - con la materia delle misure cautelari reali e del sequestro probatorio, e giungendo alla conclusione di escludere come parametro di riferimento
quanto statuito dall’art. 292, ritenuto norma declinata per le misure cautelari personali,
correlata com’è, in modo stretto, al paradigma degli elementi disciplinati degli artt. 273
e 274 c.p.p. Al contrario, le nozioni di “indizio”, “esigenze cautelari” (ad eccezione della
materia dei sequestri probatori) e di “elementi forniti dalla difesa”, possono entrare a pieno
titolo nella esposizione ed autonoma valutazione dei presupposti fondanti il titolo ablativo
e quindi nel giudizio di controllo demandato, nella sua duplice modulazione, al tribunale
del riesame, con alcune limitazioni. In particolare, relativamente agli indizi, si dovrà tenere
conto del fatto che il requisito in parola non entra esplicitamente nella composizione della
nozione di fumus commissi delicti per dare corpo al collaudo della esistenza di un nesso
di pertinenzialità fra il bene sequestrato e la fattispecie concreta di reato che ne costituisce
il riferimento, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale (C Cost 48/94
e 153/2007): tuttavia, è altrettanto incontestabile che il sequestro preventivo e quello probatorio, nel presupporre l’esplicitazione della sussistenza di un reato in concreto mediante
la esposizione e la valutazione degli elementi in tal senso significativi, comportino, per
l’autorità giudiziaria che li dispone, un percorso motivazionale che si discosta da quello
sugli indizi, proprio delle misure personali, essenzialmente, e in taluni casi, sul punto della
responsabilità dell’indagato, potendo essere, il sequestro, disposto anche nei confronti di
terzi. Mentre quel percorso non può che essere affine per quanto concerne il dovere di
verifica - non più concepibile in termini solo astratti - della compatibilità e congruità degli
elementi addotti dall’accusa (e della parte privata ove esistenti) con la fattispecie penale
oggetto di contestazione anche relativamente alle esigenze cautelari (salvo ipotesi particolari di sequestri finalizzati alla confisca, previsti dagli artt. 321, comma 2, e 12-sexies d.l.
306/1992) [C SU 6.5.2016, n. 18954, Capasso].
Le argomentazioni svolte nella decisione appaiono peraltro timide e riduttive nella parte
in cui sostengono in tema di indizi, che, almeno in alcuni casi, si può prescindere dalla
valutazione della responsabilità dell’indagato, in quanto il sequestro preventivo può essere
disposto nei confronti di terzi e il richiamo dell’art. 292 non può comprendere l’applicazione degli artt. 273 e 274, peculiari delle misure cautelari personali. In senso contrario va
infatti osservato come il legislatore del 2015, modificando il comma 7 dell’art. 324, attraverso il ribadito richiamo dell’art. 309, commi 9, 9-bis e 10, abbia chiaramente voluto una
applicazione per quanto possibile integrale dell’art. 292, cui fa espresso rinvio, appunto,
l’art. 309, comma 9. Ad una attenta analisi risultano realmente incompatibili con il sequestro
preventivo soltanto le previsioni del comma 2, lett.) c-bis, ultima parte (custodia cautelare
in carcere), e d) (data di scadenza della misura) del menzionato art. 292, mentre per tutte le
altre non emergono problemi applicativi di sorta, poiché in effetti in esse vengono declinati
i requisiti del provvedimento dispositivo della misura (non enunciati nell’art. 321 e del quale suona come completamento), a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, ed esattamente:
le generalità dell’imputato (lett. a), la descrizione sommaria del fatto e delle norme violate
(lett. b), l’esposizione e l’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e degli indizi (lett.
c) nonché delle ragioni per le quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi addotti dalla
difesa (lett. e-bis) novellata). Per evidente connessione logica deve essere osservato anche
l’art. 273, che stabilisce al comma 1 la regola generale per cui le misure cautelari possono
essere applicate soltanto in presenza di gravi indizi di colpevolezza, al comma 1-bis i criteri
sulla loro valutazione (richiamando a tal fine gli artt. 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203
e 271, comma 1) e al comma 2 prescrive la inapplicabilità della misura qualora sussistano
cause di giustificazione o di non punibilità, o la estinzione del reato o della pena.
Il richiamo alla pregressa giurisprudenza costituzionale per introdurre limitazioni non
è condivisibile, in quanto il quadro normativo è, appunto, mutato e la sempre più ampia
diffusione dei casi di sequestro per equivalente rende ormai superate le argomentazioni
ivi utilizzate per “salvare” gli artt. 321 e 324 (vale a dire la sufficienza del requisito della
pertinenza a consentire una efficace difesa).
E se è vero che la misura reale può colpire anche terzi, è comunque necessaria un’indagine in ordine alla buona fede di costoro e soprattutto alla effettiva disponibilità da
parte dell’indagato dei beni nonché, nei casi disciplinati dall’art. 321, del loro rapporto di
pertinenza con la sua attività criminosa.
Non va dimenticato che al centro di ogni processo penale e dei suoi particolari istituti,
vi è sempre una vicenda umana, per cui non è possibile prescindere dalla valutazione dei
profili soggettivi degli indizi attraverso un’approfondita disamina della (eventuale) condotta illecita del soggetto inquisito, che è preliminare all’accertamento della pericolosità della
cosa di cui si vuole impedire l’utilizzazione.
D’altro canto, le stesse sezioni unite, nell’effettuare in altra decisione una ricostruzione
storico-sistematica del sequestro preventivo, hanno affermato, in riferimento alle ipotesi
regolate dall’art. 321, che la finalità di prevenzione perseguita dalla misura “è mediata dalla
cosa, considerata nel rapporto con la persona che ne ha la disponibilità, il che legittima
il sequestro nei casi in cui lo stretto legame tra la persona e la cosa sia la causa di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di reiterazione dell’attività
criminosa” [C SU 17.7.2015, n. 31022, Fazzo].
Va ancora considerato che le misure cautelari reali vanno ad incidere su interessi protetti dalla Costituzione e dalla C.e.d.u. e in particolare il sequestro preventivo può presentare
un contenuto afflittivo addirittura maggiore rispetto ad alcune misure cautelari personali
(si pensi all’ablazione di tutte le proprietà di un indagato lavoratore autonomo, che fa
venir meno a lui e alla sua famiglia i mezzi di sostentamento, o alla perdita di lavoro da
parte dei dipendenti in caso di sequestro di un’azienda).
Ed infine, tra le due specie di misure esistono indubbiamente stretti parallelismi, sia
per la collocazione sistematica, sia per i rimedi approntati (appello, riesame, ricorso per
cassazione), sia, ancora, per la dichiarata intenzione di costruire nei c. 3-bis e 3-ter dell’art.
321 una figura precautelare modellata sull’art. 384.
Alla stregua di questi rilievi, riteniamo che si dovrebbe pervenire ad una interpretazione
costituzionalmente orientata della normativa in materia, che tenga conto della necessità
di un ragionevole bilanciamento tra esigenze di repressione e tutela del diritto di difesa e
Opinioni
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
217
Piero Gualtieri
della proprietà, e renda applicabile il sequestro preventivo soltanto in caso di sussistenza
di gravi indizi di reità a carico di colui che dispone effettivamente della cosa ritenuta pericolosa, da valutare, in forza di quanto dispone l’art. 273, comma 1-bis, ai sensi degli artt.
192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203, 271, comma 1, e tali da consentire una prognosi in
ordine alla possibilità di pervenire ad una sentenza di condanna nonché quando ricorra un
vincolo chiaro ed univoco tra la stessa cosa e il reato per cui si procede e, in applicazione
dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, risulti impossibile conseguire
il medesimo risultato con altre misure meno invasive: e in attuazione di quanto stabilito
dall’art. 273, c. 2, applicabile per le ragioni avanti esposte, l’analisi dovrebbe essere estesa
anche all’elemento psicologico del reato, atteso che la sua mancanza impedisce la stessa
astratta configurabilità dell’illecito penale, alla presenza di una causa di giustificazione o
di non punibilità e alla prescrizione del reato.
L’approfondita valutazione dei profili soggettivi degli indizi è ancor più importante in
materia di sequestro per equivalente, ove, come si vedrà più avanti, assumono rilievo assorbente proprio e soltanto tali profili, mancando il rapporto pertinenziale tra cosa e reato
ed essendo evanescente il periculum, in ragione della obbligatorietà della misura, che può
essere applicata unicamente in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta
delle parti per alcuno dei reati tassativamente elencati.
3. Il sequestro finalizzato alla confisca.
218
L’art. 321 c. 2 prevede la possibilità di disporre il sequestro preventivo delle cose di
cui è consentita la confisca. Si tratta di una figura specifica ed autonoma rispetto a quella
regolata nel c. 1, disciplinata secondo schemi suoi propri, come è confermato dal fatto
che la possibilità di chiedere la revoca del sequestro, quando vengono meno o risultano
mancanti le condizioni di applicabilità della misura, è limitata alle ipotesi cui al comma 1.
Ma l’istituto più rilevante, anche a causa della sua crescente applicazione, è certamente
il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, considerata uno strumento
strategico di politica criminale, teso a contrastare fenomeni sistematici di criminalità economica ed organizzata, e diretta a privare il reo di un qualunque beneficio sul versante
economico, sotto la forma di prelievo pubblico a compensazione di utilità illecite: essaè
rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per la individuazione dei beni in cui si incorpora il profitto del reato nonché ad ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di
scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego.
Colpisce, quindi, in difetto del reperimento del bene specifico provento del reato e per
un valore ad esso corrispondente, gli altri beni di cui il soggetto abbia la disponibilità, i
quali non hanno alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo e neppure alcun
nesso di pertinenza con il singolo reato, a differenza di quanto avviene per le ipotesi disciplinate dall’art. 240 c.p. E’ altresì caratterizzata dalla obbligatorietà e ha trovato la sua
massima espansione nelle previsioni dell’art. 12-sexies, d.l. 8.6.1992, n. 306, la cui applicazione è stata più volte estesa nel tempo.
A nostro parere deve ritenersi ormai assodata la natura sanzionatoria della confisca
nelle sue varie forme (e non più quindi, di misura di sicurezza patrimoniale). Un espresso
riconoscimento in tal senso è venuto dalle pronunce della Corte e.d.u., nelle quali è stato
affermato che la confisca deve qualificarsi come una pena ai sensi dell’art. 7 C.e.d.u. poiché si collega ad un illecito penale, non tende alla riparazione pecuniaria di un danno, ma
ad impedire la reiterazione della inosservanza delle prescrizioni: i giudici di Strasburgo
hanno altresì specificato che la natura penale della disposizione deve essere accertata sulla
base di tre criteri (la qualificazione giuridica della misura nel diritto nazionale, la natura
stessa di quest’ultima e la natura e il grado di severità della «sanzione»), che sono alternativi e non cumulativi [Corte e.d.u. 20.1.2009, Sud Fondi c. Italia; Id. 29.10.2013, Varvara c.
Italia; Id. 4.3.2014, Grande Stevens c. Italia; 20.5.2014, Nykanenc. Finlandia; Id. 27.11.2014,
Den c. Svezia; Id. 9.6.2016, Sismanidis c. Grecia].
Da ciò consegue la necessità di una formale declaratoria di responsabilità penale attraverso una sentenza di condanna, in difetto della quale la applicazione della confisca è
arbitraria.
E anche la Corte costituzionale ha a sua volta attribuito alla confisca per equivalente
una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce la sua applicazione retroattiva
[sentenze 97/2009 e 196/2010; in senso parzialmente diverso in tema di confisca susseguente a prescrizione del reato v. la decisione 49/2015].
Con una recente e non condivisibile decisione, le sezioni unite hanno tuttavia sostenuto che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione,
può disporre, a norma dell’art. 240, comma 2, n. 1, c. p., la confisca del prezzo e, ai sensi
dell’art. 322-ter c. p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato (la quale non
presenta connotazioni di tipo punitivo, dal momento che il patrimonio dell’imputato non
viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris), qualora vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale
responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o
profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio: non può applicare,
invece, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle
cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto [SU 26.6.2015, n. 31617, Lucci].
Non è questa la sede per una critica articolata alle argomentazioni svolte dal collegio
esteso. Ci si limita quindi a rilevare che la richiamata decisione del giudice delle leggi
49/2015 ha fornito una lettura erronea e tendenziosa della sentenza Varvara c. Italia, che
non autorizza affatto una interpretazione per cui per disporre la confisca sarebbe sufficiente l’accertamento in fatto della responsabilità dell’imputato, ed anzi dalla sua motivazione
si evince esattamente il contrario, come emerge evidente dall’espressa affermazione che la
confisca è arbitraria quando il reato è estinto.
D’altro canto, l’applicazione della misura ablativa in difetto di una formale condanna
contrasterebbe anche con la presunzione di innocenza e non è comunque pertinente il
riferimento all’art. 578 a sostegno della criticata tesi, poiché l’art. 573, comma 2, c.p.p. prevede il passaggio in giudicato e l’esecuzione dei capi penali, comprensivi della confisca:
ed è manifestamente ingiustificata e strumentale la distinzione tra confisca diretta e per
equivalente, diretta ad attribuire solo alla seconda natura sanzionatoria.
Opinioni
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
219
Piero Gualtieri
220
Va altresì rimarcato come dovrebbe essere consentito soltanto eccezionalmente lo spostamento della cautela dal bene collegato da nesso pertinenziale con il reato ad altro bene
nella disponibilità dell’indagato, indipendentemente dalla sua provenienza legittima: la
confisca per equivalente, e il sequestro preventivo che la garantisce e le è funzionale, possono trovare applicazione unicamente in via residuale, allorquando non sia stato possibile
aggredire il prezzo del reato, e nell’osservanza dei principi di proporzionalità, adeguatezza
e gradualità, con conseguente obbligo del giudice di motivare adeguatamente sull’impossibilità di conseguire il medesimo risultato con altre misure meno invasive.
D’altro canto, derogare a questi più rigorosi criteri comporterebbe seri profili di legittimità costituzionale delle norme in materia per violazione degli artt. 24, 42 e 117, comma
1, Cost, in riferimento agli’artt. 6 e 7 C.e.d.u. e 1 Protocollo aggiuntivo, in quanto, essendo
stato eliso il requisito del rapporto di pertinenza tra bene e reato: non sono quindi applicabili i principi enunciati nella decisione della corte costituzionale 48/1994, nella quale è
stata esclusa la lesione del diritto di difesa sull’assunto che il soggetto colpito dalla misura
poteva volgersi a contestare proprio l’esistenza di tale nesso di pertinenza.
Merita una menzione particolare il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente
prevista dall’art. 12-sexies d.l. 306/1992, la cui applicazione è stata continuamente estesa
nel tempo e stabilisce ai commi 1 e 2 che è sempre disposta la confisca del denaro, dei
beni o delle altre utilità dei quali il condannato non può giustificare la provenienza e, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a
qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte
sul reddito, o alla propria attività economica, in caso di condanna o di applicazione della
pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per un amplissimo novero di reati: dispone,
altresì, che, quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle
altre utilità avanti citati, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e
altre utilità per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona.
Secondo l’indirizzo largamente prevalente, le condizioni necessarie e sufficienti per
disporre in questi casi il sequestro preventivo consistono, quanto al fumus commissi delicti, nell’astratta configurabilità nel fatto attribuito all’indagato e in relazione alle concrete
circostanze indicate dal p.m., di una delle ipotesi criminose previste dalle norme citate,
senza che rilevino né la sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità e, quanto al periculum in mora, coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene, nella
presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca,
sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività
economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita
provenienza dei beni stessi.
Si viene così a configurare, ai fini dell’adozione della misura cautelare, una presunzione
di illecita accumulazione patrimoniale, che può essere superata dall’interessato sulla base
di specifiche e verificate allegazioni, dalle quali si possa desumere la legittima provenienza
del bene sequestrato in quanto acquistato con proventi proporzionati alla propria capacità
reddituale lecita e anche attingendo al patrimonio lecitamente accumulato, senza distin-
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
guere, quindi, se tali beni siano o meno derivati dal reato per il quale si procede o è stata
inflitta la condanna.
Appaiono pertanto consistenti i dubbi di legittimità costituzionale di questa normativa
e del c.d. diritto vivente formatosi su di essa, in quanto risulta evidente la esigenza di una
indagine che va ben oltre la mera astratta configurazione dell’esistenza di un reato, peraltro superata anche dalla più recente giurisprudenza e dal nuovo testo dell’art. 324, comma
7, tanto più in presenza della menzionata presunzione di illegittima appartenenza dei beni
e della espressa previsione che la misura ablativa può essere disposta soltanto in caso di
condanna, con conseguente necessità di una valutazione prognostica al riguardo.
L’esercizio del diritto di difesa e di tutela della proprietà è dunque estremamente difficile, se non inconsistente, e non pare proprio che questa situazione sia rispondente ai
principi dettati dagli artt. 24, 27, comma 2, 42 e 117, comma 1, Cost.
Il provvedimento applicativo del sequestro preventivo esige, ai sensi dell’art. 321, comma 1, il decreto motivato e deve pertanto contenere la doverosa enunciazione, con funzione endoprocessuale, delle argomentazioni poste a base della decisione, al fine di assicurare la possibilità di un loro controllo di merito e di legittimità: e il tribunale del riesame
è chiamato a svolgere un imprescindibile ruolo di garanzia, così da rendere effettivo il
doveroso controllo giurisdizionale preteso dalla Costituzione prima che dalla legge ordinaria [cfr. da ultimo, SU 6.5.2016, n. 18954, Capasso].
Il perimetro entro il quale inserire tale obbligo è stato condizionato da un assetto normativo molto lacunoso specie in riferimento al fumus delicti, che, come già osservato,
lascia ampi margini di discrezionalità, ancora più estesi nel sequestro finalizzato alla confisca per equivalente. La ripetutamente segnalata modifica dell’art. 309, comma 9, richiamato dall’art, 324, comma 7, ovviamente valida pure per il provvedimento dispositivo del
sequestro, impone oggi un percorso motivazionale più rigoroso, in quanto il decreto deve
contenere, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, l’esposizione e l’autonoma valutazione
delle esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta. La
finalità della norma è evitare il ripetersi, specialmente in presenza di fascicoli voluminosi,
degli imbarazzanti episodi di trascrizioni integrali delle richieste del p.m., senza un minimo di analisi critica, che hanno provocato clamore e conseguenti polemiche.
Sembrava, pertanto, che queste deprecabili prassi dovessero cessare, ma poco dopo
l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, la Corte Suprema ha ritenuto che in realtà esse
non vietano tout court la motivazione per relationem, in quanto si pongono al contrario
in continuità con i principi da tempo costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità e sostenendo che, ove meccanicamente inteso, l’obbligo di autonoma valutazione
si risolverebbe in inutile parafrasi delle valutazioni del primo giudice, laddove coscientemente condivise [Cass. pen. sez. VI 11.11.2015, n. 45166, E.G., in Giur. it. 2016, 211, con
commento critico di Spangher, il quale mette esattamente e opportunamente in evidenza
come i vizi e le vecchie abitudini siano duri a morire e come, se fosse vera la tesi per cui il
Opinioni
4. La motivazione del provvedimento dispositivo della misura.
221
Piero Gualtieri
problema era già stato definito dalle sezioni unite, risulterebbe inutile la nuova normativa,
invece introdotta proprio per superare quell’insufficiente dictum: cfr. anche ex multis, le
successive sentenze 45934/2015, 48962/2015, 11922/2015 e 5497/2016].
Al riguardo, la ripetutamente citata sentenza Capasso [18954/2016] ha affermato che la
parte novellata dell’art. 309, comma 9, contenente l’obbligo di autonoma valutazione dei
presupposti della misura, si inserisce in un quadro in cui, attraverso interventi paralleli su
più norme, il legislatore ha chiaramente mostrato di considerare fra gli obiettivi connotanti
la riforma quello di sanzionare qualsiasi prassi di automatico recepimento, ad opera del
giudice, delle tesi dell’Ufficio richiedente, così da rendere effettivo il doveroso controllo
giurisdizionale preteso dalla Costituzione prima che dalla legge ordinaria, e da rafforzare
la dimostrazione della specifica valutazione dell’organo giudiziario di prima istanza sui
requisiti fondanti la misura, precludendone la sanatoria che potrebbe derivare dall’intervento surrogatorio pieno del giudice della impugnazione, pure rimasto previsto nello
stesso comma 9.
Ma queste puntuali argomentazioni sono state presto disattese. E’ stato infatti ribadito
che l’introduzione del requisito dell’autonoma valutazione non deve essere inteso quale
mero attributo estetico o stilistico, che si risolverebbe in una mera e dispendiosa parafrasi
del testo altrui, ma in senso epistemologico, come autonomia della decisione, per cui non
implica una riscrittura originale degli elementi indizianti: in altri termini, il provvedimento
che riproduca più o meno fedelmente o richiami la richiesta del p.m. assume una propria oggettiva consistenza e, in assenza di affidabili criteri di classificazione del pensiero
autopnomo, non può ritenersi per ciò solo indiziante di una valutazione, e quindi di una
decisione, priva di autonomia o di una cessione di imparzialità [sentenze 41089/2016 e
30459/2016].
Insomma, si persiste ostinatamente nel rifiuto di applicazione del dato normativo, in
spregio anche all’insegnamento delle sezioni unite.
5. Il termine di trasmissione degli atti al tribunale del riesame.
222
Un altro caso emblematico dello scollamento tra codice legale e codice reale è rappresentato dalla interpretazione che la corte di legittimità ha dato del richiamo dell’art. 309,
comma 10, da parte dell’art. 324, comma 7.
Le Sezioni Unite hanno affermato al riguardo che l’originario parallelismo della disciplina della impugnazione cautelare delle misure personali rispetto a quelle reali è più funzionale che strutturale, e quindi non vincolante, e che i due istituti del riesame hanno una
diversa collocazione sistematica e “pur in origine ispirati, per ragioni di simmetria, a un
unico modello procedimentale, tuttavia possono divaricarsi nella pratica applicazione”. Il
collegio esteso ha poi sostenuto che il rinvio che l’art. 324, comma 7, effettua ai commi 9 e
10 del precedente art. 309 è riconoscibilmente recettizio, vale a dire statico, e non formale
(o dinamico) essendo effettuato alla mera veste letterale dei predetti commi, per cui da tale
modalità di incorporazione per relationem discende, inevitabilmente, la cristallizzazione
della disposizione normativa recepita, che dunque, una volta inglobata nella norma che
la richiama, ne entra a far parte integrante e non segue le eventuali “sorti evolutive” della
norma richiamata. E poiché la riforma dell’art. 309, operata dalla l. n. 332/1995, non ha
inciso sull’art. 324 ed il rinvio che tale ultimo articolo fa all’art. 309 deve inevitabilmente
essere inteso al testo previgente, ne deriva che unico termine perentorio nella procedura
di riesame delle misure cautelari reali rimane quello originario di 10 giorni entro i quali la
decisione deve essere assunta, decorrente, ovviamente, dal momento in cui la richiesta perviene al tribunale del riesame [SU 17.6.2013, n. 26268, Cavalli; 29.5.2008, n. 25932, Ivanov].
Entrata in vigore la l. 47/2015, le sezioni unite hanno (inaspettatamente) ritenuto di
confermare questo orientamento, asserendo che la rimodulazione dell’art. 324, comma 7, è
avvenuta non con la tecnica della sostituzione di una intera parte del precetto contenente
il rinvio ai commi dell’art. 309, ma sostituendo alle parole “art. 309, commi 9”, le parole
“art. 309, commi 9 e 9-bis”, senza intervenire sul richiamo del comma 10, rimasto invariato:
da ciò si dedurrebbe che il detto comma 10, nella formulazione risultante dall’intervento
del legislatore nell’ultima riforma, non riguarda la modalità di funzionamento del riesame
reale. Con la ulteriore conseguenza che, sia pure attraverso tale specifico percorso interpretativo, le conclusioni della sentenza Cavalli sarebbero da confermare, anche alla luce
di altre considerazioni di carattere sistematico, riferibili alla stessa struttura del precetto
in questione e alla ontologica incompatibilità di questo col comma 3 dell’art. 324, senza
che siano ravvisabili incoerenze nell’affermare la non operatività di quello stesso comma
10 in relazione a tutte le innovazioni in esso introdotte dalla l. n. 47 del 2015: emergerebbe, infatti,”una scelta risalente e collaudata dal legislatore” di lasciare la procedura del
riesame reale non assoggettata, nella sua integralità, al rigidissimo regime proprio delle
impugnazioni in materia di coercizione personale, come reso lampante, tra l’altro, dalla
assoluta divergenza dei due istituti anche in punto di sospensione dei termini procedurali
nel periodo feriale, di ampiezza del sindacato di legittimità sui provvedimenti conclusivi e
di diversità del rito camerale da riservare ai due diversi tipi di impugnazione (partecipato
ai sensi dell’art. 127 c.p.p. per la trattazione dei ricorsi per cassazione in tema di misure
cautelari personali e non partecipato ai sensi dell’art. 611 c.p.p. per i ricorsi in tema di
misure reali) nonché dal mancato richiamo in materia di cautele reali del comma 5-bis
dell’art. 311 [SU 6.5.2016, n.18954, Capasso; cfr. anche SU 17.12.2015, n. 51207, Maresca e
sez. III 22.8.2016, n. 35244].
Orbene, questa opinione lascia a dir poco sconcertati, poiché da essa discende che, in
un procedimento come quello di riesame, caratterizzato da esigenze di celerità imposte
dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti, da un lato è fissato, a pena di inefficacia
della misura, il rigido rispetto da parte del tribunale del termine di dieci giorni per decidere e dall’altro si lascerebbe sprovvisto di conseguenze il ritardo (teoricamente illimitato)
dell’ufficio del p.m. nell’invio degli atti, così cancellando di fatto ogni certezza in ordine
alla iniziale decorrenza del successivo termine di dieci giorni, che invece ha un solido
fondamento costituzionale.
Era già frutto di una irrazionale alchimia giuridica l’artificioso mantenimento in vita a
fini sostanzialmente antigarantisti di una norma abrogata effettuata dalla sentenza Cavalli:
ma è davvero sorprendente (e inaccettabile) che la tesi sia stata confermata nella sentenza
Opinioni
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
223
Piero Gualtieri
Capasso nonostante le innovazioni introdotte dalla l. 16.4.2015, n. 47, la quale, diversamente da quanto aveva fatto la l. 332/1992, è intervenuta con l’art. 11, comma 6, sull’art.
324, comma 7, che prescrive l’applicazione delle disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis,
e 10, senza riserve o condizioni, e dunque nella loro interezza; e in questo quadro appare
davvero debole l’argomentazione per cui il silenzio della legge di riforma sul comma 10
comporterebbe la sua applicabilità soltanto nel testo originario, che, oltre ad essere irrazionale per le ragioni appena evidenziate, contrasta con la chiara lettera della norma, non
superabile con (insussistenti) motivi di ordine sistematico.
Appare dunque privo di fondamento logico e giuridico negare che il rinvio oggi ribadito debba essere necessariamente riferito alla versione attuale delle norme e non (astrusamente) a quella originaria, poiché esso si inserisce in un quadro complessivo e coordinato
di modifiche, come dimostra anche l’espressa estensione al procedimento di riesame delle
misure cautelari reali della possibilità di differimento dell’udienza e della decisione, prevista nel comma 9-bis.
Sicché, a nostro avviso, deve concludersi che il più volte menzionato comma 10 debba essere applicato integralmente e che anche la mancata trasmissione degli atti entro il
termine di cinque giorni previsto dal comma 5 dell’art. 309 provochi la perdita di efficacia
della misura ablativa e impedisca la sua reiterazione, salva l’eccezionalità delle esigenze
cautelari.
6. Il rinvio dell’udienza di riesame.
224
Ai sensi del novellato art. 309, comma 9-bis, richiamato dall’art. 324, comma 7, su istanza formulata personalmente dall’imputato (ma il potere è certamente esteso alla persona
sottoposta alle indagini, ai sensi dell’art. 61) entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce l’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni,
se vi siano giustificati motivi, con conseguente proroga nella stessa misura del termine per
la decisione.
La ratio della disposizione scaturisce dalla esigenza di consentire alla difesa di prepararsi meglio [v. la Nota breve del Servizio Studi del Senato in occasione dell’esame in prima
lettura del disegno di legge] e risolvere così i gravi problemi insorti in occasione della
trattazione di procedure con fascicoli particolarmente voluminosi e rilevante numero di
soggetti coinvolti.
La subordinazione del rinvio alla manifestazione di volontà direttamente riconducibile
all’indagato trova la sua spiegazione nella circostanza che la decisione di prorogare lo
stato di limitazione di libertà deve trovare il suo consenso: ma assume pure rilievo la esigenza dello stesso collegio giudicante di un effettivo approfondimento e analisi del caso,
ponendosi così fine ai deprecabili recepimenti senza un serio vaglio critico delle opinioni
del p.m.
La formulazione della norma, dettata in palese riferimento alle misure cautelari personali, provoca tuttavia problemi applicativi relativamente alle cautele reali. Un primo
profilo riguarda l’eventuale discordanza di richieste sul punto allorquando siano presenti
più indagati: in questa ipotesi il presupposto dei giustificati motivi lascia al tribunale un
ampio potere discrezionale, che può spaziare tra il rigetto del differimento, l’accoglimento nonostante il dissenso o uno stralcio che, pur foriero di difficoltà pratiche, appare
la conclusione preferibile e più rispondente alla logica della previsione. Un secondo
rilevante aspetto concerne la legittimazione alla richiesta da parte del difensore, che la
lettera della legge non sembra consentire, poiché l’art. 99 comma 1, esclude l’estensione
in suo favore dei diritti e delle facoltà riconosciuti all’imputato, che siano riservati personalmente a quest’ultimo: né risulta applicabile l’art. 122, in quanto manca ogni riferimento al compimento dell’atto attraverso un procuratore speciale; e l’anomalia è aggravata
dal fatto che lo stesso difensore può impugnare il provvedimento davanti al tribunale
del riesame. La terza questione è la disparità di trattamento che si viene a creare tra l’imputato e gli altri soggetti legittimati a proporre la richiesta di riesame (persone alle quali
le cose sono state sequestrate o hanno diritto alla loro restituzione), che non hanno il
potere di avanzare l’istanza di differimento e si trovano così a dover subire ritardi nella
decisione: versandosi in materia di cautele reali, non appare invocabile la preminenza
del valore della libertà personale per giustificare la posizione di privilegio riconosciuta
all’indagato, per cui, nella difficoltà di delineare una interpretazione costituzionalmente
orientata, è ipotizzabile una violazione degli artt. 3 e 111, comma 2, Cost., attesa la natura del procedimento di riesame.
Altro interessante problema è costituito dalle richieste di rinvio avanzate dal difensore.
L’astensione dalle udienze è ormai pacificamente considerata esercizio di un diritto costituzionalmente rilevante [cfr. Corte Cost. 121/1996 e i codici di autodisciplina approvati
con Deliberazioni della Commissione di Garanzia 4.7.2002, art. 2, comma 4, e 13.12.2007,
art. 3, comma 1] e le disposizioni che la regolano sono considerate speciali rispetto a
quelle del codice.
Pertanto, in caso di istanza del difensore che vi abbia aderito, qualsiasi procedimento in
camera di consiglio, obbligatoriamente partecipato o no, ivi compresi quelli davanti al tribunale del riesame, deve essere rinviato, in quanto, se così non fosse, tale diritto subirebbe
un pesante condizionamento, trovandosi il difensore costretto a scegliere tra l’esercizio del
proprio diritto e l’esigenza di non lasciare privo di assistenza tecnica il proprio assistito:
e la mancata concessione da parte del giudice del differimento della trattazione dell’udienza camerale determina una nullità per la mancata assistenza dell’imputato, ai sensi
dell’art. 178, comma 1, lett. c), di natura assoluta ove si tratti di udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore, ovvero natura intermedia negli altri casi [cfr. da ultimo
SU 14.4.2015, n. 15232, Guerrieri, riguardante un giudizio di opposizione a richiesta di
archiviazione, ove si legge una pregevole e approfondita ricostruzione storico-sistematica
dell’istituto; SU 27.3.2014, n. 40187, Lattanzio; SU 30.5.2013, n. 26711, Ucciero].
Viceversa, l’astensione del difensore della parte civile o della persona offesa (pur
espressamente menzionato nell’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione), non
dà diritto al rinvio, qualora il difensore dell’imputato o dell’indagato non abbia espressamente o implicitamente manifestato analoga dichiarazione di astensione, così mostrando
un proprio interesse alla celere definizione del procedimento.
Opinioni
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
225
Piero Gualtieri
Secondo noi, la modifica dell’art. 309, comma 9 bis, ha rilevanza pure in tema di legittimo impedimento del difensore. poiché essa ha fatto appunto cadere il dogma della
indifferibilità della udienza al fine di assicurare una effettiva assistenza tecnica informata.
Le sezioni unite, componendo il contrasto tra i divergenti indirizzi ermeneutici in ordine
all’applicabilità dell’art. 420-ter ai procedimenti in camera di consiglio tenuti nelle forme
previste dall’art. 127 (e superando l’assunto ostativo asseritamente rappresentato dalle
esigenze di speditezza e di concentrazione, intrinseche alla natura di tali procedimenti,
nemmeno qualora la presenza del difensore sia prevista come necessaria, soccorrendo,
in questa ipotesi, la regola dettata dall’art. 97 comma 4), hanno affermato che l’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento
che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, a
condizione che lo stesso difensore prospetti appena conosciuta la contemporaneità dei
diversi impegni, indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento
della sua funzione nel diverso processo e rappresenti l’assenza in detto procedimento di
altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di
avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio: hanno ulteriormente precisato che, ove l’onere
di documentazione dell’impedimento non sia osservato, il giudice può eventualmente,
contemperando le esigenze della difesa con quelle della giurisdizione, concedere il rinvio
secondo il suo prudente apprezzamento, tenendo conto dei problemi organizzativi dell’ufficio giudiziario, dei diritti e delle facoltà per le altre parti coinvolte nel processo e, dei
principi costituzionali di ragionevole durata ed efficienza della giurisdizione [SU 2.2.2015,
n. 4909, Torchia].
Successivamente la Corte Suprema ha osservato che, sebbene il codice di rito non preveda al riguardo nessuna sanzione processuale, al deposito tempestivo di una istanza di
rinvio dovrebbe corrispondere un correlativo onere del decidente di dare una tempestiva
risposta, in un quadro di collaborazione fra i diversi soggetti processuali volto a garantire il
miglior funzionamento della macchina giudiziaria [sez. VI 16.6.2015, n. 25262, Cordovado]:
e questo sembra il minimo dovuto a fronte delle deprecabili prassi per cui sul rinvio “si
decide in udienza”, che pongono il difensore in una grave situazione di disagio.
E’ stato altresì affermato, all’esito di una approfondita esegesi comparativa tra le norme
costituzionali e pattizie in materia di effettività del diritto di difesa, che la formulazione
dell’art. 127 comma 3, secondo cui i difensori sono sentiti “se compaiono”, non preclude
certamente, ed anzi favorisce, l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore è sì facoltativa, ma egli ha comunque il diritto di comparire: per cui,
ove rappresenti tempestivamente tale proprio intendimento e documenti a sostegno della
richiesta di rinvio, un legittimo impedimento, che assume rilevanza anche nei procedimenti in camera di consiglio, il giudice è tenuto, in presenza di tutte le condizioni di legge, a
disporre in tal senso [sez. VI 11.3.2016, n. 10157, C.C.].
Insomma, qualche maggiore spiraglio si sta finalmente aprendo.
226
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
7. Il ricorso per cassazione.
Il ricorso per cassazione, nella forma diretta od indiretta, può essere proposto esclusivamente per il vizio di violazione di legge.
Sotto il profilo strettamente letterale sembrerebbe esclusa l’applicazione della lett. e
(mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione) dell’art. 606, ma correttamente le Sezioni Unite hanno invece esteso il controllo anche ai casi di motivazione
mancante o apparente [SU 29.5.2008, n. 25932, Ivanov, e successivamente ex plurimis,
da ultimo sez. III 28.4.2016, n. 31004, De.Pa.; sez. III 28.4.2016, n. 23736, Ba.Gi; sez. V
25.2.2016, n. 12536, L.B.].
La soluzione prospettata, peraltro, non è del tutto appagante.
Va infatti rammentato come l’art. 125 sanzioni con la nullità l’omessa motivazione delle
sentenze, delle ordinanze e dei decreti (per questi ultimi ove sia espressamente prevista) e
a sua volta l’art. 111 Cost. stabilisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, il che presuppone la doverosa enunciazione, con funzione endoprocessuale,
delle argomentazioni poste a base della decisione e idonee a rivelarne la ratio, al fine di
assicurare la possibilità di una verifica di merito e di legittimità su di essi.
E allora sembrerebbe logico concludere, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata, che il termine “violazione di legge” contenuto nell’art. 325 comma 1 sia
comprensivo anche del vizio di contraddittorietà o di manifesta illogicità della motivazione
(art. 606, comma 1, lett. e): diversamente resterebbe frustrato quell’inderogabile fine di
controllo dell’attività giurisdizionale, specie se possano profilarsi lesioni di interessi costituzionalmente protetti, come in tema di misure cautelari reali.
Ma indubbiamente la restrittiva previsione normativa e la ritrosia della giurisprudenza
ad aprire varchi garantisti rendono difficile l’accoglimento della soluzione prospettata.
In alcune pronunce, le Sezioni Unite avevano affermato che il procedimento camerale di cassazione in materia di sequestro deve svolgersi nelle forme dell’art. 127 e non in
quelle dell’art. 611, in quanto la trattazione scritta è resa impossibile dal rinvio operato
dall’art. 325 comma 3 all’art. 311 comma 4, che, prevedendo la possibilità di enunciare
motivi nuovi prima del suo inizio, delinea un modulo procedimentale incompatibile con
quello dell’art. 611 [SU 22.2.1993, n. 14, Lucchetta; SU 9.6.1990, n. 4, Serio].
Recentemente il collegio esteso ha però modificato il proprio orientamento, sostenendo
che le argomentazioni sviluppate nelle richiamate pronunce Serio e Lucchetta, entrambe
ormai risalenti nel tempo, debbano essere oggi riviste, pur in presenza di un quadro normativo immutato. In proposito rileverebbe, in primo luogo, la specialità della procedura
camerale non partecipata nel giudizio di cassazione, che opera “se non è diversamente stabilito”, come precisa l’art. 611, mentre l’art. 325, comma 3, e l’art. 311, commi 3 e 4, in esso
Opinioni
8. La partecipazione (negata) alla discussione davanti alla
corte di cassazione.
227
Piero Gualtieri
228
richiamati, non stabiliscono alcunché di diverso rispetto a quanto indicato dallo stesso art.
611, diversamente da quanto stabilito nell’art. 311, comma 5 (non richiamato dall’art. 325),
ove l’osservanza delle forme previste dall’art. 127 è invece specificatamente effettuata: e
ciò trova giustificazione nella sostanziale differenza tra il regime cautelare personale e
quello reale, che legittima opzioni procedurali diversificate. Per altro verso, il ricorso al rito
camerale non partecipato non determina rilevanti conseguenze sulla celere definizione dei
processi ed è pienamente compatibile con i principi della C.e.d.u., in quanto la garanzia
del contraddittorio orale è riferita, dalla Corte e.d.u. al giudizio di merito e non sarebbe
determinante il riferimento alla “discussione” contenuto nel comma 4 dell’art. 309. Il rito
da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 è quindi quello
previsto dall’art. 611 e non dall’art. 127 [SU 17.12.2015, n. 51207, M.G., GI 2016, 992].
Questa decisione ci vede recisamente dissenzienti, poiché l’art. 311, comma 4, richiamato dall’art. 325, riconosce espressamente il diritto di enunciare “nuovi motivi davanti alla
Corte di cassa-zione, prima dell’inizio della discussione” e non si comprende come questo
precetto possa venire attuato in una procedura alla quale il difensore non è ammesso.
Inoltre, non è accettabile teorizzare una bipartizione tra udienze camerali partecipate,
riservate alle tematiche di maggior valenza, e non partecipate, riguardanti problematiche
meno significative, e la riconduzione nel secondo ambito dei ricorsi relativi alle misure
cautelari reali, non potendo certamente essere considerata di natura secondaria la limitazione alla sfera patrimoniale di un soggetto derivante dall’adozione di misure cautelari
reali, lesive di diritti costituzionalmente tutelati.
D’altro canto, la stessa Corte e.d.u. ha ripetutamente rappresentato la necessità di tenere udienze pubbliche, in applicazione dell’art. 6 C.e.d.u. (“ogni persona ha diritto che la
sua causa sia esaminata....pubblicamente”) in caso di rilevanza della posta in gioco [sentenze 13.11.2007, Bocellari c. Italia; 26.7.2011, Paleari c. Italia; 17.5.2011, Capitani c. Italia;
10.4.2012, Lorenzetti c. Italia]: e la stessa corte costituzionale ha aderito a questa impostazione in numerose pronunce [cfr. le sentenze 93/2010; 135/2014; 109/2015; v. tuttavia per
la non indispensabilità dell’udienza pubblica davanti alla corte di cassazione in tema di
misure di prevenzione, C Cost. 80/2011].
E stante il disposto degli artt. 24 e 111, comma 2, Cost e 6 C.e.d.u., che non ammettono eccezioni, il principio non può essere limitato ai soli giudizi di merito, ma deve valere
anche per quelli di legittimità, avuto riguardo appunto all’importanza della posta in gioco,
particolarmente elevata in tema di sequestro preventivo, che, come ripetutamente rilevato, colpisce beni protetti dagli artt. 41 e 42 Cost. e 1 Prot. Add. C.e.d.u. ha un contenuto
fortemente afflittivo.
La sconsolata constatazione è che le Sezioni Unite abbiano gravemente compresso i
diritti di difesa e al contraddittorio attraverso una interpretazione costituzionalmente “disorientata” e una forzatura del dato normativo, per dare prevalenza ad esigenze di (presunta)
tenuta del sistema e di funzionalità degli uffici e consentire, così, la decisione congiunta
di decine di ricorsi nei c.d. cameroni, caratterizzati da scarsa (per non dire inesistente)
collegialità e soprattutto dall’assenza degli avvocati, i quali sono evidentemente ritenuti un
fastidioso orpello e non soggetti garanti della legalità del processo.
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
9. Le conclusioni.
Opinioni
Il pur sommario quadro delineato induce a conclusioni sconfortanti.
Appare evidente la insufficienza delle previsioni normative e desta sconcerto la assoluta
mancanza di interventi correttivi nel progetto di legge di modifiche al processo penale
attualmente all’esame del Parlamento (con diktat impeditivi dell’ANM), trattandosi di una
materia nella quale sono coinvolti interessi costituzionalmente e convenzionalmente protetti, che meriterebbero più pregnanti tutele, avuto riguardo al contenuto afflittivo e spesso
economicamente devastante dell’ablazione dei beni.
Questa esigenza dovrebbe ancor più valere in materia di sequestro finalizzato alla
confisca per equivalente, ove è stato reciso qualunque nesso di pertinenza tra il reato e
la cosa sottoposta alla misura ed è quindi del tutto evaporato il presupposto principale
posto a fondamento delle decisioni del giudice delle leggi di rispondenza alla costituzione dell’istituto: e la situazione è particolarmente critica nelle ipotesi disciplinate dall’art.
12 sexies, d.l.306/1992, ove prevede addirittura la rammentata presunzione di illegittima
appartenenza dei beni.
Parimenti, la limitazione del ricorso per cassazione alla sola violazione di legge rende
praticamente impossibile un effettivo controllo della decisione del tribunale del riesame.
Per altro verso va rilevato come la giurisprudenza di legittimità segua itinerari poco
rispettosi dei diritti individuali e abbia eluso anche l’applicazione della pur minimale riforma dell’art. 324, comma 7, c.p.p., vanificando nella sostanza la giurisdizionalizzazione
della procedura, attraverso automatismi applicativi e forzatura degli scarni dati normativi.
Non resta da sperare che qualche giudice sensibile provochi un nuovo esame dei sopra
evidenziati profili di violazione degli artt. 24, 27, comma 2, 42 e 117, comma 1, Cost.: con
la consapevolezza, peraltro che la corte costituzionale pare poco incline alla estensione
delle garanzie individuali.
229