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Vincenzo
Occhipinti
Nel rasoterra delle cose
Dialogo con Teofilo
www.aracneeditrice.it
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Copyright © MMXVI
Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale
via Sotto le mura, 54
00020 Canterano (RM)
(06) 45551463
isbn
978-88-548-9407-5
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’editore.
I edizione: dicembre 2016
Vorrei proprio
abbeverare con la mia luce
il seno smagrito della terra!
Vladimir Majakovskij
All’amato se stesso dedica queste righe l’autore.
Prologo
Se, infatti, uno pensa di essere qualcosa,
mentre non è nulla, inganna se stesso.
San Paolo, Lettera ai Galati 6,3
Duemila anni si distendono tra noi
Duemila anni si distendono tra noi; non blandi ma rocciosi, difficili da intendere e soppesare. Tu: all’origine
degli avvenimenti che si spingono fino a me e tramortiscono.
Misteriosa necessità è questa.
Ogni anno si divora da sé, genera un uguale col proprio tanfo: una favola tanto stupida e intricata, amico
mio, che si stenta a considerarla vera. I trascorsi millenni non sono tuttavia periti invano né totalmente.
Molti ne lodano Dio. Da qui lo stupore, che vince il
panico e lo domina, ma nello stesso tempo suscita una
sorta di sdoppiamento.
Tuo postumo, io. Sono perciò svariati i miei vantaggi
rispetto a te; me li concede la storia, amico: quella megera che parla e si offre, mentre sperpera ricchezze e vite.
Accanto ai problemi nuovi, ecco emergere le antiche
questioni irrisolte. La storia costringe a discernere e a
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cambiar pensiero, per procedere o arretrare tra conflitti di tutti i tipi. La possibilità di riesaminare il tempo
trascorso con gli occhi del presente, è frutto di una maturazione lenta. Così ne approfitto. Non è un privilegio.
Tutti i viventi ne hanno la possibilità, mentre il futuro
resta impenetrabile. Una polvere cosmica, aurea, filtrata dai due millenni passati, è dunque discesa su me e i
miei contemporanei. Ne sono e ne siamo così costituiti,
manifestati e descritti fin nei dettagli. È l’effetto combinato di più agenti: cultura, mentalità, conoscenza, tradizione, impegno personale. È stato così anche per te,
se ti sei rapportato alle epoche che ti hanno preceduto,
quantunque i miei tempi offrano più mezzi per valutare i periodi anteriori. In nessun modo le nostre vite
sono confrontabili. Ciò vale per tutto, in particolare per
le questioni di fede, se si considerano le molte teologie
che si sono sviluppate lungo il cammino, per non dire
delle numerose conquiste scientifiche di cui io mi avvalgo mentre tu no.
Ecco quindi quali sono le mie intenzioni: inizio oggi
un viaggio abusivo e pazzesco. Sulla traccia del Vangelo di Luca, m’inserisco nel tuo tempo, nel sangue di un
popolo. Non già per spiccare un salto indietro a occhi
chiusi, per perdermi in un mondo non mio, ma per
rivalutare ciò che io sono adesso, grazie alla tua epoca,
alla gente di cui tu sei figlio, ai due millenni che mi porto addosso senza merito.
So di osare troppo. Temo che tu ne sorrida; rischio
per di più di smarrirmi in chissà quale labirinto mentale da me stesso costruito. Forzo il pensiero, infatti, e
ne abuso.
Nel rasoterra delle cose
Supponendo e meditando, mi colloco in qualsiasi posto
io decida “Teofilo”1, come un furfante che s’intrufola
in luoghi in cui possa operare facili scippi. Vorrei che il
tentativo si trasformasse in preghiera, per favorire l’approfondimento e il vigore intellettivo.
Non estasi ma affiatamento io cerco con la divinità,
che già mi denomina e mi sostanzia, per evitare fughe
nel niente, cadute in comportamenti senza valore. Sento necessario uno sguardo non vago su ciò che mi deriva dal tempo e dal racconto riguardante un uomo del
quale tu sei testimone e messaggero.
Non so nulla di te. Ti sento tuttavia un amico che sa
capirmi e ascoltarmi per la fede che ci unisce; tu nell’eternità, io nel tempo che mi è dato ancora. Soprattutto,
desidero immaginarmi tra la tua gente, che non può
avere cognizione della mia epoca schizoide, disillusa,
superficiale e smodata in molte sue espressioni.
Il mio fantasticare, abusivo e presuntuoso, esige che
io ti supponga in movimento per le tue strade, non travolto ancora dal rullio degli eventi e dei morti. Io mi
trovo nel tuo futuro, ad arguire e accogliere, dentro l’alone dell’incertezza più totale rispetto a te, nella storia
che sarà, ma non è ancora.
Il tempo ha in sé qualcosa di esagerato e comico.
Possiamo svolgerlo soltanto all’indietro, similmente a
una matassa ingarbugliata, a patto che si scavi nella
memoria e nella conoscenza di tutti, che ci si tuffi nel
liquame dell’avvenuto, con occhi di affogato e mente
infantile.
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L’attraversamento delle epoche è dunque un’assurdità. Ciò nonostante, mi permetto d’incamminarmi e di
procedere deciso, solitario e caparbio, con la certezza
che pure in questo bambinesco tentativo il Creatore si
propone e attua il suo piano. C’è anche il rischio che
io crolli avvilito, schiacciato dall’impresa stessa: per lo
sconcerto dell’esagerata esperienza, per l’impossibilità
a procedere, a somiglianza di un relitto perso nell’oceano, che sbatte d’improvviso contro scogli. Questo può
capitare, sebbene io sappia che al vasto panorama della
storia si aggiunge un sole, capace di annientare il tempo e sgombrare l’universo da ogni stagnante e asfittico
buio. È il fatto saliente, da cui mai mi devo discostare,
unico e fatidico, che tu mi mostri con sollecitudine, mio
buon Teofilo. Nulla è ipotizzabile di più straordinario
e avvincente; è come sospingere la porta che immette
in Dio.
Mi accingo pertanto al viaggio di buona lena, che so
d’iniziare non di finire, approfittando del fatto che noi
uomini siamo esseri smisurati: grazie al cervello pensante e alla spettacolare capacità di astrazione che c’incorona, alla conoscenza e alla fede prospettica.
Tutti viviamo a cavallo di una linea di soglia imperscrutabile e insormontabile: il presente di ciascun
istante. Vi siamo bloccati dai limiti fisici della natura,
non dall’immaginazione né dallo spirito che ci abita e
ci definisce. Occorre tuttavia ammettere che appena
Dio ha il potere di far coincidere i singoli accadimenti
con l’eternità. Questo è il punto di contatto comune a tutti i fatti, il luogo privo di dimensione, senza
prima né poi, dove avvengono la sostanza e l’eccel-
Nel rasoterra delle cose
lenza dell’adesso che viviamo da impotenti. In questo
modo è da intendersi ciò che noi osserviamo un po’
spaventati, nonostante i nostri strepiti: l’attimo che ci
sfugge, ci contiene e si risolve in Dio. Per abbandono,
io percepisco questa dimensione fantastica, ricavandone gioioso tremito e grande stupore. Avendo così
inteso la mia piccolezza, affermo risoluto che soltanto
l’uomo crocefisso assomma e pareggia tutti nei suoi
dolori, evitandoci di essere travolti dai mali che, nel
continuo della vita, ci rendono cagneschi e letali gli
uni verso gli altri.
Sono io pertanto dove voglio e devo essere: stando
però nel rasoterra delle cose, al riparo dai giorni randagi e tremendi. Mi rendo così unico e mi schermo dall’afa, come un anacoreta non dedito alla fustigazione ma
all’ascolto.
Il rischio è mio. Posso anche perdermi come Icaro,
che si affanna verso il sole fino a distruggersi per imperdonabile ingenuità.
Cosicché, ora, io sono nientemeno che il bianco tra
le righe del vangelo di Luca, aritmico quanto il ruzzolare di un masso da un pendio. Assomiglio quindi
a un’ape che scandaglia i fiori, sebbene io non sappia nulla delle arnie e del miele. Liberamente tuttavia
cammino in ogni luogo, ingerendo parole a me desuete, arguendo significati e vedute tra i roseti, intrecciando le narrazioni con l’erba menta e l’agrifoglio.
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