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Giovedì 8 Dicembre 2016
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Lo dimostra la legge di bilancio senza discussione che ha impedito la correzione di errori
Il Senato non è poi così brutto
Lo ha riconosciuto anche il renziano Giorgio Tonini
DI
MARCO BERTONCINI
P
roprio immediatamente
dopo che il referendum,
cancellando la riforma
costituzionale, aveva
confermato il bicameralismo
perfetto in vigore dal ’48, Matteo Renzi ha costretto a un’approvazione lampo della legge
di bilancio, con (solido) voto di
fiducia sul testo uscito dalla
Camera. Indipendentemente
da ogni altra considerazione
politica, sul piano istituzionale
va detto che un simile brutale
procedimento (senza alcun precedente, per quanto riguarda la
legge più importante di un esercizio, un tempo la finanziaria,
poi la stabilità, oggi il bilancio)
conferma la bontà, l’utilità, la
necessità della duplice lettura
dei testi normativi. Infatti questa seconda lettura è stata cassata, così provocando l’assenza
delle correzioni che già erano
previste dovessero passare a
palazzo Madama.
Il presidente della commissione Bilancio al Senato,
Giorgio Tonini (Pd), l’ha dovuto ammettere, esternando
il pessimo umore dei colleghi:
«La commissione ha concluso
esprimendo un sentimento di
rammarico, che devo dire ha
unito tutti i gruppi, ed anche
il governo,» (la responsabilità è
però proprio di palazzo Chigi)
«per non aver potuto effettuare una lettura compiuta del
disegno di legge di bilancio.
Un rammarico accentuato da
due elementi; il primo è che la
seconda lettura della legge di
bilancio è sempre quella più
importante, è quella nella qua-
le il governo, la maggioranza e
le opposizioni scoprono tutte le
loro carte e cercano di produrre
il testo che poi sarà definitivo.
Ricordo infatti che la terza lettura è sempre una lettura semplicemente di presa d’atto. Pertanto in questo disegno di legge
di bilancio ed in questa sessione
di bilancio manca certamente
una parte che avrebbe dovuto
essere il contributo di questo
ramo del Parlamento».
La seconda lettura non
è un ostacolo alla legiferazione: è, invece, un contributo
utile, anzi indispensabile, per
produrre testi di legge che,
per dirla in termini bruschi
ma realistici, facciano meno
schifo di quelli che escono in
prima lettura. Attenzione: non
si dice che le leggi siano scritte
bene quando riescono a passare
attraverso correzioni della seconda Camera; però sono non
di rado meno brutte di prima.
A volte, poi, le correzioni e i ripensamenti sono così efficaci da
eliminare disposizioni che era
opportuno non divenissero mai
legge. Altre volte arriva l’affossamento: se per non poche proposte c’è un danno, per molte
è un vantaggio, anche perché
non c’è bisogno di nuove leggi,
di più leggi, di altre leggi, bensì
di meno leggi, con relativi meno
obblighi, meno impacci, meno
sanzioni, meno burocrazia.
L’aver troncato qualsiasi
revisione della legge di bilancio 2017 (comprese le riscritture sulle quali maggioranza
e governo avevano dichiarato
disponibilità, anche su richiesta delle opposizioni, per approvarle in seconda lettura al
CON RENZI O SENZA, IL PAESE NON PUÒ PIÙ RESTARE COM’È
Le idee di Renzi non sono certo superate
È il renzismo che va accantonato
DI
DANIELE MARCHETTI
C
erto, alla base del clamoroso risultato referendario vi sono i riflessi di
una crisi che ha annichilito l’Italia
e che, in alcune situazioni, morde
ancora: disoccupazione giovanile, disagio
sociale, crisi aziendali che hanno coinvolto interi territori come la Sardegna. Tutto
verissimo e tutto testardamente difficile da
affrontare per qualsivoglia governo. Ma una
cosa appare altrettanto certa: nella inattesa
quanto dura sconfitta di domenica 4 dicembre c’è molto del «Premier ragazzino» di colui
che aveva fatto sognare, sperare, rianimare
anche le situazioni più disilluse di un’Italia ripiegata su se stessa. Dunque, lezione
dura per colui che era divenuto la speranza!
Nei 1000 giorni renziani lastricati di belle
e buone intenzioni, molti sono stati i passi
falsi: l’inelegante defenestrazione di Letta,
la «buona scuola» che, nonostante le molte
risorse allocate e la volontà di assumere tutti
i precari, ha creato un caos mai visto prima,
le inutili forzature su una legge elettorale
-l’Italicum- ormai sconfessata da tutti.
Piccole crepe di un sisma latente con
tre eventi ad elevatissima magnitudo che
hanno minato le fondamenta del progetto
renziano: l’inutile strappo su Mattarella
(che ha portato alla rottura del patto del
Nazareno, al disimpegno di Berluscioni ed
Senato) provocherà inconvenienti e limiti. Sarebbe stato
sufficiente consentire una seconda lettura pur affrettata,
stante gli impegni dei gruppi di minoranza per evitare
a riforme condotte a colpi di maggioranza),
il micidiale decreto salva banche (o, per meglio dire, affossa risparmiatori) e, l’incomprensibile inerzia sulla legge elettorale (che
poteva, con buon senso e l’accordo di molti,
essere rivista prima del voto anche con un,
ben riposto, voto di fiducia).
Furbizia, disarmante approssimazione e sufficienza: peccati che, in politica, inevitabilmente, si pagano e che, sia
altrettanto ben chiaro, non hanno affossato
il progetto di rinnovamento (di Istituzioni,
partiti e classe dirigente) che Renzi ha, per
buonissima parte della sua ascesa politica,
incarnato e di cui l’Italia (Renzi o non Renzi
non potrà fare a meno. Quindi la sconfitta
non archivia la proposta renziana né colui
che l’ha ideata e, per molto tempo, incarnata.
La sportellata archivia (c’è da augurarselo
per lo stesso bene politico dell’ex-Sindaco
di Firenze) il renzismo: quella spocchia che
ha affossato la simpatia e l’empatia con il
popolo italiano.
Non è questione di odio (le parole attribuite al Premier: «Non pensavo che mi
odiasse tanta gente», sono assai eloquenti
sulle difficoltà di analisi) ma di sostanza
politica. L’Italia ha bisogno di essere cambiata. E l’Italia ha ancora bisogno del sogno
renziano, non certo di un «condottiero» (con
o senza stivali).
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ostruzionismi e limitare gli
emendamenti, così da arrivare
alla terza e definitiva lettura
alla Camera prima di Natale.
Ha invece prevalso la smania
dimissionaria del presidente
del Consiglio, quasi indiretta
polemica contro le navette fra
le due Camere da lui (sovente
ma invano) ripresa nel corso
della campagna referendaria.
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LA GIUNTA PIGLIARU (PD) PERDE DUE ASSESSORI, TRA CUI UN COSTITUZIONALISTA SCHIERATO COL SÌ
L’alluvione di No costa cara alla Sardegna
È la regione italiana con la maggiore percentuale di voti contrari al referendum
DI
H
FILIPPO MERLI
a aspettato un paio di
giorni in più di Matteo
Renzi. Poi ha seguito il
suo esempio. E s’è dimesso. L’assessore alle Riforme della
regione Sardegna, Gianmario
Demuro, costituzionalista prestato
alla politica, è stato il primo esponente della giunta Pd presieduta da
Francesco Pigliaru a schierarsi
dalla parte del Sì.
Dopo l’esito del referendum,
con la Sardegna che, col 72,2%, è
stata la regione con la percentuale
più alta del No, Demuro ha deciso di
lasciare il suo incarico. Insieme con
lui se ne va anche l’assessore all’Agricoltura, Elisabetta Falchi, esponente
del partito dei Rossomori che, a sua
volta, è uscito dalla maggioranza. La
crisi regionale è aperta.
«La riforma della Costituzione
non svilisce la nostra autonomia.
Anzi: la specialità di una regione
come la Sardegna esce rafforzata».
Demuro aveva sostenuto con forza il
suo Sì alla riforma del governo Renzi, così come i pezzi grossi del Pd
dell’isola. Dopo la netta affermazione
del No, l’assessore, che era entrato
in giunta come esponente dell’area
dell’ex segretario regionale dei dem,
Renato Soru, ha deciso di farsi da
parte.
«Demuro, alcuni mesi fa, aveva
espresso l’intenzione di tornare al
suo lavoro in Università», ha spiegato
Pigliaru. «In quell’occasione, abbiamo concordato che mantenesse il suo
posto in giunta sino all’accordo sul
rinnovo contrattuale dei regionali, al
piano di reclutamento e al referendum costituzionale». Il referendum
è arrivato. E ha visto la Sardegna in
prima fila nel fronte del No. «Come
da accordi, Demuro ha rinnovato la
sua richiesta, che mi sento impegnato ad accettare», ha proseguito il governatore.
Le dimissioni di Falchi, inve-
ce, sono di carattere più politico. Gli
esponenti del partito dei Rossomori,
sostenitori del No, hanno deciso di
uscire dalla maggioranza di centrosinistra. La quale, secondo loro, non è
più legittimata, dato che Pigliaru era
a favore del Sì. Di conseguenza, ieri
l’assessore all’Agricoltura ha lasciato
l’esecutivo.
«Non nascondo stanchezza e
un certo isolamento in alcuni frangenti difficili, così come, per lealtà,
non ho mai nascosto la mia contrarietà ad alcune scelte operate dalla
giunta», ha dichiarato Falchi a SardiniaPost. Per il suo partito, invece,
«è stata rinnegata una storia di autonomismo, federalismo e quasi indipendentismo. Il presidente Pigliaru
s’è delegittimato da solo appoggiando
il Sì».
Le dimissioni dei due assessori obbligano il governatore a effettuare pesanti correttivi nella sua
squadra, che terminerà il mandato
nel 2019. La maggioranza, da tem-
po, chiedeva a Pigliaru un rimpasto
di metà legislatura per rilanciare
l’azione della giunta. Ora, il cambio
è necessario.
«La grande maggioranza degli
italiani e la stragrande maggioranza
dei sardi hanno dato un giudizio severo e inequivocabile sulla riforma»,
aveva detto il governatore subito
dopo l’esito della consultazione. «Non
posso che prenderne atto, a maggior
ragione di fronte a una partecipazione così alta e appassionata che rivela
anche un malcontento diffuso e la domanda di azioni più incisive».
«Molte riforme importanti le
abbiamo fatte. Altre dovranno essere adottate al più presto. Servono
decisioni immediate e profonde alla
quali lavorerò con la mia maggioranza sin dai prossimi giorni». Poco dopo,
Pigliaru ha incassato le dimissioni di
due assessori e ha perso il sostegno di
un intero partito. Il No è costato caro
al Pd e alla regione Sardegna.
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