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Da un commento della prefatrice Rosa Pierno
Con uno straordinario atto di mimesi, Almerighi fissa con pochi tratti, in uno schizzo a sanguigna,
diremmo, i pensieri di un essere umano inchiodato dal proprio mestiere a una maschera culturale,
a un ruolo subalterno a logiche di potere, ma anche a un destino percettivo. Senza mai cadere in
un ritratto di maniera, senza mai cedere al prestito di uno stereotipo, il poeta restituisce al lettore
un’esperienza umana nitidamente scolpita, mostrando quanto i suoi versi siano il frutto di un
cesello, di un’immedesimazione, di una vicinanza morale all’essere umano ingabbiato, senza
speranze, nelle stritolanti maglie della società contemporanea.
La struttura sintattica, la quale fa galleggiare sostantivi e versi su una superficie rarefatta, patente,
non inclina sul versante della scelta della rastremazione dei mezzi, piuttosto della rarità,
conservando, come primula che buchi neve, la sorpresa della rivelazione. La sintassi franta provoca
salti nella continuità come in un affanno del pensiero. Il senso che si dovrebbe trarre, conseguenza
ferrea di un sillogismo, disegna pertanto lacune nella continuità del tessuto, denunciando
ignoranza e soprusi: “all’inutile pareggio / della dea bendata / preferì una sigaretta”. Il linguaggio
si fa strumento eloquente di differenza, a maggior ragione nell’artificio della voce del poeta,
quando racconti l’esistenza altrui. Immaginiamo, dunque, in questa desolante distanza, che è,
appunto, quella di coloro che non hanno voce, questa doppia cesura, poiché c’è chi gliela presta
con dolorosa afasia. Non è senza costo scendere in simili scavi e pozze dell’umana materia.