Trump presidente: ora il Nafta è a rischio

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VENERDI 11 NOVEMBRE 2016 • CORRIERE CANADESE
4
USA 2016
CANADA
Trump presidente:
ora il Nafta è a rischio
Una marcia anti Trump ieri a Washington
FRANCESCO
VERONESI
TORONTO - La vittoria di Donald Trump porta con sé delle importanti conseguenze anche per il
Canada. Nel programma elettorale del magnate del mattone, infatti, uno dei temi centrali era costituito dalla volontà di stravolgere
completamente le strategie commerciali degli Stati Uniti, a partire
dal Nafta. Il trattato di libero mercato siglato dagli Usa con il Canada e il Messico è stato definito più
volte da Trump come “il peggiore accordo commerciale della storia” e questo - secondo la narrativa del tycoon newyorchese - perché avrebbe contribuito al collasso di numerosi settori produttivi dell’economia americana: chiusura di fabbriche e aziende, perdita di posti di lavoro e indebolimento della crescita. Insomma, un disastro, almeno per il presidente eletto. La proposta, avanzata durante la campagna per la nomination
repubblicana prima e per la Casa
Bianca poi, è stata di eliminare il
trattato unilateralmente e rinegoziarne uno più favorevole agli Stati Uniti.
Ma Trump andrà davvero fino
in fondo a questo progetto, o i suoi
strali contro il Nafta si andranno
ad aggiungere alle tante sparate e
provocazioni destinate a diventare carta straccia? Per ora è assolutamente prematuro cercare di ab-
bozzare una risposta definitiva. In
questa fase di transizione il tycoon ha optato per un profilo basso e
più presidenziale, con l’obiettivo di
spegnere sul nascere le polemiche
e le proteste che si stanno moltiplicando negli Stati Uniti.
Di certo a partire dal prossimo
20 gennaio vedremo quale strada
deciderà di imboccare. Trump ha
già promesso che la sua amministrazione - forte anche della maggioranza di cui può godere al Senato e alla Camera - agirà immediatamente in molti settori chiave (a
partire dalla Sanità con l’abrogazione dell’Obamacare) non appena sarà ufficializzato il passaggio di
consegne con Barack Obama.
Il nostro Paese, ovviamente, avrebbe tanto da perdere di fronte a un Trump che si impunta sul
suo no al Nafta. Gli Stati Uniti sono di gran lunga il nostro principale partner commerciale, con un
export verso gli States che supera
i 280 miliardi di dollari e con importazioni che si attestano a quota
295 miliardi.
Questo continuo scambio di beni è logicamente facilitato e alimentato dall’abolizione di balzelli
e dazi doganali alle frontiere.
Per ora la maggior parte degli analisti giudica poco credibile uno
scenario che vede la completa abiura del Nafta da parte di Washington, mentre diventa più credibile
l’ipotesi di un’eventuale ridiscussione di alcuni punti dell’accordo.
In ogni caso Ottawa nei prossimi
mesi starà molta attenta agli sviluppi a Sud del confine.
Francesco Sorbara
MEMBRO DEL PARLAMENTO
Vaughan-Woodbridge
CALIFORNIA
Silicon Valley, ora scatta la “Calexit”
LOS ANGELES - Dopo la Brexit
è la volta della #Calexit: questo
l’hashtag di tendenza sui social
coniato dai californiani che sognano la secessione dagli Stati Uniti pur di non dover vivere sotto
Donald Trump. Il gruppo Yes California Independence Campaign,
guidato dal 30enne Louis Marinelli, da tempo si batte con questo obiettivo e ha già fissato l’anno del referendum con cui la sesta economia del mondo potrebbe staccarsi dagli altri States: il
2018.
Il referendum che ha sancito il
divorzio tra Gran Bretagna e Ue
e, soprattutto, la vittoria di Trump, stanno dando nuovo impeto al movimento: Shervin Pishevar, pioniere di Uber e co-fondatore di Hyperloop One, ha annunciato su Twitter che promuoverà
una raccolta fondi per l’indipendenza della California.
Pishevar significa anche Sili-
con Valley, l’ecosistema di imprese hi-tech più famoso del mondo
che si è schierato in blocco con
la candidata democratica, Hillary
Clinton, garantendole supporto
e finanziamenti. La Valley a sud
di San Francisco sperava di mantenere quella linea diretta con la
Casa Bianca inaugurata e consolidata sotto Barack Obama.
La disfatta della Clinton, che in
California ha ottenuto il 61,5% di
consensi, rappresenta, una sconfitta cocente anche per l’industria digitale californiana che aveva fatto piovere fondi sulla campagna democratica. A iniziare
da Google che ha donato 335mila dollari solo da agosto a ottobre.
E non è il solo. L’amministratore delegato di Apple, Tim Cook,
ha donato personalmente 50mila
dollari, mentre il co-fondatore di
Facebook Dustin Moskovitz e sua
moglie Cari Tuna hanno recapitato a Hillary un post di sostegno
8633 Weston Road, Suite 6A
Woodbridge, Ontario
L4L 9R6
20 milioni di dollari. Altri 40mila
dollari sono arrivati dal fondatore
di Linkedin Reid Hoffman. Il Ceo di Airbnb, Brian Chesky, ha versato 10mila dollari, Reed Hastings di Netflix 40mila. Gli stessi nomi figuravano in calce a una lettera firmata da 140 imprenditori
e manager della Silicon Valley e
pubblicata lo scorso giugno in cui
si criticava l’approccio di Trump.
Contro Trump non c’è solo l’elite dell’industria digitale, ma anche le generazioni più giovani di
californiani che da mercoledì sera sono scese in strada per manifestare agitando cartelli con su
scritto "Not my President". Un
mondo eterogeneo di studenti, afroamericani, latinos e "arrabbiati" vari che ha trovato una saldatura nella contestazione del presidente appena eletto e a cui Yes
California, presente alle proteste,
si candida ad offrire un ombrello
politico.
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