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Punctum, cosa vuol dire? Forse sorprendentemente questa comunissima quanto poco studiata
parola latina deriva dal verbo “púngere” e denota precisamente quel minuscolo forellino ottenuto
dall’introduzione di uno strumento acuminato in una superficie continua; da questo, per
estensione, punctum diventa il segno minimo, lo spazio ultimo ottenuto attraverso la scrittura
(punto di posa) oppure, sul piano concettuale, il termine estremo della linea matematica, la figura
priva del tutto di estensione geometrica e quindi “minimo” nello spazio ma anche nel tempo,
istante, attimo, grandezza tanto piccola da risultare indivisibile.
Ora, qual è il punctum di Tomaino ? per tentare di rispondere con un minimo di pertinenza, è
opportuno tornare un momento ancora al lessema di base, largamente condiviso nelle lingue
romanze ma non solo (it. punto – franc. point – ingl. point – ted. Punktum – spagn. punto); da esso,
infatti, si schiude un campo semantico specialmente ricco di modi avverbiali, come “il punto della
situazione”, “fare il punto”, “mettere i puntini sulle i”, “a che punto…”, “di tutto punto”, “il punto
della questione”, “punto dolente”. È questa ricchezza, forse, questa abbondanza di locuzioni che
mi sembra abbia incrociato i bisogni espressivi e catturato l’attenzione dell’artista ligure,
apparentemente così poco “puntuale” e sensibile a ogni precisione perentoria e pungente, quasi
dogmatica e ai limiti dell’immateriale. Almeno così potrebbe pensare facilmente chi abbia in
mente la sua esuberanza vitalistica di forme, la sua quasi sistematica irregolarità e varietà di
materiali, oggetti, tecniche ed elementi, il suo lirico e frequente piacere della contaminazione, la
sua delicata e, talvolta, amara ironia, la sua calviniana e poetica leggerezza di sguardo e di
pensiero. Cosa c’entrano, ci si potrebbe chiedere, con tutto questo i punti, anzi un solo e più aulico
punctum ?
C’entrano perché si tratta del cuore, del nocciolo di una questione, irrinunciabile e sempre
ricorrente, che è quella del fare arte e di presentare un nuovo ciclo di lavori dopo la lunga
permanenza nelle alte quote, cadenzata, fra l’altro, dalla grande installazione (dodici sculture)
posta lungo il decumano di EXPO 2015, e di molti altri interventi di primaria importanza e visibilità
pubblica.
Punctum, allora, ha anche a che fare con un ritorno in studio, con un movimento nuovamente
centripeto necessario per ritrovare uno spazio di riflessione, concentrazione e libera ispirazione,
propedeutico al nuovo e differente slancio creativo ed espansivo di cui oggi raccogliamo i frutti
con questa mostra e con questo nuovo ciclo di lavori fondato soprattutto sull’immagine della
barca, sulla prevalenza della carta vetrata usata come anomalo, ma sensibile, supporto per
l’intervento pittorico, e, forse l’aspetto più appariscente, sulle stesure tono su tono, opaco su
lucido, smalto su mat ma sempre rosso su rosso, nero su nero; stesure raffinate, intense, tattili.
Questo punctum è un po’ come il moto del mare, tanto amato da Tomaino, la sua perenne
alternanza di flusso e riflusso. Ma è un punctum che rappresenta anche quelle unità, quelle fragili
e luminose biglie di vetro rosso che sembrano affollarsi sul fondo della grande imbarcazione
supina proposta oggi nell’esposizione varesina, una barca di ferro vivo, spezzato ed eroso dalla
ruggine tanto da lasciar intravedere il suo prezioso contenuto di lucenti singolarità in pericolo.
Come si può immaginare, infatti, contenitore meno adatto per tante preziose e delicate biglie
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trasparenti ? Tomaino ha dimostrato in più occasioni il suo amore per il vetro ma è forse adesso,
qui, che l’utilizzo sensibilissimo di questo materiale gli ha permesso di raggiungere un climax
poetico e quasi drammatico nel contrasto fisico dei due corpi (entità di ferro ed entità di vetro) e
l’insistenza sulla specificità individuale delle singole sfere (punctum, infatti) che pure, insieme,
fanno massa. Guardarle, nominarle significa anche insistere sulla presenza, sui singoli destini di
quegli innumerevoli profughi che sembrano evocati “in trasparenza” nell’installazione scelta e
realizzata oggi da Tomaino, e che in frotte pronte a dissolversi in un atroce e disumanizzante
anonimato affollano come non mai il nostro mare; e il suo.
L’artista ligure agisce, naturalmente, a diversi livelli; come ha sempre fatto. Il suo rapporto con lo
spazio pubblico, che è, come dire, un po’ il rapporto fra dentro e fuori, fra intimità e esteriorità, fra
raccoglimento e impegno (o responsabilità), questa dialettica è specialmente congeniale a
Tomaino, anzi forse gli è indispensabile perché costituisce l’essenza e al tempo stesso
l’espressione del suo “umanesimo”, della sua sensibilità, di quel principio antico di adesione
all’uomo e ai suoi valori che oggi si trova più assediato che mai, stretto fra l’assalto di una
tecnologia automatica e totalizzante e un egoismo collettivo auto-difensivo e accecante. L’artista,
da vero artista cioè da visionario, reagisce a tutto questo generis sui, rompendo schemi e categorie
attraverso dispositivi molto efficaci e spesso semplicissimi, “specchi” come li aveva definiti in
un’intervista di qualche tempo fa, in cui forse qualcuno può incontrare qualcosa di se stesso.
Specchi, in realtà, non alla lettera ma per metafora: oggetti come il Cimbello o la mano o il
cavalluccio a dondolo, grandi oggetti in lamiera rossa smaltata e squillante, spesso installati non
solo come monumento ma anche come gesto e come simbolo in tante piazze e spazi italiani, sono
segnali imprevisti e sorprendenti, di estrema, quasi infantile semplicità e, proprio per questo,
dotati di più intensa forza di appello e di comunicazione.
Perché anche ai luoghi può capitare di essere morti, anzi di diventarlo. Caserme abbandonate,
sottopassaggi, condomini stretti fitti gli uni agli altri, assiepati sulle colline. I luoghi muoiono
quando alla cura dei loro abitanti sopraggiunge il deserto del degrado, dell’abuso, dell’incuria,
della disperazione. Tomaino, per fare il punto, è tornato a dimorare nel suo monumentale e
accogliente studio ma ora, e nel corso degli anni, ha amichevolmente compiuto innumerevoli
incursioni verso luoghi morti per prendersene cura, per restituire loro un’esistenza nuova nell’arte.
Per questo e con questa attitudine oggi, allo stesso modo, il suo indispensabile mare, il mare sullo
sfondo dei suoi sguardi e pensieri, delle sue musiche e dei suoi raccoglimenti, del suo sapere e
della sua sintassi espressiva, accoglie anche le tragedie della cronaca che sono le tragedie delle
coscienza contemporanea con un respiro, al tempo stesso, etico e drammatico.
In quelle biglie rosse precarie e accecate dalla luce, assiepate sul fondo del relitto come semi in un
baccello, non possiamo che riconoscere il nostro riflesso, che suscita forse una domanda. La storia,
il presente, noi stessi ? Tomaino non risponde, propone. Ma non c’è solo questo: la ricchezza visiva
delle sue installazioni e, in generale, delle sue opere, produce anzi un continuo gioco di
compresenze, un inafferrabile slittamento di senso e di toni, oltre che di modi e di materiali,
preferibilmente poveri, dal cartone alla ruggine, dalla latta al catrame, dal bitume alla carta
vetrata, e recuperati in un mondo portuale che vive di tradizioni antiche e di industria pesante, di
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portolani e di marinai di coperta, di fonditori, trivellatori, intrepidi operai, signori del cantiere
nautico, e di intramontabili capitani di ventura.
Sperimentatore inarrestabile, Tomaino alterna metodicamente e instancabilmente azioni
pittoriche e interventi plastici, lavori sulla superficie e nello spazio e ancora, più profondamente,
contamina il senso della superficie con gesti da scultore e concepisce le sculture come sagome,
come quinte piatte che con la loro presenza, apparentemente ingenua e ingombrante,
interrompono la continuità amorfa dello spazio, sbarrando il corso dello sguardo.
Il gusto dell’interruzione, dell’interferenza, in una parola dell’assemblage, appartiene da sempre
all’artista ligure il cui percorso, non a caso, si è aperto nei pressi dell’arte povera, si è avvicinato
poi alla frangia più vivace ed eclettica della Poesia Visiva, ha frequentato sciamanesimo e alchimia,
soprattutto nella versione toccante e ispirata di Claudio Costa (il geniale e trascurato inventore del
Museo delle Forme Inconsapevoli) e, in buona sostanza, si è mosso tutto sotto l’ala lunga di dada
come riconoscono infatti alcuni critici di grande perspicacia e intelligenza che hanno intercettato
Tomaino nel pieno del suo slancio, in particolare Flaminio Gualdoni, Tommaso Trini e Bruno Corà.
Dada, ricorda Gualdoni, che non vuol dire niente ma forse anche la cosa che Tomaino ha incarnato
in un simbolo fra i più ricorrenti del suo repertorio, il cavalluccio a dondolo: esso torna anche oggi
in diverse opere accanto a barconi e bastoni (Come può il mare….), oppure incaricato di sostenere
la grande giostra dell’arte, nei suoi sentieri paralleli popolati da quelli che Tomaino considera “i
suoi”, da Beuys a Giotto (O stagioni, o castelli).
Dada, per l’artista ligure, è uno spazio operativo senza connotazione, quasi senza appartenenza; è
la soglia oltre la quale è permesso pensare in grande, in una dimensione di “arte totale”, un po’
com’è stata quella di Pinot Gallizio che dipingeva le autostrade e gli ambienti interi e i liguri (quelli
preistorici) li scovava nelle selci immerse nella terra fibrosa delle sue colline. Un luogo, insomma,
un luogo per il corpo e lo spirito dove è permesso lasciar deflagrare la propria memoria,
mantenere il contatto con la propria fanciullezza ma anche l’indignazione del presente, dei grandi
fatti che attraversano il mondo e la nostra coscienza; ed è anche permesso immergersi nel rosso
caldo e vivace come un giocattolo, ostentare una patinatura piatta e “semplificata” della forma, un
linguaggio quasi infantile, una bulimia del fare e dell’aggiungere che accorda spontaneamente
Calvino e Beuys, saggezza popolare e ritmi sincopati, ironia e leggerezza, un tratto un po’ da poeti,
un po’ trasgressivi, un po’ menestrelli e un po’ incantatori di serpenti marini.
Tempo addietro, nel 2009, in un’installazione fra le più affascinanti e coinvolgenti di tutta la sua
produzione, Tomaino aveva trasformato in forme luccicanti le parole di una vecchia locuzione
popolare, le stesse che Fabrizio De André aveva tradotto in versi e suoni poco prima. Le acciughe
fanno la palla è una scintillante ed effimera sfera di guizzanti carte stagnole sospese in aria,
memoria delle tradizioni di pesca e della conoscenza del mare, dove l’uomo plebeo e saggio,
munito di una semplice rete, contendeva il bottino ad alalunghe e tonni; è uno straordinario
quanto umile omaggio al senso della vita condotta da sempre su quelle rive di sassi e di canti, di
temporali e di rottami, di attese pazienti, di notti stellate come il riflesso di quei pesci di latta.
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È sempre il mare, il mare che ricorre oggi, più plumbeo e antropomorfo, stratificato di pittura e di
catrame, denso di forme inquietanti, fantasmi bellicosi in una notte oscura, dalle striature liquide e
colanti, che la attraversano come solchi o ferite….. il mare è malato e Tomaino se ne prende cura,
così come si prende cura del paesaggio con mani semplici e sagge, con cavallucci e pescetti
trasformati in monumenti a quella parte dell’uomo che tanti uomini stanno buttando via. Ma
niente paura: il mare la restituirà un giorno, la getterà a riva come un vecchio tronco o un reperto
di qualche tempesta; e Tomaino sarà lì, sulla spiaggia, a raccoglierla
Martina Corgnati
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