Etty Hillesum, un`“anima millenaria”

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Transcript Etty Hillesum, un`“anima millenaria”

Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Kasparhauser
Quel che resta dell’utopia
A cura di Giuseppe Crivella
Numero 14, anno 2016
1
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Kasparhauser
Quel che resta dell’utopia
A cura di Giuseppe Crivella
Numero 14, anno 2016
Rivista di cultura filosofica. Redazione: Marco Baldino, Guido Cavalli, Giuseppe Crivella,
Jacopo Valli.
Si ringraziano per la collaborazione il Professor Jean-Jacques Wunenburger e il Professor
Flavio Piero Cuniberto. Tutte le traduzioni dal francese sono a cura di Giuseppe Crivella.
Pubblicazione on line protetta dal diritto d’autore. La distribuzione avviene a mezzo rete
ed è gratuita. Non è consentita la commercializzazione del materiale qui raccolto.
Kasparhauser ISSN 2282-1031
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Indice
INTRODUZIONE
La luminosa oscurità dell’utopia
4
Capitolo 1 UTOPIA. I SIGNIFICATI E LA STORIA
…Iam inde ab initio descriptam ab ipso Utopo
ferunt
I.2 Utopia o Eu-topia?
I.1
I.3.
Eutopia e disincanto
16
19
23
Appendice 1
Raymond Ruyer
«L’an 2440» di Mercier
33
Capitolo 2 DIALETTICA DELL’UTOPIA
II.1
II.2
Il futuro come patologia del presente
Progettare (e amministrare) l’incubo
III.2 L’ingranaggio e la pagina
40
39
50
Appendice 2
Jean Baudrillard
Utopia delle immagini, atopie del reale
58
CONCLUSIONI
Instabilità e longevità dell’utopia
67
Appendice 3
Flavio Piero Cuniberto
Dante e i luoghi, e il luogo-che-non-c’è. Dalla
Commedia al De Vulgari Eloquentia
Jean-Jacques Wunenburger
Variazioni su di un non-luogo
3
74
89
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
INTRODUZIONE
La luminosa oscurità dell’utopia
Che l’urgenza di una approfondita ridefinizione del
concetto di utopia e del suo doppio deforme — la distopia
— si stia affermando con sempre maggior chiarezza in questi
nostri tempi così difficili è indicato forse da un semplice
episodio di cronaca: il nucleo portante del plot dell’ultimo
libro di Houellebecq, Soumission1 letto da una prospettiva
eurocentrica appare come una proiezione violentemente
disforica, là dove, rovesciando semplicemente il punto di
vista, quello stesso plot colto dalla visuale di un attivista
dell’Is, o di un islamico integralista, risulta come una
prognosi ad altissimo contenuto utopico.
Congenita alla Modernità, l’utopia ha cambiato volto e
funzione più volte, entrando spesso in crisi, richiedendo in
più di un’occasione un’opera di riformulazione non solo
semantica ma anche e soprattutto concettuale e speculativa.
Il fatto che essa non sia solo il portato ottimistico di una
immaginazione lanciata verso una progettualità che spazia
nel futuro forse perché conculcata nel presente, ma sia
anche fortemente compromessa con sistemi di potere che
viziano e condizionano dall’interno quella stessa
progettualità, dimostra che l’utopia ancora oggi si impone al
nostro sguardo come un complesso e controverso
dispositivo politico — e forse velatamente ideologico — che
necessita di una approfondita conoscenza per essere
utilizzato in modo virtuoso o, almeno, per non essere
vittima, nel momento in cui lo si mette in pratica, di
deformazioni e manipolazioni strumentali.2
1
M. Houellebecq, Soumission, Flammarion, Paris 2015.
Va detto che in effetti l’urgenza di una rimodulazione concettuale del
tema dell’utopia era stata perfettamente colta e analizzata già nel 1950
da Raymond Ruyer in R. Ruyer, L’utopie et les utopies, PUF, Paris
2
4
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
L’utopia allora appare come un mezzo di conoscenza
del presente proiettato nel futuro, ma anche come un
mezzo di trasformazione del presente in vista di un futuro
che rischia semplicemente di confermare lo stato attuale.
Presente e futuro in seno alla progettualità aperta
dell’utopia si scambiano spesso il posto: se il primo sembra
essere ciò che il secondo prevede di scalzare, è vero anche
che il secondo a volte non è altro che una proiezione
concreta di determinate tendenze che il primo contiene allo
stato latente e che i gruppi di potere puntano a realizzare in
un avvenire non troppo lontano, facendolo apparire come
una dimensione utopica di miglioramento e di progresso
generale e collettivo.
L’utopia pertanto con sempre maggior precisione ha
rivelato soprattutto durante il secolo breve un volto d’ombra
prima sconosciuto e del tutto insospettabile, un volto
d’ombra da cui essa non è separabile in modo netto e
definitivo, ma piuttosto le appartiene come una tara
genetica che deve essere conosciuta e isolata, per non
esserne schiavi inconsapevoli.
Il nostro lavoro si muove proprio secondo questo
doppio asse di analisi che abbiamo cercato di enunciare già
in queste poche battute di apertura. Riprendendo con
beneficio di inventario uno storico lavoro di Koselleck sulla
società borghese3, da una parte abbiamo voluto mettere in
luce la prima delle nostre linee di ricerca, ovvero quella che
punta ad una disamina il più possibile ravvicinata degli
elementi di crisi alquanto marcati e ineludibili che l’utopia
ha manifestato negli ultimi cinquant’anni, dall’altra
intendiamo invece abbozzare una sorta di Critica della
utopia pura finalizzata ad evidenziare con particolare
1950. Nel 1979 il discorso viene invece ripreso da J.J. Wunenburger,
L’utopie ou la crise de l’imaginaire, Paris 1979.
3
R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, Il
Mulino, Bologna 1972.
5
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Quel che resta dell’utopia
chiarezza quegli aspetti che ancora oggi sembrano essere
essenzialmente immuni da ogni forma di patologia.
Sarà pertanto muovendoci in questo doppio ambito, in
questo territorio scisso solo per motivi di analisi ma in realtà
estremamente unitario, che faremo inoltre emergere un
secondo, ma non secondario, tema di indagine, ovvero
quello della distopia. Ci sembra utile precisare già da ora un
dato assolutamente pregnante della nostra impostazione: a
fronte di altri lavori che si soffermano sulla coppia ordinata
utopia/distopia e che tendono a vedere questi due fenomeni
in una relazione di interdipendenza paritetica, noi abbiamo
scelto invece di porre l’utopia al centro dell’attenzione,
collocando piuttosto la distopia in una posizione non di
ancillarità, ma di derivazione rispetto alla prima. Ciò accade
perché la nostra lettura si addenserà in primis intorno ai
problemi specifici che hanno colpito l’utopia portandola ad
uno stato di crisi da cui crediamo la distopia si sia separata,
quasi per una forma particolare e aberrante di
partenogenesi, andando ad occupare — o forse a creare —
un posto alternativo e parallelo a quello prima occupato in
modo totalizzante dalla utopia.
Crisi e critica indicano dunque una doppia prospettiva,
cioè una sorta di intestina bifocalità che un lavoro
sull’utopia per forza di cose deve esplicitamente esibire al
fine di mostrare non solo la pregnanza ermeneutica che la
stessa utopia possiede nei confronti del presente, ma anche
e soprattutto allo scopo di smascherare quel fosco portato
di condizionamenti, quello strano e spesso trascurato
doppio fondo di elementi disforici che una proiezione
utopica contiene in sé forse senza esserne pienamente
consapevole.4
4
Su questo cfr soprattutto il lucidissimo studio di Wunenburger, in
parte la terza sezione intitolata Les trois voies de l’imagination
utopique, J.J. Wunenburger, L’utopie ou la crise de l’utopie, Delarges,
Paris 1979, pp. 165-224.
6
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Quel che resta dell’utopia
La distopia quindi non va intesa qui come una sorta di
parallelo negativo della utopia; essa si configura in questo
lavoro come una sorta di riflesso deviato e deviante che
l’utopia possiede in sé, come una sorta di tendenza naturale
a secernere una prospettiva negativa sul futuro, ove però le
sue compromissioni con il potere vengono smascherate e
denunciate con forza, invece di essere celate in una
strutturazione falsamente euforica.
Utopia e distopia si dividono il campo della riflessione
politica mostrando come esse possono risultare a volte
decisamente permutabili non tanto sotto il profilo della
progettazione di un futuro più o meno immaginario, quanto
piuttosto sotto un altro punto di vista che di solito rimane
colpevolmente implicito: esse aprono il discorso sulle forze
effettive che spingono il soggetto a immaginare e a
progettare; esse, inquadrate in un discorso come il nostro,
sono dei terminali analitici da cui è possibile dedurre una
diagnosi socio-politica che invece di risolversi
semplicemente in una dimensione astrattamente
prognostica, ricade in modo strenuamente analitico sul
presente sezionandolo dall’interno, rivelando quale sistema
di potere opera sottilmente in esso spostandosi lungo un
reticolo sotterraneo di condizionamenti che non hanno
altro scopo che quello di conservare lo statu quo pur
invitando a sognarne altri.
Che l’utopia abbia decisamente e definitivamente ormai
mutato statuto epistemologico è un dato di fatto,
testimoniato da una serie di fenomeni che cercheremo di
mettere in luce nelle pagine seguenti. Qui, in sede di
introduzione, però ci preme soffermarci soprattutto su un
aspetto che dimostra appunto quanto lo statuto e la
funzione della utopia si sia modificato rispetto all’immagine
che essa aveva nella prima metà del Novecento: chiudendo
uno dei suoi testi più importanti, Spirito dell’utopia5, Ernst
5
E. Bloch, Spirito dell’utopia, a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti,
La Nuova Italia, Firenze1964.
7
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Quel che resta dell’utopia
Bloch parlava dell’utopia definendola gnosi rivoluzionaria6,
prospettandone cioè un profilo complesso perché spinto sia
nella dimensione prettamente conoscitiva — conoscitiva
cioè dello stato presente, dell’attualità in cui il pensiero deve
farsi strada per postulare un possibile dotato di margini di
realizzabilità — sia nella dimensione intensamente attiva,
propositiva, fattiva, costruttiva, orientata quindi verso una
ulteriorità del tempo che non sia solo mera prospezione
immaginaria, ma progetto concreto, disegno reale di una
possibilità che aspetta solo di essere messa in atto.
Ma che cosa rimane oggi di quella tensione conoscitiva,
di quella duplice istanza che Bloch vedeva come
fisiologicamente coniugata nella idea di utopia? Di
quell’espressione è soprattutto il plesso rivoluzionario che
sembra essere entrato definitivamente in crisi, o forse
semplicemente si è rivelato fatuo e pretenzioso,
astrattamente sbilanciato verso un’idea di contestazione per
cui i tempi non sembrano essere mai maturi, per cui le
società e gli attori sociali non sembrano essere mai pronti.
La gnosi rivoluzionaria dunque si è dimostrata inefficace,
inconcludente, inattuabile. Ma soprattutto essa si è rivelata
incapace di produrre un quadro d’analisi e d’azione che
ostentasse linee di attendibilità a lungo raggio. Inutile dire
che il programma di Bloch, per come si è venuta a
configurare la filosofia del Novecento, non poteva non
trovare problemi di realizzazione, afferenti non solo al polo
della rivoluzione, ma anche e non secondariamente a
quello della gnosi.
Pensiamo solo per un attimo all’impatto che la teoria
critica dei francofortesi e il decostruzionismo francese
hanno avuto in ambito sociologico e la risposta sulle cause
del fallimento del disegno blochiano non tarderanno ad
6
Ivi, p. 321. L’espressione è tratta dalla Avvertenza del 1934, quasi
un’appendice aggiunta in seconda battuta non tanto all’intero testo,
quanto all’ultimo saggio di esso, quello non a caso dedicato a Marx e
intitolato Karl Marx, la morte e l’apocalisse.
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Quel che resta dell’utopia
arrivare: l’aspetto conoscitivo non può non entrare in crisi
nel momento in cui ci si rende conto che la prospettiva da
cui questo affondo viene portato avanti rischia di essere
compromesso in larga parte con quelle strutture — di potere
e non solo — che esso dovrebbe contestare e tentare di
rovesciare. Ma anche l’accenno ad una esplicita
immanentizzazione dell’intento rivoluzionario — non è un
caso infatti che Bloch parli a chiare lettere di gnosi —
designa un postulato speculativo che nel corso del
Novecento si è venuto a definire con caratteri sempre più
problematici. Le religioni della politica, le forme di
secolarizzazione più o meno riuscite durante il secolo breve
hanno messo in luce quanto sia difficile progettare il futuro
senza che questo sia contaminato da una sorta di
escatologismo latente e deformante, da cui il pensiero
umano sembra non riuscire a congedarsi in alcun modo. La
gnosi diventa forzatura, deformazione o esclusione di una
propensione progettuale spuria — a metà tra immanenza e
trascendenza — da cui i soggetti non sanno allontanarsi e in
cui la dimensione politica appare profondamente e
vitalmente invischiata. Leggere l’utopia oggi come gnosi
rivoluzionaria significa allora formulare una utopia alla
seconda, una utopia dell’utopia, una utopia che prescriva
non solo una certa idea di futuro da attuare in un tempo
sostanzialmente imponderabile e indefinibile, ma che
preformi una certa deontologia epistemica alla stessa idea
di utopia, senza però prendere in considerazione il fatto che
tale deontologia non riesce ad instaurare un dialogo
fecondo con tutti quegli aspetti e quei problemi che
contaminano dall’interno l’utopia rendendola inefficace,
disinnescandola, lasciando che essa mimi soltanto le
movenze di un progetto politico, il quale quindi ha la
funzione di dissipare, piuttosto che di realizzare, le istanze
di rinnovamento.
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Quel che resta dell’utopia
Non è allora un caso che i curatori dell’edizione italiana
di Spirito dell’utopia, nella densa Nota critica posta in
appendice del volume, osservino con grande acume:
Lo spirito utopico è apocalittico e quindi concreto, mentre lo spirito
borghese è astratto e sovrannaturale. Nella società borghese il rapporto
individuo specie è invertito e gli uomini non sono che le maschere
caratteriali di questa inversione. L’apocalisse della filosofia utopica svela
le maschere, libera l’uomo da tutte le maschere sociali e politiche, lacera
penetrandola
l’apparente
impenetrabilità
della
coscienza
necessariamente falsa, pone l’individualità vivente contro la propria
maschera di carattere, il lavoro contro il lavoro salariato, la libera volontà,
il vero volto della volontà contro la libera volontà spezzata su cui si basa
la democrazia borghese [...]. Apocalisse è la rivelazione della coscienza
necessariamente falsa – e quindi del soggetto utopico – che avviene oggi
attraverso il pensiero cosiddetto negativo.
7
L’utopia qui appare non solo apocalittica ma anche
ascrivibile unicamente a quel filone proprio del Novecento
che viene denominato pensiero negativo e che nessuno
meglio di Cacciari ha tratteggiato in un testo degli anni ‘708,
insuperato e insuperabile quanto a chiarezza esegetica e
vastità tematica.
Non potendo per ovvi motivi soffermarci su questi
problemi, vogliamo qui puntare la nostra attenzione solo
due elementi che riteniamo imprescindibili: la natura
apocalittica della utopia indica che essa da una parte, più
che disegnare possibilità future, smonta il presente
facendolo apparire nella sua falda interna di forzature
ideologiche e costrizioni politiche; dall’altra l’utopia rivela
ora una vocazione problematizzante che la porta quasi a
sognare la fine della storia, la cessazione di uno sviluppo
funesto e deformante. L’apocalisse qui pertanto va intesa
nella sua accezione: etimologica, ovvero come rivelazione
della tare specifiche e storiche proprie della situazione
presente, derivata dalla riflessione sulla fine dei tempi e
dunque intesa quale apertura progettuale ad una alterità e
7
8
E. Bloch, Lo spirito..., cit., p. 329.
M. Cacciari, Krisis, Feltrinelli, Milano 1978.
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Quel che resta dell’utopia
ulteriorità della storia che però non conosce che margini di
definizione alquanto sfumati e nebulosi.
Lo sforzo della nostra lacerata post-modernità sembra
allora essere quello di pensare e interrogare una utopia
negativa, una utopia che innanzitutto faccia i conti con la
propria fine e con i problemi che l’hanno condotta a questo
esito; in secondo luogo tale utopia negativa deve essere una
utopia che si ponga dinanzi al presente cogliendolo come
un compito aperto o, come avrebbe detto Weber, come
una unendliche Aufgabe, come un compito infinito che
quindi non può essere mai evaso o ultimato, ma ripreso
ogni volta da capo al fine di chiarirne con sempre maggior
risoluzione critica le disfunzioni che lo rendono inadeguato
nella sua configurazione a rispondere alle esigenze plurali e
eterogenee della situazione storica.
Apocalisse, pensiero negativo e fine dell’utopia si
impongono in fine al nostro sguardo come le tre coordinate
cartesiane che avremo l’obbligo di mettere in campo e di
far reagire l’una con l’altra nel corso del nostro lavoro. Se
le prime due sono state, seppur brevemente, già introdotte
e inquadrate nelle poche battute qui sopra, la terza ancora
non ha trovato finora una esplicazione piena. Con la
formula fine dell’utopia naturalmente non possiamo che
riferirci al noto testo di Marcuse, pubblicato in Germania
nel 1967. Se per Bloch si trattava di rifondare e rimodulare
dalle fondamenta il concetto di utopia, saldandolo ad una
serie di nuovi apporti emersi nel corso del Novecento, per
Marcuse la riflessione intorno a quella stessa nozione
assume caratteri completamente diversi, non di
rimodulazione tematica ma di esplicito e necessario
congedo.
Nella precisa, chirurgica relazione iniziale dell’autore,
due sono i punti chiave che a nostro giudizio non possono
in alcun modo essere trascurati. Marcuse li espone nel
seguente modo:
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
1) questa fine dell’utopia, e cioè il rifiuto delle idee e delle
teorie che si sono ancora servite di utopie per individuare
determinate possibilità storico-sociali, oggi possiamo anche
concepirla come fine della storia; nel senso cioè [...] che le
nuove possibilità di una società umana e del suo ambiente
non possono più essere immaginate come prolungamento
delle vecchie, né essere pensate nel medesimo continuum
storico, col quale anzi presuppongono una rottura.
2) io credo che si possa parlare di utopia solo quando […]
un progetto di trasformazione sociale si trova in
contraddizione con leggi scientifiche realmente determinate
e determinabili. In senso stretto solo i progetti di questo
genere sono utopistici, vale a dire extra-storici.9
In questi due punti è sintetizzata la originalissima pozione
di Marcuse che, distanziandosi come sempre maggior
chiarezza dalla teoria critica dei francofortesi, arriva a
conclusioni che lo portano ad escludere quasi l’utopia da
ogni riflessione di carattere politico. Per Marcuse è
utopistico un disegno che rechi già in sé ab ovo le marche e
le tare della propria irriducibile irrealizzabilità. Il secondo
punto che abbiamo trascritto afferma infatti a chiare lettere
come sia utopistico un progetto che incontri delle
limitazioni non solo politiche, ma scientifiche, ovvero
latamente materiali e quindi inoltrepassabili. Ciò situa tale
forma di utopia in una latitudine extra-storica, ma
potremmo dire tranquillamente meta-temporale, facendole
assumere i tratti di una sorta di fantascienza il cui compito
non sia quello di proporre una alternativa valida allo stato
presente, ma di mostrare quasi lo stato presente come
alternativa valida ad ogni proiezione chimerica della
fantasia.
9
H. Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Roma 1968, pp. 9-11.
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Quel che resta dell’utopia
Più problematico risulta invece il primo punto. Mentre
nel secondo l’utopia viene derubricata come una fuga
nell’irrealizzabile, nella prima osservazione la fine
dell’utopia sembra essere legata ad una serie di reiterate
sconfitte che quell’idea ha subito. In effetti l’affermazione
di Marcuse contenuta nel punto uno appare da un lato
come la ratifica definitiva di una insanabile incapacità
prognostica della utopia a immaginare e a progettare il
futuro, dall’altro lato come la constatazione che tale
incapacità è dettata da una compromissione inapparente
che l’utopia conserva con le forze e i poteri da cui deriva e
da cui avrebbe dovuto sganciarsi.
È chiaro che, letta sulla base di questa duplice matrice,
il concetto stesso di utopia è portato ad implodere e a
dissolversi. Se essa non può intrattenere alcun tipo di
rapporto con il mondo presente, dove essa potrà trovare
radicamento? La necessità di rescindersi da ogni situazione
attuale rende l’utopia non solo inefficace, ma assolutamente
informulabile. Una utopia, per Marcuse, è una proiezione
che reca in sé tutte le tare storiche e sociali della condizione
materiale che la produce. L’utopia, in tal senso, non
progetta il futuro, non sogna un altrove della storia, ma
semplicemente si limita a produrre a fianco della realtà una
dimensione di fuga che trasfiguri i problemi che l’hanno
generata.
Progettare quindi, continua Marcuse, è sganciarsi da
ogni tipo di prolungamento che saldi la tensione verso il
futuro al presente. L’utopia pertanto, proprio perché è
incapace di tale congedo, rappresenta una forma di
dissipazione delle energie positive di affermazione del
nuovo, una forma di fuga che ricolloca quelle energie al
servizio dei poteri che puntano al mantenimento dello stato
presente. Se l’apocalittica blochiana, come visto, faceva
ricadere polemicamente l’utopia su ciò che l’aveva
provocata, Marcuse è ancora più radicale e insinua il
dubbio che l’utopia non riesca neppure a proporre una
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
critica immanente allo statu quo e ne sia piuttosto un
derivato che in qualche modo finisce con l’assicurarne la
conservazione.
Muovendoci nello spettro di riflessioni descritto dalla
oscillazione tra le posizioni di Bloch e Marcuse, il nostro
lavoro tenterà di approcciare il tema della utopia dapprima
inquadrandolo in un discorso di natura storica, finalizzato a
mettere in luce le molteplici e contraddittorie modalità in
cui esso è venuto configurandosi lungo l’arco della
Modernità; in un momento successivo esso cercherà di
sviluppare un approfondimento esegetico ponendo il
problema della utopia secondo una prospettiva particolare
— in parte estranea sia alla impostazione blochiana sia alla
speculazione di Marcuse — quella cioè che lo porta a
coniugarsi con la complessa costellazione della distopia.
Sarà in questa seconda sezione che l’utopia verrà a
delinearsi con caratteri decisamente nuovi rispetto a quelli
che essa si vedeva riconosciuti come propri almeno fino
all’inizio del Novecento, sfoderando una dimensione
speculativa nuova, originale e, a nostro giudizio,
potentemente rivoluzionaria. Se sia Bloch che Marcuse
devono registrare un esaurimento della capacità prognostica
della utopia, mostrando come questa si rovesci piuttosto in
un dispositivo diagnostico delle falsificazioni perpetrate
dalle forze politiche in gioco nel presente, allora ripensare
e ritematizzare l’utopia vorrà innanzitutto dire puntare
l’attenzione su questa sua dimensione d’analisi del presente,
mettendo in luce come le sue proiezioni in realtà non siano
altro che scomposizioni prismatiche di una situazione
materiale che deve essere conosciuta nelle sue dinamiche
sottili per essere modificata.
Vedremo allora come anche la posizione di Marcuse,
sebbene colga lo stato di crisi profonda in cui versa ormai
da tempo l’utopia, in realtà non costituisca una soluzione
adeguata per questa crisi; sostenere che l’utopia non sia oggi
14
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
altro che il retaggio di un tempo che non riesce a fare i conti
con il proprio presente non è a nostro giudizio del tutto
corretto. Che una rettifica profonda della funzione, della
identità speculativa e delle capacità ermeneutiche
dell’utopia si sia resa necessaria con sempre maggior
chiarezza è una verità alla cui pressione non possiamo
sottrarci. Ma sostenere che essa non abbia diritto di
cittadinanza nel campo delle nostre scienze umane è una
posizione che rigettiamo in pieno. Proprio per questo
motivo la distopia si configura ai nostri occhi come
l’elemento vitale per un recupero non tanto del concetto
dell’utopia quanto per il mantenimento di quello spazio di
osservazione, discussione e precisazione di quel concetto
che non può essere negato o occupato da altri fattori in
modo definitivo.
Sebbene la figura e la funzione dell’utopia siano
diventate ospiti inquietanti del nostro pensiero, ciò non vuol
dire che questo debba sottrarsi al compito difficile ed
impervio di penetrare tale inquietudine, cercando di
mettervi ordine o quantomeno di capirne le cause. In
questo senso il nostro lavoro non vuole dare la risposta
definitiva ad una domanda di particolare urgenza, ma vuole
piuttosto limitarsi a chiarire i termini della questione per
consentirne un approccio più lucido e consapevole.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
I
UTOPIA, I SIGNIFICATI E LA STORIA
I.1
... Iam inde ab initio descriptam ab ipso Utopo ferunt
Nel settimo capitolo del suo illuminante libretto dedicato
alle reti terminologiche che hanno contrassegnato la
Modernità, Koselleck affronta l’utopia, concetto terminale
della sua esposizione e lemma nel quale sembra
condensarsi quasi tutta la storia delle idee politiche partorite
dall’Occidente dopo il Medioevo. Dovendo introdurre
questa nozione, egli così esordisce:
Quando oggi si sente l’espressione «utopia» le può venire attribuito un
significato positivo o negativo. Ciò dipende essenzialmente dalla pressa
di posizione politica di coloro che impiegano questa espressione. Prima
che essa entrasse nel linguaggio politico e sociale erano trascorsi, da i
tempi di Thomas More, circa trecento anni. L’espressione «utopia», nel
senso che oggi le viene correntemente associato, cioè di una categoria
politico-sociale con il cui aiuto si anticipano determinati elementi del
futuro politico, ha poco in comune col significato della parola Utopia
inventata da Thomas More per il suo romanzo, come sinonimo di
«nessun luogo».
1
L’osservazione dell’autore, per quanto possa sembrare
stringata, contiene una sorta di microstoria del concetto
dalla coniazione fino alla ricezione marxiana e postmarxiana. In effetti, ciò che Koselleck mette in evidenza è
la profonda variazione semantica che il lemma /utopia/
subisce andando a designare, soprattutto dall’Ottocento in
poi, un tipo di formulazione teorica di stampo fortemente
politico sempre sospeso a metà tra la progettualità astratta
— e dunque consapevolmente destinata a rimanere inattuata
— e il disegno realizzabile in un arco di tempo
indeterminato. Nate come genere letterario di ascendenza
platonica, le opere aventi per oggetto un luogo utopico in
1
R. Koselleck, Il vocabolario della Modernità, a cura di C. Sandrelli,
Il Mulino, Bologna 2006, pp. 133-154.
16
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
modo sempre più marcato finiscono col penetrare nella
storia o, per dirlo con più chiarezza, è la storia che si infiltra
in esse trasformandole in programmi politici più o meno
concretizzabili.
Ma che cos’era in origine l’Utopia di More? Un luogo,
o meglio, un non-luogo ove l’autore vedeva realizzate una
serie di istanze sociali, politiche, culturali sostanzialmente
perfette, impeccabili sotto tutti i profili poiché scandite da
due soli grandi principi-guida: libertà e uguaglianza.2
Va sottolineato però che Utopia non presentava, nelle
intenzioni dell’autore, un programma politico da realizzare,
ma piuttosto indicava l’esistenza di principi universali e
generali destinati per lo più ad avere funzione normativa.
L’elemento essenziale consisteva pertanto nella
deliberazione d’espungere la proprietà privata da ogni tipo
di formazione sociale. È questo un aspetto che More
eredita direttamente da Platone, il quale nella sua
Repubblica aveva già sottolineato come la proprietà
dividesse gli uomini tra loro, facendo insorgere contese
feroci destinate a protrarsi per decenni, mediante la barriera
del “mio” e del “tuo”, mentre soltanto la comunanza dei
beni poteva ripristinare e consolidare non solo l’unità del
demos, ma anche la concordia tra i cittadini.
In Utopia inoltre scompaiono tutte le differenze di
censo: i cittadini tutti godono di una perfetta uguaglianza e,
proprio in forza di ciò, essi possono avvicendarsi a
rotazione in maniera piuttosto bilanciata nei vari lavori
dell’agricoltura e dell’artigianato, così che non risorgano, in
seguito ad una ferrea e inflessibile divisione del lavoro,
differenze e divisioni sociali. Va notato che anche il lavoro
è soggetto a una sorta di precisa razionalizzazione, in modo
da renderlo umano, cioè non massacrante e totalizzante
all’interno della vita degli uomini, ai quali deve essere
2
Per un’analisi particolareggiata del testo di More si rimanda a C.
Quarta, Tommaso Moro: una reinterpretazione dell’utopia, Dedalo,
Bari 1991.
17
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
garantito un certo periodo di tempo nell’arco della giornata
per gli svaghi e il riposo. In ultimo presso Utopia vi sono
dei sacerdoti dediti all’amministrazione del culto, mentre
un posto d’eccezionale rilievo è riservato ai letterati, ovvero
a coloro che, nascendo con speciali doti e capacità
intellettuali, sono chiamati a dedicarsi allo studio e alla
riflessione.
Gli abitanti dell’isola immaginata da More sono pacifisti,
accettano e ammettono culti differenti, sanno onorare Dio
in modi molteplici e non dogmatici e sanno comprendersi
e accettarsi reciprocamente in queste diversità.
A commento di quanto appena detto, scrive Lucien
Febvre in un suo famoso studio del 1962:
L’Utopia di Thomas More come tutte le opere ulteriori che adotteranno
in senso generico il nome proprio del libellus aureus dell’amico di
Erasmo […] esprime al contempo i bisogni di evasione dalle realtà
presenti e di organizzazione di quelle future che forniscono allo storico
una delle traduzioni, al tempo stesso più deliberatamente infedeli e più
inconsciamente fedeli, della realtà di un’epoca e di un ambiente.
Anticipazioni e constatazioni frammiste; i lineamenti del mondo quale lo
si osserva; i caratteri che si indovinano o si profetizzano del mondo di
domani o di dopodomani. È proprio nelle epoche di crisi e di transizione
che fioriscono gli indovini e i progetti […]. Essi parlano quando l’umanità,
inquieta, cerca di precisare le grandi linee di sconvolgimenti sociali e
morali che ognuno percepisce come inevitabili e minacciosi. In base a
ciò le loro opere costituiscono, per lo storico, testimonianze spesso
patetiche, sempre interessanti, non solo della fantasia e
dell’immaginazione di alcuni precursori ma dello stato intimo della
società.
3
Vista in questo incrocio di prospettive ermeneutiche
l’utopia si profila come una complessa formazione
concettuale sulla quale grava tutta una serie di concrezioni
eterogenee che forse è bene tentare di sviscerare in modo
piuttosto dettagliato. Innanzitutto è necessario mettere in
relazione Koselleck e Baczko al fine di notare come
entrambi individuino nell’utopia un nucleo permanente
che però, di volta in volta non smette di caricarsi di valori
3
L. Febvre, Pour une histoire à part entière, Paris, 1962, in B.
Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1978, p. 7.
18
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
storici e tematici diversi. Se l’utopia di More indica un nonluogo ove ravvisare, anche solo per via immaginativa,
un’organizzazione sociale impeccabile, al tempo stesso
l’utopia rappresenta una pericolosa via di fuga attraverso la
quale sottrarsi alle responsabilità effettive e concrete di un
attore sociale calato in un contesto preciso.4
I.2.
U-topia o Eu-topia?
Come già notato, l’utopia, prima di essere a pieno titolo una
categoria politico-sociale, è un genere letterario proprio
della produzione fantastica. Essa non è soltanto quindi un
non-luogo, ma è anche a prima di tutto un buon-luogo —
una eu-topia — ovvero una regione della felicità 5 , della
perfezione e della pienezza dalla quale la dimensione del
divenire storico sembra essere del tutto esclusa6. Il passaggio
logico e epistemologico tra u-topia ed eu-topia tuttavia non
è così naturale e diretto come sembrerebbe. Se la prima
indica l’esistenza — solo congetturabile – di un altrove
incollocabile nel tempo dove le strutture sociale risultano
epurate dalle disfunzioni specifiche della situazione sociale
da cui deriva chi formula tale ipotesi, nella eu-topia è
contenuto un senso leggermente più ampio e forse più
sfumato, poiché esso designa una regione del mondo ove la
storia sembra aver saldato le condizioni proprie in cui è
calato chi immagina con le condizioni attuate nello stato
immaginato. Ciò significa che nell’eu-topia la progettualità7
4
Per una caratterizzazione più capillare dell’articolazione storica del
concetto di utopia rimandiamo al saggio di Wunenburger posto alla fine
di questo numero. Cfr infra J. J. Wunenburger, Variazioni su di un nonluogo.
5 Su questo aspetto ha parole affilatissime Cioran, cfr E. Cioran,
Histoire et utopie, Gallimard, Paris 1960, pp. 107-114.
6 Per un’analisi dettagliata della distinzione /utopia/ /eutopia/ cfr B.
Baczko, Op cit, p. 12 e A. Colombo, L’utopia, ed Dedalo, Bari 1997, p.
10.
7
Sebbene non parli mai di /eutopia/ un’ottima caratterizzazione di
questo termine è data da Ruyer, il quale la identifica sulla base di dieci
19
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
è già intensamente e inarrestabilmente operativa, mentre
nella utopia originaria essa è come bloccata dalla
presupposizione stessa che quanto proiettato in
quell’altrove sia del tutto irrealizzabile.
Tale bipartizione tematica e metodologica è suffragata
dal fatto che l’utopia come genere letterario trovava una
precisa collocazione della sistematica dei sottogeneri della
produzione fantastica messa a punto da Baumgarten nel
Settecento. Quest’ultimo infatti, come ricorda molto bene
sempre Koselleck, mise a punto uno schema poetologico
proponendo forse per la prima volta una definizione
precisa di utopia. Seguendo in modo puntuale la
tripartizione baumgarteniana possiamo individuare le
seguenti tipologie di resoconti fittizi:
1) Figmenta vera: sono quei racconti fittizi che puntano a
tratteggiare in modo più o meno ravvicinato mondi
effettivamente possibili in una realtà spazio-temporalmente
indeterminabile e, in ogni caso, diversa da quella presente
a chi scrive. Tematizzano in sostanza una verità, si
concentrano cioè su qualcosa che pur essendo frutto della
fantasia risulta ad un’analisi approfondita conciliabile con
concreti margini di attuazione. I Figmenta vera
rappresentano una sorta di Realpolitik proiettata in un
altrove del tempo o delocalizzata rispetto alla latitudine
dello scrivente. Essi, in sostanza, rientrano nel gruppo di
quelle creazioni immaginarie che si rifanno alla distinzione
della Poetica aristotelica tra fatti storici particolari e
determinati e produzioni di fantasia universali, verosimili e
connotati precisi e concordanti: 1. Simmetria a molteplici livelli di
organizzazione, 2. Uniformità della struttura sociale, 3. Fiducia
nell’educazione, 4. Ostilità alla natura intesa come spazio del disordine,
dell’irrazionale, 5. Dirigismo e Collettivismo come istanze
complementari e speculari, 6. Rovesciamento delle disfunzioni del
presente, 7. Autarchia e isolamento come una sorta di ascetismo
collettivo, 8. Eudaimonismo collettivo, 9. Umanismo come fiducia
estrema nella bontà della natura propriamente umana, 10. Proselitismo
e pretesa profetica, cfr R. Ruyer, Op cit, pp. 41-54.
20
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Quel che resta dell’utopia
ragionevoli, depositarie di un portato veritativo superiore ai
primi.
2) Figmenta heterocosmica: si tratta di narrazioni che,
postulando l’esistenza di infiniti mondi possibili,
rappresentano una serie aperta e indeterminata di realtà
parallele a quella effettivamente esistente. Se il primo
gruppo conteneva raffigurazioni fantastiche dotate di un
ineliminabile quid di realizzabilità, i Figmenta
heterocosmica puntano a creare mondi decisamente altri,
diversi dal nostro, dove però siano conservati dei caratteri
comuni che rendono queste due realtà ancora vagamente
comunicanti. Tali tipi di narrazioni ebbero la loro massima
diffusione nel corso del Seicento.
3) Figmenta utopica: indicano quei “resoconti” ad altissimo
tenore fantastico il cui oggetto sia l’impossibile in tutti i
mondi possibili. Con quest’ultimo gruppo diventa chiaro
l’intento classificatorio di Baumgarten: egli, mediante
questa tripartizione capillare, vuole sottolineare la
differenza tra le possibilità attuabili nel mondo reale in un
tempo più o meno lungo, le possibilità — quasi
imponderabili — di tutti i mondi possibili e le impossibilità
effettive dei mondi possibili. I Figmenta utopica puntano a
tratteggiare stati di mondi del tutto inattuabili,
assolutamente privi di potenzialità realizzative e quindi
configurabili come dimensioni utopiche in senso
etimologico, vale a dire fattualmente incollocabili in un
qualsiasi posto temporale o spaziale.
Facendo riferimento a questa categorizzazione8 è possibile
intendere meglio la differenza da cui eravamo partiti.
Attenendoci alle posizioni di Baumgarten, l’eutopia
8
Piuttosto affine a tale tripartizione è anche l’analisi dei vari di tipi di
utopia sviluppata da Ruyer, cfr R. Ruyer, Op cit, pp. 41-55.
21
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
potrebbe rientrare sia nel primo caso che nel secondo. Se
essa infatti si riconosce per i caratteri di attuabilità
all’interno di una linea storica, sia i Figmenta vera sia i
Figmenta heterocosmica possono essere chiamati in causa
come postulazioni di una realizzabilità più o meno diluita
nel tempo. L’utopia invece appare come una congettura
destinata a rimanere tale, pura ipotesi di una realtà non
contemplabile se non all’interno di mondi possibili
immaginati come non-luoghi, il cui rapporto con l’esistente
è indicato da un segno negativo, di esplicita esclusione
reciproca.
Tuttavia tale tripartizione alquanto rigorosa subirà nel
tempo numerose correzioni e integrazioni. Come vedremo
nel prossimo paragrafo, sarà l’opera di Mercier a
modificare profondamente l’impianto e l’ossatura specifica
di questa classificazione, facendo sovrapporre i piani dei tre
livelli fino a far coincidere i Figmenta vera con gli utopica.
In sostanza, a partire dalla metà del XIX il quadro
esplicativo messo a punto da Baumgarten entra in crisi a
seguito delle pressioni derivanti da un nuovo modo di
vedere e praticare il discorso utopico.
I Figmenta heterocosmica smettono di occupare una
posizione intermedia e scompaiono, riassorbiti dagli altri
due campi tematici. Tale riassorbimento però non è privo
di conseguenze rispetto ai Figmenta vera ed utopica: una
sorta di commistione trasversale finisce col saldarli in una
narrazione che trasforma l’altrove insituabile dei secondi in
un’alterità temporale direttamente connessa con lo stato
presente in cui prendevano corpo i primi. In tal modo
l’utopia diventa una matrice di riflessione storico-sociale in
tutto e per tutto calata nel tempo in cui viene immaginata.
L’utopia lentamente filtra all’interno delle dinamiche di
progettazione politico-sociale, divenendo a tutti gli effetti lo
strumento concreto di una riflessione che fa della
postulazione di futuri possibili il piano di progettazione di
un presente animato dall’ideale — o dall’illusione — del
22
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
progresso illimitato. L’eutopia pertanto sembra ormai aver
definitivamente inglobato l’utopia.
I.3
Eutopia e disincanto
Ma se L’utopia di Thomas More può valere a tutti gli effetti
come un caso di Figmentum utopicum, quale può essere un
buon esempio di eutopia? È sempre Koselleck a suggerire
una risposta a tale questione. Più o meno negli stessi anni
in cui il concetto di utopia subiva massicci rimaneggiamenti
ed entrava di diritto nel contesto della progettualità politica
a lungo raggio, in Olanda appariva anonima per ovvi motivi
l’opera piuttosto originale — e alquanto significativa ai fini
della nostra ricostruzione — del francese Louis-Sébastien
Mercier L’an deux mille quatre cent quarante9. Già il solo
titolo risulta straordinariamente emblematico: una data, una
precisa collocazione temporale, una indicazione
cronologica determinata e vaga allo stesso tempo che situa
l’autore e il lettore in un futuro lontano ma reale,
identificato dalla notazione dell’anno, la quale viene così a
suggerire la possibilità di raccordare il momento effettivo
della stesura del testo con il periodo storico in cui i fatti
riportati si svolgono.
Rispetto alla vaghezza cronologica dell’Utopia di More,
il figmentum di Mercier rappresenta una proiezione
tutt’altro che fantastica o immaginaria. Esso mira a saldare
tempo presente e tempo futuro in una traiettoria di
continuità serrata e determinata. Se il mondo sognato da
More era slegato rispetto alla realtà presente in cui egli
viveva e si contrapponeva a questo a tal punto da essere
svincolato rispetto alla sua effettiva dimensione esistenziale,
non solo sotto il profilo temporale ma anche e soprattutto
9
R. Koselleck, Il vocabolario..., cit., pp. 205-208.
23
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
sotto quello geografico-spaziale10 — l’isola indica un luogo
privo di contatti possibili — con Mercier abbiamo una
versione dell’utopia del tutto diversa e contrapposta a quella
dell’inglese.
Ma di che cosa parla L’an deux mille quatre cent
qurante? Si tratta del resoconto di un viaggio immaginario
che l’autore, un parigino della fine del Settecento, compie
nella Parigi del 2440. Il vettore dello spostamento
temporale qui è legato all’escamotage del sogno, il quale
tuttavia non opera in questo caso come un dispositivo
derealizzante, ma al contrario, serve solo a delocalizzare il
narratore trasportandolo in una realtà diversa ma non meno
effettiva di quella di partenza. È chiaro che con l’opera di
Mercier l’utopia ha perso ogni caratterizzazione di fuga
immaginaria dal mondo per entrare di diritto nelle
formulazioni postulatorie che si riferiscono a quest’ultimo
con i connotati palesi di un programma/progetto politicosociale da realizzare nell’avvenire.
La Parigi di Mercier è una Parigi che, agli occhi
dell’autore-personaggio, appare progredita sotto tutti gli
aspetti: da quello urbanistico — con una chiara
razionalizzazione della rete stradale, sia interna al nucleo
cittadino che esterna, e della disposizione delle abitazioni in
rapporto a tale rete — a quello propriamente socio-politico
10
Ecco come More presenta la geografia del territorio dove sorge
Utopia: «Situm est igitur Amaurotum, in leni deiectu montis, figura fere
quadrata. Nam latitudo eius paulo infra collis incoepta uerticem,
millibus passuum duobus ad flumen Anydrum pertinet, secundum
ripam aliquanto longior. Oritur Anydrus milibus octoginta supra
Amaurotum, modico fonte, sed aliorum occursu fluminum, atque in his
duorum etiam mediocrium auctus, ante urbem ipsam, quingentos in
latum passus extenditur, mox adhuc amplior, sexaginta milia prolapsus,
excipitur oceano. Hoc toto spacio, quod urbem ac mare interiacet, ac
supra urbem quoque aliquot milia, sex horas perpetuas influens aestus,
ac refluus alternat celeri flumine. Quum sese pelagus infert, triginta in
longum milia, totum Anydri alueum suis occupat undis, profligato
retrorsum fluuio». Si tratta di una geografia pensata all’insegna della
separazione dal resto del mondo.
24
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
— interessantissima, ad esempio, è la sezione dedicata alla
nuova posizione delle donne nel vivere civile.
Va detto immediatamente che la visione prognostica di
Mercier è fortemente intrisa di umori e suggestioni
facilmente riferibili al contesto culturale di provenienza. Ciò
vuol dire che la sua utopia in realtà non è altro che una sorta
di raffinata esasperazione di fermenti culturali latenti o
clandestini al suo tempo, divenuti legittimi e dominanti
invece nella Parigi del 2440. Ciò non toglie però che, a
fronte della Utopia di More, questa versione risulti molto
più prossima all’idea di una concreta proiezione politica
contrassegnata dalla volontà di rendere reale quanto finora
è stato solo immaginato, lasciando così anche intendere che
la più alta forma di Realpolitik può declinarsi positivamente
e proficuamente con una dose tutt’altro che trascurabile di
immaginazione.11
È chiaro quindi come e quanto Mercier non faccia altro
che dare narrativamente spazio ad un teorema che poi
prenderà piede soprattutto nel tardo Illuminismo e che
troverà nella Encyclopédie il suo manifesto più dettagliato:
l’idea del miglioramento, del progresso infinito, della
immanentizzazione delle capacità realizzative dell’uomo, la
laicizzazione del tempo storico e la modificazione degli
orizzonti d’attesa aperti in maniera sempre più ottimistica
sul futuro sono tutti elementi che ne L’an 2440 si trovano
già tutti dispiegati.
Ma è necessario osservare che tale processo di
conversione del Figmentum utopicum in Figmentum
verum — da segnalare inoltre la scomparsa della seconda
tipologia, quello heterocosmicum — cela anche un risvolto
drammaticamente negativo: se è vero infatti che Mercier
progettava una sorta di società perfetta libera da ogni forma
11
Si tratta in sostanza di quella variante méphistophélique dell’utopia
ben studiata da Ruyer (cfr R. Ruyer, cit., p. 237). Va detto che che Ruyer
vede attuarsi questa torsione negativa nel modo in relazione all’opera
di Bulwer Lytton.
25
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
di potere assoluto e arbitrario, è anche vero che nei decenni
successivi alla Rivoluzione Francese — all’evento epocale
che avrebbe dovuto e potuto porre i presupposti effettivi
perché il programma de L’an 2240 si concretizzasse — si
misero in moto quei meccanismi regolativi del vivere civile
che, pur postulando un’organizzazione non dipendente da
forme repressive di ordine e controllo, finirono col dare
luogo al Terrore. Nota a proposito di ciò Koselleck:
Tutto ciò che Mercier ha previsto, pensato in termini positivi, si è
realizzato in un senso negativo. Infatti, la descrizione di un sistema
terroristico da lui connotata con tratti positivi, è grosso modo applicabile
a ciò che è avvenuto fra il 1793 e il 1794. Mercier stesso fu molto
fortunato. Egli era un girondino, fece parte dell’Assemblea Nazionale, fu
imprigionato, sfuggì per poco alla ghigliottina. Successivamente, ai tempi
del Direttorio, divenne direttore di una lotteria. La lotteria però era una
di quelle iniziative torbide e immorali che lui aveva già abolito nel suo
romanzo. Così l’ironia del destino volle che, dopo essere scampato alla
morte sul patibolo, egli dovesse dedicarsi a un’attività riprovevole, da lui
tanto disprezzata. Le cose erano andate diversamente da come aveva
immaginato. La sua visione del futuro si è avverata, ma con un segno
negativo.
12
Ma che cosa era successo? Il salto dalla utopia alla eutopia
avviene, come visto, poiché la storia o, per meglio dire, una
forma complessa e articolata di temporalizzazione irrompe
massicciamente nella prima modificandone i caratteri,
trasfigurandola pesantemente così da renderla non più una
produzione immaginaria ma una interrogazione mirata che
il presente rivolge al futuro. Ma anche l’eutopia è soggetta a
trasformazioni e adulterazioni: se da una parte essa si
proietta nell’avvenire carica di umori ancora inesplicati nel
presente ma forieri di ipotesi attuative concrete, dall’altra
parte essa, nel momento in cui si trova ad essere realizzata,
per forza di cose finisce con l’essere del tutto depotenziata,
deformata, tradotta in formulazioni politiche che ne
tradiscono il nucleo portante. Eutopia e storia in sostanza
non si sovrappongono mai, piuttosto si incrociano per
divergere subito, si accavallano in una difficile complicità
12
R. Koselleck, Il vocabolario, cit., p. 141.
26
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
presto spezzata, sembrano collimare, ma invece collidono
in una controversa immagine del tempo che finisce non
tanto con il confermare i “buoni propositi” della prima con
le concrete attuazioni delle seconda, ma piuttosto inquinare
e deturpare l’eutopia con le “cattive azioni” della storia.
Viste in questa nuova accezione utopia e eutopia non
solo coincidono ma si caricano di un portato semantico
sensibilmente controverso: esse alludono ad un altrove del
tempo, ma tale altrove — sebbene sembri apparentemente
legato e connesso da una sottile ma resistente trama storica
all’attualità di chi sogna e postula — è comunque destinato
ad essere eluso o mancato, scavalcato da tutti i possibili
sviluppi del tempo, finendo con l’essere realizzato
unicamente in un modo scorretto, deforme, alterato,
infedele.
L’(e)utopia designa così un deragliamento della storia,
uno spazio eccedente in modo illusorio — per non dire
illusionistico — la realtà, un’istanza progettuale da cui siano
stati espunti tutti i margini di concretizzazione che essa
sembrava aver assunto consapevolmente su di sé nel corso
del Settecento. Se l’(e)utopia nell’arco del Seicento si
profilava come un sogno del presente, ora è il futuro che
sembra trasformarsi in un incubo — prossimo a diventare
realtà — generato dall’utopia stessa.
Marx, come sappiamo, recepirà il termine /utopia/
carico di queste sfumature semantiche controverse. La
temporalizzazione dell’utopia non l’ha semplicemente
ricollocata nel divenire storico, ma l’ha piuttosto
miserevolmente trasformata in un cascame storico pseudofilosofico, il quale pertanto non ha più diritto di cittadinanza
in seno al materialismo dialettico. È proprio per questo
motivo che Saint-Simon appare agli occhi dell’autore del
Capitale sia come un suo antesignano, sia come sia come
un teorico del socialismo assolutamente inattendibile.
Sarà pertanto dalla recisa modificazione del paradigma
epistemologico scelto da Saint-Simon che Marx ripartirà
27
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
tramite una critica talmente profonda da sradicare dalle
fondamenta i postulati propri della progettazione sociopolitica, i quali vengono del tutto epurati da ogni
compromissione con la filosofia per essere definitivamente
— almeno nelle intenzioni di Marx — trapiantati nella
scienza 13 . Il salto dal socialismo à la Saint-Simon al
socialismo marxiano segna il passaggio dall’utopismo — una
forma quasi irrazionalistica di pensiero14 — alla scientificità.
Ecco allora che con l’entrata in scena dell’autore del
Capitale la scienza appare come una dea sfolgorante capace
di illuminare la coscienza e la conoscenza progettuale
dell’uomo, al fine di condurre la società da uno stato di
squilibrio ad uno di perfezione attraverso un cammino le
cui tappe siano ben identificate e scandite.
Se Mercier aveva fatto ricorso a un’ellissi narrativa per
saltare dalla Francia del Settecento alla Parigi del 2440,
Marx intervenne proprio per evitare questa forma di
progettazione lacunosa: l’approccio scientifico sta proprio
nella sua capacità di delucidazione capillare dei passaggi
obbligati, delle fasi di evoluzione che la società deve
attraversare. Troppo vaga, troppo imprecisa, troppo onirica
l’(e)utopia, agli occhi di Marx, serviva solo a disinnescare le
istanze di cambiamento. La scienza assorbe così la filosofia
e richiama il pensiero ad un compito preciso e rigoroso di
analisi fattuale, escludendo così l’utopia dal proprio campo.
Ma quest’ultima non morirà. Essa abiterà silenziosa per
lungo tempo i confini sfrangiati della scienza, pronta a
riappropriarsi del centro della riflessione in modo
inaspettatamente sinistro non appena diventerà necessario
illuminare l’inemendabile volto d’ombra che lo strano
connubio di scienza e realtà per forza di cose cela in sé.
Come visto finora, l’utopia poteva continuare ad esistere
soltanto convertendosi nelle forme legittime di un disegno
13
Riguardo a questo passaggio cfr Th. Molnar, L’utopia eresia
perenne, a cura di C. Bianchi, Borla, Torino, 1968, pp. 107-124.
14 «L’utopista è indiscutibilmente un uomo irrazionale», Ivi, p. 146.
28
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
razionale a lungo raggio ma il cui campo d’azione dovesse
comunque essere circoscritto nel tempo. Ma, per sommo
paradosso, è proprio quando la ragione irrompe nel campo
della ricerca sociale che l’utopia si trova non solo ormai del
tutto spodestata dal proprio luogo naturale, ma anche
privata dei propri diritti minimali di esistenza, esclusa e
disattivata nelle sue specifiche potenzialità — o velleità — ora
decisamente
rivoluzionarie,
ora
semplicemente
riformistiche.
Se l’utopia infatti era nata come un caso particolare di
un dato (sotto)genere letterario che rientrava a sua volta tra
le tipologie dei racconti di finzione, essa, nell’arco di meno
di un secolo, aveva subito una pesante modificazione
endogena, penetrando in modo massiccio nel discorso e
nella riflessione propriamente politici, per esserne poi
esclusa in quanto refuso ascrivibile sine cura ad un sistema
di cognizioni e metodologie appartenenti ad una sorta di
preistoria della ragione. Il processo di razionalizzazione e
temporalizzazione dell’utopia realizzatasi nei Lumi da una
parte porta la stessa utopia a palesarsi come strumento
elettivo di una critica puntuale del reale, dall’altra finisce col
derubricarla come un dispositivo le cui formulazioni non
possono non risultare al riscontro fattuale del tutto
fuorvianti e inattendibili. Colta pertanto secondo questa
nuova ottica, l’utopia non può non rivelarsi come una
struttura svuotata di ogni capacità non solo analitica, ma
anche e soprattutto predittiva.
Ma l’utopia, seppur diventata un’entità umbratile priva
di statuto chiaro o definito, non si estingue. È difficile dire
quale sia il processo di radicale mutazione che la colpisce
nel periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento ai
primi trent’anni del Secolo Breve; tuttavia in questo periodo
essa rimane come in incubazione, prossima a rinascere
quasi della proprie ceneri con una forza e una identità
nuove e felicemente destabilizzanti.
29
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
È senza dubbio Karl Mannheim colui che con più
attenzione si è occupato dell’osservazione ravvicinata di
questo fenomeno indefinibile che era l’utopia. Egli, attivo
presso l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte fino al
’33, pubblicò nel 1929 un saggio dal titolo più che
eloquente, Ideologia e utopia 15 , a tutt’oggi ancora
illuminante per capire le traversie della nozione di utopia in
questo arco di tempo. È significativo infatti che tale nozione
riappaia proprio presso un gruppo di studiosi di
orientamento marxista 16 e soprattutto si imponga
all’attenzione dell’autore legata al concetto apparentemente
così diverso e difforme da essa come quello di ideologia.
Mannheim dedica all’utopia il quarto capitolo del saggio,
incassando La mentalità utopica — questo il titolo della
sezione in esame — tra uno studio delle Prospettive della
politica scientifica e una delineazione della Sociologia della
conoscenza. Come è possibile vedere da questi pochi cenni
l’utopia non è più un genere letterario ma un abito mentale.
Ad essa non appartiene più il campo della prospezione
politica, indagato non a caso nel capitolo immediatamente
precedente, e neppure è interessata alla dimensione
propriamente conoscitiva, di cui si occupa invece il quinto
capitolo.
Il profilo dell’utopia che ci offre Mannheim è piuttosto
critico: inquadrandola infatti all’interno di una intersezione
alquanto mossa e plurale di prospettive di ricerca, egli passa
in rassegna quattro forme di mentalità utopica per
soffermarsi poi sulla sua condizione nella realtà a lui attuale.
Tralasciando qui lo scorcio storico delle quattro forme, è
bene riportare le conclusioni a cui l’autore perviene in
questa ultima parte, ove egli afferma:
15
K. Mannheim, Ideologia e utopia, a cura di A. Izzo, Il Mulino,
Bologna 1997.
16
Adorno, tra gli altri, ricuserà molte tesi del volume di Mannheim,
sposando posizioni più prossime a quelle blochiane.
30
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Il processo teso a distruggere completamente tutti gli elementi spirituali,
utopici come ideologici, trova il suo equivalente nelle più recenti correnti
della vita moderna e nelle tendenze corrispondenti che si affermano nel
campo dell’arte. Non dobbiamo forse interpretare la scomparsa di ogni
traccia d’umanitarismo nell’arte, l’emergere della concretezza nella vita
sessuale, nell’arte e nell’architettura, e lo sfogo degli impulsi naturali nello
sport, come altrettanti sintomi del crescente regresso degli elementi
utopici e ideologici in quegli strati che stanno per assumere il dominio
della realtà presente? Non devono forse la graduale riduzione della
politica all’economia (del che esiste una forte tendenza), il deciso rifiuto
del passato e di ogni consapevolezza storica, la premeditata elusione di
ogni ideale spirituale venire considerati come la scomparsa di tutte le
forme dell’utopia dall’arena politica?
17
Ideologia e utopia manifestano una strana e fino ad ora
insospettata gemellarità. In entrambe il presente si afferma
nelle sue strutture e disposizioni statiche. Esse concorrono
a una conservazione della situazione attuale e non ad una
propulsione trasformativa del reale. Anche l’utopia
partecipa a questa vasta disattivazione delle istanze
rivoluzionarie poiché nella ricostruzione che ne offre lo
studioso tedesco essa da una parte appare come una istanza
metodologicamente inadeguata per analisi ravvicinate della
realtà — cosa che la conduce lontanissimo da ogni forma di
«realismo critico» — dall’altra essa non riesce mai a palesare
in modo cristallino i suoi rapporti con la/e ideologia/e
dominanti, così che essa piuttosto che essere uno strumento
per sognare realizzazioni diverse da quelle concrete, finisce
col consolidare forme di vita e di potere già presenti in fieri
nella realtà. Ecco infatti cosa dice Mannheim in proposito:
Poiché la concreta determinazione di ciò che è utopico procede sempre
da una certa situazione, è possibile che le utopie di oggi divengano le
realtà di domani […]. Ogni qual volta un’idea è chiamata utopica, a
ritenerla tale è quasi sempre un rappresentante di un’epoca già trascorsa.
D’altra parte la qualifica che si attribuisce alle ideologie di idee illusorie,
adattate all’ordine presente, è generalmente opera dei rappresentanti di
un mondo in fase di emergenza. È sempre il gruppo dominante, in pieno
accordo con l’ordine vigente, a determinare ciò che deve essere
considerato come utopico, mentre è il gruppo in ascesa e in contrasto
con la situazione di fatto a stabilire quanto deve venire riguardato come
ideologico. Un’ulteriore difficoltà nella definizione dell’elemento
17
K. Mannheim, Ideologia…, cit., p. 251-252. Corsivo nostro.
31
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
ideologico e utopico in un certo periodo deriva dal fatto che le utopie e
le ideologie non si danno separatamente nel processo storico. Le utopie
delle classi ascendenti sono spesso e in larga misura permeate da fattori
ideologici.
18
18
Ivi, 200. Corsivo nostro. Su questo aspetto cfr M. Baldini, Il
linguaggio delle utopie, Studium, Roma 1974, soprattutto pp. 119-137
e 221-224, quest’ultima sezione dedicata proprio a Mannheim.
32
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
APPENDICE I
L’«An 2440» di Mercier*
di Raymond Ruyer
L’opera di Mercier ha fatto epoca nella storia dell’utopia. È
la prima anticipazione propriamente detta con una data
precisa. Bisogna dire del resto che l’anticipazione non è
molto convinta né molto convincente. Essa è un
procedimento come un altro per consentire all’autore di
collocare i suoi sogni e le sue teorie. Non si tratta ancora in
effetti di una vera evoluzione naturale delle cose. Tuttavia
un grande passo è stato fatto. Mercier, amico di Restif de la
Bretonne, aveva con questo numerose idee in comune.
L’evoluzionismo di Restif implica l’idea di progresso, ma
esso era troppo vasto e troppo vago per condurlo ad una
reale anticipazione. Il fatto di collocare l’utopia in una
contrada immaginaria tradisce una certa mancanza di fede
e in effetti Restif provò timore dinanzi alla Rivoluzione e al
popolo rivoluzionario. Al contrario, situare l’utopia nel
futuro, come fa Mercier, darle appuntamento ad una data
certa, che non si trova ad una distanza fantastica, significa
avvicinarsi al punto di vista […] che è diametralmente
opposto in un certo senso al punto di vista utopico: ovvero
al punto di vista dialettico. Il testo di Bellamy, Regard en
arrière, dall’anno 2000 al 1887, è in fin dei conti marxista,
sebbene di un marxismo poco ortodosso. Esso è un altro
esempio di quella legge generale in base alla quale
l’anticipazione a termine diventa la forma più scientifica
dell’utopia. L’esperienza mentale non fa altro che
prolungare l’esperienza storica stessa.
L’idea di progresso, vecchia di molte decadi, si stava
precisando negli anni immediatamente precedenti la
*
R. Ruyer, L’utopie et les utopies, 1950, pp. 205-209.
33
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Rivoluzione, soprattutto dopo il 1750. Qualcosa di più
urgente appariva in tutti gli ordini del pensiero. Ci si stava
avvicinando all’epoca in cui Condorcet, dopo aver steso
L’esquisse des progrès de l’esprit humain, dalla preistoria a
nostri giorni, procedeva con delle considerazioni finali
afferenti al progresso futuro dello spirito umano.
L’aspirazione alle riforme faceva in modo che da tempo —
almeno a partire da Fénélon e l’abate di Saint-Pierre — il
termine /Riforma/ andasse al plurale. Sebastien Mercier,
grande ammiratore di Fénélon e dell’abate di Saint-Pierre,
fa passare tale plurale nell’utopia. Il mondo dell’anno 2240
non presenta delle differenze essenziali con il mondo al
quale un francese del XVIII secolo era abituato. Mercier
non è un radicale. Grande ammiratore dell’uomo inglese,
si direbbe ispirato dall’utilitarismo di Franklin,
combinandosi in lui con una fede solida nella Francia,
misura eterna della civiltà.
Mercier è inoltre l’inventore dell’espediente utopico del
sogno dell’eroe. Meno felice dell’eroe di Bellamy il quale
conserva l’età che aveva al momento di addormentarsi, egli
si risveglia vecchio di settecento anni. Egli si risveglia in una
Parigi che ha trovato il modo di essere ragionevole senza
aver per questo rinunciato alla civiltà e che, al contrario,
offre al visitatore tutti i tipi di un progresso dettagliatissimo.
Le vie sono ordinate e belle; la circolazione — incubo di
Mercier — è regolamentata con dei guardiani agli incroci.
Poche le vetture, d’altronde, riservate ai vecchi magistrati e
agli anziani. Al posto della Bastiglia, messa a ferro e a fuoco,
Mercier non trova il popolo ma, grazie a un principe «che
non si crede il Dio degli uomini», un Tempio della
Clemenza. L’Hotel-Dieu è stato soppresso, così come
Bicêtre, mentre gli ospedali, perfezionati con un letto per
ogni malato sono ubicati alle estremità della città. La
medicina ha fatto grandi progressi: essa sa guarire la tisi. I
pazienti stessi sono educati in un modo migliore: sanno
analizzare i loro disturbi durante le visite. I magistrati non
34
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
lasciano più che i processi di trascinino in maniera
indefinita. La pena di morte esiste sempre, ma è cambiata
del tutto l’indole della pena. Assistiamo ad una esecuzione
capitale. Tutti i presenti piangono di contrizione. Il
condannato — colpevole di un crimine passionale — si
giudica da solo meritevole della pena e preferisce la morte
ad una vita da trascorrere nell’umiliazione [«dans
l’opprobre»]. Coloro che assistono invocano il Dio
clemente: gli esecutori — il colpevole è fucilato – hanno il
capo velato di crespo. Già in Campanella si vedeva apparire
questa idea di castigo accettato e reclamato dal colpevole.
La religione, deista, è quella dei Patriarchi. Alla teologia
si è rinunciato. Domanda Mercier: «chi vince tra i molinisti
e i giansenisti? Il mio saggio interlocutore mi rispose con
uno scoppio di risa». Niente più fanatici. I monaci sono
divenuti dei volontari utili per tutti i bisogni più umili. Ci
viene raccontato, con uno stile molto caratteristico per il
tipo d’opera, come i monaci, «rinunciando ai lor sciocchi
voti di non essere mai uomini, sposarono infine quelle
colombe gementi (le beghine) che avevano sospirato più di
una volta per uno stato meno santo ma più dolce». I templi
si presentano senza vaghi ornamenti: una cupola di vetro
sormonta l’edificio e lascia penetrare fino ai fedeli «i grandi
insegnamenti della natura». I cantici sono semplici e belli.
La morte non è più frustrata da una messa in scena lugubre:
invece dei drappi neri, vi sono delle stoffe bianche e della
palme della vittoria. Il Papa c’è sempre, ma è solo il sovrano
d’Italia. Ha appena pubblicato Il catechismo della ragione
umana.
La vita letteraria è curiosamente tenuta da parte, meno
dalla censura ufficiale che dal regno generale della virtù e
dal peso delle verità obbligatorie. Anche la letteratura antica
è stata fortemente ridotta e epurata. La storia universale è
stata condensata in un volume in cui il posto dei re e delle
guerre è molto ridotto. Nell’arte si apprezza soprattutto la
riproduzione fedele della natura, ma più ancora la premura
35
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
moralizzatrice. Gli intellettuali sono dei veri funzionari della
moralità e non hanno più nulla di frivolo. Incontriamo un
uomo mascherato che cammina rasentando i muri: è un
autore che ha scritto un libro scadente — moralmente
inadeguato. In attesa che egli scriva un buon libro per
espiare il primo, due cittadini virtuosi sono incaricati di
ragionare ogni giorno con l’autore mal ispirato. Gli scolari
non studiano più il greco e il latino; si accontentano di
traduzioni e si occupano di lingue vive. Gli adolescenti
ricevono durante una Prima Comunione Filosofica un
microscopio e un telescopio per avere la rivelazione dei due
infiniti. Mercier crede molto alla virtù religiosa
dell’astronomia. Il telescopio è un «cannone morale» che
ha distrutto le vane superstizioni. I deisti vedono Dio
attraverso Saturno e la Via Lattea e cadono in ginocchio
tenendo l’occhio sull’oculare.
La vita internazionale è pacifica. Tuttavia gli eserciti non
sono del tutto scomparsi, poiché in caso di conflitto la
mediazione dei Grandi-Preti potrebbe essere insufficiente.
L’Inghilterra e la Francia sono riconciliate. La Francia è
tutrice della Grecia e dell’Egitto, ma ha rinunciato alle
colonie. Il regime francese è sempre monarchico, ma di una
monarchia all’inglese. Luigi XXXIV è un re costituzionale
e borghese. Egli si limita a passeggiare per le strade,
circondato da qualche amico. Gli Stati Generali si
riuniscono ogni due anni per eleggere un Senato che
sembra avere tutti i poteri. Il re non è più circondato da
cortigiani corrotti; dei censori vegliano attentamente. Egli
deve digiunare tre giorni all’anno in modo che «non
dimentichi che cosa sia il bisogno». Il principe ereditario è
cresciuto con la massima premura. Gli si procurano contatti
con tutti i suoi sudditi e lo si fa lottare con un fantoccio della
sua età per insegnargli che cosa sia l’umiltà. Davanti alla
legge tutti i cittadini sono uguali e non vi è più la nobiltà. I
cittadini che si sono distinti per il loro talento posseggono
un cappello ove è scritto il loro nome con lettere ricamate.
36
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Esiste sempre la disparità di ricchezze, dal momento che
«è tipico di coloro che sono poco istruiti appellarsi
continuamente all’eguaglianza», e regna la libertà
economica. L’ineguaglianza tuttavia è molto ridotta grazie ai
progressi nei costumi. I ricchi non sono più dei «cospiratori
ai danni dei poveri». Il lusso non è più sfarzoso. I francesi
del XXV secolo hanno dovuto subire una rigenerazione
morale piuttosto agevole alla luce del calcolo utopico
poiché, per esempio, nei templi gli spazi adibiti alle offerte
sono collocati lungo i passaggi oscuri, dal momento che i
donatori non avvertono affatto il bisogno di farsi notare.
Altra cosa meravigliosa: ogni cittadino di sua volontà versa
annualmente allo Stato la cinquantesima parte delle sue
entrate. Coloro che hanno appena il necessario per vivere
non pagano nulla e i ricchi integrano le loro imposte
obbligatorie con dei doni volontari. La scomparsa del lusso
sembra aver offuscato i colori sfavillanti delle donne, ma
queste ne hanno beneficiato in termini di solidità delle virtù.
L’agricoltura è particolarmente onorata e la civiltà resta
prevalentemente agricola. Mercier prevede la rivoluzione,
o l’evoluzione politica, ma non presagisce la rivoluzione
industriale. Tuttavia la tecnica ha fatto dei progressi:
esistono dei fonografi, delle mongolfiere a remi, dei
dirigibili. Non vi sono più terremoti o eruzioni vulcaniche
grazie a dei canali di drenaggio.
In complesso non si ha l’impressione di una
immaginazione geniale. Sebbene Mercier, massone, sia
stato toccato dall’Illuminismo dell’epoca, resta ragionevole.
Il rimprovero che i commentatori gli rivolgono più di
frequente a noi sembra essere il suo merito principale: lo si
accusa di contraddizione perché, in tale utopia liberale, egli
si appella ad un «dirigismo virtuoso» per quanto riguarda la
vita letteraria. Mercier però ha notato molto bene che la
condizione del liberalismo politico era il moralismo e che
tale moralismo doveva essere trattato con attenzione. La
letteratura, dal momento che raccomandava la moralità,
37
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
non poteva abbandonarsi alle fantasie dell’anarchia
individuale. In tal modo egli ha dimostrato di essere
correttamente in grado di esibirsi in un esercizio utopistico
rivelando così di avere nei confronti dell’uomo
perfettamente inglese, elevato a suo modello, una sorta di
marcata infatuazione piuttosto ridicola. Mercier ha
dimostrato di aver compreso il mistero dell’Inghilterra. Se
la Francia intera avesse compreso meglio tale segreto,
avrebbe fatto a meno della Rivoluzione e probabilmente la
Parigi di Mercier si sarebbe realizzata non nel 2440, ma
piuttosto tra il 1850 e il 1860.
38
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
II
DIALETTICA DELL’UTOPIA
1
II.1
Il futuro come patologia del presente
Se per Koselleck nel secolo dei Lumi l’utopia aveva
cambiato volto a causa dell’irruzione del tempo e della
storia, per Mannheim l’utopia è difficilmente assimilabile al
discorso scientifico della sociologia poiché essa non ha mai
una giusta distanza storica ove porsi per guardare il
presente. L’utopia appare allora così una sorta di
imprecisissimo — e dunque spesso arbitrario — strumento
ottico puntato su un oggetto sostanzialmente inafferrabile.
È in questa accezione così problematica che l’utopia si
dimostra ora impotente nelle sue capacità di progettazione
minuta del futuro, ora onnipotente nelle sue attitudini
immaginative di proiezione di un avvenire carico di risvolti
disforici.2
1
Palesiamo qui, per quanto riguarda il significato del termine
/dialettica/, i nostri debiti col testo di Adorno-Horkheimer Dialettica
dell’Illuminismo.
2
A fronte dei dieci aspetti propri della eutopia, Ruyer elenca anche una
serie di motivi negativi che caratterizzano ciò che più tardi rispetto allo
studio del francese sarebbe stato denominato appunto /distopia/: 1.
L’inganno assiologico, ovvero l’idea di una postulazione precisa
dell’asse valoriale a cui riferirsi nell’atto di progettazione utopistica, 2.
Accademismo inteso come quell’abito mentale in forza si presuppone
che sia possibile individuare un pattern limitato di principi da cui far
discendere una linea d’azione reputata infallibile; non è un caso che
Ruyer parli in questo contesto di una sorta di platonismo dell’azione, 3.
La società considerata come un gioco di puzzle, 4. Carattere fissista,
ovvero la ipostatizzazione di un ideale realizzativo che non ammette
contestazioni o correzioni, 5. Utopia come filosofia della storia, 6.
Istituzionalismo (parallelo al punto 2), 7. Utopia come sintesi totale.
Non sorprende che, alla luce di questi sette caratteri, Ruyer veda
nell’utopia realizzata secondo la loro strategia di attuazione l’erezione
di una dimensione sociale asfissiante, cfr R. Ruyer, L’utopie et les
utopies, cit., pp. 55-113.
39
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Abbandonata definitivamente la sfera della predizione
politica, l’utopia subisce una sorta di rinculo euristico e
ritorna sorprendentemente nell’alveo della letteratura da
cui l’avevamo vista sorgere. Ma le vicissitudini che essa ha
attraversato in questo lunghissimo arco temporale non
l’hanno affatto snaturata o depotenziata, anzi l’hanno
capillarmente rafforzata.
Ma che cosa era diventata allora l’utopia? Quale
processo specifico l’aveva interessata? Non crediamo errato
parlare di vera e propria Umwerthung, ovvero di
trasvalutazione3, intendendo qui un rovesciamento radicale
dei valori propri veicolati dal termine. Se dal Seicento in
poi, nonostante tutte le trasformazioni subite, l’utopia aveva
conservato in ogni caso un’accezione esplicitamente
positiva, ora la situazione muta completamente; la
disillusione sulle sue concrete capacità prognostiche, la
diffidenza che essa suscita nel momento in cui rivela le sue
sotterranee compromissioni con le ideologie, la sua
inevitabile esclusione dal novero della strumentazione delle
scienze politiche, fece sì che l’utopia risorgesse col segno
mutato, con una fisionomia del tutto opposta rispetto a
quella con cui era nata. È a questo punto che iniziano a
diffondersi le cosiddette utopie negative.4
Ma che cos’è una utopia negativa? Nel suo illuminante
volume intitolato Utopia. Rifondazione di una idea e di una
storia, Arrigo Colombo la definisce, servendosi da subito
3
Prendiamo il termine naturalmente dall’impiego di Nietzsche. Ci
richiamiamo però qui all’accezione propriamente etimologica del
lemma greco /paracharattein/ così come Nietzsche stesso lo trovava
presso Diogene Laerzio nel senso di «cambiare valore a una moneta»:
cfr M. Ferraris, “Preistoria della trasvalutazione”, in F. Nietzsche, La
volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano
1994, pp. 565-566.
4
R. Koselleck, Il vocabolario della Modernità, cit., p. 148. Da notare
che Koselleck, verso la chiusa del micro-saggio sull’utopia, dà del testo
di Mannheim una lettura sostanzialmente ottimistica, distaccandosi
radicalmente dalla posizione assunta da Adorno nei confronti delle tesi
contenute in Ideologia e utopia.
40
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
del lemma /distopia/ come modello di una società
perversa5, osservando come essa sia quel luogo più o meno
immaginario
In cui gli universali diritti umani sono conculcati, non in modo accessorio
ma in forza del modello e dei principi che lo informano. Non diciamo
progetto, in quanto non può essere termine di tensione progettuale
dell’umanità e della storia, anche se può essere progetto di un individuo,
di un gruppo, di un popolo, di una classe a carattere universale come
l’aristocrazia […].
Soprattutto nel nostro secolo la distopia soppianta l’utopia in campo
letterario: il modello viene costruito proiettando o anche esasperando
fattori storici in atto, talora perversi, talora in sé neutri o benefici, come
il socialismo (quello sovietico in particolare), il capitalismo, il
burocratismo, il pericolo della catastrofe, lo sviluppo tecnologico, quindi
la macchina, l’automa. Fattori che sono essenzialmente due: il potere
come controllo totale e la tecnologia come strumento di potere e
distruzione […]. L’intento è per lo più etico, di denunzia e monito;
ammonimento all’uomo, richiamo alla coscienza universale per lo più
tradita dalla classe politica a cui si affida, dalla classe economica che la
domina e mira solo al profitto. Ma risulta in definitiva distorsivo della
coscienza stessa in quanto la immette in una prospettiva del male, di
oppressione e catastrofe; in uno stato di sfiducia e quindi di fuga dal
futuro.
6
Alla luce di quanto espresso da Colombo possiamo ora
dedurre almeno quattro caratteri salienti della distopia:
1) la distopia è ferocemente deformante. Se l’utopia trovava
con grande difficoltà la giusta distanza e collocazione storica
rispetto al presente che doveva trasfigurare, la distopia si
situa perfettamente nel cuore della realtà attuale
esasperandone aspetti deleteri e mostruosi. L’utopia finiva
col fuggire dal mondo attuale, la distopia si incunea in esso
sottoponendolo a una pressante manipolazione grottesca
che finisce spesso con l’avere anche ricadute nella parodia.
2) La distopia naturalmente non ha scopi prognostici, non
obbedisce ad un principio di progettualità politica, non
5
A. Colombo, Utopia. Rifondazione di una idea e di una storia,
Dedalo, Bari 1997, p. 18.
6
Ivi, p. 13 e 21.
41
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
presenta un mondo futuro ma espone gli effetti concreti
contenuti in maniera più o meno latente nelle strutture
presenti. Proprio per questo motivo non è possibile vedere
la distopia come un doppio della utopia, ma solo come un
suo prodotto derivato, una sorta di suo riflesso alienato che
essa proietta non più verso l’avvenire ma nel cuore stesso
dell’attualità. L’utopia pertanto, proprio perché privata
delle sue potenzialità predittive, si ripiega nervosamente sul
presente smontandolo dall’interno, portandone alla luce
tendenze e tensioni minacciose.
3) Nonostante ciò la distopia è sempre proiettata nel futuro.
Ma ora esso non è altro che una sorta di controfigura del
presente. L’avvenire diventa la patologia insanabile dello
status quo. Esso pertanto non può in alcun modo essere
(ri)sanato, ma soltanto analizzato e studiato, conosciuto
nelle sue possibilità di peggioramento a raggio più o meno
lungo. È per questo motivo che la distopia, sa da una parte
rinuncia ad ogni postulato prognostico, dall’altra parte
assume su di sé i connotati sempre più marcati di una
operazione diagnostica solitamente rispondente al quadro
nosografico ormai decisamente compromesso.
4) In ultimo, se l’utopia si proponeva come un processo
animato da istanze palesemente e positivamente costruttive,
la distopia nasce da un pensiero contestatario ed è
impregnata di umori sovversivi. I mondi che essa postula si
collocano nello spazio incongruo di una contrazione
cronologica che schiaccia il futuro sulle malformazioni del
presente. La distopia pertanto sembra incarnare
concretamente quelle pulsioni rivoluzionarie che Marx
riteneva essenziali ad ogni progetto politico che prendesse
le mosse dalla disamina della società borghese. Soltanto ora
non si tratta più di rivoluzione programmata ma di pure e
scoordinate spinte ribellistiche che tramite la finzione
42
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
letteraria illustrano come realtà sempre più prossime gli esiti
nefasti della condizione politico-sociale presente.
A questo proposito merita una menzione Beatrice
Battaglia, la quale nella sua silloge dedicata proprio alla
distopia nella letteratura inglese nota come
[Essa] ha con la realtà storica e sociale in legame profondo e vitale, nel
senso che essa nasce come reazione ai principi e alle strutture
fondamentali che danno forma a quella realtà. Il futuro, in cui
caratteristicamente essa si colloca fin dal suo apparire nel secolo scorso,
è la proiezione o lo sviluppo di un disagio, di un malessere che in certo
modo fa già parte dell’esperienza contemporanea; come specchio, per
quanto ingrandito o deformato, di una situazione esistente e in fieri, essa
vuole mettere il lettore in rapporto consapevole con il presente. La
distopia è infatti, prima ancora che l’altra faccia di una qualche utopia, la
faccia nascosta o ignorata della realtà presente; più che un esercizio sul
possibile o sui possibili laterali, essa è la rappresentazione di un incubo
in parte già in atto e in vario grado collettivamente avvertito come tale.
7
Alla luce di quanto appena detto nel paragrafo seguente
prenderemo in esame due esempi di distopia tratti dalla narrativa
anglo-americana — Orwell e Bradbury — al fine di illustrarne
meglio i caratteri e specifici e le forme di attuazione letteraria.
8
II.2
Progettare (e amministrare) l’incubo.
Abbiamo scelto di concentrarci su due autori come Orwell
e Bradbury perché a nostro avviso le loro opere possono
risultare a tutti gli effetti esemplari di quella che potremmo
denominare una pragmatica della distopia. Dall’analisi dei
loro romanzi emergeranno una serie di rilievi i quali
potranno essere sottoposti ad un sorvegliato processo di
generalizzazione dei caratteri salienti della distopia, in forza
del quale avremo così ottenuto una sorta di preciso e fedele
7
B. Battaglia, Nostalgia e mito nella distopia inglese, Longo Editore,
Ravenna 1998, p. 13.
8
Ulteriori osservazioni sul volto d’ombra dell’utopia vengono
sviluppate da Wunenburger nel saggio che chiude il presente numero
monografico. Cfr infra J. J. Wunenburger, Variazioni su di un nonluogo.
43
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
ritratto di ciò che abbiamo deciso di chiamare dialettica
dell’utopia.
Se quanto esposto nel paragrafo precedente è vero,
dobbiamo innanzitutto osservare che in entrambi i romanzi
che andremo a studiare — 1984 di Orwell e Fahrenheit 451
di Bradbury — siamo di fronte ad una realtà futura propria
di un mondo disumanizzato, violento, massicciamente
colonizzato nelle sue strutture più capillari da una
tecnologia che rappresenta la controparte più marcata di
una scienza di cui si è perso il controllo, che si è distaccata
tragicamente dall’uomo sopraffacendolo, soggiogandolo,
deturpandone la fisionomia umana e dissolvendone ogni
tratto morale. Se per Marx l’utopia meritava d’essere
espunta dalla riflessione politica perché inabile ad
assimilare in sé delle forme propriamente scientifiche, la
distopia viene riammessa in questo tipo di discorso perché
fa luce sui possibili deragliamenti a cui proprio la scienza
può andare incontro.
Vi è quindi una prima notazione di carattere tematico da
fare: la distopia è portatrice di un messaggio ad altissimo
tenore apocalittico, ovvero essa mostra con precisione
chirurgica in che modo la dimensione umana potrebbe
essere nuovamente affetta da uno forma di soggezione
“metafisica” tanto più violenta e schiacciante quanto più
secolarizzata, cioè dalla metafisica del potere puro, la quale
imprigiona l’uomo nella ferrea costruzione invisibile della
propria logica pervasiva ed elefantiaca fino a condurlo alla
estinzione non tanto fisica quanto etico-psicologica.
Se infatti la distopia vuole mostrare la progressiva
disumanizzazione del mondo, rivelando nello stesso tempo
i congegni e le disposizioni di natura tecnico-scientifica e
politica con cui ciò viene perseguito e attuato, nello stesso
tempo ad essere messa in luce è anche la fine della
soggettività come luogo di riflessione e di consapevolezza.
La narrazione spesso deve penetrare a forza all’interno di
una psiche completamente azzerata, obnubilata da una
44
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
compressione di forze esterne che spersonalizzano i soggetti
fino a trasformarli in automi privi di identità definita o
definibile. Le difficili analisi psicologiche tentate dall’inizio
alla fine nei romanzi devono illuminare la desertificazione
interiore delle figure come riflessi della desolazione
esteriore in cui questi vivono e si muovono, non tanto
agendo, quanto piuttosto essendo agiti da moventi che esse
non sono in grado di penetrare ma da cui sono invece
penetrati senza alcuna forma di opposizione o resistenza.
Come l’universo distopico è solitamente uno spazio
chiuso, una cella amplificata fino a coincidere con tutta la
realtà, così la psiche dei soggetti è una dimensione
asfitticamente concentrazionaria di volizioni e tendenze
eterodirette, di pensieri deprivati d’ogni spontaneità e
genuinità, meccanicamente suggeriti da un sistema di falsi
bisogni e reali influenze coattive che rappresentano una
sorta di macro-psiche esterna al soggetto e perfusivamente
incanalata nei corpi passivi o soltanto reattivi degli uomini.
Non è un caso allora che uno dei dettami cardine del
sistema socio-politico di 1984 sia «l’Ortodossia consiste nel
non-pensare — nel non aver bisogno di pensare.
L’Ortodossia è inconsapevolezza»9, rivelando da un lato la
pretesa da parte degli apparati di potere di sostituirsi in toto
alle strutture razionali e cognitive dei soggetti, dall’altro
denunciando in maniera felpata una sorta di pericolosità
sociale del pensiero non irreggimentato, il quale
rappresenta una minaccia da estirpare in tutti i modi. Al
tempo stesso sinistramente informe e rigidamente coriacea
a tutti i possibili attacchi dei dissidenti, l’Ortodossia
costituisce un pericolosissimo precipitato in cui vengono a
contaminarsi in modo ormai indissolubile una versione
sottoposta a radicale deformazione grottesca della
tradizione laico-illuministica borghese con residui di una
patina goffamente religiosa che eleva quello stesso potere
9
G. Orwell, 1984, a cura di S. Manferlotti, Mondadori, Milano 2013,
p. 19.
45
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
ad un livello prossimo alla trascendenza, sganciandolo
quindi dal mondo alienato che esso secerne e
schermandolo così da ogni ipotizzabile attacco ribellistico.
La distopia qui funziona non tanto come una
rovesciamento della utopia, ma come una sua feroce
parodia. A questo proposito nota infatti ancora Beatrice
Battaglia:
Nineteen Eighty-Four […] è certamente una delle opere più adatte per
discutere l’utopia poiché questo fantasy presenta, sotto la forma di un
romanzo naturalistico, un complesso dibattito sull’utopia e una messa in
discussione del concetto tradizionale di utopia.
Oceania non è solo o semplicemente la rappresentazione di una realtà
distopica o la proiezione assurdizzata del presente, ma è anche una
parodia grottesca dell’utopia intesa come modello razionale o
programma ideale: è una denuncia che il promesso viaggio del Male
presente al Bene futuro in nome della Ragione collettiva è in realtà una
grande menzogna: il sacrificio dell’hic et nunc concreto ad un futuro
ideale, ossia il sacrificio del tempo all’eternità, l’asservimento del corpo
alla mente […] è il frutto del trionfo dell’astratto sul concreto, della parola
sull’azione. Orwell smaschera l’utopia come parola per mostrarla per
quello che è: strumento dell’«intelletto liberato», della ragione astratta in
preda alla tautologica follia dell’onnipotenza.
10
Ecco che quindi metatestualità e critica sociale si trovano
improvvisamente e proficuamente saldate nella distopia,
trasformata non solo in una forma di utopia negativa che
riflette sul presente trasfigurandolo in un futuro alterato, ma
anche in una forma narrativa che riflette innanzitutto su se
stessa e sulle potenzialità concrete della utopia. In effetti
non esiste un testo letterario che più di 1984 tenti di
interrogarsi non tanto sulle forme aberranti che l’avvenire
potrebbe assumere quanto sugli inganni che la prognostica
politologica sarebbe in grado di produrre al fine di mettere
in campo i presupposti perché quell’avvenire si realizzi, con
la sottaciuta presunzione di far passare quello stato di cose
ferocemente disforico come una realizzazione quasi
paradisiaca.
10
B. Battaglia, Nostalgia e mito nella distopia inglese, cit., p. 135.
Corsivo nostro.
46
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Utopia e distopia qui si intrecciano perversamente e
strettamente in un discorso pseudo-filosofico che si sviluppa
sulla falsariga delle utopie seicentesche calate però in una
situazione politico-sociale la quale non può non farsi carico
del palese fallimento di tutte quelle istanze velleitariamente
ottimistiche che reggevano il vecchio paradigma utopico. In
sostanza Orwell mette in scena una sorta di meta-utopia per
dimostrare come essa possa perfettamente realizzarsi nel
presente — il presente della finzione narrativa — a costo però
di inguainare quest’ultimo in una sorta di macroscopica
bolla ideologica la quale permei sottilmente e
pervicacemente ogni aspetto e momento della realtà.
Critica e autocritica, ironia, parodia, utopia e ipertestualità si trovano a giocare l’una sull’altra e l’una contro
l’altra, in un sistema di inscatolamenti paradossalmente
infiniti, i quali non smettono di complicare i loro rapporti,
sviluppando un diagramma fitto, intensivo e trasversale di
raccordi e intersezioni — ma sarebbe più giusto definirli
deliberate interferenze — da cui è difficile uscire. 1984
risulta a questo punto un magistrale luogo di scambi e
sostituzioni tra livelli di riflessione e di argomentazione
diversi ma concordanti. Se da un lato esso appare come una
variante distopica della progettazione politica a lungo
raggio, dall’altro lato il romanzo non può non proporsi con
i tratti di una considerazione meta-testuale sulle possibilità
effettive che ha una utopia — distorta in negativo — di
pronunciarsi sul futuro. Tale doppio livello ne genera un
terzo che è quello che porta la narrazione a ripiegarsi sul
presente — questa volta quello reale dell’autore — il quale
viene tematizzato nelle sue strutture profonde — o recondite
— da cui è possibile far emergere in modo indiretto —
tramite cioè la finzione letteraria — le vaste e ramificate
componenti ideologiche le quali si trovano ad essere messe
in scena, e quindi svelate nella loro malcelata efficacia
deformante, nella capillare descrizione che l’autore fa delle
47
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
brutture — palesi ma mistificate — del totalitarismo ritratto
in 1984.
Possiamo quindi dire che nel romanzo di Orwell accade
qualcosa che non si verifica in nessun altro romanzo
ascrivibile al filone della distopia: esso non solo si presenta
come una utopia elevata a potenza, ma mostra in tutto il suo
vigore quale sia lo strumento principe attraverso cui le
malformazioni del presente — finzionale — vengono
deformate agli occhi dei cittadini-sudditi facendole passare
come realizzazioni normali e fisiologiche di un regime
politico interamente accettabile e razionale: tale strumento
è il linguaggio. 1984 pertanto, oltre a rivestire un ruolo di
autocritica della utopia, rivela il proprio marcatissimo
intento smascherante inducendo il lettore a riflettere su
quella che è la materia stessa di quella riflessione, ovvero la
parola, il discorso, le formazioni linguistiche specifiche che
Big Brother conia per rendersi al tempo stesso
onnipresente ma invisibile, come una sorta di natura
artificiale che si stende sulle cose mimandone a perfezione
la superficie imperfetta, infettandola però di mistificazione.
Ecco come Battaglia illustra questo modus operandi di
Orwell:
[Esso ha] indicato nel linguaggio il principale strumento attraverso il
quale il processo di secolarizzazione tende a distruggere, oltre all’al di là,
anche il promesso al di qua e insieme l’uomo stesso […]. La realtà però
non [viene] ridotta e poi negata attraverso un impoverimento, un
progressivo restringimento, quantitativo e qualitativo, del linguaggio; la
realtà [si dissolve] nell’allargamento, nel moltiplicarsi delle paroles,
nell’autoriproduzione, in una inarrestabile inflazione del linguaggio. Il
criterio non [è], come più giustamente aveva previso Huxley, quello, in
qualche modo sempre individuante, della limitazione e della costrizione,
ma quello della emancipazione, della liberazione totale, che di fatto si
realizza nel suo contrario, in quanto obbligo ad un continuo
rinnovamento, ad un’incessante trasformazione ossia autonegazione.
11
Nonostante le traversie che il concetto di utopia ha
conosciuto dai suoi esordi nel Seicento fino al Secolo
11
Ivi, p. 39.
48
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Breve, un sottilissimo ma infrangibile filo rosso sembra
legare More a Orwell: la parola è in entrambi gli autori
protagonista assoluta. Il linguaggio crea forme alternative di
mondi possibili che non solo narrano di un altrove del
mondo in cui le cose vanno diversamente dalle realizzazioni
effettive, ma prospettano linee di speculazione altrimenti
imponderabili.
L’Utopia del filosofo inglese era un figmentum
completamente slegato rispetto alla Inghilterra del Seicento.
Nonostante ciò le creazioni verbali dell’autore
trasformavano quell’isola in uno spazio libero di
postulazioni che non potevano non tornare, cariche di un
portato critico più o meno marcato, sulla realtà presente
illuminandola dall’interno in ciò che essa aveva di
problematico. Nello stesso modo, il linguaggio di Orwell
esplode nella mente del lettore con una forza
precipuamente anti-ideologica incontenibile: là dove la
parola del totalitarismo serve a manipolare la realtà,
mostrandola diversa da quella che è, operando in essa come
un dispositivo cosmetico — di ordine e abbellimento
posticci e superficiali — la meta-parola del romanzo disfa
dall’interno l’ordito viscido di quella trama ignobile,
facendone saltare le mistificazioni attraverso un intervento
su quelle stesse strutture semantiche con cui suddette
mistificazioni vengono attuate.
Non è un caso allora che il mito, un difficile e nostalgico
recupero del mito — inteso qui anche nella sua accezione
prettamente etimologica — si profili come uno dei motivi
interni della narrazione, quasi a suggerire con esso il
ripristino di uno spazio puro e forse vergine di rinnovata
dicibilità del mondo anteriore ad ogni adulterazione
ideologica più o meno consapevole.
Anomia sistematizzata e sterilizzante, elevata a struttura
tentacolare che domina e controlla, e eterotopia del
linguaggio sono i due epicentri di sviluppo della vicenda
orwelliana. Se il primo si manifesta nel romanzo con le
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
fattezze di un governo metastatico nei suo organi di potere
e veicolato da una potenza verbo-visiva che occlude il
pensiero stesso giungendo ad occupare lo spazio stesso
solitamente riservato ad esso, il secondo, doppiando le
produzioni e le ipostasi stesse del potere come una sorta di
mimetica infiltrazione eversiva, ora lo porta al collasso ora
lo manda in stallo, dimostrando così che tale potere può
funzionare a pieno regime soltanto se incassato all’interno
di una organizzazione compatta e coesa di dispositivi
manipolatori che si giustifichino e legittimino a vicenda.
In tal modo Orwell ci dice che il potere finisce dove
(ri)comincia la capacità demistificatrice del linguaggio, di un
linguaggio chiamato a veicolare un pensiero sempre
prossimo alla insubordinazione, non addomesticato e non
addomesticabile, ancora in grado di sognare e produrre
spazi di senso nuovi, vergini seppur embrionali o solamente
aurorali, uno spazio di senso, il quale non deve
assolutamente valere come luogo dell’ennesima proiezione
utopica — la quale finisce con l’esser l’alibi ove rifugiarsi
rispetto alle urgenze del presente — ma come dimensione
atopica in cui sottoporre a decompressione la asfissianti e
assedianti forze costrittive proprie del sistema di dominio.
II.3
L’ingranaggio e la pagina
Pochi romanzi possono vantare un esordio che saldi in uno
stesso plesso di immagini e descrizioni un incontenibile
afflato di vibrante lirismo con una dettagliata scena di
distruzione. Fahrenheit 451 ci riesce in un modo a dir poco
magistrale. Vale quindi la pena riportare il formidabile
incipit di questo romanzo pubblicato nel 1953:
Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse.
Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che
sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava
contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale
50
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti,
incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della
storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla stolida testa,
con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe
accaduto la prossima volta, l’uomo premette il bottone dell’accensione e
la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il
cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo. Egli camminava
dentro una folata di lucciole. Voleva soprattutto, come nell’antico
scherzo, spingere un’altea su un bastone dentro la fornace, mentre i libri,
sbatacchiando le ali di piccione, morivano sulla veranda e nel giardinetto
della casa, salivano in vortici sfavillanti e svolazzavano via portati da un
vento fatto nero dall’incendio.
Montag ebbe il sorriso crudele di tutti gli uomini bruciacchiati e
respinti dalla fiamma.
12
La distopia immaginata da Bradbury ha sembianze molto
diverse da quella orwelliana. L’inizio, ad esempio, è
all’insegna di un portato latamente euforico: Montag è un
ingranaggio fra gli ingranaggi; egli porta il fuoco, è vettore di
una luce abbagliante e famelica — rispetto all’untuoso
grigiore di 1984 — pervasivamente distruttiva, simbolo di
estinzione lucidamente perseguita, emblema di una
cancellazione minutamente condotta a termine; la fiamma
alitante del suo fidatissimo strumento di lavoro opera qui
come un immediato elemento di discriminazione tra il
bruciabile e l’incombusto, tra la remissiva presenza della
carta divorata senza speranza dal fuoco — carta simbolo dei
libri, i libri specimina di parole e segni capaci ancora di
postulare mondi possibili altri rispetto a quello in cui vive il
protagonista — e quanto non può ardere in alcun modo, il
metallo e il cemento propri di un mondo perfettamente
centrato su se stesso.
Giubilo e soddisfazione sono le reazioni e le emozioni
di Montag, il primo legato al processo di variopinta
distruzione a cui egli dà luogo — le sequenze dedicate alla
rappresentazione degli incendi sembrano descrizioni di
aerei e immateriali quadri astratti, come se nelle sfumature
cromatiche che si liberano dalla carta bruciata venissero a
12
R. Bradbury, Fahrenheit 451, a cura di G, Monicelli, Mondadori,
Milano 1989, p. 5.
51
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
trasfigurarsi i significati di libertà contenuti nelle pagine
ormai polverizzate — la seconda pronta sempre a
manifestarsi nell’attimo in cui Montag riflette su quanto ha
appena fatto.
Se per Orwell si trattava di illustrare la storia di uno
smascheramento, di un processo minuzioso ma ostinato —
e non del tutto riuscito — di demistifcazione condotto sul
linguaggio tramite il linguaggio, in Bradbury l’impostazione
e gli intenti mutano del tutto e la trama si avvolge
completamente attorno al processo di maturazione che
interessa Montag. La distopia è smontata dall’interno: a
venire meno è all’improvviso una componente rilevante
della possente macchina(zione) tecnologica su cui si regge il
governo. Qui il protagonista non è semplicemente
sottoposto ai dispositivi di controllo e censura, ma è esso
stesso uno di questi dispositivi, ne incarna a pieno le
procedure di rimozione: in modo definitivo — e giubilatorio
— egli cassa ciò che potrebbe indurre al dubbio, alla
riflessione, alla incrinatura di una perplessità. Il mondo
deve apparire invece un puro specchio riflettente, mimare
la piatta vacuità di un pensiero senza contenuto, senza
nerbo, senza spessore, finalizzato unicamente a incamerare
dati precostituiti e già ampiamente disinnescati rispetto a
ogni carica critica.
Montag è così particella infinitesima ma essenziale di
questo mostruoso e ben calibrato meccanismo che fagocita
informazioni scomode e non inquadrabili. Tuttavia egli,
quasi involontariamente e inconsapevolmente, ha una
caratteristica inestirpabile: è capace di pensiero; sebbene
programmato per distruggere ciò che induce alla riflessione,
egli reca insanabilmente in sé i germi temibili di quella
attività che lui è chiamato a osteggiare e interrompere.
Fahrenheit 451 è quindi la storia di una effrazione
endogena che si produce nel sistema in modo inaspettato
ma inarrestabile. La configurazione distopica qui genera dal
proprio seno gli anticorpi che dovranno mettere fine ad
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
essa. Se con Orwell l’utopia si era estroflessa in un
accavallamento ordinato e fecondo di distopia e parodia,
qui è proprio la prima a secernere i presupposti fecondi per
una liberazione traumatica dalle calcificazioni opprimenti in
cui si manifesta il potere.
Ancora una volta utopia e distopia intrattengono un
rapporto controverso, di intestina e paradossale
interdipendenza, non conflittuale ma di sotterranea
congruenza e convergenza. La rinascita “intellettiva” di
Montag corrisponde ad un cedimento progressivo dei
vincoli e dei legami che il potere aveva tessuto intorno a lui.
Ma il fatto che sia proprio un soggetto che incarnava i mezzi
di salvaguardia e proliferazione di quei vincoli ad uscire dal
sistema, rende il collasso endogeno del potere non solo più
grave, grottesco e irreparabile, ma ne rivela anche tutta la
profonda vulnerabiltà.
È ancora una volta la fiamma a fare da discrimen tra il
versante distopico e quello utopico, versante quest’ultimo
nervosamente
orientato
verso
una
liberazione
rivoluzionaria e catastrofica. Si legga il seguente passo tratto
dal secondo capitolo:
Con un ultimo balzo nell’aria [il Segugio] piombò su Montag da un buon
metro al di sopra della sua testa con le sue zampe di ragno, protese il
pungiglione alla procaina che spuntava fuori come un unico dente
velenoso. Montag lo colse al volo con uno sboccio di fuoco, un solo
stupendo sboccio che si arricciò in petali gialli, azzurri e arancione
intorno al cane di metallo, lo rivestì di una nuova corazza nell’istante in
cui piombava su Montag e lo respingeva per una decina di passi contro
il tronco di un albero, sempre col lanciafiamme tra le mani. Montag sentì
che il Segugio si agitava pazzamente, gli afferrava una gamba e aveva già
cominciato a piantargli l’ago – un solo istante – nella gamba: ma in quel
momento il getto di fuoco lanciò il Segugio in aria, facendo scoppiare le
sue ossa metalliche alle giunture, mentre l’interno esplodeva in una sola
fiammata rossa, come un razzo aereo legato alla strada. Montag disteso
per terra vide la creatura morta-viva morire.
13
Dopo aver dato fuoco alla propria casa – spazio di
sedimentazione decennale delle strutture di potere alienanti
13
Ivi, p. 133.
53
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
e livellanti — Montag fugge alla ricerca di un luogo estraneo,
altro, alieno da ogni alienazione; ma prima di raggiungere
questa zone di confine, prima di occupare questa terra di
nessuno egli deve affrontare e superare la carica del Segugio
meccanico. La scena è intrisa di un forte impulso dinamico
e drammatico, l’aggressione alla gamba ricolloca Montag
nel suo stesso corpo e al tempo stesso fa sì che il congegno
di controllo venga improvvisamente oggettivato come un
elemento improprio della sua vita, spingendo in tal modo il
protagonista a dargli fuoco.
La fiamma, ora libera, erompe potente fino a distruggere
del tutto ciò che conculcava l’autonomia più profonda del
soggetto. Se prima la combustione trovava la sua
controparte elettiva nella carta — ipostasi palese della carne
dei dissidenti — e al libro — simbolo esplicito di un pensiero
eversivo condannato al rogo ideologico — ora essa colpisce
e devasta direttamente il versante meccanico del governo,
divenuto preda di una scissione intestina insanabile, poiché
è proprio un suo (ex) funzionario che fa fuoco contro un
dispositivo di sorveglianza: le due figure antagoniste del
passo appena riportato, prima allineate in una medesima
opera di repressione, ora tentano di sopprimersi a vicenda.
Un puntuale e calibrato rovesciamento di termini
accompagna la rinascita di Montag: la fiammata distruttiva
che divorava i libri in apertura riducendoli in funebri
«farfalle di cenere» ora investe direttamente la tecnologia
inebetente e livellante che aveva sostituito la pratica della
lettura, tramutandola in una farandola variopinta la quale
invade e fagocita l’attonito biancore degli schermi spenti. Si
legga questo passaggio più che significativo:
E così giunse nel salotto dove i grandi mostri idioti giacevano
addormentati coi loro bianchi pensieri e sogni nivei. E Montag lanciò una
raffica contro ognuna delle pareti senza vita e il vuoto d’aria delle valvole
schermate gli rispose sibilando. La vacuità rese il sibilo ancor più vuoto,
un urlo senza senso. Egli cercò di pensare al vuoto su cui si era
rappresentato il nulla, ma non poté. Trattenne il fiato poiché il vuoto non
avesse a entragli nei polmoni. Ne allontanò la terribile vacuità,
indietreggiò e dette all’intera camera un dono un gran fiore giallo,
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
incandescente, di fuoco. Il rivestimento di sostanza plastica a prova di
fuoco che ricopriva ogni cosa si spaccò in un largo squarcio e la casa
cominciò a fremere tutta di fiamma.
14
Il fuoco che avvolge lo schermo bianco dei monitors
richiama l’infiammarsi improvviso del pensiero dinanzi alla
molle catatonia di un asservimento felpato e feroce.
Bradbury oppone la pagina gremita del libro, la memoria
vigile e solerte del lettore alla sterile inerzia dello schermo,
muto e ottenebrante, alludendo in tal modo al fatto che la
realtà lobotomizzata del futuro distopico non riesce in alcun
modo a produrre un calco mimetico di ciò che il Potere ha
generato. La rappresentazione stessa del presente quindi
risulta intrinsecamente contraffatta, costitutivamente
compromessa ab ovo con quei moduli di raffigurazione che
hanno innanzitutto lo scopo di eludere la loro stessa
espressione.
La brutale cosmesi a cui il Governo ha dato corpo può
solo mostrare gli effetti ma non le matrici in base a cui essa
viene resa operante. Lo schermo nudo che appare
nell’episodio dell’ecpirosi liberatrice appena riportato
rimanda alla incapacità di riflettere su se stessi propria di
tutti i raffinatissimi meccanismi di morbida repressione e
capillare controllo messi a punto dal Governo, ovvero alla
incapacità di riflettere sulle loro disumane finalità, sui loro
presupposti sinistramente ideologici, sulle loro pratiche di
radicale rimozione psico-fisica dei soggetti non allineati.
La pletora di immagini addomesticate che fiotta
ininterrottamente dai monitors strangola lo sguardo degli
spettatori, ne occlude le capacità di visione, ne ottunde le
capacità immaginative colonizzandole con dei patterns di
rappresentazione preformati e stantii, rassicuranti e
avvolgenti. La visibilità stessa del mondo dispiegata sugli
schermi è la trappola sottile e invisibile in cui si trovano
invischiati i personaggi del romanzo: visibilità piatta,
14
Ivi, p. 129.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
assolutizzante e annichilente, presenza pura di una
immagine che ostenta se stessa proponendosi quale unica
forma di predicazione possibile, legittima e ortodossa
riferita al reale.
Danzando sul filo tagliante che mette in contrasto
dialettico la pagina scritta con lo schermo vuoto, Bradbury
fa scorrere lungo di esso una serie di elementi che, una volta
analizzati da vicino e riordinati secondo una precisa chiave
di lettura, evocano per forza di cose la felpata fisionomia di
una dimensione che possiamo a pieno diritto chiamare
ideologica.
Se il libro, come dice esplicitamente il vecchio Faber in
un dialogo con Montag custodisce all’interno della sua
irrefutabile materialità di oggetto una «una vita che scorre
come una fiumana in infinita profusione»15, lo schermo è ciò
che senza essere visto, percepito o notato dà luogo a tutte le
figure sensibili che non solo strutturano e popolano la realtà
messa a punto dal Governo, ma la rendono accettabile e
condivisa, proponendola come l’unica versione possibile,
come il migliore dei mondi possibili.
Onnipresente senza essere mai visto nella sua identità di
amplificatore ideologico, il monitor è ciò che deve essere
guardato poiché, nel momento in cui lo sguardo si posa su
di esso, questo si riempie di immagini, informazioni, segni,
fattori di una irreggimentazione interpretativa univoca e
preordinata della realtà che essi mettono in scena: lo
schermo stesso è così simbolo e veicolo della ideologia,
pervasivo ma inavvertibile, invadente sebbene sempre
irreperibile, spettrale e oppressivo perché sempre protetto
dalla folla di figure che esso ininterrottamente secerne.16
15
Ivi, p. 92. Sebbene non evochi mai il romanzo di Bradbury, Agamben
in un saggio de Il fuoco e il racconto sviluppa delle osservazioni molto
prossime a quelle contenute in queste pagine di Fahrenheit 451, cfr G.
Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma 2014, pp. 87-111.
16
R. Bradbury, Op cit, pp. 62 e soprattutto 93. Sorprendente è la
prossimità di Bradbury rispetto ad alcune tesi sul cinema e la televisione
esposte qualche anno prima dai francofortesi in Dialettica
56
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Forzando forse un po’ la mano, potremmo dire che in
Bradbury l’utopia si riafferma con i caratteri precisi e
vigorosi di una fenice: essa rinasce dalle proprie ceneri,
rifiorisce completamente rigenerata dai cascami informi di
una chirurgica distillazione di precipitati distopici che non
riescono più ad occupare in modo convincente lo spazio
prima appartenuto alla utopia.
Se Orwell richiamava in causa quest’ultima per
assimilazione e contaminazione di generi, temi, modi e
moduli, Bradbury la fa riapparire in scena non scalzando la
distopia o sottoponendola a ibridazione, ma piuttosto
dimostrando come questa non possa, condotta ad un certo
grado di tensione degli elementi interni, non rovesciarsi
nuovamente in una fluida e dinamitarda prospezione
utopistica.
La distopia appare ora come una sorta di travestimento
vitale, di bozzolo da incubazione in cui l’utopia si è rifugiata
per rigenerarsi: essa sorge rinnovata, risanata, potenziata
perché alleggerita da quella responsabilità di impegno
scientificamente politico a cui la ricezione marxiana l’aveva
costretta. Adesso l’utopia è ancora in grado di pronunciarsi
sul futuro, sia prospettandone gli esiti nefasti — nella sua
coloritura densamente distopica — sia tentando di indicare
le eventuali vie d’uscita a fronte di tali esiti. In ottemperanza
a quell’afflato prognostico che abbiamo visto essere uno dei
caratteri precipui e inestirpabili dell’utopia, questa pertanto
da una parte interroga il presente sondandone le possibilità
future, dall’altra cerca di progettare l’avvenire vagliando — e
scartando — le attitudini degenerative ravvisabili nel
presente.
dell’Illuminismo, cfr M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica
dell’illuminismo, trad. di L. Vinci, Einaudi, Torino 1966, pp. 125-137
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Quel che resta dell’utopia
APPENDICE II
[Utopia delle immagini, atopie del reale]*
di Jean Baudrillard
Ciò che voglio evocare a proposito dell’immagine in
generale (l’immagine dei media, l’immagine tecnologica) è
la perversità della relazione dell’immagine e del suo
referente, il supposto reale, la confusione virtuale e
irreversibile della sfera delle immagini e della sfera di una
realtà di cui noi possiamo sempre di meno cogliere il
principio.
Sono molti i modi di questo assorbimento, di questa
confusione, di questa seduzione diabolica delle immagini.
Ciò che bisogna mettere in dubbio, in un modo radicale, è
il principio di una referenza dell’immagine, stratagemma
tramite cui essa dà sempre l’aria di riferirsi a un mondo
reale, a degli oggetti reali, di riprodurre qualcosa che le
sarebbe logicamente e cronologicamente anteriore. Nulla di
tutto questo è vero. In quanto simulacro, l’immagine
precede il reale nella misura in cui essa inverte la
successione logica, causale, del reale e della sua
riproduzione. Benjamin aveva già fortemente puntato
l’attenzione su questo, su questa rivoluzione moderna
dell’ordine della produzione (del reale, del senso) tramite
la precessione, l’anticipazione della sua riproduzione, nel
suo saggio intitolato L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica.
È precisamente qui che essa appare più veridica, più
fedele, più conforme al reale (e le nostre immagini tecniche,
che siano foto, cinema o televisione, sono nella loro
immensa maggioranza molto più «figurative», «realiste» di
*
Testo inedito di J. Baudrillard. Il titolo tra parentesi quadre è nostro.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
tutte le immagini delle culture passate) — è qui precisamente
che l’immagine è la più diabolica, è nella sua rassomiglianza
(non più soltanto analogica, ma tecnologica) che l’immagine
è la più immorale e la più perversa.
Già lo specchio e la sua apparizione hanno introdotto
nel mondo delle percezioni un effetto ironico di trompel’oeil e si sa quale maleficio si ricolleghi all’apparizione del
doppio. Questo è vero anche di tutte le immagini che ci
circondano — le si analizza in generale in funzione di una
presenza e di un senso. Nella loro immensa maggioranza,
le immagini attuali, foto, cinema, televisione, sono ritenute
testimoniare il mondo con una rassomiglianza ingenua, con
una fedeltà toccante. Noi riconosciamo loro
spontaneamente una affidabilità nel loro realismo.
Abbiamo torto. Esse fanno semplicemente finta di
rassomigliare alle cose, al reale, agli eventi, ai volti. O
piuttosto esse sono veramente conformi, ma è il loro stesso
conformismo che è diabolico.
Si potrebbe trovare un equivalente sociologico e politico
di questo conformismo diabolico, di questo malin génie del
conformismo nel comportamento moderno delle masse
che sanno obbedire così bene ai modelli che gli si propone,
sanno riflettere così bene gli obiettivi che gli si impone e in
tal modo si riesce ad assorbirle e ad annientarle. C’è in
questo conformismo una potenza di seduzione nel senso
letterale del temine, vale a dire di sviamento, di distorsione,
di captazione e fascinazione ironica.
Più generalmente, non è nel suo ruolo di riflesso, di
specchio, di contropartita del reale, di forma
rappresentativa che l’immagine è interessante, ma è quando
essa comincia a contaminare il reale e a modellizzarlo,
quando essa non si conforma più al reale che per
deformarlo meglio, quando essa assottiglia il reale a suo
profitto, quando essa lo anticipa in modo tale che questo
non ha più il tempo di prodursi in quanto tale.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Nella relazione dialettica del reale e dell’immagine (che
noi vogliamo credere dialettica, vale a dire leggibile nel
senso che va dal reale all’immagine) da tempo l’immagine
ha avuto la meglio e ha imposto la sua propria logica, una
logica immanente, effimera, senza profondità, immorale, al
di là del vero e del falso, al di là del bene e del male, logica
di sterminio del suo proprio referente, logica di implosione
del senso in cui il messaggio scompare all’orizzonte del
medium. Lassù noi rimaniamo collettivamente presi da una
ingenuità incredibile, noi pretendiamo sempre di trovare un
buon uso, vale a dire un uso morale, sensato, pedagogico,
informazionale, dell’immagine, senza vedere che
l’immagine si rivolta in qualche modo contro questo buon
uso, essa non è conduttrice del senso né del buon senso,
ma al contrario di una implosione, di una denegazione del
senso (dell’evento, della storia, della memoria, ecc).
Pensiamo all’episodio di Holocausto, trasmissione
televisiva sui campi di sterminio.
Per tutti questi motivi io non credo a una pedagogia
dell’immagine, né a quella del cinema, né a fortiori a quella
della televisione. Io non credo a una dialettica
dell’immagine e del reale, né quindi, in fatto di immagine,
a una pedagogia del messaggio e del senso. Il segreto
dell’immagine (parliamo sempre delle immagini tecniche e
contemporanee) non deve essere cercata nella sua
distinzione con il reale e quindi nel suo valore di
rappresentazione (valore estetico,critico o dialettico), ma al
contrario nel suo rapporto telescopico con il reale, nel suo
cortocircuito con il reale e in fine nella implosione
dell’immagine e del reale — esiste per noi una indistinzione
definitiva dell’immagine e del reale che non lascia più
spazio alla rappresentazione in quanto tale.
Questa collusione dell’immagine con la vita, dello
schermo con la vita quotidiana voi la sperimentate tutti i
giorni come la cosa più naturale del mondo. In America in
particolare, ove non vi è un fascino minore rispetto
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
all’esterno delle sale cinematografiche, tutto il paese è
cinematografico. Percorrete il deserto come un western, le
metropoli come uno schermo continuo di segni e di
formule. La vita è un travelling, ovvero un percorso
cinetico, cinematico, cinematografico. C’è lo stesso livello
di piacere rispetto a una città italiana o olandese in cui,
lasciando i musei, voi ritrovate una città a immagine della
pittura, come se esse fossero uscite da quelle sale. C’è qui
una sorta di miracolo che ridà, anche nella banalità
americana, una sorta di forma estetica, confusione ideale
che la trasfigura come in sogno. È qui che il cinema non
riveste la forma eccezionale di un’opera (anche geniale), è
qui che esso investe la vita intera di una ambientazione
mitica, è qui che esso è veramente appassionante. Per
questo l’idolatria delle stars, il culto degli idoli holliwoodiani
non è un patologia mediatica, ma è una forma gloriosa di
cinema, la sua trasfigurazione mitica, l’ultimo grande mito
forse della nostra modernità. Proprio nella misura in cui
l’idolo non rappresenta niente, ma si consegna come una
pura immagine passionale, contagiosa, che cancella la
differenza tra il reale e la sua assunzione nell’immaginario.
Le stars non sono un supporto romanzesco. Esse sono
un ideale violentemente realizzato. Si dice: esse fanno
sognare, ma sognare è altra cosa dall’essere affascinato da
immagini. Ora gli idoli dello schermo sono immanenti allo
svolgimento della vita in immagini. Esse sono un sistema
della prefabbricazione lussuosa, sintesi brillanti di stereotipi
della vita e dell’amore. Esse incarnano una sola passione:
quella dell’immagine e l’immanenza del desiderio nella
immagine. Esse non fanno sognare, esse sono il sogno, di
cui hanno tutte le caratteristiche: producono un forte effetto
di condensazione (di cristallizzazione), di contiguità (sono
immediatamente contagiose); e soprattutto esse hanno quel
carattere di materializzazione visuale istantanea
(Anschaulichkeit) del desiderio che è anche quello del
sogno. Esse non conducono quindi alla immaginazione
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
romanzesca o sessuale, esse sono visibilità e trascrizione
immediate, collage materiale, precipitazione del desiderio
nell’immagine. Feticci, oggetti-feticcio che non hanno nulla
a che vedere con l’immaginario, ma completamente
compromessi con la finzione materiale dell’immagine.
Questa fascinazione bruta, al di qua o al di là di ogni
determinazione morale o sociale, non è quella del sogno o
dell’immaginario intesi nel senso tradizionale. Altre
immagini hanno saputo farci sognare o immaginare, la
pittura, il disegno, il teatro, l’architettura e altri mezzi di
espressione (senza dubbio il linguaggio fa sognare molto
meglio dell’immagine). C’è qualcos’altro oltre a questo e
che è proprio delle nostre immagini-media moderne: se
esse ci affascinano a tal punto non è perché esse siano un
luogo di produzione di senso e di rappresentazione, ma
perché esse sono al contrario il luogo della scomparsa del
senso e della rappresentazione — un luogo che ci tiene
sospesi da ogni giudizio di realtà, quindi il luogo di una
strategia fatale di denegazione del reale e del principio di
realtà.
Siamo giunti al paradosso che l’immagine, le nostre
immagini, quelle che si infrangono sulla nostra quotidianità,
che invadono la nostra vita e la cui proliferazione è
potenzialmente infinita (là dove l’estensione del senso è
sempre limitata proprio dalla sua fine, dalla sua finalità —
l’immagine in fondo non ha alcuna finalità e procede per
contiguità radicale, moltiplicandosi secondo un processo
epidermico irresistibile, che nessuno può oggi controllare –
il nostro mondo è divenuto davvero infinito, o piuttosto
esponenziale tramite l’immagine, preso in una corsa folle
all’immagine, in una fascinazione sempre più grande che
non fa che accentuarsi con il video e l’immagine digitale),
noi siamo quindi giunti al paradosso che queste immagini
descrivono per noi l’impossibilità del reale e
dell’immaginario.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Tra il reale e l’immaginario e rompendo la bilancia tra
questi due, il medium, il medium-immagine si è imposto
per noi con una sorta di fatalità che ha la sua logica specifica.
Io dico che abbiamo qui un processo fatale nel senso di una
immanenza definitiva dell’immagine, senza trascendenza
possibile di senso, senza dialettica possibile della storia —
fatale anche nel senso esponenziale: non più di sviluppo
lineare delle immagini e del messaggi, ma di enroulement
esponenziale del medium attorno a se stesso. La fatalità è
in questo imbozzolamento senza fine (letteralmente: senza
destinazione) delle immagini che fa in modo che non vi sia
più altro destino per l’immagine che l’immagine. La stessa
cosa si produce oggi ovunque, dal momento che non vi è
più altro destino per la produzione che la produzione stessa
— poiché non vi è più altro destino per il sesso che il sesso
— sovradeterminazione sessuale della sessualità. Questo
processo è oggi ovunque recuperabile, sia nel bene che nel
male. Quindi nell’assenza di regole del gioco le cose
mettono in opera la propria strategia e l’immagine diventa
più reale del reale e il cinema diventa più cinema del
cinema in una sorta di vertigine in cui esso non fa altro che
rassomigliare a se stesso, fuggendo nella sua propria logica,
nella perfezione del suo stesso modello.
Da qui deriva, credo, la dimensione erotica specifica
della nostra imagerie attuale. In molti casi questa imagerie
erotica e pornografica — tutta quella panoplia pubblicitaria
di seni, di cosce, di sessi, lo squadernarsi del corpo nudo e
del corpo sessuale — non ha altro senso che questo: non la
sollecitazione di qualche desiderio, ma la rappresentazione
della oggettività inutile delle cose (là dove la seduzione è
una sfida alla oggettività inutile delle cose). Il sessuale, la
nudità, nella pubblicità e altrove, serve solo come effetto
speciale, effetto di credibilità, un tentativo disperato per
sottolineare l’esistenza di qualcosa. Il sessuale non è che un
rituale della trasparenza. Esso, che bisognava nascondere,
non serve più paradossalmente che a mascherare il poco di
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
verità, il poco di realtà — e certo partecipa anch’esso a
questa passione disincarnata.
Ma da dove deriva allora per noi la fascinazione per
queste immagini erotiche o pornografiche? Certamente
non dalla seduzione. In effetti noi non lo guardiamo affatto.
Perché vi sia sguardo è necessario che un oggetto si veli e si
sveli, scompaia ad ogni istante poiché vi sia nello sguardo
qualche sorta di oscillazione. Queste immagini nude al
contrario non sono prese in un gioco di emergenza e
scomparsa. Il corpo è già lì, come gli altri oggetti, senza la
scintilla di una assenza possibile, nello stato di disillusione
radicale che è quello della pura presenza. In una vera
immagine alcune parti sono visibili e altre no, le parti visibili
rendono le altre invisibili e si innesca una sorta di ritmo
dell’emergenza e del segreto, una linea di fluttuazione
dell’immaginario. Dal momento che qui tutto è in una
visibilità uguale, tutto condivide lo stesso spazio senza
profondità. E la fascinazione viene giustamente da qui, da
questa disincarnazione, è l’estetica della disincarnazione di
cui parla Octavio Paz. La fascinazione è questa passione
disincarnata di uno sguardo senza oggetto, di uno sguardo
senza immagine. Da tempo ormai tutti i nostri spettacoli
mediatizzati, compreso quello del corpo, del sesso, hanno
oltrepassato il muro della stupefazione. Quella di una
esacerbazione vetrificata del corpo, di una esacerbazione
vetrificata del sesso, di una scena vuota in cui più nulla ha
luogo e di cui però lo sguardo è riempito. Non è più quella
del sesso, è anche quella della informazione, o quella della
politica: nulla vi ha luogo e tuttavia noi ne siamo saturati.
Desideriamo questa fascinazione? Desideriamo questa
forma della presenza pura, desideriamo questa oggettività
pornografica del mondo? Come saperlo... Ma d’altra parte
questa oscenità e questa indifferenza che la caratterizzano
non la conducono per forza ad un punto morto. Esse
possono eventualmente ridiventare valori collettivi, dei
valori-rifugio; attorno ad esse vediamo ricostituirsi nuovi
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
rituali della trasparenza. D’altra parte ancora noi non
facciamo altro che recitare la commedia della oscenità, la
commedia della sessualità, così come presso altre società si
recita la commedia della ideologia, come presso la società
italiana per esempio, si recita la commedia della confusione
e del terrorismo.
Nella pubblicità è la commedia del corpo femminile
denudato e prostituito che si recita (da cui la ingenuità delle
recriminazioni contro questa prostituzione del corpo
femminile e la ingenuità di tutta la legislazione virtuosa).
Liberazione sessuale, pornografia onnipresente, compresa
quella della informazione, della partecipazione, della
espressione libera — se tutto questo fosse vero, ciò sarebbe
insopportabile. Se tutto questo fosse vero noi saremmo
davvero nella oscenità, vale a dire nella verità nuda,
primaria, senza artificio, ma non senza pretese: la pretesa
folle delle cose di esprimere la loro verità. Felicemente noi
non siamo a questo punto, poiché, al culmine delle cose,
nel momento in cui esse si verificano, esse puntualmente si
rovesciano e questo rovesciamento protegge il loro segreto.
Del sesso, nessuno saprebbe dire se è stato liberato o
no, se il tasso di godimento sessuale è aumentato o no. In
sessualità come in arte, l’idea di progresso è assurda. Di
contro, l’oscenità, come la trasparenza, è dell’ordine del
progresso. Essa progredisce ineluttabilmente, proprio
perché essa non è dell’ordine del desiderio sessuale, ma
della frenesia dell’immagine. La sollecitazione e la voracità
in fatto di immagini aumentano smisuratamente. Esse sono
divenute il nostro vero oggetto sessuale, il solo oggetto del
nostro desiderio. Ed è in questa sostituzione, in questa
confusione del desiderio e del suo equivalente
materializzato nell’immagine (e non solamente del
desiderio sessuale, ma del desiderio di sapere e del suo
equivalente materializzato nella “informazione”, del
desiderio del sogno e del suo equivalente materializzato in
tutti i Disneyland del mondo, del desiderio di spazio e del
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
suo equivalente programmato nelle forme multiple del
telematico), è in questa promiscuità, in questa ubiquità delle
immagini, in questa contaminazione virale delle cose per
mezzo delle immagini che vivono la trasparenza e la
oscenità della nostra cultura.
Non vi sono limiti o controlli per questo, perché le
immagini, al contrario delle specie animali sessuate, su cui
veglia una sorta di regolazione biologica interna, non sono
preservate in nulla dal pullulamento indefinito, poiché esse
non si riproducono sessualmente e non conoscono né il
sesso né la morte. È senza dubbio per questo che esse ci
assediano, in questo periodo di recessione del sesso e della
morte di cui esse prendono posto. Noi sogniamo senza
dubbio attraverso esse l’immortalità dei protozoi che si
moltiplicano all’infinito per contiguità e non conoscono
null’altro che una concatenazione asessuata.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
CONCLUSIONI
Instabilità e longevità dell’utopia
Nervosamente travagliata da fratture e interferenze,
tramonti e ritorni, commistioni e scomparse, la storia
dell’utopia è la narrazione convulsa di una vicenda che non
smette di subire trasformazioni imponderabili e vitali,
continue e sorprendenti, da cui essa sorge con i connotati
profondamente mutati e nonostante ciò perfettamente
riconoscibile.
Ciò accade probabilmente proprio perché un carattere
specifico dell’utopia è quello di non avere una fisionomia
precisa, rigida, ossificata in una conformazione concettuale
che non ammetta o non preveda ampie oscillazioni, radicali
mutamenti, profonde infiltrazioni allotrie. Ma qual è la
causa di tutto ciò? Che cosa rende l’utopia così instabile e,
nonostante ciò, così longeva? Essa vive e si rigenera
nell’orizzonte sfumato e contratto di una intersezione fluida
tra contesti e dimensioni molto diversi e apparentemente
remoti. Fin dal suo sorgere infatti, l’utopia orbita in modo
obliquo tra territori situabili a metà tra il pamphlet filosofico
e la narrativa di finzione. Ma questa sua natura ibrida la
rende al tempo stesso controversa nelle sue movenze
propriamente speculative e nelle sue finalità, ma
intramontabile, refrattaria ad ogni tipo di aggressione
dissolutiva.
L’Utopia di More infatti, come abbiamo avuto modo di
vedere in apertura, non è solo un punto di fuga collocato al
di fuori del tempo e ai margini imprecisati e sfuggenti dello
spazio materiale entro cui vive l’autore, ma diventa a tutti gli
effetti un vigorosissimo atto di accusa contro il presente, una
narrazione sottilmente polemica e solo blandamente
profetica. Tale natura bifida – polemica e profetica – già da
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
ora si palesa e si precisa senza però esplicitare
quell’attitudine al calcolo prognostico che solo in seconda
battuta emergerà in tutta la sua felice virulenza.
Da More a Mercier, l’utopia subisce la prima grande
mutazione intestina. Il testo dell’autore francese infatti
colloca con asciutta precisione l’altrove proprio dello spazio
di More, nel cuore stesso della Francia, dilatando però la
coordinata temporale in una linea di sviluppo e
maturazione storici lungo la quale affiora con sempre
maggior urgenza la velleitaria vocazione progettuale
dell’orizzonte utopico. Mercier carica di attese e speranze
la propria narrazione, tramutandola da spuntato atto di
accusa contro il proprio tempo in un astratto furore
costruttivo a cui però manca ogni postulato scientifico in
base al quale suggerire delle concrete traiettorie realizzative.
Se More ancora faceva del lontano un luogo da cui guardare
(e condannare) il presente, Mercier dal presente e nel
presente cerca di immaginare il futuro; in entrambi i casi
però gli intenti degli autori sono soggetti allo scacco poiché
in essi manca una linea di continuità effettiva e quindi di
solido raccordo tra il momento attuale concreto e la
proiezione postulatoria dell’avvenire.
Sarà quindi solo con Marx che si perverrà a quella
riflessione progettuale e approfondita sul reale, la quale
condurrà a svalutare la portata realizzativa dell’utopia;
proprio in forza di tale tipo di riflessione si perverrà alla
derubricazione definitiva dell’utopia, completamente
screditata poiché vista come uno strumento privo di ogni
spessore scientifico. Non sarà allora un caso che gli autori
del Manifesto del partito comunista ratifichino col termine
/utopistico/ il fallimento del disegno politico di autori come
Saint-Simon, Owen, Fourier, poiché incapaci di un’analisi
ravvicinata della realtà al fine di evidenziarne tare e
potenzialità effettive.
Il socialismo scientifico identifica l’utopia con il peccato
originale di ogni progettualità politica: essa appare così per
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
la prima volta come una forma sottilmente e velatamente
ideologizzata di pensiero che invece di postulare il futuro
sulle concrete possibilità realizzative ravvisabili nel
presente, guarda all’avvenire dimenticando lo stato attuale
dei fatti, in modo tale da disinnescare ogni volontà
concretamente rivoluzionaria prima e ricostruttiva poi.
Siamo così giunti alle soglie del Novecento. Ora l’utopia
si risveglia nelle forme allucinate e allarmanti di un incubo.
Se le nostre analisi sono corrette, la distopia emerge dalle
macerie del marxismo come l’estrema — ma probabilmente
non l’ultima — incarnazione storica dell’utopia stessa, che
non ammette rimozioni o esclusioni dalla sfera del
pensiero, ed anzi continua ad abitarla e frequentarla come
una ossessiva possibilità di riflessione che non conosce
tregua.
Da Orwell a Bradbury, attraverso le analisi delle pagine
precedenti, abbiamo visto cause e processi di quest’ultima
metamorfosi subita dall’utopia, divenuta nel corso del
Novecento non più una narrazione prognostica ma un
affondo visceralmente diagnostico dei mali che il progresso
scientifico, politico, sociale, forse addirittura culturale ha
prodotto. La distopia è quella forma alienata di utopia che
non sogna più il futuro, non progetta in alcun modo
l’avvenire, non illustra le possibilità più o meno concrete di
sviluppo migliorativo della società proiettandola su uno
sfondo di evoluzione illimitata e felice; la distopia è quel
volto d’ombra della utopia che presenta un quadro
nosografico probabilmente del tutto compromesso, che
dunque ratifica una inguaribilità del tempo presente da una
patologia storica che non ammette cura o risanamento.
È proprio per questo motivo che autori come quelli da
noi chiamati in causa, invece di immaginare il futuro,
raccontano un presente che non conosce sviluppo, parlano
di una dimensione di attualità che non riesce a svilupparsi
ulteriormente, da cui l’avvenire sembra escluso come una
minaccia da esorcizzare. Orwell e Bradbury fanno della
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
distopia l’affilatissimo bisturi con cui sezionare il corpo di
quel moribondo che è il loro stesso tempo, il tempo nel
quale essi vivono e scrivono e nel quale non riconoscono
più la possibilità di sognare o postulare un altrove del tempo
e dello spazio. La distopia chiude l’orizzonte del tempo per
aprire la ferita della critica indefessa e ostinata, serra la
dimensione temporale per far esplodere il presente in una
suppurante critica trasversale che smonta, contesta,
aggredisce, scompone e scompagina la realtà mostrandola
come un esploso il cui congegno sia stato messo a punto
unicamente per girare a vuoto e riprodursi in una ottusa
reiterazione di un presente sub-storico.
Ma chi è il grande ispiratore di questa nuova frontiera
della riflessione utopica? Chi è il primo grande autore che
manomette
l’utopia
facendone
un
precipitato
violentemente disforico? Ci sembra giusto qui, in sede di
conclusioni, chiamare in causa un terzo narratore da
affiancare ai tre precedentemente presi in esame. Stiamo
parlando di Aldous Huxley il quale, nel 1932, aveva dato
alle stampe Brave New World, opera destinata a
condizionare profondamente tutti coloro che in un modo o
nell’altro sceglieranno di confrontarsi con il tema
dell’utopia.
In questo testo l’autore ipotizza l’esistenza di una
strutturazione sociale caratterizzata dal minuta e capillare
pianificazione non solo economica, ma biologica e
intellettuale, in nome di un presunto razionalismo iperscientifico eretto a caduco idolo a cui tutto deve e può
essere sacrificato. Il benessere fisico adibito a parametro
massimo di valutazione in base a cui valutare e misurare la
qualità della vita dei soggetti è ciò che deve essere perseguito
ad ogni costo; per esso i cittadini-sudditi devono rinunciare
ad ogni emozione, ad ogni sentimento/sensazione genuini e
spontanei, ad ogni atteggiamento che potrebbe schermare
la propria individualità da questo ottundimento pertinace e
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
prevaricatore che, grazie alla biotecnologia prenatale, può
iniziare prima della venuta al mondo dei soggetti.1
Il romanzo è preceduto da un esergo di Nicola Berdjaeff
che così recita:
«Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse
un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più
angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? Le utopie sono
realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo
comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno
ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica,
meno “perfetta” e più libera».
2
Si tratta di un esergo emblematico e ricco di risonanze, ora
inquietanti, ora prossime alla formulazione di un nuovo
illuminismo, alleggerito di ogni istanza ciecamente
progressista e più ripiegato su un sorvegliato ripensamento
dei propri presupposti.
Nelle parole di Berdjaeff vibra la tenebrosa severità di una
condanna comminata attraverso un attacco frontale ad ogni
forma di utopismo scientifico, carico cioè di una acritica
fiducia nelle capacità dell’uomo di programmare e
realizzare il meglio, produrre e promuovere il progresso,
garantire e assicurare la perfezione in terra. L’esergo che
Huxley sceglie come fosco e minaccioso vestibolo per il suo
romanzo segna in modo radicale e deciso la distanza che si
è venuta a creare, dalla ricezione degli assunti marxisti in
poi, tra due versioni dell’utopia: quella illusoriamente
positiva, deputata a proporre nuovi felici sbocchi per un
futuro la cui realizzazione però porterebbe alla chiusura
della linea del tempo in uno stato di ottenebrata (e
ottenebrante) perfezione storica, e quella proficuamente
negativa 3 , la quale, come visto finora, si incarna proprio
nella distopia.
1
A. Huxley, Il mondo nuovo, a cura di L. Gigli, Mondadori, Milano,
1971, pp. 7-16.
2
Ivi, p. 3.
3
L’espressione /utopia negativa/ riferita al romanzo di Huxley è di
Adorno: cfr TH. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla sociologia della
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Alla luce di ciò, possiamo quindi dire che quest’ultima
rappresenta una sorta di plastico baluardo non tanto contro
le brutture di un presente imperfetto, ma piuttosto contro
una progettazione morale, culturale, sociale, intellettuale
del futuro che non lascerebbe più spazio alle iniziative dei
singoli, incapsulati in una strutturazione ossificata di forme
iper-statuali tanto più oppressive quanto più invisibili e
apparentemente libertarie. Per Huxley pertanto l’utopia
“positiva” ha un doppio risvolto sinistro: da una parte essa
potrebbe rappresentare l’attuazione di uno stato di cose
finalizzato a bloccare in modo irrazionalmente razionale la
storia — costitutivamente non irreggimentabile — nonché a
conculcare o a narcotizzare le istanze di liberazione e
sovversione che ogni soggetto è legittimato a nutrire presso
qualsiasi forma di organizzazione socio-politica; dall’altra
parte l’utopia potrebbe costituire una valvola di sfogo
finalizzata proprio alla dispersione di queste energie di
defezione, orientata cioè a disinnescare le spinte al
cambiamento
che
potrebbero
(e
dovrebbero)
fisiologicamente maturare presso determinati contesti
politici. In entrambi i casi, l’utopia positiva è asservita al
centro di dominio, al potere che se ne serve per perpetuare
la propria esistenza e ottimizzare la sua sussistenza.
Proprio l’analisi minuziosa e impietosa di questo
controverso stato di cose porta Adorno ad osservare come
l’utopia viva all’interno di una dissociazione profonda ed
anzi sia chiamata a riflettere tale dissociazione, incarnandola
e rappresentandola in sé; egli infatti nota:
Si deve decidere tra la barbarie della felicità e la cultura come condizione
oggettivamente più alta, che comprende in sé l’infelicità. «La progressiva
sottomissione della natura e della società – interpreta Herbert Marcuse
cultura, a cura di C. Cases, Einaudi, Torino, 1974, p. 110. Va notato
che la raccolta di saggi fu pubblicata nel 1955, ma lo scritto su Huxley
risale ai primi anni ’40, periodo in cui il pensatore tedesco stava
scrivendo con Max Horkheimer Dialettica Dell’Illuminismo. Su questo
anche J-J. Jacques Wunenburger, Op cit, pp. 174 e sgg. ove l’autore si
sofferma su ciò che egli denomina noyau schizoide dell’utopia.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
– elimina ogni trascendenza, fisica e psichica. La cultura, come
denominazione compendiaria di uno dei lati del dilemma, vive di
inappagamenti, nostalgia, fede, dolore e speranza, in breve di ciò che non
è, ma trapela nella realtà. Ciò significa però che la cultura vive
dell’infelicità». Il nodo della controversia sta nella energica disgiunzione
dei termini associati nella idea che non si possa avere l’uno senza l’altro,
non la tecnica senza il death conditioning, non il progresso senza la
continua regressione infantile. Ma nella disgiunzione stessa bisogna
staccare il rigore del pensiero dalla coazione ideologica della coscienza
[…]. La regressione è essenziale al coerente sviluppo del potere. La teoria
non può con bonaria libertà accettare ciò che le va a genio nella tendenza
storica, lasciando stare tutto il resto. I tentativi filosofici di adottare un
“atteggiamento positivo” verso la tecnica invocando però che ad essa si
dia un senso, sono consolazioni artigianali e favoriscono soltanto la più
discutibile “gioia del lavoro”. Ma la pressione che esercita universalmente
il mondo nuovo è in forza del suo stesso concetto inconciliabile con
quella statica mortuaria che la converte in incubo.
4
Bisogna sempre scegliere, sembra dirci Adorno, tra una
utopia realizzata che ci soggioga con una preformata idea di
felicità, la quale non ci appartiene in alcun modo, ma a cui
piuttosto apparteniamo come sudditi inconsapevoli e una
utopia negativa in grado di tener desta la nostra capacità di
pensiero e riflessione, il cui esercizio ostinato e preciso
rappresenta forse il punto più alto della nostra libertà e forse
della nostra stessa fragile felicità.
4
Ivi, p. 108.
73
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
APPENDICE II
Dante e i luoghi, e il luogo-che-non-c’è
Dalla Commedia al De Vulgari Eloquentia
di Flavio Piero Cuniberto
«It is not down in any map; true places never are»
Hermann Melville
I. Paesaggi danteschi? I luoghi della Commedia e il paradiso
terrestre come luogo u-topico
Per eliminare subito quelli che Bacone chiamava idola
fori, parlare di «paesaggi» danteschi sarebbe del tutto
I.1
improprio. Il paesaggio moderno, dispiegato, «a volo
d’uccello», si annuncia se mai nel Petrarca dell’Africa, delle
Lettere, per nascondersi subito dietro il paravento
dell’introspezione (l’«invenzione» letteraria del paesaggio
moderno deve aspettare i Commentari di Enea Silvio
Piccolomini). Dante è astronomo, geografo, metereologo,
non è mai paesaggista: l’«aura di maggio» che soffia
profumata di erba e di fiori (Purg. XXIV, 145-151), o
l’aurora («la concubina di Titone antico») che si imbianca al
«balcone d’oriente» (Purg. IX, 1-9), o le «acque nitide e
tranquille» del canto III del Paradiso (III, 10) sono
situazioni visive e olfattive legate al ciclo delle stagioni e al
variare della luce, ma non paesaggi. Il favoloso «tremolar
della marina» del primo canto del Purgatorio (Purg. I, 117)
non è un paesaggio marino, è un’impressione ottica dove il
mare fa tutt’uno con l’inconfondibile scintillio argentato o
dorato della superficie illuminata dal sole. È una fisica
poetica che rinnova Lucrezio.
74
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Ci sono poi i luoghi evocati a partire da un tratto saliente,
pars pro toto: il «crudo sasso intra Tevero ed Arno» della
Verna (Par. XI, 106), il «gibbo» del Monte Catria (Par. XXI,
109), lo «dolce piano» che scende dalle risaie vercellesi
verso l’Adriatico (Inf. 28, 74), la Maremma che «disfa»
(Purg. V, 134), o ancora quell’«italica erba» (Par. XI, 105)
che è forse la più folgorante e toccante metonimia della
poesia universale. Ma non sono paesaggi, perché sono
appunto metonimie, tratti fisiognomici pregnanti che
servono a evocare il luogo e non certo a descriverlo. La
sinteticità delle notazioni metonomiche dantesche richiama
se mai la sinteticità stenografica, riduttiva e stilizzante, della
pittura trecentesca di paesaggio (che «paesaggio» non è,
anche nel caso ingannevole del Buon Governo
lorenzettiano). Dalla roccia spigolosa con un cespuglio
sparuto che «sta per» la montagna coperta di boschi a quella
singolare, efficacissima riduzione stenografica a cui sono
sottoposte le strutture architettoniche per esempio nella
pittura di Giotto, dove una piccola edicola marmorea può
alludere al Tempio di Gerusalemme (come nel Gioacchino
scacciato dal Tempio, agli Scrovegni).
Costellata di luoghi — che non sono paesaggi — la
Commedia finisce per apparire come una grandiosa carta
topografica dell’Italia con sconfinamenti nelle regioni
limitrofe (la Provenza, la Catalogna, la Dalmazia.). Ed è così
vero che non sono paesaggi — il paesaggio comporta sempre
un elemento descrittivo e una visione a campo lungo — che
sono in realtà soprattutto nomi. La Commedia è costellata
di nomi e di toponimi: questa grande carta topografica
dell’Italia è anzitutto una toponomastica dell’Italia (dove
l’elemento poetico-musicale del nome finisce addirittura
per prevalere sull’evocazione visiva del luogo, consegnata
perlopiù a una singola immagine, come si diceva, spesso
folgorante). Toponimi ricordati e perciò nostalgici, come la
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
doppia istantanea di «Siena» e della «Maremma» nel
ricordo-flash di Pia dei Tolomei (Purg. V, 134).1
I.2
Se poi al naturalista (o al meteorologo) subentra il
geografo puro, è come aprire una carta geografica e vagare,
per esempio, dal Vercellese all’Adriatico seguendo il «dolce
piano» inclinato della Valle Padana, nella memoria
malinconica di Pier da Medicina («rimembriti di Pier da
Medicina, /se mai torni a veder lo dolce piano/ che da
Vercelli a Marcabò dichina») (Inf. XXVIII, 73-75). Che
non è un paesaggio perché nessun occhio umano
(escludendo il caso della veduta aerea o aerospaziale) è in
grado di cogliere con un solo sguardo l’intero piano
inclinato. Seguendo la sua carta, il geografo non si ferma e
sconfina: verso Cattolica, verso Fano, dove l’evocazione
dell’Adriatico si espande a sua volta in una più ampia
evocazione dell’intero Mediterraneo, «tra Cipro e Maiorca»
(vv.82-83). La prospettiva si allarga come lo sguardo del
geografo, che può spaziare agile da un luogo all’altro o
meglio da un nome all’altro. È un grandioso paesaggio di
nomi.
I.3
Tra i molteplici non-paesaggi danteschi, la «divina
foresta spessa e viva» del canto XXVIII del Purgatorio ha
però una fisionomia sui generis: si presenta come una
rivisitazione affascinante del locus amoenus della tradizione
classica — la brezza leggera, le foglie fruscianti —, ma è
anzitutto, nel quadro del viaggio dantesco, il gan ’eden, il
Giardino o Paradiso Terrestre. Ossia il Luogo dei luoghi. Il
formidabile cortocircuito che si genera qui tra il Luogo
assoluto e i luoghi (al plurale) nasce dal fatto che il locus
La funzione del nome – del nome proprio – non è descrivere, ma
designare un’individualità. La potenzialità paesaggistica del nome
geografico è vicina allo zero: il Soratte imbiancato di neve («vides ut
alta stet nive candidum Soracte») nel famoso verso di Orazio (Carmina,
I,9) evoca il paesaggio invernale (la neve, il gelo) ma non lo descrive:
è tutt’al più un embrione di paesaggio, che però non viene sviluppato.
1
76
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
amoenus di Matelda porta in sé la memoria di un luogo
fisico preciso, la Pineta di Ravenna, e l’evocazione
metafisica del Luogo viene così a coincidere con la
memoria elegiaca di un luogo amato: «tal qual di ramo in
ramo si raccoglie il frastuono soave delle schiere alate per
la pineta in su’ lito di Chiassi / quand’Eolo Scirocco fuor
discioglie» (XXVIII, 19-21).
Tralasciando le complesse questioni esegetiche sollevate
dal testo (a cominciare dalla figura enigmatica di Matelda, il
cui rapporto col luogo è così stretto da coincidere alla fine
col luogo stesso), è la «natura» di questo luogo che conviene
anzitutto interrogare. Che non sia un luogo terreno
ordinario è implicito nella collocazione oltremondana del
viaggio: è un luogo che, empiricamente, non troviamo, non
esiste, anche se la cosiddetta «geografia» della Commedia lo
colloca sulla cima della montagna del Purgatorio come
passaggio obbligato dall’imbuto dei gironi infernali e
purgatoriali al cono luminoso delle sfere celesti. Il punto
decisivo è che rispetto ai tre regni ultramondani il paradiso
terrestre ha però uno status molto singolare. Intanto è
«terrestre», e se è terrestre non è davvero ultramondano:
non si riferisce, cioè – come direbbe il linguaggio della
teologia — al destino ultraterreno dell’anima — ma si
riferisce se mai a un luogo che ha avuto realtà nel passato,
ossia il luogo mitico originario, il gan ’eden, l’hortus
deliciarum della Genesi. Un luogo perduto, che dopo la
«cacciata» della coppia originaria dovrebbe stare alle nostre
spalle e appartenere alla nostra memoria (mitica) e non al
nostro presente (mentre supponiamo che i tre regni –
ancorché ultramondani siano attualmente «presenti»). Si
pone allora la domanda: come fa Dante ad attraversare «al
presente» un luogo «al passato»? Nella «geografia» del
poema il paradiso terrestre introduce una forte
discontinuità: non sembra stare sullo stesso piano diciamo
«ontologico» degli altri «luoghi».
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
I.4
Se infatti Dante lo attraversa «al presente» (benché, nel
racconto biblico, appartenga al passato), ciò vuol dire che è
tuttora un luogo terrestre (benché sottratto all’esperienza
ordinaria). È quello che alcune tradizioni orientali
chiamano «terra celeste», latente dietro le forme fisiche dei
luoghi fisici, e approdo possibile di un viaggio che non è,
anzitutto, un viaggio nello spazio, ma un viaggio di natura
spirituale o metafisica, una sequenza di stati spirituali o
«stazioni» che sono nello stesso tempo luoghi, e non
«luoghi» metaforici ma luoghi reali di una cosmologia
«sottile». Ma se il Paradiso di Matelda è tuttora un luogo
terrestre, ed è inaccessibile all’esperienza ordinaria, il suo
rapporto col mondo che appare — con la varietà dei luoghi
fisici, fenomenici — sarà un rapporto di latenza-immanenza:
come un luogo nascosto e diffuso, che si sottrae
all’esperienza immediata ma che, a certe condizioni, può
essere attraversato. Questo luogo è (al presente) il Centro
nascosto. Il cortocircuito — liricamente straordinario — tra
il Luogo di Matelda e la Pineta di Classe, sta a suggerire che
questo Luogo è latente-immanente alla Pineta di Classe
(perché è questo il supporto biografico da cui Dante
approda, liricamente, al Luogo Assoluto).
I.5 Non esiteremmo a definirlo un luogo «mitico» se Dante
non ne proponesse una elaborata teologia (i canti XXVIII
e XXIX del Purgatorio) che è uno dei vertici del suo
pensiero (e se dovessimo indicarne i riferimenti teologici
non li troveremmo nella Scolastica del ’200 ma nello Scoto
Eriugena del De divisione naturae o negli Inni di Efrem).
Lasciamo da parte, come si diceva, la «selva» esegetica, per
trattenere nel setaccio i dati essenziali. Probabilmente
Matelda «è» il Luogo stesso in cui ci troviamo, ma andiamo
oltre. La fanciulla procede con passi eleganti e ritmici –
passi di danza - sul prato fiorito, cogliendo «fior da fiore».
La sua dotta allusione al Salmo 92 ha lo scopo di fargli
capire — a Dante spaesato — dove siamo: è infatti il Salmo
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
che assimila il Giusto (lo tzaddiq che Dante sta diventando
nel suo cammino) a un organismo vegetale («come il cedro,
come la palma»). Siamo dunque, anche nel Salmo 92, o
meglio nel Giardino, dove il Giardino e il Giusto sono in
realtà la stessa cosa. Ma poiché è anche il Salmo
dell’esultanza connessa a quella che noi chiameremmo la
«creazione», «l’opera delle tue mani» (la semantica della
creazione è infelice e troppo complessa per esaminarla qui),
l’allusione di Matelda è chiarissima: la «divina foresta» è
appunto il luogo del Salmo 92, il Giardino ossia lo Tzaddiq,
ossia la realtà stessa nella sua condizione originaria e
gloriosa. Matelda sta dicendo che il paradiso terrestre, il
Giardino, non è una porzione, sia pure eletta, della natura
originaria, ma è questa stessa natura originaria, e che questo
luogo non è «al passato» ma «al presente». Nei termini del
Nuovo Testamento (che qui Dante non utilizza) si
dovrebbe chiamarlo il Regno: che è celeste, sì, ma come
l’Albero maestoso o il maestoso regno arboreo su cui si
posano gli uccelli del cielo. Celeste nel senso di una terra
celeste (come è celeste la Vigna nel suo arborescente
diramarsi).
Ecco dunque il teologema nascosto che Dante
suggerisce in queste righe: il Giardino in cui siamo è il luogo
stesso della creazione intesa come la «crescita» universale,
come il venire alla luce arborescente di tutto ciò che viene
alla luce. Un «luogo» sottratto alla percezione ordinaria e
tuttavia latente nei luoghi fisici di «questa» terra, perché a
determinate condizioni è possibile attraversarlo: allo stesso
modo, si potrebbe dire, in cui l’Ur-pflanze goethiana — la
Pianta Originaria — è latente-immanente a tutte le varietà
vegetali, che sono le innumerevoli variazioni fenomeniche
su un tema nascosto. In quanto Giardino è poi un luogo
circoscritto: è questa natura circoscritta, il limite che lo
delimita, a rendere possibile il suo ritmo vivente, che è il
ritmo della crescita (della vita) e insieme il ritmo del canto.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
I.6
Ma la teologia del Giardino non finisce qui. Prima
ancora di suggerirgli il «teologema nascosto» (ossia l’identità
tra il Giardino e la Natura originaria in quanto opera
divina), Matelda impartisce a Dante una breve lezione di
«botanica trascendente». La selva, percorsa da una brezza
leggera, si impregna delle «virtù» balsamiche presenti nel
Giardino: è un luogo di una sensuale pregnanza olfattiva.
Ma ecco il punto: gli effluvi balsamici di questa terra
superiore (o celeste) raggiungono «l’altra terra», la terra
empirica, che produce a sua volta una grande varietà di
specie arboree (di «legni») secondo le proprietà del terreno
e del «cielo» sotto il quale si trova. Insomma: la geografia
della vegetazione terrestre è un effetto localmente
differenziato degli effluvi che provengono dalla terra
superiore. Questo motivo degli «effluvi» suggerisce
insomma un rapporto di continuità fisica tra il Giardino e i
luoghi della terra empirica (che è una variante narrativa del
rapporto a cui si accennava tra la Pianta Originaria e le
piante fenomeniche): si potrebbe dire che in virtù di quegli
«effluvi» il Giardino originario «filtra» nei luoghi del mondo
fisico ordinario, della terra empirica.2
II.
La Pantera Profumata come figura del Centro latente
II.1 Il Paradiso Terrestre — il regno di Matelda — è un luogo
che può essere raggiunto a determinate condizioni.
2
Che il paradiso terrestre sia il luogo della «crescita» come un continuo
differenziarsi (come l’albero si differenzia diramandosi) è già nell’immagine
della campagna «santa» che «gitta» fuori di sé la varietà cromatica delle forme
floreali. La varietà cromatica (e il suo differenziarsi) viene qui a simboleggiare
la varietà delle forme tout court. Come risulta, in forma programmatica, dalla
grande scena del canto successivo (XXIX, 43-78), dove la «macchina» del sette
fiamme (o alberi-fiamme) funziona come il principio incolore della varietà
cromatica: è come se la luce bianca, passando attraverso un prisma invisibile, si
scindesse nei colori dell’iride o dell’arcobaleno (le «sette liste»). Ma il prisma
non c’è, o meglio: il prisma, la «lente» che opera la diffrazione luminosa è il
luogo stesso, la campagna santa che «gitta» da sé – come per diffrazione – la
varietà cromatica, la poikilia.
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Quel che resta dell’utopia
Essendo un luogo presente, ma nascosto all’esperienza
ordinaria, il suo manifestarsi presuppone un itinerario
(spirituale) che è appunto la lunga e penosa catarsi della
prima Cantica. Il «bruco» deve diventare «farfalla». Tutto
questo è abbastanza ovvio, ma trova un preciso sigillo
teologico-dottrinale alla fine del canto XXVII, quando
Virgilio, prima di congedarsi, «incorona» il poeta ormai
degno di entrare nel gaudium edenico («perch’io te sovra te
corono e mitrio» XXVII, 142). Il passo è troppo
pregnante perché si possa pensare di scioglierlo in due
parole. Le corone in effetti sono due, o meglio: una corona
e una mitra, le insegne della dignità regale e sacerdotale. Sul
significato di questo doppio conferimento (che suggella lo
status spirituale del poeta sulla soglia dei «regni superiori»)
si potrebbe discutere a lungo, a cominciare dalla questione
della «regalità». Certo è che l’imposizione della corona non
ha qui né un significato politico (è ovvio), né un significato
riconducibile alla liturgia cristiana (la regalità di Cristo, la
regalità della Vergine): ha un significato propriamente
metafisico, ossia si riferisce all’assunzione di uno stato
spirituale (o anche «ontologico») che permette a Dante
l’ingresso nel Giardino (che è come sappiamo il Luogo
della Creazione nel suo stato originario).
II.2
La divina foresta spessa e viva del canto XXVIII non è
un paesaggio: è il Luogo Assoluto, è il gan ‘eden in quanto
Centro, o luogo di tutti i luoghi (nel senso biblico del
Cantico dei cantici, shir ha shirim: che qui diventerebbe
maqom ha-maqomot «il Luogo dei luoghi»). È, come si
diceva, il Giardino, nella sua valenza ritmica di chiusura e
apertura, che è il ritmo della crescita vegetale (il Giardino è
il Luogo Vegetale), ed è nello stesso tempo il ritmo della
parola modulata, del canto (o anche della danza: i passi
ritmici di Matelda). Ma si è visto che Dante è molto esplicito
nel suggerire che questo Luogo è «contiguo» ai luoghi
terrestri: nel senso di una contiguità latente, di una presenza
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Quel che resta dell’utopia
nascosta richiamata – con immagine potente – dalla figura
delle varietà arboree, dei «legni», che riflettererebbero qui,
nel mondo fisico, la varietà dei «balsami», delle qualità
paradisiache. Il pardes è il nocciolo invisibile e fiammante
della natura creata e «velata» (come in Efrem, come nelle
leggende medievali degli «effluvi» paradisiaci).
Questo rapporto di contiguità latente tra il Giardino e i
luoghi fisici nella loro varietà, trova una formulazione
straordinaria nel quadro assai diverso del De Vulgari
Eloquentia. Troviamo infatti qui lo stesso schema
metafisico trasposto su un altro piano: la ricerca della lingua
volgare come centro nascosto della varietà dialettale
italiana. Ma a rendere straordinaria la formulazione è il fatto
che in questa ricerca ritroviamo il «paesaggio» (le virgolette
sono sempre obbligate), ossia che la quête dell’idioma
centrale viene qui a coincidere con la quête di un centro
anche geografico, ossia in sostanza di un luogo, che sarà il
centro del «paesaggio» italiano come paesaggio linguistico.
Non sarebbe improprio dire che Dante va qui alla ricerca
dell’umbilicus Italiae, inteso però anzitutto come baricentro
linguistico, come luogo matriciale delle isoglosse italiche:
fermo restando che la ricerca si muove nello spazio
geografico, ed è pertanto, in modo palese, la ricerca di un
centro che non c’è.
II.3
La genialità della trovata narrativa è senza pari: Dante
immagina di sorvolare la penisola (come un Astolfo ante
litteram), seguendo, come direttrice, la spina dorsale
dell’Appennino. Gli si aprono così i due versanti: a oriente
l’Adriatico, fino alla Padania, a occidente il Tirreno, fino al
golfo ligure. Questa visione aerea dell’Italia (l’Ytalia di
Cimabue negli affreschi di Assisi) è un mosaico di regioni,
di paesi (e noi diremmo anche «paesaggi»), e nello stesso
tempo di idiomi o «parlate» locali:
«Per prima cosa diciamo dunque che l’Italia è divisa in due parti, una
destra e una sinistra. E se qualcuno vuol sapere qual è la linea divisoria,
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
rispondiamo in breve che è la catena degli Appennini iugum Apenini:
la quale, come una grondaia sgronda da una parte e dall’altra le acque in
opposte direzioni, riversa le acque e le canalizza verso i due opposti
litorali …: il litorale destro ha come bacino di raccolta il mar Tirreno, il
sinistro l’Adriatico e di qui risulta che il volo avviene da nord verso sud,
col Tirreno alla destra e l’Adriatico alla sinistra. E le regioni di destra
sono la Puglia, però non tutta e infatti Dante intende per ‘Puglia’, Apulia,
più o meno l’Italia meridionale, Roma, il Ducato di Spoleto, la
Toscana e la Marca Genovese; mentre le regioni di sinistra sono una
parte della Puglia, la Marca Anconetana, la Romagna, la Lombardia, la
Marca Trevigiana e Venezia. Quanto al Friuli e all’Istria, appartengono
all’Italia di sinistra, mentre le isole del Mar Tirreno, la Sicilia e la
Sardegna, non possono che appartenere all’Italia di destra, o almeno
vanno associate ad essa» (I X 3-6).
La mappa caleidoscopica dei luoghi è una caleidoscopica
mappa dialettale. Anche qui, come nella Commedia, è il
geografo e il cartografo a tenere banco: il sorvolo avviene
sulle ali della carta geografica, accostandosi via via alle varie
tessere del mosaico. E se la mappa della Commedia era
anzitutto una carta toponomastica — un paesaggio di nomi
evocativi — qui si passa a una mappa in certo modo
musicale, o linguistico-musicale, dove i luoghi sono associati
a un idioma, a un accento, a una «voce». Da un paesaggio
di nomi siamo passati a un paesaggi di voci.
II.4 Si dirà che è un «paesaggio» metaforico, e in effetti non
è qui l’Italia come paesaggio a interessare. C’è però
anzitutto la questione del «centro»: pur non essendo
un’entità politica, l’Italia è un’entità geografica dai confini
piuttosto definiti, e aspirando a diventare un’entità politica
— «ahi serva Italia, di dolore ostello» — va alla ricerca di un
centro che è, più esattamente, un b a r i c e n t r o, e
precisamente un baricentro linguistico. L’idea dell’Italia
come spazio unitario, che qui è incontestabile, ha come
fulcro una unità linguistica che è però disseminata in una
sconcertante varietà di parlate regionali. Insomma: se
l’Italia è una — e per Dante lo è — deve avere un centro
(linguistico), ossia un idioma comune, o un idioma-matrice.
Ma ecco il punto: questo centro non c’è. E se non esiste un
83
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
idioma centrale che possa fungere da «misura» comune per
i singoli idiomi locali (che saranno allora più o meno lontani
dal centro), come posso delimitare questo territorio
linguistico e parlarne come se fosse già qualcosa di unitario?
Il problema del volgare illustre è esattamente questo, ed
enunciato in questi termini appare come un problema
impossibile. Lo spazio «italofono» è tale in virtù di un centro
assente.
II.5
Il primo colpo di genio — il sorvolo panoramico della
Penisola — era di natura teatrale, quasi «cinematografica». Il
secondo colpo di genio è propriamente teorico: è una
mossa del filosofo (e non più del geografo). Dante potrebbe
adottare qui un paradigma aristotelico, cioè induttivo, e
ricavare per così dire un «distillato» dei singoli idiomi (così
come Aristotele ricava la «costituzione» ideale dall’esame
induttivo delle costituzioni reali). Potrebbe procedere
sovrapponendo i vari idiomi fino a ottenere un «profilo
medio» o comune, che non apparterrebbe perciò a nessun
individuo determinato e sarebbe perciò una astrazione. Ma
non procede così: il volgare illustre vuole trovarlo davvero,
come qualcosa che c’è. Non lo pensa come una lingua
artificiale costruita con pezzi delle parlate regionali (come
un «esperanto»). Lo pensa come una lingua vera e propria,
una lingua «regale e curiale» (ritroviamo qui le due corone
del canto XXVII: la corona e la mitra), ossia una lingua così
nobile da poter funzionare come la lingua di un Impero
(dove, more ghibellino, le due dignità regale e sacerdotale
si sommano). L’Imperatore non può accontentarsi di un
misero artefatto «a posteriori». Peccato che questa lingua
non esista.
Avanza allora un’ipotesi fortissima: questo idioma di cui
va alla ricerca — un idioma che è «volgare» perché non è il
latino, ed è tuttavia illustre perché ha da essere una lingua
aulica, di corte — al tempo stesso c’è e non c’è. È come la
pantera profumata del mito dionisiaco, di cui si avverte
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
ovunque il profumo (di nuovo il profumo, il «pardes»
spande sempre il suo profumo) ma che non è in nessun
luogo. L’immagine splendida — che richiama le tradizioni e
le leggende sugli «effluvi» paradisiaci — suggerisce uno status
«ontologico» peculiare, quello di un’entità che è reale senza
essere esistente. Ma questo è il modo di essere proprio
dell’idea platonica, che è una realtà non visibile e non
esistente in senso fattuale, senza essere per questo meno
reale (non ha nulla a che fare col concetto, che è
un’astrazione ottenuta spogliando le cose individuali della
loro individualità, come «denominatore comune», mentre
l’idea non è astratta, è l’universale concreto, che precede e
non segue le singole individuazioni). L’idea (platonica) è
reale non in quanto esiste — fattualmente — ma in quanto
agisce, in quanto crea un campo di forza. Non la vediamo
ma c’è, e si tratta se mai di portarla alla luce. Questo è il
compito che Dante si attribuisce nel De vulgari eloquentia
(e quindi, operativamente, nella Commedia): portare alla
luce — come la levatrice socratica — quell’idioma comune
che al momento non appare e nondimeno c’è, come idea
latente e immanente alla varietà degli idiomi locali. Questo
idioma latente-immanente — l’idea della lingua italiana — è
il centro nascosto dello spazio linguistico, ed è ciò che
permette di riconoscere la varietà degli idiomi regionali
come varietà di un unico idioma.
II.6
È come se i dialetti fossero le immagini che si formano
in uno specchio deformante: smorfie più o meno grottesche
di un volto che però non vediamo. Ma la de-formazione
presuppone una forma. Un volto viene percepito come
grottesco, come caricaturale, solo se sappiamo che cos’è un
volto non grottesco. Dobbiamo dunque concludere che il
volgare illustre, di cui andiamo alla ricerca, al tempo stesso
c’è e non c’è. «Dopo aver cacciato per boschi e pascoli
d’Italia senza aver trovato la pantera pantheram che
inseguiamo, per poterla rintracciare sarà bene procedere
85
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
con un metodo più razionale, cosicché, con un’attenta
ricerca, si possa finalmente catturare questo animale di cui
si sente ovunque il profumo ma che non si vede da nessuna
parte redolentem ubique et necubi apparentem»
(cap.XVI).
Poiché i vari idiomi impregnati dal profumo dell’unica
lingua — dallo spoletino al genovese, al siciliano, al
lombardo — sono parlate locali, portano già nel nome
l’impronta di un luogo, quell’idea che chiamiamo «volgare
illustre» porterà anch’essa l’impronta di un luogo, che è
l’Italia in quanto Idea. Se i dialetti sono tenuti insieme da
qualcosa che non appare ma c’è (l’idea della lingua), così le
regioni — i boschi e i pascoli delle varie regioni, i paesaggi
regionali — saranno tenute insieme da qualcosa che non
appare ma c’è, appunto come Idea (l’Italia in quanto Idea,
in quanto paese o paesaggio ideale). L’Italia è quel luogo
ideale (e in questo senso «centrale») che regge
invisibilmente la varietà dei singoli luoghi, da Trento alla
Sicilia (e li tiene insieme linguisticamente). È ciò per cui è
possibile parlare dell’Italia come di qualcosa di unitario.
Lo scenario del De vulgari eloquentia è in realtà
vertiginosamente più ampio dello spazio «italofono»: è
l’intero ambito delle lingue umane come lingue derivate da
una lingua comune e originaria. Che poi questa lingua sia o
non sia l’ebraico, ha qui un’importanza molto relativa
perché è decisivo invece il movimento d’insieme: quel
movimento che va da una lingua centrale (o originaria) al
suo differenziarsi nei vari ambiti linguistici, che sono però
altrettanti centri, e suscettibili perciò di diramarsi in una
caleidoscopica varietà di idiomi locali. E si potrebbe
avanzare un’ipotesi (che Dante non esplicita): come il
«volgare illustre» si nasconde dietro la varietà dei dialetti,
II.7
allo stesso modo la lingua centrale, ossia originaria, si
nasconde «al presente» nella varietà delle lingue.
86
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
L’essenziale è che Dante pone qui sotto la sua «lente»
dapprima lo spazio delle lingue romanze, e quindi,
all’interno di queste, l’area italofona. È come una doppia
«zoomata» dalla protolingua centrale all’area romanza, e da
questa a una lingua locale (l’italiano), a sua volta
differenziato nella varietà dei dialetti. Ognuno di questi
«centri» ha infatti la proprietà di differenziarsi in una
pluralità di sotto-centri via via più locali. Anche se poi
l’intero organismo arborescente continua a essere retto
dall’unica linfa dell’unica radice. È come un Centro che si
riflette in una varietà di centri-immagine, ciascuno dei quali
possiede, nel proprio ambito, la prerogativa appunto del
centro.
II.8
Ma torniamo allora al canto di Matelda: la «divina
foresta» impregna delle sue essenze le specie vegetali della
terra ordinaria allo stesso modo in cui il volgare illustre — la
pantera — spande il suo profumo ovunque, restando
invisibile. Il rapporto di latenza-immanenza che sussiste, nel
De vulgari, tra l’«arrière-langue», il volgare illustre, e i vari
idiomi, è perciò identico al rapporto che sussiste, nella
Commedia, tra il paradiso terrestre come Luogo centrale e
i luoghi fisici: non è un luogo perduto, sparito, perché
«insiste», al presente, sul mondo fisico, ed è all’origine delle
sue essenze più odorose. È la «contrada suprema», nascosta
e immanente alla varietà dei paesaggi fisici o mondani
(anche se forse — come nel caso degli idiomi — non è
immanente ovunque con la stessa intensità, e si può allora
pensare che, per quanto nascosta, sia nondimeno in
qualche misura localizzabile, secondo una gerarchia dei
luoghi che è poi uno dei temi centrali di ogni geografia
sacra, di ogni «geoteologia»).
Il canto XXVIII del Purgatorio non potrebbe essere più
esplicito: il «giardino piantato a Oriente», l’Eden biblico,
diventa qui un meta-luogo che non è però un luogo metafisico in senso neoplatonico-cristiano, ossia una metafora di
87
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Quel che resta dell’utopia
qualcosa che non è un luogo. È al contrario il Luogo per
eccellenza, il proto-luogo (perché è il luogo dove il mondo
viene alla luce nella sua forma verdeggiante e gloriosa), che
non è «perduto» nel senso di poter essere soltanto
ricordato, ma è invece latente-immanente ai luoghi fisici: le
sue qualità sottili filtrano nell’«altra terra» — la terra opaca,
il mondo fenomenico — e si trasmettono anzitutto a quella
regione elettiva della terra opaca che è il mondo vegetale, la
sfera delle essenze e degli aromi. Questa latenza-
immanenza «odorosa» è il segreto e la chiave
dell’esperienza poetica dei luoghi in quanto tali («lo dolce
piano che da Vercelli a Marcabò dichina», «la divina foresta
spessa e viva ch’a li occhi temperava il novo giorno», «i verdi
paschi» della pianura veneta). La geoteologia dantesca
dissolve così una volta per tutte l’equivoco mimetico:
l’eterna e stanca teoria (neoplatonica ma non platonica) del
visibile come «immagine» dell’invisibile. Non ne è
l’immagine perché lo porta dentro di sé, materialmente, e
allora l’invisibile non è più davvero invisibile, e meno che
mai sarà qualcosa di incorporeo. Di questa «insistenza»,
materiale e frammentata, dell’idea nella cosa, si ricorderà —
senza pensare a Dante — Walter Benjamin, nella geniale
Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco.
88
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Utopia: variazioni su di un non-luogo
di Jean-Jacques Wunenburger
L’utopia, termine che si suppone rimandi ad una realtà
letteraria o ad una pratica sociale piuttosto determinate, non
ci trae in inganno proprio perché essa comporta sempre
una dimensione auto-referenziale, ovvero proprio perché
tale genere in effetti non esiste da nessuna parte in atto dal
momento che il suo centro è ovunque la sua circonferenza
in nessun luogo? Il genere utopico non è esso stesso
un’utopia, un essere senza luogo? Invece di presupporre
che al termine /utopia/ corrisponda un certo numero di
testi, di rappresentazioni e d’azioni, converrebbe forse
ammettere che il significato del termine, preso in prestito
dal gioco codificato di un libro di More, aspetti di essere
costruito in ogni indagine. È questo un modo come un altro
per rendere cieca e muta ogni definizione preliminare, per
sostituirle, esattamente come amano fare gli utopisti, una
visualizzazione, un plastico di ciò che è possibile esibire
nell’immagine, dal momento che essa non può essere colta
intuitivamente nel suo concetto o nella sua essenza.
Per questo motivo, se parlare di utopia significa sempre
mostrare un prototipo al quale si spera di far coincidere a
monte un archetipo e a valle una serie di visioni concrete,
si cercherà di far variare alcune figure della nozione, per
estrapolarne un profilo invariabile, a partire dal quale
speriamo di poter reperire con maggior precisione delle
variazioni e delle metamorfosi al fine di mettere poi in
prospettiva alcuni problemi metodologici e culturali.1
1
Recupereremo qui e in seguito delle analisi, modificate e aggiornate,
sviluppate nel nostro L’utopie ou la crise de l’imaginaire. Per quanto
riguarda l’articolazione tra l’unità e la molteplicità delle utopie cfr B.
Baczko, Lumières des utopies, Payot, Paris 1978.
89
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
I. La combinatoria utopica
Le divergenze e i malintesi sull’utopia derivano innanzitutto
dal fatto ogni disciplina e ogni scuola tende ad elaborare
una nozione che permetta di radunare la diversità —
inevitabilmente limitata — del suo specifico corpus di testi o
fatti. Si può tentare di porre al contrario a priori una
categoria per produrne poi delle varianti o delle
combinazioni possibili, prima di riscontrare che differenti
dati storici trovano così una certa intelligibilità.
Se si ammette che la sola realtà concreta si confonde con
ciò che ogni uomo vive qui e ora, nel prolungamento di una
storia archiviata e nell’imminenza di un futuro, a portata di
volontà, l’utopia può apparire nella sua maggior ampiezza
come il complesso delle rappresentazioni e delle azioni che
fanno riferimento ad un’altra organizzazione spaziotemporale. In tal senso l’utopia si confonde con l’insieme
delle attività e delle produzioni dell’immaginazione,
dunque con le rappresentazioni di ciò che non è, non è
stato, né sarà, rendendola così sinonimo di irrealtà.
Si può guadagnare una certa pregnanza concettuale se si
accetta di iscrivere l’utopia in un campo più limitato, tanto
dal punto di vista del soggetto che dell’oggetto:
— Dal punto di vista soggettivo si può restringere il
termine facendovi rientrare delle rappresentazioni
immaginative che, senza suscitare delle adesioni dettate
dalla credenza (l’utopia può limitarsi anche ad un gioco
gratuito di rappresentazioni), veicolino delle forme di realtà
innanzitutto normative, ovvero ottative o imperative. In tal
senso l’utopia, innestata su una forma di insoddisfazione
dinanzi al reale, innalza un’altra forma di realtà, non data
presentemente nell’esperienza, al livello di un ideale,
ovvero di ciò che merita, per il suo proprio valore, di
diventare realtà. Si valuterà come utopica non ogni
proiezione compensatoria del soggetto — ciò ascriverebbe
l’utopia all’ordine pulsionale — ma delle rappresentazioni
90
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
che trovano nella riflessività del soggetto immaginante un
riconoscimento assiologico. Altrimenti detto, l’utopia non
scambia i suoi desideri per la realtà, cosa che corrisponde
al fantasma, ma investe una realtà non esistente di desiderio.
— Dal punto di vista dell’oggetto si può certo inglobare
nell’utopia la sfera di esistenza strettamente individuale
(cosa che conduce a utopie del mondo privato), ma le si
conferisce immediatamente una dimensione più rigorosa se
la si applica alla realtà sociale, alla coesistenza collettiva
degli uomini in un nuovo spazio-tempo. Allora l’utopia
verte sulla rappresentazione di un ecosistema con i suoi
paesaggi, le sue istituzioni, le sue usanze e i suoi valori, che
è possibile situare sia in una Natura messa al riparo dalla
volontà demiurgica dell’uomo (edenismo), sia al contrario
all’interno di una para-natura dominata dall’artificialità della
tecnica. Da questa ricostruzione della categoria di utopia è
possibile dedurre due corollari: da una parte,
contrariamente alle esegesi di carattere etimologico (su utopos) e al neologismo di ucronia a loro connesso, l’utopia,
lungi dall’essere una perdita di spazio o di localizzazione,
conosce una sovradeterminazione di immagini spaziali e,
lungi dallo scivolare verso l’ucronia, essa tende
inevitabilmente a ricollegarsi ad una cronologia storica; in
tal modo il quadro dell’utopia si trova, almeno in relazione
alla sua narratività interna, sia proiettato all’indietro verso il
passato, sia anticipato nell’avvenire, nonché intercettato
secondo una contemporaneità simulata, ovvero elaborato
come un mondo parallelo o come un possibile laterale;
dall’altra parte le utopie appaiono come il risultato di una
combinatoria di molteplici invarianti, tra i quali è possibile
identificare:
a. il punto di vista dello spazio in relazione alle coppie
naturale/artificiale, macrocosmo/microcosmo;
b. il punto di vista del tempo in riferimento a passato,
presente, futuro imminente e futuro indeterminato.
91
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
In ognuna di queste configurazioni l’utopia scivola
attraverso delle falde semantiche facilmente reperibili in
seno alla cultura, le quali rendono conto anche delle diverse
contaminazioni dell’utopia con altre forme di
immaginazione letterarie o sociali, come i miti paradisiaci, i
millenarismi, i programmi architettonici, i racconti di
viaggio, la fantascienza, ecc. i quali possono ora essere
appresi come delle variazioni interne proprie dell’utopia,
ora come delle forme ad essa adiacenti. Apparirà così che
alcune combinazioni conoscono nella storia frequenze più
o meno significative, come lo rivela ad esempio la notevole
diffusione dell’utopia agreste passatista presso i miti antichi,
o quella dell’utopia urbana alternativa propria del
Rinascimento o del futuro prossimo nel corpo utopico del
socialismo del XIX secolo.2
Ora però resta da sapere se l’utopia così tratteggiata
permette di presupporre l’esistenza di una immaginazione
utopica specifica.
II. Le due forme di immaginazione utopica
Dinanzi a questa combinatoria di forme espressive l’utopia
rischia fortemente di non poter essere ascritta alle
medesime procedure di produzione intellettuale. Se per
esempio si prende in considerazione la prima grande
fioritura di pensiero utopistico nel XVI secolo in Europa, è
possibile notare la sovrapposizione, se non un sincretismo,
di due grandi forme d’immaginazione, nettamente distinte
È possibile sottoporre l’utopia ad una mitoanalisi affine a quella che
G. Durand mette in campo per le figure ricorrenti della mitologia, cfr
G. Durand, Figures mythiques et visages de l’œuvre, Berg International,
Paris 1979, nonché del nostro “L’imaginaire baroque: approche
morphologique à partir du structuralisme figuratif de G. Durand”, in
Cahiers de l’Imaginaire (Privat N°3-1989), ripreso in J.J.
Wunenburger, La vie des images, Presses universitaires de Grenoble,
2002.
2
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
in precedenza, tanto dal punto di vista del loro modo di
costituzione che del loro ambito di sviluppo:
— da una parte un’immaginazione mitico-poetica,
dedicata alla rappresentazione degli spazio-tempo che
inquadrano a lungo raggio l’esistenza terrestre dell’uomo.
Essa dà vita a una lussureggiante geografia di terre sovrasensibili in cui gli esseri sono vissuti prima della loro nascita
o vi andranno a vivere dopo la loro morte fisica (Isola dei
Beati, Inferno, Purgatori e Paradisi, Gerusalemme Celeste,
per restare nella tradizione monoteista). Queste immagini
religiose di un altro mondo, dalle datazioni e localizzazioni
variabili, lungi dall’essere finzioni, si presentano come delle
rivelazioni di mondi altri, direttamente inaccessibili, ma la
cui esistenza è resa autentica dalle tradizioni. Esse servono
innanzitutto da supporto per la reminiscenza delle origini
individuali o collettive e/o alla speranza escatologica in una
sopravvivenza. Ma sebbene noi possiamo averne delle
visioni, esse in ogni modo non possono dare luogo ad una
appropriazione volontaristica da parte degli uomini;
— dall’altra parte abbiamo una immaginazione
allegorizzante e tipicizzante, destinata innanzitutto a
conferire un contenuto sensibile, figurativo a delle Idee
speculative e astratte. Ideali di vita collettiva, di istituzioni
politiche, anche di ideologie, possono in tal modo trovare
una espressione concreta in ipotiposi che modellizzino o
esemplifichino ciò che è stato inizialmente posto come
contenuto intellettual3. Bozzetti di comunità felici e perfette
servono a tradurre in dettaglio ciò che il pensiero filosofico
e politico si accontenta di produrre secondo l’Idea, sulla
base di una rappresentazione riflessiva di ciò che deve
essere in virtù delle sue proprietà intrinseche. Una tale
immaginazione è subordinata a delle informazioni razionali
L’ipotiposi «peint les choses d’une manière si vive et si énergique
qu’elle les met en quelque sorte sous les yeux, et fait d’un récit ou d’une
description, une image, un tableau ou même une scène vivante», vedi
P. Fontanier, Les figures du discours, Flammarion, Paris 1968, p. 390.
3
93
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
di cui essa conserva spesso un gran numero di tratti
costitutivi: uniformità, trasparenza, legalità, simmetria, di
cui è nota l’importanza nelle utopie.4
Non deve sorprendere che i grandi testi classici della
tradizione utopica, i quali vedono coesistere nella loro
economia simbolica questi due poli strutturali e funzionali
dell’immaginazione, possano essere compresi e interpretati
in base ad orientamenti piuttosto divergenti. Se André
Prevost curva in maniera marcata l’utopia di More secondo
una parabola evangelica ritrovandovi il perpetuarsi di un
esercizio spirituale e religioso, Louis Marin al contrario
preferisce riconoscervi delle configurazioni di immagini le
quali agiscono come operatori di idee astratte, politiche,
economiche, sociali nate dalla pratica5. Per non invalidare
dogmaticamente uno di questi metodi, presi come estremi,
possiamo concludere dicendo che l’utopia, già nel suo testo
paradigmatico, si presenta come un luogo mentale e
testuale aperto non solo su delle combinatorie formali, ma
anche su delle filiazioni opposte. Forse l’utopia dovrebbe
essere considerata precisamente come un tipo misto di
produzione di immagini, uno spazio indeterminato di
intenzionalità immaginanti, che visualizza altri modi di
realizzazione dell’umanità collocandosi all’intersezione
delle grandi famiglie di immagini dell’Altro. Per questo le
utopie possono nello stesso tempo assicurare la perennità
degli archetipi religiosi, favorire esercizi di invenzioni
immaginarie, conferire attendibilità dei piani dedotti da una
ragione astratta e sostituirsi a delle pratiche sociali. Non è
quindi contraddittorio sostenere che la stessa utopia possa
apparire come una reincarnazione religiosa tradizionale,
come una audacia finzionale e come un esercizio regolato
4
Cfr G. Lapouge, Utopies et civilisations, Flammarion, Paris 1978.
A. Prévost, Thomas More et la crise de la pensée européenne, Mame,
Paris 1969. L. Marin, Utopiques, jeux d’espace, Ed. de Minuit, Paris
1973.
5
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Quel che resta dell’utopia
di deduzione scientifica. L’utopia non potrebbe essere
quindi qualificata unilateralmente come frutto di una
immaginazione creatrice poiché la sua unità deriva proprio
dalla condensazione (in senso freudiano) di
rappresentazioni dallo statuto differente.6
Per questo in fin dei conti l’utopia, nelle sue forme
propriamente testuali, così come nelle sue versioni
attivistiche, non può soddisfare in toto né le esigenze
poetiche né quelle razionali, scientifico-utopistiche. Del
poetico essa trattiene certo spesso uno spaesamento
affascinante, una fioritura di curiosità idilliache o
fantastiche, ma senza accedere a una creatività verbale, a
una jouissance delle immagini, a una soggettivazione
intimistica. Gli scritti utopici fanno capo ad un genere
stereotipato, prossimo ai freddi inventari, alle classificazioni
manieriste, ai manuali di catechesi, se non addirittura alle
istruzioni per l’uso dei bricoleurs; ciò spiega le loro
rassomiglianze formali e le loro anestesie estetiche.
Dall’astrazione scientifico-filosofica le utopie riprendono
sovente le proposizioni normative sull’istituzione,
l’esposizione austera dei codici, delle normalizzazioni
quantofreniche, dei riferimenti ossessivi a delle leggi fisiche
o giuridiche; di contro esse si accontentano di un procedere
puramente esibizionistico, limitandosi all’esposizione dei
dispositivi senza produrne, per deduzione razionale, la
giustificazione teorica o assiologica.
Da tale strutturazione telescopica del discorso e dei
modi di costruzione nascono nello stesso tempo la
fascinazione per una immaginazione ibrida e una certa
compiacenza morbosa in riferimento alle attività mentali
private della loro condizione di validità propria. Tale
ambiguità dell’utopia spiega allora in che modo essa possa
servire a volte per imporre di diritto un ordine socio-
6
Cfr il nostro Freud, science ou religion. Nouvelle biographie critique,
L’esprit de temps, Le Bouscat Cedex 2013.
95
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
politico che non ha tuttavia alcuna necessità onirica o
razionale.
III. La mistificazione socio-politica dell’utopia
Se l’utopia, nelle sue diverse configurazioni, deve il suo
sviluppo e il suo successo a quella plasticità interna che le
permette di sovrapporre, di raddoppiare o di annullare
differenti modalità di rappresentazione di un altro essereinsieme, in che cosa essa contribuisce a nutrire il pensiero
socio-politico? E se le rappresentazioni utopiche hanno
giocato un grande ruolo nella storia delle idee collettive, è
possibile inferire che lo stile della concezione utopica
dispone di una virtù euristica d’esposizione e di
esplorazione delle soluzioni rispetto ai problemi degli
uomini o delle società? È legittimo di conseguenza usare
come strumento per le riflessione sull’essere-insieme le
produzioni utopiche o il loro statuto le disinnesca per
quanto riguarda il dinamismo del loro ruolo creativo?
Senza dubbio conviene distinguere il piano intrinseco degli
enunciati utopici — la loro retorica specifica — e il piano
estrinseco della loro traduzione in intenzioni e azioni
politiche.
1. La retorica. In che modo l’utopista determina da
principio le caratteristiche ideali della Città della
sostituzione? Egli si trova dinanzi ad una procedura
invariante o, anche qui, bisogna prendere atto di una
pluralità di tipi di descrizione che rende improbabile un
giudizio globale, positivo o negativo sul genere utopico?
Nella categoria delle utopie si affiancano di fatto tre modi
di enunciazione di ciò che si ritiene rispondere ai valori
supremi del bene, del giusto, della perfezione e della
felicità:
96
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
— Il metodo essenzialista: in questa prospettiva la messa in
scena della socialità utopica muove dalla introduzione di
una perfezione originaria, colta nella sua sostanzialità
intellegibile, necessaria alla invenzione narrativa per trovare
una immagine figurativa che faccia passare il contenuto
astratto in contenuto concreto. L’utopia gioca qui il ruolo di
una parabola o di un simbolo dell’umanità perfetta o giusta,
ovvero produce un Ideale sensibile (la Città ideale) per
incarnare una essenza, appresa anteriormente dalla ragione
sola. In tal senso, malgrado la loro mutua estraneità, è
possibile far risuonare l’uno sull’altro il mito della
Gerusalemme Celeste della tradizione apocalittica, la
Repubblica ideale platonica, la Città solare degli stoici,
l’Utopia di Thomas More ecc. Il bozzetto scritto può allora
funzionare come un paradigma o Idealtypus (nell’accezione
di Max Weber) per il pensiero sociale e politico, ovvero di
costruzione semi-astratta, semi-concreta, a partire dalla
quale possono essere unificati tutti i tipi di situazioni
concrete7. L’utopia quindi occupa una posizione mediana
tra l’essenza universale e le realtà particolari, operando
come un traduttore tra le due, pur traendo la sua
informazione interna dalla sua essenza generica e non dai
casi empirici.
— Il metodo topologico: al contrario del caso precedente,
qui si tratta per l’utopista di produrre un quadro normativo
o ottativo, non per tipizzazione di una essenza ma per
deformazione induttiva di dati empirici. La società ideale
trova la sua configurazione in una serie di variazioni del
reale: soppressione e addizione di elementi per
combinazione, scivolamento di forme concrete verso delle
espressioni parossistiche e soprattutto procedimento di
inversione dei comportamenti effettivi. Il bozzetto utopico
conserva così dei legami con i fatti storici i cui numerosi
7
M. Weber, Essais sur la théorie de la science, Plon, Paris 1965, p
180.
97
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
dettagli fattuali possono essere identificati, pur obbedendo
a un movimento di trasformazione progressiva che può
arrivare fino all’impossibilità logica o di fatto8. Ma da questo
fatto tale genere di costruzione utopica può perdere in
razionalità giustificatrice, in pregnanza assiologica e
soprattutto in universalità, dal momento che la sua
costituzione rimane segnata e appesantita da alcuni tratti
psico-sociologici singolari, propri del modello storico di
partenza.
— Il metodo fantasmatico: se i due procedimenti precedenti
nascono nell’ideale e nel reale, questo realizza una
regressione verso l’ordine primario dell’affetto e del
desiderio. Altrimenti detto, il motivo generatore s’iscrive in
una esperienza ante-predicativa della mancanza o della
perdita dell’oggetto, ovvero deriva da una delusione
profonda dinanzi alla realtà socio-politica. L’utopia si
presenta allora come una risposta ideo-affettiva in cui la
rappresentazione si comporta come un sostituto d’oggetto,
simile ad un fantasma. L’ideale si confonde con una
produzione allucinatoria, più o meno ludica, che tenta di
far coincidere l’oggetto del desiderio con la
rappresentazione di soddisfazione. L’immaginazione
utopica può essere compresa allora come una condotta
proiettiva di frustrazione che giunge a trovare una
compensazione in un immaginario opposto al principio di
realtà. Il risultato guadagna certamente in termini di piacere,
ma costringe altresì ad una messa tra parentesi di ogni logica
interna. Le forme di socialità mescolano allora il possibile e
l’impossibile, e rischiano, senza precauzione, di elevare a
valore di realizzazione dell’umanità questo o quell’oggetto
contingente del desiderio. L’utopia si affianca qui alla
categoria del sogno, nel senso che il sogno si presenta come
la via di realizzazione del desiderio.
Cfr. R. Caillois, “De la féérie à la science-fiction”, in Obliques,
preceduto da Images, Images, Gallimard, Paris 1987 (Editions Stock,
1975).
8
98
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
Se le utopie possono generalmente riferirsi a questi metodi
di produzione, si può comprendere perché il loro lavoro
euristico nella ricerca della migliore organizzazione umana
non può essere predeterminato in anticipo. Una riflessione
filosofica sulle migliori forme dell’essere-insieme non potrà
fare a meno dell’economia del valore di verità delle ipotesi
di referenza né delle condizioni di possibilità affinché una
certa situazione storica possa avvicinarsi al modello. Si può
facilmente capire che né il metodo topologico né il metodo
fantasmatico sembrano qualificati per fondare delle scelte
per l’azione politica, il primo perché si appoggia troppo su
tratti culturali accidentali, l’altro perché rifiuta, in nome
della costrizione pulsionale del desiderio, di prendere in
considerazione la resistenza del reale. Quanto al metodo
essenzialista, sebbene esso abbia il vantaggio di procurare
agli uomini incarnati delle modellizzazioni di forme pure di
socialità tramite delle variazioni regolate dei loro profili,
esso rischia nello stesso modo di non prendere in
considerazione i limiti che gli impone l’empirismo realista.
L’utopia sembra quindi trovare difficilmente una funzione
istituente per la vita collettiva degli uomini. Al massimo essa
permette di tracciare degli scarti in relazione alla realtà
favorendo la coscienza di possibili non realizzati.
2. La praxis. Che l’attività utopica si volga verso un
programma esplicito di trasformazione della realtà o che
essa si attenga in apparenza ad un semplice gioco di
variazioni possibili, essa comporta inevitabilmente una
dimensione pratica. La rappresentazione di una alterità
suscita o rinforza un desiderio di cambiamento e conduce
a progettare una metamorfosi del presente. Da questo
punto di vista risulta che il campo dell’utopia è attraversato
da numerosi scopi pratici il cui contenuto e i cui effetti si
rivelano molto diversificati. In tal modo è possibile
distinguere tre modi di pensare il rapporto dell’utopia con
la trasformazione del reale:
99
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
— una via anarco-estatica per la quale il contenuto del
quadro utopico deve potersi sostituire senza resto in un sol
colpo alla realtà esistente. L’utopista, confidando nella
realtà storica e nella maturazione degli eventi, spera di
materializzare hic et nunc il contenuto immaginario. Tale
impazienza attivistica si nutre d’altronde di modelli
topologici nella misura in cui la rappresentazione di un
mondo rovesciato sembra facilitare la sua attuazione
pratica. Per cambiare il mondo è necessario rovesciarlo su
se stesso, fare le medesime cose ma in maniera contraria
(miti antichi del mondo al rovescio, paesi della Cuccagna
nel Rinascimento, ecc), fenomeni che le società
sperimentano già in se stesse attraverso dei rituali (la festa
come capovolgimento dell’ordine del mondo) 9 . Da tale
punto di vista l’utopia rivela delle affinità con tutti i tipi di
imprese religiose che hanno voluto, a fianco della società
globale, instaurare dei modi di vita alternativi: mistica
esseniana presso l’antico Israele, comunità gnostiche o
catare, di cui numerosi aspetti si ritrovano nelle esperienze
di rottura con l’ordine sociale delle comunità politiche
(anarchisti del diciannovesimo secolo, correnti recenti dette
alternative);
— una via messianico-rivoluzionaria: l’utopia prende posto
qui in un calendario storico, dal momento che la sua
realizzazione può essere annunciata profeticamente. Lo
svelamento del bozzetto della società ideale è inseparabile
da una rivelazione del suo avvenimento futuro. La prescienza di tale perfezionamento a venire della società o
dell’umanità, confermata spesso da una personalità
messianica, autorizza allora a prendere delle iniziative per il
presente, iniziative che possono arrivare fino allo
scatenamento della violenza contro l’ordine stabilito per
preparare l’avvento del mondo migliore10. Il millenarismo,
9
Cfr. F. Tristan, Le monde à l’envers, Hachette-Massin, Paris 1980.
Cfr. N. Cohn, Les fanatiques de l’Apocalypse, Juillard, Paris 1962.
10
100
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
in quanto profezia religiosa relativa all’avvento di una
Signoria Cristica sulla terra per mille anni, dopo il trionfo
precorritore delle forze del male (Anticristo), ha spesso
suscitato una attrazione per l’utopia che si è vista, attraverso
di esso, innestata sulla storia rivoluzionaria.
— una via utopico-ecclesiale: alla strada che porta ad una
contestazione frontale della società esistente, giustificata
dall’annuncio di cambiamenti prossimi-venturi, si oppone
infine un modello d’alternanza secondo il quale l’ordine
antico cederà il posto in un giorno ancora indeterminabile
ad un nuovo ordine. Durante l’attesa, un’organizzazione
ecclesiale o settaria, a seconda dei casi, è incaricata di
conservare la promessa e di preparare l’avvento di un’era di
giustizia universale. Numerose comunità ad ispirazione
utopica si strutturano così intorno ad una speranza
apocalittica, pur rifiutando ogni trasformazione
volontaristica, se non addirittura violenta, delle condizioni
presenti del mondo. La fede nel mondo utopico permette
al contrario di supportare in maniera irenica l’esistenza
mediante la certezza che un altro mondo verrà al momento
opportuno per succedergli, sia sul piano terrestre che su
quello metaempirico.
Così l’utopismo, allorché incontra la temporalità lineare
della storia collettiva, si vede costretta a definire lo scarto
più o meno grande che lo separa dalla realtà nonché
l’intervallo che separa la perfezione dalla sua realizzazione
concreta. Alternativa, contestazione, alternanza definiscono
allora altrettanti forme di intensità dell’utopia a seconda che
essa voglia presentificarsi totalmente, incarnarsi totalmente
o rimanere in una sorta di relazione asintotica con la storia.
In ogni modo sembra difficile sostenere, alla luce delle
sovrapposizioni permanenti della letteratura utopica e delle
pratiche sociali anarchiste, millenariste o ecclesiali, che
l’utopia sia sinonimo di ucronia, ovvero di indifferenza al
tempo. Se è vero che all’interno della società ideale il tempo
perde la sua potenza di corrosione o di creazione,
101
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
collocando gli uomini in una sorta di eternizzazione
indefinita, l’utopia rimane, per coloro che se la
rappresentano, in un rapporto tale che al presente essa
finisce per giocare il ruolo di un acceleratore di storia.
IV. Dall’utopia politica all’utopia artistica
È stato spesso notato che il XX secolo aveva fatto
coincidere le costruzioni utopiche con la storia presente, al
punto che la realtà sociale, economica e politica finiva per
andare alla deriva verso delle forme totalitarie che hanno
gettato discredito sull’immaginario utopico11. I progetti di
mondi altri sono stati l’oggetto di tentativi forzati di
trasposizione, spesso sono sfociati nella uniformizzazione,
la schiavitù o la morte. È questo il destino di ogni utopia o
una depravazione accidentale? La risposta è difficile: però
è possibile constatare, alla fine del XX secolo, la recessione
delle utopie, se non addirittura lo sviluppo delle controutopie, delle distopie, le quali non hanno cessato di
esorcizzare l’illusoria fascinazione per quelle costruzioni di
tutti i generi che hanno finito per generare mostri. Ma le
procedure utopiche sono per queste scomparse? L’utopia
è morta, respinta, o ha forse conosciuto dei trasferimenti
parziali verso campi di maggiore libertà? Questo è il caso
dell’arte, più che della sfera politica, ove l’opera sembra
ereditare più di una proprietà dell’immaginazione utopica.
Quali sarebbero i primi indizi di ciò, in attesa di un
inventario più completo?
Se un’opera d’arte è vista come un artefatto il cui
programma di creazione può essere l’oggetto di una
formalizzazione preliminare e le cui forme rinunciano a
imitare quelle che le preesistono, è possibile sostenere che
Cfr il nostro studio “La société pouponnière: métamorphoses de
l’utopie” in Milieux, 1985, N° 22, p. 22 e sgg.
11
102
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
esiste però una omologia tra la creazione artistica e
l’invenzione di una utopia. Inoltre mai le attività di
creazione in arte sono state a tal punto prossime a quelle
dell’utopia. Tra le altre, la letteratura, la pittura e la scultura
contemporanee, nell’epoca della decostruzione delle
forme, non si definiscono più in relazione al reale o
all’irreale finzionale, ma come delle attività combinatorie di
forme chiuse, auto-sufficienti, senza un mondo retrostante,
che si mantengono interamente sulla loro superficie, per
assicurare una esposizione trasparente della loro
configurazione. In tal modo esse perseguono dei metodi
propri della utopia classica, tra le quali possiamo
evidenziare:
— La tendenza ad elaborare delle costruzioni panoramiche,
sinottiche che mettano fine ad ogni opacità degli oggetti
rappresentati. Come l’utopista classico nega la
privatizzazione dello spazio, degli habitats, delle usanze, per
esporre agli occhi della comunità l’interiorità, nello stesso
modo la pittura cubista, per esempio, ha la tendenza a
mettere fine al monopolio della prospettiva unilaterale, agli
indici di profondità nascosti sotto la superficie parcellare e
dispiega nello spazio piano tutte le caratteristiche degli
esseri rappresentati. Il visto e il visibile coincidono in una
nuova figura artificiale che è esteriorità pura. La
predilezione per la ricostruzione geometrica non manca di
richiamare presso gli utopisti la sovradeterminazione degli
angoli che purificano il reale da ogni irregolarità;
— la tendenza a metter fine alle articolazioni organiche delle
forme, alle loro connessioni nascoste, al loro
affastellamento naturale, per sostituirvi delle ricostruzioni
artificiali, riordinate secondo dei piani arbitrariamente
imposti, contro-natura. Come sottolinea Lévi-Strauss, l’arte
entra in rapporto, da questo punto di vista, non più con la
logica dell’ingegnere, il quale raccorda degli organi per
costituire dei corpi funzionali, ma con la logica del bricoleur
il quale ridistribuisce le parti sulla base dei possibili non
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V, Numero 14
Quel che resta dell’utopia
ancora realizzati, secondo dei modi di giustapposizione
ancora imprevisti12. Numerosi scultori contemporanei non
restituiscono più delle forme precostituite, ma danno luogo
a degli assemblaggi, privi di finalità interna, di parti
decostruite, a delle giustapposizioni combinatorie di scarti,
resti, eccedenze che costituiscono così delle nuove totalità
senza ragione. Non ci si sorprenderà se certe descrizioni di
artefatti costruiti presso la Nuova Atlantide di Bacon
potrebbero applicarsi a molti dei mobiles di Tinguely13;
— quanto alla scrittura letteraria contemporanea, che si
avvicina molto al procedere utopico allorché essa rinuncia,
già nel Nouveau Roman, alla narratività lineare per
rimpiazzare il plot con un percorso impersonale attraverso
dei segmenti di realtà, fuori-quadro, presi per se stessi. Se
la prensione di essenze è certo generalmente assente, il
processo di descrizione o di enumerazione fredda è da
molti punti di vista, simile. Parallelamente, la scrittura
contemporanea, sospendendo la presenza del soggetto,
lasciando a volte che siano le cose stesse a dirsi, raggiunge
una neutralità testuale che mantiene la descrizione degli
oggetti in sospeso tra l’affermazione e la negazione,
esattamente come il testo utopico secondo Louis Marin14.
Così, attraverso queste ultime manifestazioni, si conferma
l’idea in base alla quale l’utopia costituisce una categoria
proteiforme, plastica, astuta, sempre più complessa rispetto
ad ogni definizione unidimensionale, ma strutturata attorno
ad un nucleo di forme e funzioni invarianti al di sotto delle
sue innumerevoli espressioni ibride o contraffatte. Mai del
tutto aderente alle sue manifestazioni di riferimento, ma
sempre più coerente rispetto a quanto lo lascino credere le
sue metamorfosi storiche, l’utopia rimanda a delle
12
C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, p. 26 e sgg.
Cfr F. Bacon, La Nouvelle Atlantide, citato in P. M. Schuhl, La
pensée de Bacon, Bordas, Paris 1949, p. 93.
14
L. Marin, Utopiques, jeux d’espace, cit., passim.
13
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intenzionalità testuali e preassiologiche di tipi di oggetti e di
azioni che non si lasciano unificare se non sotto il
medesimo nome, il quale pertanto istituisce e inaugura un
modo irriducibile di rappresentazione e di creazione di
oggetti i quali non si rifanno né alla razionalità né
all’immaginazione libera. L’utopia è tutto ciò che non riesce
a trovare il suo posto nelle categorie topiche del linguaggio
della rappresentazione e dell’azione. È un non luogo che
diventa luogo.
Jean-Jacques Wunenburger è docente di filosofia presso l’Università
Jean Moulin di Lyon; è membro del Centre d’études des Systèmes e
direttore del Centre de recherches Gaston Bachelard sull’immaginario e
la razionalità dell’Università di Dijon. Tra le sue opere principali
ricordiamo: La fête, le jeu et le sacré (PUF, 1977), L’utopie ou la crise
de l’imaginaire (Ed Un, 1979), La raison contradictoire (Albin Michel,
1990), Méthodologie philosophique (PUF 1992), La vie des images
(PUS, 1995), Philosophie des images (PUF, 1997).
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