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PRIMO PIANO
Venerdì 11 Novembre 2016
9
Mai una competizione elettorale presidenziale è stata così lunga e con tanti colpi bassi
Un anno e mezzo di guerra in Usa
Lezione di civiltà il saluto a Trump di Hillary e Obama
da Washington
ALBERTO PASOLINI ZANELLI
F
ra i messaggi (verbali,
scritti, disegnati, cantati e ruggiti anche in
una serie di manifestazioni di protesta contro l’esito delle elezioni) che Donald
Trump ha ricevuto nelle ore
e nei giorni immediatamente
successivi alla sua sorprendente vittoria nella corsa per
la Casa Bianca, due si distinguono per civiltà, moderazione, sguardo più lontano e quel
tanto di sincerità che si poteva pretendere dai rispettivi
mittenti: Hillary Clinton e
Barack Obama. Una cosa le
unisce: l’accettazione del verdetto e una moderata fiducia
nei risultati che questa brusca svolta nel percorso politico
americano potrà avere, positivi o meno, facilitati o meno da
pause di concordia nazionale
oppure combattuti fino all’ultimo voto e l’ultimo slogan.
Simili, insomma, allo
stile della campagna appena
conclusa. Che non è stata un
dialogo guidato da un cortese
moderatore, ma una esibizione di «lotta libera», che ammetteva coltellate e colpi bassi
più numerosi che in qualsiasi
altra maratona elettorale per
la Casa Bianca. Nelle parole e
nelle intenzioni, non soltanto
in uno scambio di slogan, ma
attraverso attacchi personali,
iniziative giuridiche, riesumazioni private.
L’incontro di ieri tra Donald Trump e Barack Obama
Subito prima di approdare alle urne, il duello tra
Hillary Clinton e Donald
Trump si è contaminato in
inchieste dell’Fbi e mobilitazione dell’equivalente di pubblici ministeri e di giudici. Con
bersaglio Hillary, nella fase
finale, ma con varie iniziative
incombenti su Trump durante
i lunghi mesi della campagna.
Anche per questo il linguaggio scelto dalla soccombente
è rimarchevole e addirittura
esemplare quello del suo «fratello di sconfitta» e presidente agli addii Barack Obama.
Senza dimenticare che perfino
il ruvido Trump ha saputo scegliere, per una volta, espressioni pacate e quasi cavalleresche
nei riguardi della sfidante.
Non si tratta di annota-
zioni di custodi del galateo
politico, bensì del riemergere
di un linguaggio di cui l’America aveva tanto bisogno e
tanto ne avrà, forse ancora
di più, nei mesi e negli anni a
venire. Perché la legislazione
già annunciata o inevitabilmente in calendario offrirà fin
troppe occasioni e tentazioni
di ritrasformare il dialogo e il
duello in una rissa, di rendere abituale il linguaggio dei
contendenti, che è stato senza precedenti per quasi un
anno e mezzo, cioè per tutta
la campagna elettorale più
lunga nella storia. Solo se le
due parti sapranno imporsi
in questa censura, il cambio
radicale alla Casa Bianca potrà introdurre idee nuove e
non limitarsi alla distruzione
di quelle vecchie. Maestro di
stile, Obama vedrà esaurire le
carte che gli sono rimaste in
mano di qui al suo addio alla
Casa Bianca in gennaio.
Trump dovrà costruirsi
un linguaggio nuovo che
avvolga il contenuto prevedibilmente aspro e tagliente nelle innovazioni che egli proporrà. In una situazione ancora
più tesa del previsto, perché
le previsioni sono state smentite non solo sulle identità del
nuovo presidente, ma anche
nei rapporti globali di forza
a Washington. Se i repubblicani avevano come legittimo
traguardo la riconquista della Casa Bianca dopo gli otto
anni di Obama, i democratici
avevano avviato un’altra offensiva, verso la riconquista
del Senato e la riduzione della
maggioranza ostile alla Camera, dominate entrambe dalla
leadership repubblicana del
ramo legislativo, impostata
fin dall’inizio sull’imperativo
di impedire a Obama di governare e quindi di portare
avanti le sue proposte.
Questa ambizione era
stata messa in pericolo proprio dall’apparizione di Donald
Trump, la sua candidatura a
sorpresa nelle primarie e la
conquista di una candidatura
che ha rischiato fino all’ultimo
non solo di regalare la Casa
Bianca agli avversari, ma anche di disgregare il Partito repubblicano, strappandolo alle
sue radici e mettendolo nelle
mani di un «avventuriero della
politica» come Donald Trump.
La paura, quasi inespressa
delle ultime settimane, giorni e
perfino ore, era questa: non solo
dei repubblicani tradizionali si
rifiuteranno di votare Trump
ma ci saranno dei trumpisti
particolarmente entusiasti
che si rifiuteranno di votare
per i candidati repubblicani
alle altre cariche proprio per
punire il loro vecchio partito
nella temuta pugnalata nella
schiena del candidato.
Niente di tutto ciò si è verificato. Fatto a pezzi durante
la campagna elettorale, il Partito repubblicano si è ricompattato al 99 per cento e ha così
incassato tutti i premi ambiti,
anche quelli contraddittori.
Alla resa dei conti, gli sconfitti
sono stati i democratici, che
hanno perso la Casa Bianca e
non hanno riconquistato nessuna delle posizioni, minori ma
decisive, in Congresso. L’eclissi di Hillary Clinton probabilmente aggraverà questa crisi.
Già si vede che la sconfitta ha
esacerbato semmai l’attuale
establishment e soprattutto la
sua componente liberale (che
in Usa è una connotazione di
sinistra). Basta leggere i giornali per apprenderlo: nessuno
degli intellettuali più a sinistra
ha trovato una sola parola
conciliante e nobile quanto i
«bollettini della sconfitta» pronunciati da Hillary Clinton e
da Barack Obama.
[email protected]
PER LO MENO. MA HA LASCIATO CAPIRE CHE PUÒ ESSERE ANCHE PEGGIO. HOLLANDE: SONO DEGLI SDENTATI
La New Yorker ha scomodato addirittura Platone
per spiegare che chi ha negato il voto a Hillary è un lazzarone
DI
O
JAMES HANSEN
vunque si giri di questi
tempi, il popolo sbaglia.
Donald Trump è stato
avversato sia a «sinistra»
(se così si possono definire l’ideologia e le amicizie di Hillary Clinton) sia da destra, dove il suo stesso
partito lo detestava e lo ostacolava.
Però, va alla Casa Bianca. Il perché
è in fondo molto semplice: un grande numero di elettori, specialmente quelli appartenenti al ceto che il
primo ministro francese, François
Hollande, chiama laicamente «gli
sdentati» (e non solo loro) lo hanno votato. Del popolo non ci si può
più fidare. La democrazia va bene
quando la gente vota «come dovrebbe», ma quando alza la cresta e si
impone, sono guai.
Tempo fa, gli elettori francesi
e olandesi sono stati così ingrati
da bocciare la Costituzione Europea. Per paura di altri smacchi democratici, il testo è stato ritirato ed
è stato necessario inventare il Trattato di Lisbona per infilare gli stessi contenuti in un documento che
potesse essere approvato invece
da statisti perbene. Più di recente,
c’è stato il caso Brexit. Le persone
come si devono, concordano che sia
una tremenda iattura, anche se per
ora gli inevitabili disastri tardano
ad arrivare, ma è presto per dire. Il
popolino britannico, così poco informato da non sapere nulla di bilanci,
di dividendi o di derivatives, gente
che non ha nemmeno un avvocato,
ha sbagliato di nuovo.
E poi, il pezzo forte, Donald
Trump. Ha vinto, ma per la mentalità finora regnante, non doveva
neanche permettersi di gareggiare. Ha messo in ridicolo il processo
elettorale e ha detto cose tremende di Hillary Clinton, ripetutamente definendola «bugiarda» e
«criminale».
Malgrado i toni fuori luogo, è
stato votato da un’immensa massa
d’americani—il popolo, per dire. Ma
come si fa a permettere che gente
così sprovveduta possa pesare nella
selezione del Presidente degli Stati Uniti? In altre parole, ora parte
l’attacco «alto» alla democrazia. A
giorni il Corriere della Sera ospiterà la conferenza «Democrazia nella
crisi, crisi della democrazia».
Il problema (le élites lo vedono
chiaramente) è l’ignoranza dell’elettorato. Riconoscono, dispiaciute,
che chi ha votato Trump dev’essere ignorante come una capra. Questi non possono avere respinto la
«vera» conoscenza, è solo che non
la conoscono.
L’ultimo numero della New
Yorker (la Bibbia della classe pensante Usa) reca un pezzo che fa
notare come «un terzo degli americani ritiene che lo slogan marxista ‘Da ciascuno secondo le sue
abilità, a ciascuno secondo le sue
necessità’ provenga dalla Costituzione; altrettanti sono incapaci di
nominare i tre rami in cui è diviso
il Governo del paese (Esecutivo,
Legislativo e Giudiziario, ndr) e
meno di un quarto conosce il nome
del proprio Senatore».
L’articolo (intitolato «The Case
Against Democracy») cita dottamente Platone sul carattere dell’elettore medio: «Qualche volta si ubriaca
mentre ascolta la musica del flauto,
in altri momenti beve solo acqua,
ma è a dieta; a volte s’impegna negli esercizi fisici, in altri momenti
ancora è ozioso e trascura tutto; tal-
volta si occupa perfino di ciò che
ritiene sia la filosofia».
Una massa di lazzaroni… C’è
però un’unica cosa che imbriglia,
seppure solo marginalmente, i
peggiori istinti dei politici: il terrore dell’elettorato, anche di quello
«ignorante». Forse è il caso di essergli grati.
RESOCONTO INTERMEDIO
DI GESTIONE AL 30 SETTEMBRE 2016
Si rende noto che il Resoconto intermedio di gestione al 30 settembre 2016, approvato dal Consiglio
di Amministrazione in data 10 novembre 2016, è stato depositato, a
disposizione di chiunque ne faccia
richiesta, presso la Sede Sociale,
presso il meccanismo di stoccaggio
autorizzato 1INFO (www.1info.it)
ed è disponibile altresì sul sito
www.digitalbros.com (Investitori).
Milano, 11 novembre 2016
Il Presidente del Consiglio di Amministrazione
Abramo Galante
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Capitale Sociale € 5.644.334,80 i.v.
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