Monastero di Bose - Rendi conto della tua amministrazione

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Rendi conto della tua amministrazione
o Merz, Che Fare?, alluminio cera e luce al neon, 1968–73
Lc 16,1-8
In quel tempo Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a
lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua
amministrazione, perché non potrai più amministrare». L'amministratore disse tra sé: «Che cosa farò, ora che il
mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa
farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua».
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: «Tu quanto devi al mio padrone?». Quello
rispose: «Cento barili d'olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta». Poi disse a un
altro: «Tu quanto devi?». Rispose: «Cento misure di grano». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta». Il
padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti,
verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Con una parabola tanto strana, la pagina odierna del vangelo ci appare difficile da interpretare e paradossale per le
nostre esigenze di giustizia, lealtà e verità. In più, mentre le precedenti parabole sulla misericordia erano rivolte a scribi e
farisei, il racconto dell’amministratore infedele, con il suo richiamo al dovere dell’intelligenza, ha come destinatari i
discepoli e quindi ciascuno di noi, che si scopre così accusato di scarsa arguzia. Ma perché il padrone loda questa
persona disonesta? Egli ci appare ingiusto, come lo era quel padrone della vigna che diede agli operai dell’ultima ora
quanto aveva pattuito con quelli della prima (cfr. Mt 20,11).
Addentriamoci nel racconto: un uomo ricco ha un amministratore accusato di aver sperperato i beni a lui affidati; prima di
lasciare l’incarico, l’amministratore chiama i debitori del suo padrone e, falsificando le ricevute, li rende in un certo senso
debitori verso se stesso. L’amministratore non si difende davanti al padrone, sa di averlo imbrogliato, ma quando è
scoperto ha la capacità di rientrare in se stesso, di pensare come quel figlio uscito di casa, finito a pascolare i porci e
ridotto in miseria in un paese straniero (cfr. Lc 15,17). E forse da quel momento inizia a comprendere la sua stoltezza:
aver considerato i beni come il fine ultimo della sua esistenza.
Aveva finora accumulato tesori per sé senza arricchirsi davanti a Dio. La domanda che lo abita è: che fare? Per
rispondere aguzza la propria intelligenza:conosce i suoi limiti, li passa in rassegna e trova una soluzione. Noi siamo
come quell’amministratore: abbiamo ricevuto e riceviamo continuamente doni materiali e spirituali, ma abbiamo saputo e
sappiamo condividerli con chi ci sta accanto, con i più poveri a cui per primi è promesso il regno? Nel tempo che ci è
dato di vivere sappiamo trasformare la ricchezza che siamo e possediamo in fonte di comunione, amicizia, fraternità?
Gesù non loda l’inganno, la falsità e tantomeno l’ingiustizia, ma questa capacità di creatività intelligente e di non
fare del danaro un idolo a cui assoggettarsi. Essere cristiani è una cosa seria e non è facile: gratuitamente abbiamo
ricevuto, gratuitamente siamo chiamati a dare. Ciò di cui siamo semplici custodi o lo usiamo egoisticamente per
dominare gli altri e dividerci, o per creare comunione e fraternità. Riconoscerci incapaci di una buona amministrazione,
infedeli, poco sensibili agli altri, recalcitranti nella condivisione è un primo passo intelligente per cambiare direzione e
metterci sulla via nella quale l’unico debito da assolvere è la carità e nient’altro.
sorella Antonella
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