Meno lussi, meno fame

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Meno lussi, meno fame
di Giuseppe Remuzzi (La lettura - Corriere della Sera, 23 ottobre 2016)
«È
morale la vita che viviamo, in un mondo
dove milioni di persone muoiono di fame
o di mancanza di cure?». Per non parlare
di quelli che muoiono sotto le bombe, come succede in
Siria proprio in questi giorni. A chiederselo è Peter
Singer, professore a Princeton e filosofo della scienza,
che nella nuova edizione del suo saggio Famine,
Affluence and Morality («Carestia, ricchezza e
morale») torna su un argomento già affrontato in
passato e oggi di assoluta attualità: «Non dovremmo
destinare quello che a noi non serve a chi vive in
povertà? Che senso ha far finta di niente solo perché chi
soffre e muore è lontano da noi? Se possiamo evitarlo,
salvo che non si debba sacrificare qualcosa di
altrettanto importante per la nostra vita, abbiamo il
dovere morale di occuparcene».
Sono argomenti difficili da affrontare, scrive Richard
Horton, il direttore della rivista «Lancet» nel suo
commento al libro, e di certo a qualcuno dopo queste
poche righe passerà la voglia di continuare a leggere.
«Ma se possiamo aiutare anche solo un bambino a
vivere una vita normale rinunciando a un vestito o a
cambiare un paio di scarpe, perché non farlo?». Tanto
più che se nessuno fa niente nei prossimi cinque anni
1.5o milioni di bambini moriranno di guerra, di fame,
di Aids, di malaria, di tubercolosi, tutte cose che si
potrebbero evitare anche perché quel poco — o tanto —
che si è fatto finora ha dato grandi risultati (la mortalità
infantile dal 1990 a oggi si è dimezzata).
Insomma, alibi in questo senso oggi non ce ne sono più.
E poi non ci possono essere due morali, scrive Singer,
una per chi è vicino e una per chi vive un po' più lontano
da noi; di bambini poveri ce ne sono dappertutto
(anche a Milano e a Roma), ma che questi bambini
vivano nelle periferie delle nostre grandi città o in
Africa o ai confini fra l'India e il Pakistan o in certe zone
povere dell'America Latina non cambia le nostre
responsabilità nei loro confronti. Certo è più semplice
e anche più pratico essere di aiuto a chi ci è vicino,
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questo è vero. O forse era vero qualche anno fa; internet e la facilità con cui si viaggia, da
qualche anno, hanno cambiato tutto, compresi i confini della morale.
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E c'è un altro aspetto su cui Singer ci invita a riflettere: dare quello che a noi non serve a chi
ne ha bisogno per vivere è un atto di carità o un dovere? Chiarire questo punto è molto
importante, perché se si tratta di un atto di generosità lo si può fare, se uno vuole, ma anche
no; insomma non c'è niente di male nel non farlo (un atto di generosità viene riconosciuto e
suscita ammirazione, ma non c'è alcun tipo di condanna da parte della società per chi non è
generoso), se è un dovere invece cambia tutto. «Ma perché dovrei essere proprio io con tutta
la gente che c'è al mondo a occuparmi dei bambini che muoiono?», penserà chi legge queste
righe. Sul piano del principio morale che uno sia il solo a fare qualcosa che andrebbe
comunque fatta o che lo faccia insieme ad altri milioni di persone non fa differenza. È diverso
l'atteggiamento psicologico; uno si sente meno a disagio nel non fare niente se sa di non
essere il solo — «non faccio niente io ma non fa niente nemmeno nessun altro» — ma resta
l'obbligo morale nei confronti di chi soffre la fame. Se vediamo un bambino che sta per
cadere in un fiume, rinunciamo a soccorrerlo perché altri intorno a noi, che pure potrebbero
aiutarlo, non stanno facendo niente?
Poi c'è la questione di quanto dare. Siamo 500 milioni in Europa, se ciascuno desse io euro
peri bambini poveri dell'Africa sotto il Sahara molti di questi bambini si salverebbero.
«Quindi se do io euro sono a posto», direte voi. Sì, se tutti dessero io euro, ma dato che è
quasi certo che non lo faranno tutti, è altrettanto certo che con i tuoi io euro non risolvi il
problema dei bambini dell'Africa. Se ciascuno desse di più si potrebbe fare di più e prevenire
molta sofferenza e molte morti.
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Chi pensa che nessuno di noi abbia nessun obbligo nei confronti dei poveri della Terra
ragiona così: «Che garanzie ho che quello che darò non finisca nelle mani delle persone
sbagliate? Di politici corrotti per esempio?». Sarebbe una buona ragione per non fare nulla,
suggerisce Bili Gates nella sua prefazione al libro di Singer, ma solo in teoria, oggi le cose
sono molto cambiate e ci sono grandi organizzazioni assolutamente affidabili in grado di
assicurare che i nostri soldi arrivino davvero a chi ne ha più bisogno. Unicef o Oxfam
America per esempio offrono garanzie assolute; insomma questo ragionamento non
funziona, scrive Singer. E quanto si dovrebbe dare a una di queste organizzazioni per aiutare
un bambino a non morire (di una malattia infettiva per esempio)? Hanno fatto dei calcoli
molto precisi, con 18o euro si può aiutare un bambino di due anni ad arrivare ai sei anni in
buona salute. Che poi vuol dire superare il periodo più difficile della vita almeno per ciò che
riguarda le malattie infettive, Aids, malaria, tubercolosi.
E qui viene il bello (o il difficile se volete): chiunque di voi adesso o almeno di coloro che non
hanno smesso di leggere dopo le prime righe, ha tutte le informazioni che servono; come
giudicherete voi stessi, se non fate nulla? Qualcuno forse qualcosa farà, ma rinunciando a
che cosa? Una cena al ristorante, per esempio, val bene la vita di un bambino, e poi? Sì,
perché con altri i8o euro puoi salvare un altro bambino (o un adulto che non è poi tanto
diverso) e poi un altro ancora. Di questo passo dovremmo andare avanti finché non ci resta
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più niente. Dove ci si ferma? «Sarebbe meglio che tutto questo lo facessero i governi con i
soldi che vengono dalla fiscalità collettiva — penserà qualcuno di voi —, in questo modo non
sono solo io a contribuire ma tutti.
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Certo, e sarebbe anche più giusto, se i governi seguissero le raccomandazioni delle Nazioni
Unite di destinare ai Paesi poveri almeno lo 0,7 per cento del prodotto interno lordo (Pil).
Questo però non succede, basti pensare che gli Stati Uniti hanno destinato in aiuti ai Paesi
poveri solo per il 2016 lo 0,09 per cento del Pil, più o meno quello che dà il Portogallo e la
metà di quello che dà il governo inglese. E i bambini muoiono adesso e continueranno a
morire nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, non quando i governi si saranno decisi
a fare di più.
L'ideale, secondo Singer, sarebbe che ciascuno desse tutto quello che non gli serve (senza
che questo, s'intende, finisca per creare problemi a noi stessi o alle persone che dipendono
da noi). La nostra concezione di «morale» è molto relativa, tuteliamo la proprietà privata,
condanniamo chi ruba (anche per fame) e ogni forma di violenza, mettiamo in carcere chi
viola queste norme; è la base del nostro vivere civile, ma non c'è alcun giudizio morale per
chi si circonda di cose inutili senza occuparsi di chi muore di fame. Fra l'altro, la morale non
può avere riferimenti assoluti, dovrebbe cambiare in rapporto alle esigenze della società e
non c'è dubbio che il mondo di oggi abbia bisogno di gente disposta ad aiutare chi vive in
condizioni di povertà estrema.
Singer si rende conto che la sua idea di morale è lontana dal sentire comune e certamente
dagli standard delle nostre società occidentali, ma in altri contesti «non ci sarebbe nulla di
strano in quanto sostengo».
E cita Tommaso D'Aquino: «Quello che un uomo ha in più appartiene per diritto naturale a
chi è povero per il suo sostentamento, il pane che avanza è di chi ha fame e i vestiti in più
sono di chi non ha da coprirsi». Noi comperiamo un cappotto per stare caldi, la macchina
per muoverci, ma un altro cappotto per essere ben vestiti o una macchina nuova se l'altra
funziona benissimo non servono e allora dovrebbe essere un dovere usare quelle risorse per
chi ha fame (qui ci si scontra con problemi pratici però, se lo facessero tutti l'industria tessile
chiuderebbe e così quella delle automobili e tutte le altre a cui si applica il principio che
prevede di rinunciare a quello che non è strettamente necessario per darlo a chi soffre, e si
ridurrebbe ancora di più l'occupazione e forse tra un po' non avremmo più soldi per
comperare quello che a noi non è strettamente necessario, ma nemmeno per darli a chi si
occupa di ridurre la povertà nel mondo, con questo come la mettiamo?).
E allora si dirà che i filosofi — e Singer lo è — sono lontani dalle esigenze di chi fa politica e
non conoscono le regole dell'economia e si proverà a relegare le considerazioni di Singer
nell'ambito delle cose interessanti per fare un libro ma che non si possono realizzare. Dalla
parte di Singer però ci sono i fatti: il rapporto 2016 delle Nazioni Unite sull'infanzia parla di
69 milioni di bambini sotto i cinque anni che moriranno da qui al 2030 se non si fa qualcosa
e di 167 milioni che vivranno in povertà. E chiaro che il futuro di questi bambini dipende da
ciascuno di noi e che ridurre le diseguaglianze si può. E qualcuno lo ha fatto anche da solo.
A Bill Gates, un giorno capita per caso di leggere un articolo sulle malattie nei Paesi
emergenti. Scopre che mezzo milione di bambini muoiono ogni anno di rotavirus (è la causa
più comune di gastroenterite nei bambini). Di rotavirus Gates non aveva mai sentito parlare.
«Come è possibile, si chiede, che io non sappia nulla di qualcosa che uccide così tanti
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bambini?». Non si può che concludere che viviamo in un mondo in cui la vita di certi bambini
— quelli che vivono negli Stati Uniti e in Europa — vale di più della vita di chi vive in Africa
o in Bangladesh. Ci possono essere motivazioni diverse — non sempre necessariamente
nobili — per cui chi è super ricco dà ai poveri. L'anno scorso Warren Buffett ha dato 31
miliardi di dollari alla Gates Foundation per aiutare i bambini malati di Aids, malaria e
rotavirus. Perché lo ha fatto? Non lo so ma alla mamma di un bambino malato non interessa,
a lei interessa solo che il suo bambino adesso è guarito, sta bene e vivrà una vita normale.
«Lasciamo perdere le motivazioni», scrive Singer, piuttosto chiediamoci se c'è un obbligo
morale per chi è ricco di dare a quelli che se no morirebbero e quanto dovrebbero dare. Tanto
più che nessuno diventa ricco da solo.
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Herbert Simon — un economista che ebbe il Premio Nobel nel1978 — ha calcolato che
almeno il go per cento di quello che uno riesce a guadagnare in Paesi come Stati Uniti e
Europa dipende da circostanze ambientali che lui chiama «social capital», cioè tecnologie,
conoscenze e organizzazione della società oltre al fatto di avere un buon governo. Senza
contare che molta della ricchezza di cui godiamo arriva a scapito dei poveri; la nostra morale,
dice Singer, ci impedisce di comprare cose rubate ma non di impadronirci delle risorse dei
Paesi poveri pagando dittatori corrotti e lasciando nella miseria chi procura le materie prime
che servono a costruire il nostro benessere.
Così il dare a chi è povero per i ricchi dovrebbe essere non solo un dovere ma una forma di
risarcimento. E allora, quanto dovrebbero dare i ricchi? Torniamo a Bill Gates: ha dato 3o
miliardi (di dollari) ma gliene restano 54. E Paul Allen — cofondatore di Microsoft— ha dato
800 milioni ma gli restano 16 miliardi. Gates e Allen hanno fatto abbastanza? Forse sì, ma
c'è chi ha fatto di più. Zell Kravinsky: un ricco americano che negli anni Ottanta ha fatto
fortuna con compravendite immobiliari e che verso la fine degli anni Novanta ha venduto
tutte le sue proprietà (45 milioni di dollari) per i poveri e vive in una casa modesta. E ha
donato uno dei suoi reni a qualcuno che non conosceva ragionando così: «Se uno dona un
rene ha una probabilità su 4 mila di morire. Non farlo vuol dire considerare la mia vita 4
mila volte più importante di quella di uno che di quel rene ha bisogno per tornare a una vita
normale».
Kravinsky è un caso estremo, si capisce, ma il donare quello che a noi non serve a chi ne ha
bisogno per vivere non vale solo per i super ricchi, vale per tutti; se tutti facessero tutto quello
che possono fare, di fame, malaria e Aids nei Paesi poveri non morirebbe più nessuno.
Quanto lontano possiamo spingerci nel sostenere le idee di Peter Singer? Non lo so, lascio
giudicare a chi legge, ma certo non parlarne non è la soluzione.
La lettura – Corriere della Sera, 23 ottobre 2016
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