il Manifesto - 20 Ottobre 2016

Download Report

Transcript il Manifesto - 20 Ottobre 2016

In edicola «ll castello»
Violeta Parra
Michael Moore
RIFORME A 50 centesimi il primo
di due supplementi sul referendum
Le critiche ma anche le proposte
Prossima puntata mercoledì 26
ANNIVERSARI Al via le celebrazioni
in Cile per il centenario
dell’autrice di «Gracias a la vida»
TRUMPLAND A sorpresa il ritorno
del regista americano in un doc che
esorta alla mobilitazione per Hillary
Francesca Lazzarato pagina 10
Giulia D’Agnolo Vallan pagina 12
quotidiano comunista
 CON "IL CASTELLO"
+ EURO 0,50
 CON "LE MONDE
DIPLOMATIQUE"
+ EURO 2,00
 CON "IN MOVIMENTO"
+ EURO 1,00
CALL CENTER
euro 1,50
www.ilmanifesto.info
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016 – ANNO XLVI – N° 252
LEGGE DI BILANCIO
Isindacatialgoverno:quasi100mila «Regolerispettate».Renzidifendelamanovraespera
postiarischio.OccupataAlmaviva
dinondovercedereallaUeprimadelreferendum
ALFREDO MARSALA
II 70-80 mila posti nei call cen-
Poste Italiane Sped. in a. p. - D.L. 353/2003 (conv. L. 46/2004) art. 1, c. 1, Gipa/C/RM/23/2103
ter rischiano di andare in fumo
entro «qualche mese». Slc-Cgil,
Fistel-Cisl e Uilcom lo hanno
spiegato chiaramente in commissione Lavoro al Senato, dove
sono stati ascoltati sul caso Al-
maviva. Il sistema delle «cuffiette» è in ginocchio, le delocalizzazioni non si fermano e le aziende licenziano e riassumono con
il job act. La vertenza Almaviva
(ieri a Palermo è stata occupata
la sede del gruppo) emblema del
fallimento delle politiche del governo. A PAGINA 2
ANDREA COLOMBO
II Alla Ue la manovra di Renzi non piace neanche un po’.
Una la lettera di monito sarebbe già pronta. La trattativa è in
corso e proseguirà sino all’ultimo. Però sarebbe meglio cedere dopo il referendum del 4 di-
cembre: i regali a scopo elettorale sono tanti ma piccoli, il
che sconsiglia di ridurli prima
del voto, la lettera invece obbligherebbe a intervenire subito.
Renzi affronta la prova forte
del sostegno di Obama. Un po’
perché si sente più forte, molto per conquistare l’elettorato
di destra, si prepara ad affrontare l’ostacolo a muso duro.
«La legge - tuona il premier dagli Stati uniti - rispetta totalmente le regole europee.
Quanto alla procedura d’infrazione, l’aspettiamo per i Paesi
che non hanno accolto i migranti». A PAGINA 5
Le donne
dell’Argentina
si fermano
per ricordare
Lucía, una
ragazza di 16
anni, l’ultima
vittima
violentata e
uccisa. Dopo
la Polonia,
lo sciopero
al femminile
si estende
e varca
l’oceano pagina 7
biani
Aleppo e Mosul
Le guerre
nell’urna
americana
LA BATTAGLIA DI MOSUL
InfugaversolaSiria
civilieislamisti
all’interno
Catania Muore di parto,
accuse al medico obiettore
MARINA DELLA CROCE
FRANCESCO STRAZZARI
ancanotresettimaneallepresidenziali
Usaetremesiall’insediamentodelnuovoPresidente.IlNobelperlaPaceObamavuolelasciarelascenaesibendolatestadelCaliffato:gli
‘abilitatori’americaniincalzanopeshmergacurdiedesercitoirachenoaMosul.
Referendum «No Renzi day»,
M
— segue a pagina 9 —
PAGINA 5
sindacati di base in piazza
ROBERTO CICCARELLI
Già 5mila iracheni di Mosul fuggiti in Siria,
via d’uscita anche per i jihadisti. Le truppe
irachene rallentano. Gli Usa - su spinta di Erdogan - non si coordinano con le milizie sciite. La Russia prolunga la tregua ad Aleppo.
Il giornalista iracheno al Nashrawi al manifesto: «Non è la fine del conflitto ma l’inizio».
CHIARA CRUCIATI A PAGINA 8
PAGINA 4
G8 «Fu vera tortura», maxi
risarcimento a un attivista
GONNELLA, OLEANDRI
PAGINA 6
Referendum
La nostra debolezza
sullo scacchiere
americano
LUCIANA CASTELLINA
ll'inizio dal Sì al referendum sembrava
dovessero dipendere
le sorti dell'Italia, adesso scopriamo che sarebbero in gioco anche la tenuta dell'Europa e il futuro degli Stati uniti. Ci sarebbe di che esserne
fieri, se non fosse che il ruolo attribuito a Renzi da Obama non dipende dalla forza ,
ma dalla sua debolezza della
sua politica. Neppure negli
anni più bui dell'ubbidienza
atlantica, un capo di governo italiano aveva esposto
l'Italia alla imbarazzante
situazione in cui il capo di
un altro stato si sia permesso di dare un voto sul proprio operato in politica interna, e persino su come debba
essere scritta la sua Costituzione. Con l'avvilente utilizzo del nostro, ahimè, presidente del consiglio da parte
del presidente degli Stati
uniti.
Obama avverte l'Unione europea che Washington pretende più efficienza dai litigiosi 28 stati europei, e a questo fine è pronto a rottamare la troppo arrogante Merkel, il troppo debole Hollande, i presuntuosi britannici.
A
— segue a pagina 15 —
Effetti collaterali
I segni invisibili
del senso di colpa
della lunga crisi
TONINO PERNA
uasi dieci anni fa
scoppiava la crisi
dei mutui subprime
negli Usa. Il re era nudo, il
ruolo nefasto della finanza
ormai evidente, gli stipendi
dei manager diventati improvvisamente intollerabili e scandalosi. Nel 2007,
l’anno della crisi e del crollo della Borsa di Wall Street, la remunerazione dei
bancari delle quattro principali banche statunitensi
era aumentata del 9% arrivando a 66 miliardi di dollari, mentre le rispettive banche perdevano 50 miliardi
di capitalizzazione in Borsa. I dipendenti venivano
pagati in media 350 mila
dollari a testa per bruciare
ognuno 274mila dollari.
Con centinaia di milioni di
dollari per ciascun banchiere al momento della liquidazione.
Q
— segue a pagina 15 —
2
la notizia del giorno
giovedì 20 ottobre 2016
CUFFIETTEINLOTTA
Vertenzacallcenter,
Almavivaprepara
licenziamenidimassa
80 mila posti di lavoro rischiano di andare in fumo nei prossimi
mesi. Confermata la chiusura delle sedi di Roma e Napoli
ALFREDO MARSALA
II La stima è catastrofica:
70-80 mila posti nei call center
rischiano di andare in fumo «nel
giro di qualche mese». Slc-Cgil,
Fistel-Cisl e Uilcom lo hanno
spiegato chiaramente in commissione Lavoro al Senato, dove
sono stati ascoltati informalmente sul caso Almaviva.
IL SISTEMA delle "cuffiette" è in ginocchio, le clausole di salvaguardia fanno acqua da tutte le parti,
le delocalizzazioni non si fermano e le aziende preferiscono abbattere i costi licenziando per
poi assumere con il job act. La
vertenza Almaviva rischia di diventare l’emblema del fallimento delle politiche del governo.
Confermando la chiusura delle
sedi di Roma e Napoli e il trasferimento di 330 dipendenti da Palermo a Rende, la società sta facendo pressioni sul governo per
ottenere migliori condizioni di
mercato. E anche gli altri operatori non sono da meno. Exprivia, che è subentrata ad Almaviva nella gestione della commes-
A Palermo 154 dipendenti
costretti a trasferirsi
se non vogliono perdere
il posto occupano i locali
della società. Che chiama
la polizia. Oggi vertice
al Mise
Al centro, una manifestazione
dei lavoratori Almaviva foto
di Patrizia Cortellessa. Sotto,
la protesta contro il marchio
Cavalli. A destra, braccianti a
Boreano foto di Emiliano Albensi.
La segretaria Flai Ivana Galli
sa Enel, non intende farsi carico
tout court, nella sua sede di Molfetta, del personale del contact
center di Palermo, in barba alle
clausole di salvaguardia. Un
black-out che ha fatto salite la
tensione alle stelle tra i lavoratori. Ieri i 154 «che dovranno recarsi a Rende» a partire da lunedì
prossimo, secondo il diktat
dell'azienda, hanno occupato i
locali della società, trovando la
solidarietà di altri colleghi. Sulla terrazza dell'edificio hanno affisso alcuni striscioni mentre altri simbolicamente hanno messo catenacci al cancello del call
center. Perché oltre ai disagi di
un trasferimento «assurdo» per
dipendenti part-time con 700
euro al mese e in molti casi figli
a carico, i sindacati sono convinti che dietro ai trasferimenti
«si celano licenziamenti mascherati». «È inaccettabile giocare con la pelle dei lavoratori seguendo solo logiche economiche e di profitto: siamo pronti
alla trattativa costruttiva ad oltranza ma non accetteremo
condizioni ricattatorie, se non
si trova una soluzione su questa vertenza, oltre a perdere
centinaia di posti di lavoro, ipotecheremo definitivamente la
civiltà di questo paese», dice Rosy Contorno della Uilcom.
LA REAZIONE dell'azienda è stata
immediata. I dirigenti hanno
chiamato la polizia. In sede è arrivata la Digos, è partita una trattativa. Alla fine di fronte alla minaccia di sgombero, i dipendenti hanno trasformato l'occupazione in assemblea permanente. Oggi alle 18 è in programma
il secondo round al Mise. E bisogna stare sul pezzo. I lavoratori
per l'intera mattinata manifesteranno davanti la sede di via Cordova: «Dobbiamo fare capire al
nostro amato presidente che
dietro 3.200 lavoratori ci sono
3.200 anime che da 15 anni continuano a lavorare con professionalità e spirito di abnegazione,
ricordiamoci tutti che #siamotuttialmaviva non può essere solo uno slogan».
NEL POMERIGGIO sit-in davanti alla Prefettura, proprio nelle ore
in cui al Mise la trattativa sarà
entrata nel vivo. Domani la protesta si sposterà davanti al teatro Santa Cecilia, dove è atteso
Renzi per una manifestazione a
sostegno del referendum: gli
operatori si presenteranno alle
21 muniti di badge e di lumini.
«Potremo gridare il nostro sdegno a chi ha il potere di fare attuare, in brevissimo tempo, le
leggi per una chiara e sostenibile regolamentazione del settore», dicono i sindacati. «Almavi-
va continua a non voler bloccare questi trasferimenti. E il terribile ricatto sta andando avanti,
una pistola puntata sui lavoratori a basso reddito, che sono nel
panico, sono impazziti, minacciano il suicidio, di darsi fuoco.
Non si gioca così con la vita delle
persone», è l'allarme del segretario Slc Cgil di Palermo, Maurizio
Rosso. «Governo, Regione, comune, Industria si mettano insieme al sindacato per costruire
una posizione politica seria,
non più rimandabile», aggiunge, perché «la Cgil non accetterà
mai condizioni arroganti e abominevoli, che non risolveranno
mai le problematiche dell'occu-
pazione e dello sviluppo di questo Paese». Per la Cgil «il settore
dei call center non ha bisogno di
interventi da pronto soccorso,
dopo sette mesi di vertenza avevamo pensato di condurre la discussione verso una risoluzione
che prevedesse fondi strutturali, tavoli dedicati, formazione,
ricerca, sviluppo per poter offrire lavoro e garanzie».
«I COMMITTENTI di questo settore,
che sono tutti multinazionali, e
penso a Telecom, Enel, Poste italiane - è lo sfogo di Rosso - non si
possono più permettere di fare
offerte al massimo ribasso sulla
pelle dei lavoratori, uccidendo
il lavoro».
traversando tempi difficili, dettati da una significativa contrazione dei consumi in diversi
mercati chiave e da una sostanziale trasformazione delle dinamiche di settore. In questo
contesto, solo i marchi iconici,
con un modello di business coe-
rente e un’organizzazione efficiente saranno in grado di sopravvivere». Semplice. Il marchio Cavalli per sopravvivere
dovrebbe licenziare 115 persone. Trattasi di semplice operazione finanziaria per valorizzare gli investimenti.
MILANO
Cavalli non più di razza. Il brand della moda licenzia
LUCA FAZIO
II Il tappeto rosso per una sfilata di lavoratori della moda
prossimi al licenziamento è
uno spettacolo piuttosto insolito in corso Vittorio Emanuele,
una delle vie dello shopping di
lusso più famosa al mondo. Perché fa a pugni con il glamour
stucchevole che racconta la Milano che vende moda e perché
l’industria italiana del settore
quest’anno crescerà dell’1,4%,
un punto in meno del 2015 ma
pur sempre il doppio rispetto
all’economia italiana (fatturato annuo 83,6 miliardi di euro).
Ma non è tutto lustrini quello
che luccica, basta chiederlo ai
lavoratori della maison di Roberto Cavalli - rilevata più di un
anno fa dal Fondo Clessidra che stanno protestando contro
un piano di ristrutturazione
piuttosto duro.
Lo sciopero di ieri davanti alla sede milanese dell’azienda,
un’ora, segue lo stop di otto
ore di venerdì scorso. «La più
colpita è la sede di Firenze - scrivono Filctem Cgil, Femca Cisl e
Uiltec - che già a dicembre aveva avuto 39 licenziamenti. La
mobilità riguarderà un quarto
dei dipendenti - 77 addetti su
280, di cui il 75% donne con
un’età media di 40 anni - e vedrà la chiusura del reparto
stamperia. Il piano prevede anche la chiusura della sede di Milano, il trasferimento degli gli
uffici a Sesto Fiorentino e la riduzione complessiva dell’organico in Italia a 372 lavoratori».
L’apertura della procedura di
mobilità riguarda 372 dipendenti, di cui 115 considerati
esuberi: «Come sindacato chiuderemo un incontro all’azienda e di aprire un tavolo istituzionale sulla crisi, vogliamo un
piano industriale, faremo di
tutto per salvare posti di lavoro
e marchio sul territorio». Tra i
licenziati c’è anche il direttore
creativo Peter Dundas che dopo aver firmato la sua terza collezione se ne va senza sbattere
la porta e senza troppi problemi.
Dietro ai numeri c’è la vita
delle persone e - «creativi» a par-
I dipendenti
protestano
sfilando su un
tappeto rosso nel
centro della città
te - un trasferimento imposto
può essere peggio di un licenziamento. «Non siamo pacchi
da spedire a loro piacimento,
ognuno di noi ha una storia da
raccontare e una propria dignità», dicevano ieri i lavoratori
della sede di Milano (80 dipendenti) mimando una sfilata tra
scatole di cartone. Davide, per
esempio, sarebbe licenziato, la
sua compagna Silvia trasferita.
I conti dell’azienda erano in
rosso già dal 2014 e sono peggiorati da quando Roberto ed
Eva Cavalli non sono più alla
guida del gruppo: aveva chiuso
il bilancio con 210 milioni di ricavi e 12 milioni di perdita netta. Anche il 2016, secondo i
nuovi padroni del Fondo Clessidra non lascia ben sperare.
«L’industria della moda - spiega l’ad Giacomo Ferraris - sta at-
la notizia del giorno
giovedì 20 ottobre 2016
Domani alle 21 protesta al teatro Santa Cecilia
dove è atteso Renzi per un’iniziativa referendaria
Il carcere per chi
sfrutta il lavoro,
la confisca dei
beni come avviene
già per i mafiosi.
Verrà rafforzato
il collocamento
pubblico, e noi
speriamo anche
i trasporti.
Dedichiamo
la legge a tutti
i braccianti
che non sono
mai più ritornati
dai campi
CAPITALISMO E PIATTAFORME DIGITALI
IguaidelJobsActnelcasoFoodora
ROBERTO CICCARELLI
II Sono in corso verifiche degli ispettori del lavoro alla Foodora. Lo ha confermato ieri la
ministra per i rapporti con il
parlamento Maria Elena Boschi che, a nome del ministro
del lavoro Giuliano Poletti, ha
risposto a un’interrogazione di
Giorgio Airaudo (Sinistra Italiana). Boschi ha segnalato un’altra iniziativa del governo, provocata dalla protesta dei bikers
torinesi e milanesi contro le
condizioni di lavoro imposte
dalla multinazionale tedesca
di take away su piattaforma digitale. Poletti avrebbe chiesto ai
ministri del lavoro europei di
aprire «un tavolo per individuare soluzioni condivise a livello
europeo per tutelare il lavoro
nella new economy». Definizione
che si riferisce alla prima stagione dell’economia digitale,
quella delle «dot.com» fallita
all’inizio degli anni Duemila.
Nel caso dei ciclofattorini di Foodora, e di chi lavora nel «capitalismo di piattaforma» [platform capitalism], si usa il termine di «gig economy», l’economia dei «lavoretti» on line e delle prestazioni d’opera via smarthphone. Da non confondere
con l’economia della condivisione [sharing economy] di un bene privato come la casa o la
macchina. Non sono questioni
nominalistiche, ma di sostanza. Rendono l’idea del ritardo
culturale con il quale il governo sta affrontando il lavoro digitale. Basti pensare al provve-
dimento sullo «smart work»,
presentato insieme a un’iniziativa sul lavoro autonomo ancora fermo al Senato. Nel Ddl il
governo non menziona la «gig
economy», ma si rivolge ai dipendenti di grandi aziende.
Prevale la segmentazione dei
lavoratori, non la volontà di tutelarli in una visione ampia
dell’innovazione capitalistica.
L’iniziativa di Poletti risponde
comunque a una domanda a
cui cerca di dare una risposta il
governo francese. La notizia è
del 18 ottobre: la federazione
degli «auto-imprenditori» (Fedae, le nostre «partite Iva») è stata convocata al ministero
La denuncia di Giorgio
Airaudo (Sinistra
Italiana) sui contratti
co.co.co. Verifiche in corso
dell’ispettorato del lavoro.
Poletti ai colleghi europei:
«Troviamo una soluzione»
dell’economia con i responsabili delle piattaforme (Uber, Deliveroo). Insieme dovranno trovare il modo di applicare l’articolo 60 della «Loi Travail» sui lavoratori indipendenti che lavorano per le piattaforme: sono
lavoratori autonomi o dipendenti? Il problema interessa 80
mila persone in Francia, e andrebbe affrontato caso per caso. Dagli Usa arrivano le sentenze delle corti federali Usa , mentre i «gig workers» si sono organizzati in class action.
La lotta dei riders italiani della Foodora si inserisce in questo contesto globale. Nel loro
caso si discute sia dell’entità
del compenso a consegna, passata da 6,5 euro lordi a 2,70 (in
Francia e Germania Foodora
paga 7), sia sulla natura del contratto di lavoro. I problemi sono riemersi ieri nel corso della
discussione
parlamentare:
«Aspettiamo i risultati dell’ispezione - ha detto Giorgio Airaudo
- temiamo che Foodora abbia
potuto utilizzare il Jobs Act che
consente l'uso dei co.co.co. Questo caso è un altro guaio del Jobs
Act. Avevano promesso di combattere la precarietà e, invece,
la stanno alimentando». Sinistra Italiana presenterà una
proposta di legge per garantire i «diritti di associazione». È
un inizio ed è probabile che
serva un quadro legislativo
complessivo che chiarisca le
problematiche giuslavoristiche e fiscali che emergono sia
nella gig economy che nella sharing economy.
3
Rete agricola di qualità: hanno aderito finora 2200
aziende su un bacino potenziale di oltre 100 mila
IVANA GALLI, FLAI CGIL
«Caporalato,finalmente
sisanziona anchel’impresa»
ANTONIO SCIOTTO
II Alla Camera è stata approvata una legge di civiltà, il ddl
contro il caporalato che estende agli imprenditori le pene
previste per lo sfruttamento: è
passato martedì sera con il sì
di tutti i partiti, se si eccettua
l’astensione di Forza Italia e Lega. Da uno a sei anni di carcere
per l’intermediario e il datore
di lavoro, da cinque a otto se il
reato è commesso con violenza. Viene implementata la Rete del lavoro agricolo di qualità
e il ruolo del collocamento
pubblico, anche se mancano come segnala l’M5S, che aveva
presentato alcuni emendamenti poi bocciati - il marchio
di certificazione etico e l’interdizione delle aziende condannate dall’accesso ai fondi Ue.
Le associazioni di impresa, d’altra parte, hanno fatto di tutto
per boicottare o depotenziare
la legge: ad esempio bloccano
da 10 mesi il rinnovo dei contratti provinciali agricoli.
Ivana Galli, segretaria Flai
Cgil, una conquista importante per voi e per tutte le persone sfruttate nei campi. Tantissimi sono gli immigrati.
Io mi sono permessa, in cuor
mio, di dedicare questa legge
per cui abbiamo tanto fatto
pressione, insieme a Fai Cisl e
Uila, a tutte le lavoratrici e i lavoratori che non sono mai ritornati a casa. E sappiamo che
purtroppo ne sono morti diversi, come Paola Clemente, o come uno dei tre braccianti afgani investiti lunedì nel barese.
Qualche anno fa la mobilitazione sindacale aveva portato all’approvazione del primo
«pezzo» di questa legge, che
aveva introdotto il reato di caporalato. Ma non bastava.
Ci sono già importanti processi, con caporali alla sbarra, ad
esempio a Lecce e Taranto: da
quelle storie emerge non solo
lo sfruttamento, ma anche la
crudeltà, la violenza, che contraddistingue spesso i rapporti
con i lavoratori. Era importante però che il reato di sfruttamento, con le relative sanzioni e pene, fosse esteso anche
agli imprenditori. È prevista
anche la confisca dei beni patrimoniali, oltre che dei pro-
dotti: in pratica si equipara
questo tipo di reato, particolarmente odioso, alla mafia.
L’imprenditore verrà sanzionato anche se non si dimostra un rapporto diretto con i
caporali?
Sì, perché vengono determinati i cosiddetti «indici di sfruttamento»: se un’ispezione ravvisa la mancata applicazione del
contratto, l’imposizione di orari o di carichi di lavoro oltre il
consentito, l’assenza di sicurezza, si può prefigurare a un
certo livello il reato di sfruttamento. Segnalo che che si tratta di una conquista per tutto il
mondo del lavoro, non solo
per il comparto agricolo, perché l’intermediazione illecita
e lo sfruttamento possono essere sanzionati in tutti i settori. È
un grande passo avanti per la
civiltà del nostro Paese.
Viene anche rafforzata la Rete del lavoro agricolo di qualità, la lista di imprese in regola
e certificate che dovrebbero
fare da modello a tutte le altre. Ma sta funzionando?
Per il momento si sono iscritte
poco più di 2200 imprese su
un bacino potenziale di circa
100 mila, ma finora il lavoro è
stato difficile perché questa
struttura non ha una banca dati telematica. Noi speriamo appunto che l’implementazione
prevista dalla legge poi si traduca in un reale rafforzamento della struttura, in modo da
velocizzare le procedure.
Manca il bollino
etico per chi
compra la frutta:
lo chiedevano
i sindacati e l’M5S
Però manca il marchio di qualità, quello che avrebbe dovuto essere il «bollino blu» da apporre sui prodotti. Il consumatore così non potrà fare acquisti «etici», distinguendo una filiera pulita da una sporca. Il tema, tra l’altro, qualche tempo
fa era stato posto anche da alcuni distributori scandinavi
che comprano pomodori da
noi. Non è un limite grave?
Certamente, questa è una lacuna evidente della legge, e noi
continuiamo a invocare l’istituzione di un bollino di qualità, ovviamente con tutte le dovute certificazioni. Ma essendoci già la Rete, dovrebbe essere ancora più semplice.
Sul collocamento si fanno
passi avanti?
La legge ha introdotto una sperimentazione che ci sembra
importante: la messa in rete
presso i Cisoa - i comitati paritetici imprese/sindacati che si
occupano della cassa integrazione - dei centri per l’impiego, le agenzie di lavoro temporaneo, gli enti bilaterali, le liste presenti all’Inps o nei Comuni. In pratica l’imprenditore che vorrà essere in regola potrà rivolgersi a questi uffici e
farsi fornire le liste di lavoratori disponibili, o prenotarli.
E i trasporti? Resta una nota
dolente, uno degli «alibi» maggiori per il ricorso ai caporali.
Noi chiediamo che si applichi
intanto il Protocollo firmato in
maggio con quattro ministri Interni, Giustizia, Lavoro, Agricoltura - cinque regioni e diverse province perché si utilizzino i 10 milioni di fondi europei Pon: sono stati messi a disposizione per stipulare convenzioni con aziende di trasporto pubblico o privato, ma i
prefetti, che dovrebbero coordinare i tavoli locali, finora
non si sono mossi. In Basilicata
da 30 anni c’è un esempio virtuoso: le Linee agricole, limitate alla zona del Metapontino,
ma molto utilizzate sia dai
braccianti italiani che dagli immigrati. Sono finanziate da soldi pubblici e costano al lavoratore un biglietto di uno o due
euro a seconda della distanza.
Un prezzo, tra l’altro, inferiore
a quello che viene chiesto illegalmente dai caporali.
politica
4
giovedì 20 ottobre 2016
INCONTRO SUL REFERENDUM ALL’ORIENTALE DI NAPOLI CON VILLONE E FORNARIO
studenti dell’Ateneo. Non è
mai stata mia abitudine verificare se le formalità burocratiche fossero state adempiute.
Ho sempre ritenuto che gli studenti fossero padroni di casa
non meno dei docenti e dei Rettori e, quindi, titolari dello jus
admittendi alios. Devo quindi
confermare la mia presenza
all’assemblea, perché qualunque diverso comportamento sarebbe visto come cedimento a
un intervento censorio».
Morlicchio ha poi dichiarato
che la mail serviva a precisare
che non c’era stata comunicazione. «E’ davvero una novità
pericolosa - scrivono gli attivisti - quella di una rettrice che
pretende di impedire le assemblee degli studenti, ma intendiamo anche denunciare questa ennesima censura ai danni
del No. Anche la docente che ci
ha ceduto l’aula avrebbe voluto
partecipare al dibattito, ma è
precaria ed è costretta a fare un
secondo lavoro per vivere». In
sala anche i 5 licenziati Fiat che
hanno vinto la causa contro il
Lingotto: in attesa del reintegro si attivano per il No.
che stanno appoggiando Renzi: da Obama a Jp Morgan». Per
Roberto Musacchio (Altra Europa) «il No sarà una risposta
all’impegno del partito socialista europeo che fa campagna
per il Sì».
Usb, Unicobas e Usi hanno
fatto ricorso all'Agcom, al Garante degli scioperi e alla Vigilanza Rai contro la «cappa di silenzio» che ha cancellato lo
sciopero generale dall'informazione pubblica, in contrasto con le leggi che obbligano
la Rai a darne notizia almeno
cinque giorni prima. A causa
dell'adesione di Usb Lavoro privato allo sciopero la Rai si è limitata a comunicare che potrebbero esserci modifiche alla normale programmazione.
«No»,ildibattitono.Larettriceciprova,mal’assembleasifa
ADRIANA POLLICE
Napoli
II Per organizzare un incontro sul No al Referendum
all’Università Orientale di Napoli ci vogliono le procedure
speciali. Ieri pomeriggio il Collettivo autorganizzato universitario aveva invitato la giornalista Francesca Fornario e il
professore emerito di diritto
costituzionale Massimo Villone a discuterne. Avevano segui-
to la procedura utilizzata per
ogni iniziativa da 8 anni, di cui
gli ultimi due sotto l’attuale direzione: inviare comunicazione al Polo didattico, al rettorato e alla guardiania e, naturalmente, ottenere la disponibilità della docente che avrebbe
dovuto insegnare nell’aula.
Ma il referendum è un tema
sensibile per il governo, così la
rettrice Elda Morlicchio ha inviato una mail a Villone e Fornario: «Apprendiamo con scon-
certo che parteciperà a un’assemblea non autorizzata». Anche la docente ha ricevuto la
chiamata della rettrice.
«Non si tratta di censura, per
carità - ha spiegato ieri Fornario, intervenuta comunque
all’incontro insieme a Villone -.
Anche a Radio2 quando mi hanno detto di non fare più l’imitazione della mamma di Renzi
mi hanno spiegato che era solo
un cambio di linea editoriale.
Addirittura mi hanno chiama-
to dalla mia casa editrice, Einaudi, per avvisarmi che erano stati contattati dall’univeristà, da
tale Cundari, che li avvisava della mia partecipazione. Ho rassicurato tutti, ho piena consapevolezza di dove vado e di cosa
faccio». Fornario ha tranquillizzato la rettrice via mail.
Molto netta anche la replica
di Villone: «Con riferimento alla Sua segnalazione, desidero
segnalarLe a mia volta che sono
stato invitato a partecipare da
Scioperogenerale
ecorteoNoRenziDay
inpiazzaaRoma
Domani i sindacati di base fermano trasporti, sanità e logistica,
sabato il corteo per il «No» al referendum con le sinistre e i movimenti
ROBERTO CICCARELLI
II Trasformare il «No» al referendum costituzionale del 4 dicembre in un «No sociale» contro le politiche del governo
Renzi sul lavoro, la scuola e le
grandi opere. Domani è il giorno dello sciopero generale convocato dai sindacati di base nella pubblica amministrazione e
nei trasporti locali, nella sanità, nella logistica . Sabato a Roma, alle 14, partirà il corteo
del «No Renzi Day» da Piazza
San Giovanni. Ampio l'arco di
forze sindacali, politiche e sociali che hanno convocato la
mobilitazione: c'è il mondo
dei sindacati di base, a cominciare dall’Unione Sindacale di
Base (Usb). Alla piattaforma
per l'occupazione, la democrazia sindacale, il rinnovo del
contratto dei lavoratori pubblici e contro le politiche di Renzi
e dell’Ue, la legge Bossi-Fini
hanno aderito Unicobas, Usi e
Cub trasporti del Lazio. In un
comunicato Si Cobas e Adl Cobas auspicano la ricomposizione delle vertenze sociali e sindacali nei territori e nella logistica invitano alla mobilitazione facchini, drivers e autisti. Al
«No Renzi Day» hanno aderito
Ad Abd Elsalam la dedica di piazza S. Giovanni
Piazza San Giovanni il 22 ottobre, giorno del «No Renzi Day»,
sarà ribattezzata alla memoria di Abd Elsalam, il lavoratore
egiziano e sindacalista di base dell'Usb ucciso a Piacenza nel
corso di un presidio sindacale il 14 settembre scorso. Una
decisione simbolica, per sottolineare come al centro delle
manifestazioni contro il referendum del 21 e 22 ottobre ci sia,
oltre alla riforma costituzionale, la questione dei diritti dei
lavoratori. Diritti sempre più a rischio a causa del Jobs act, dei
contratti precari, dei tagli allo stato sociale e della perdita di
servizi offerti dalla scuola e dalla sanità pubblica. Molti gli
appuntamenti dei due giorni di mobilitazione. Venerdì 21
ottobre in programma lo sciopero generale, con
manifestazioni e sit - in davanti alle prefetture in molte città, da
Milano a Catania. Previsto anche un sit-in di Unicobas davanti
al ministero dell’istruzione. Dal pomeriggio a Roma in piazza
San Giovanni ci sarà una «acampada» di lotta, con dibattiti cui
parteciperanno giuristi, magistrati ed esponenti politici, e in
serata il concerto della Banda Bassotti e degli Assalti Frontali.
Alle 14 di sabato 22 ottobre sempre da piazza San Giovanni
partirà il corteo nazionale del «No Renzi Day».
Riforme
Un capo
dello stato
embedded
ALFONSO GIANNI
el confronto televisivo
con Luciano Violante e
poi successivamente in
vari articoli, Tomaso Montanari ha giustamente evidenziato
uno dei paradossi più clamorosi della deforma costituzionale
nel suo intreccio con l’Italicum. Che consiste nella possibilità che l’elezione del capo dello stato dal settimo scrutinio in
poi possa essere opera dei soli
N
appartenenti al partito di maggioranza relativa, essendo questi comunque superiori ai tre
quinti dei votanti.
Tralasciamo pure per un attimo il caso limite per cui, trattandosi di votanti e non di
membri dell’assemblea, il nuovo capo dello stato potrebbe
venire eletto con tre voti su cinque, purché gli altri parlamentari garantiscano il numero
legale. Spostiamo invece l’attenzione su un altro articolo
della nostra Costituzione - che
la Renzi-Boschi non tocca e
quindi ha richiamato minore
attenzione - ovvero il 90, che
disciplina la messa in stato
d’accusa del capo dello stato
dal parlamento in seduta comune. Qui emerge un’altra
tra gli altri alcuni comitati per
il «No» al referendum, il Movimento No Tav della Val di Susa
e il Forum italiano dei movimenti per l'Acqua, Attac Italia,
Sinistra No Euro, gli avvocati
di M.g.a. Ci saranno Rifondazione Comunista e L'Altra Europa, il partito comunista italiano, Sinistra per Roma, la Rete dei Comunisti. L'appello di
convocazione della manifestazione è stato firmato anche dal
sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Tra le numerose iniziative da segnalare la campagna
contro i voucher lanciata dalle
Camere del lavoro precario e
autonomo di Roma, Padova e
Napoli.
Due sono le novità di questa
due giorni di mobilitazione: i
sindacati di base scioperano e
scendono insieme in piazza;
con loro ci sarà una parte della
sinistra politica. La mobilitazione intende affermare – con
numeri che gli organizzatori si
aspettano alti – che il «No» al referendum «non è solo materia
per costituzionalisti ma è
l'espressione dell’opposizione
alle politiche renziane» sostiene Giorgio Cremaschi. C'è anche il nodo dei rapporti critici
con i sindacati confederali, a
cominciare dalla Cgil che ha
approvato un documento per
il «No», preferendo non aderire a nessun comitato, né organizzare manifestazioni sul tema. «Trovo una follia avere fir-
mato un protocollo sulle pensioni che contiene una misura
come l'Ape, la pensione con il
mutuo – aggiunge Cremaschi
– probabilmente non aderirà
nessuno, per fortuna». «In altri
tempi – sostiene Fabrizio Tomaselli, esecutivo Usb – avrebbero fatto fuoco e fiamme contro una legge di bilancio che regala 20 miliardi su 27 ad aziende e banche. Per noi lo sciopero sindacale è immediatamente politico. Il “No sociale” sarà
la novità dell'autunno». Il prossimo appuntamento in agenda dovrebbe essere quello del
27 novembre quando a Roma
sarà convocata un'altra manifestazione nazionale. Nel mezzo è stata annunciata una «mobilitazione popolare e diffusa»
contro il «Renzi Day» del 29 ottobre, quando è prevista a Roma una manifestazione per il
«Sì» al referendum.
Per i promotori del coordinamento la prospettiva del
«No sociale» è sconfiggere Renzi e chiudere l'esperienza del
suo governo, indipendentemente da quello che accadrà
dopo: governi tecnici, di unità
nazionale. Sempre che Renzi
si dimetta dopo l’eventuale
sconfitta. «Uno schieramento
così ampio a difesa della Costituzione è un fatto positivo. Lo
sarà ancora di più il fatto che il
popolo tornerà ad esprimersi.
La vittoria del No – sostiene il
segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero – sarà
un ceffone a tutti i poteri forti
possibilità inquietante. Fantapolitica? Di fronte alla totale
irragionevolezza della modifica costituzional-elettorale in
corso, sarebbe ingenuo invocare il principio di realtà. E’ vero
che l’impeachment nella storia
italiana è stato più evocato che
attuato. I casi sono tre. Quello
di Leone che minacciato di tale
provvedimento a seguito dello
scandalo Lockheed (l’acquisto
dell’Italia di velivoli da guerra
statunitensi) si dimise prima
che il Pci desse corso alla procedura. Quello che sfiorò Scalfaro, a seguito dello scandalo Sisde, cui rispose a reti unificate
con il famoso: «Non ci sto». Ma
soprattutto quello antecedente riguardante Cossiga, che approdò alla presentazione for-
male della messa di stato d’accusa sulla vicenda Gladio, da
parte del Pds, della Rete e di
Rifondazione comunista, richiesta poi respinta dal Parlamento nel 1991. L’anno seguente lo stesso Violante, Pannella,
Orlando e Dalla Chiesa chiesero nuovamente la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione, senza
però che questa approdasse al
voto, perché Cossiga si dimise
il 28 aprile del 1992. Come si
vede qualche precedente c’è, e
anche succoso. Se vincesse il Sì
il 4 dicembre e quindi l’Italicum rimanesse in vita - simul
stabunt simul cadent - la maggioranza assoluta alla Camera sarebbe assicurata al partito di
maggioranza relativa e il sena-
to sarebbe composto da 100
membri. Per la eventuale messa in stato d’accusa del presidente della repubblica basterebbero altri 26 voti per raggiungere la soglia dei 366, che
corrisponderebbe alla maggioranza assoluta dei membri del
parlamento in seduta comune.
E sarebbe davvero difficile - qui
sì fantapolitico - che il partito
di maggioranza relativa non
disponesse di tali voti nel Senato dei dopolavoristi, anche se
escludiamo dal novero per evidenti motivi i 5 senatori nominati dal capo dello stato.
La morale della favola è semplice, quanto sconcertante. Gli
effetti dello sconvolgimento
costituzional-istituzionale in
corso rispetto alla massima
illustrazione di Ludovica Valori
carica dello Stato - comandante delle Forze Armate, presidente del Consiglio supremo di
difesa, che dichiara lo stato di
guerra deliberato dalla Camera, presidente del consiglio superiore della magistratura, dotato del potere di scioglimento
delle camere - non sarebbero
solo quelli che esso può essere
eletto dal settimo scrutinio dai
parlamentari di un solo partito, nel caso estremo nel numero più esiguo immaginabile,
ma che potrebbe essere dismesso per volontà sempre dello
stesso partito - il cui segretario
coincide con la figura del Presidente del consiglio da lui indicato - e che opererebbe sotto
questa spada di Damocle. Un
vero e totale capovolgimento.
politica
giovedì 20 ottobre 2016
5
CATANIA
Voci su una lettera
di richiamo della
Ue. Il premier:
abbiamo rispettato
tutte le regole
Muorediparto,
medico obiettore:
«Nonintervengo»
MARINA DELLA CROCE
ANDREA COLOMBO
Palermo
II La legge di bilancio dovrebbe essere consegnata oggi alla Camera. Quasi certamente non arriverà nulla.
Con il week-end di mezzo che
sarà mai uno slittamento fino
a lunedì prossimo? Tre giorni
in più utili, forse preziosi, per
limare e correggere. Secondo
Renato Brunetta però non serviranno solo a questo. Citando anonime fonti del ministero del Tesoro il capogruppo di
Fi alla Camera accusa il governo di star praticamente scrivendo due manovre diverse,
una in inglese a uso Ue e una,
quella vera, in italiano. Chiede e non ottiene chiarimenti.
E’ difficile immaginare che
un truffa del genere possa esser stata davvero architettata,
ma il forzista mette effettivamente il dito nella piaga.
All’Unione europea la manovra di Matteo Renzi non
piace neanche un po’. Un’indiscrezione pubblicata ieri da
Repubblica sostiene che la lettera di monito sarebbe già pronta, e il guaio sarebbe grosso
perché si tratterebbe dell’anticamera del respingimento.
Gianni Pittella, capogruppo
dei Socialisti&Democratici
all’europarlamento, smentisce ma per modo di dire: «La
legge è stata inviata due giorni fa. Pensare che ci sia già
una lettera di richiamo della
Commissione mi sembra
un’invenzione». Questione di
tempi e cronometro, insomma. L’obiezione, in sé, è di
scarso rilievo, il punto essendo chiaramente non sapere
se la missiva sia già stata vergata o meno, ma se sia stata
decisa. Come lo stesso Pittella
e il ministro dello Sviluppo
economico Carlo Calenda prima di lui fanno capire, la trattativa è già in corso e proseguirà sino all’ultimo.
I punti chiave sono in realtà due. C’è quello 0,1%, pari a
1,6 miliardi, sul quale la Commissione inevitabilmente si
II «Fino a che è vivo io non in-
Matteo Renzi al Cimitero di Hurlington foto LaPresse
Manovra,Renzisiprepara
alloscontroealzalavoce
«Aspetto la procedura di infrazione, ma per i Paesi che non hanno accolto i migranti»
impunterà. Poco male. E’ addirittura possibile che il rapporto deficit/Pil sia stato alzato di un decimale rispetto al
tetto massimo fissato da
Jean-Claude Juncker a Bratislava proprio per poterne fare strumento di contrattazione. Però sarebbe meglio cedere dopo il referendum del 4 dicembre, perché i regali a scopo elettorale sono tanti ma
piccoli, il che sconsiglia di abbassarli prima del voto e la lettera obbligherebbe invece a
intervenire subito.
Il problema grosso però sorgerebbe se, invece di affrontare la legge con la logica ragionieristica di cui sopra, la Com-
missione dovesse criticare
l’impianto della manovra, basato su misure una tantum invece che su provvedimenti
strategici e strutturali. Allora
sì che tutto tornerebbe in alto
mare, ma Renzi e il ministro
dell’Economia Pier Carlo Padoan, probabilmente a ragione, sono certi che alla fine,
più o meno obtorto collo, i calcoli politici prevarranno su
quelli finanziari e la Commissione concederà il visto.
Gli ostacoli però non stanno solo a Bruxelles. Mezzo Pd,
non solo la minoranza, è in rivolta di fronte all’estensione
del condono, pardon della voluntary disclosure che suona
meglio, al contante. «Qualsiasi lavaggio di lavoro nero è un
condono. Se fanno la legge come annunciato il Parlamento
la cambia», assicura tassativo
il presidente della commissione Bilancio della Camera
Francesco Boccia.
Renzi affronta la doppia
prova forte del sostegno totale del presidente uscente degli Stati uniti, incassato con
immenso fragore mediatico a
Washington. Un po’ perché si
sente più forte, molto perché
per conquistare l’elettorato
di destra sa di dover alzare la
voce con l’Europa, si prepara
ad affrontare il doppio ostacolo a muso duro. «La legge - tuo-
na infatti dagli Usa il presidente del consiglio - rispetta totalmente le regole europee.
Quanto alla procedura d’infrazione, l’aspettiamo. Ma è
quella che la Ue deve fare per
i Paesi che non hanno accolto
i migranti».
Gli stessi toni Matteo Renzi
userà nel corso del Consiglio
europeo di oggi e domani,
con all’ordine del giorno proprio l’emergenza immigrazione. Parlerà di profughi e non
mancherà di protestare per il
pessimo trattamento riservato all’Italia. Ma si rivolgerà soprattutto a chi deve decidere
se promuovere o no la sua legge di bilancio.
AMBIENTE
La Camera ha ratificato l’accordo Cop 21 di Parigi
Ora tocca al governo accelerare sulle energie pulite
Roma
II Sì della Camera alla ratifica del Cop 21, l’Accordo di Parigi collegato alla Convenzione
quadro delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici. Il testo, approvato a Montecitorio
con 359 voti a favore, nessun
contrario e 12 astenuti (della
Lega), è passato al Senato. L’Accordo rafforza la risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici proseguendo
l’azione per limitare l’aumento della temperatura terrestre
a 1,5 gradi rispetto ai livelli
preindustriali, mantenendolo
in ogni caso ben al di sotto dei
2 gradi. Il testo promuove uno
sviluppo capace di resistere
agli effetti del clima e di produrre basse emissioni di gas
serra, salvaguardando in primis la produzione alimentare.
Il voto all’unanimità è stato
salutato da un tweet del ministro dell’Ambiente Gian Luca
Galletti: «Grazie ai parlamentari di Montecitorio per la ratifica del ddl sull’accordo Cop21
di Parigi. Nessun voto contrario è segnale di impegno e sensibilità».
«L’Italia si prepara ad affrontare una delle più grandi sfide
del Terzo Millennio: quella del
contrasto al cambiamento climatico e delle relative misure
di mitigazione e adattamento ha commentato Chiara Braga,
deputata e responsabile nazionale Ambiente del Pd - Affrontare il cambiamento climatico, oltre che dare una risposta
in termini di sicurezza contro
le calamità e a favore della tutela dell’ambiente, può contribuire allo sviluppo economico
delle nostre "vecchie" economie, promuovendo lo sviluppo di tecnologie a basso contenuto di carbonio in un'ottica
Le nuove regole
in vigore entro 30
giorni: le hanno già
fatte proprie 72
paesi nel mondo
di uscita dalle fonti fossili. In
un futuro molto prossimo potremo infatti avere senza difficoltà sistemi energetici a zero
emissioni».
Secondo Serena Pellegrino
di Sel «se l’Italia vuole essere
un paese avanzato e progressista, se vuole sia riconosciuto il
suo peso all’interno dell’Unione Europea e se ancora ricorda
di esserne stata uno dei fondatori, mentre ratifica gli accordi
di Cop 21 intervenga su programmi e strategie di sviluppo
a livello nazionale. Se non agiamo subito, le generazioni future non potranno adattarsi alla
rovina climatica che stiamo
per consegnargli».
Il problema delle emissioni
di gas nocivi per l’ambiente e
più in generale dell’inquinamento dovuto alle nostre fonti
di approvvigionamento energetico era riemerso nel dibattito pubblico italiano in occasione del referendum sulle trivelle dello scorso aprile. In quel
caso, le associazioni ambientaliste, pur rilevando il buon
foto di Reuters
avanzamento del nostro Paese
sul piano delle rinnovabili, avevano messo in guardia rispetto
alle scelte più recenti del governo Renzi - indirizzate più verso
le fonti fossili che non verso le
energie pulite - evidenziando
il rischio di un rallentamento
verso una economia green.
La Lega ha spiegato di essersi astenuta (a fronte dei voti
tutti favorevoli da parte degli
altri partiti) «non perché non
concorda con gli obiettivi di
Cop 21, ma perché l’accordo
raggiunto è stato un compromesso al ribasso nel continua-
re a permettere alle aziende cinesi e dei paesi in via di sviluppo di fare concorrenza sleale alle imprese italiane, pienamente in regola con produzioni rispettose dell’ambiente».
L’accordo, ha comunicato
l’Onu sul proprio sito Internet,
entrerà in vigore entro 30 giorni. È stata raggiunta infatti la
soglia minima di 55 Paesi - rappresentanti del 55% delle emissioni mondiali - che lo hanno
ratificato. In particolare, hanno ratificato l’intesa siglata a
Parigi 72 Paesi, pari al 56,75%
delle emissioni globali.
tervengo». Si sarebbe rivolto
così ai familiari di Valentina
Milluzzo il medico di turno
dell’ospedale Cannizzaro di
Catania, di fronte alla sofferenza della donna, ricoverata per
la gravidanza di due gemelli. I
fatti si riferiscono allo scorso
15 ottobre, la donna era ricoverata da due settimane e nelle
24 ore precedenti le sue condizioni erano precipitate. Aveva
dolori lancinanti, le temperatura corporea era scesa a 34
gradi. Dalle analisi risultava
che uno dei due feti respirava
male e bisognava intervenire,
ma il medico in quanto obiettore di coscienza si sarebbe rifiutato. Lo avrebbe fatto solo una
volta accertata la morte del feto. Ma a quel punto la situazione si sarebbe ripetuta per il secondo gemello e anche in quel
caso il medico avrebbe detto
che lo avrebbe fatto espellere
solo se il cuore avesse cessato
di battere, perché obiettore di
coscienza. Il mancato intervento avrebbe peggiorato irrimediabilmente le condizioni della donna che, piegata dalla sofferenza, è morta poco dopo.
Valentina Milluzzo, 32 anni, impiegata di banca, era alla
diciannovesima settimana di
una gravidanza, la sua prima,
avviata con la procreazione assistita. La sua è una vicenda tristissima che è venuta alla luce
in una denuncia che i familiari hanno presentato alla procura della Repubblica di Catania. Il procuratore Carmelo
Zuccaro ha disposto il trasferimento della salma in obitorio, bloccando i funerali, e il
sequestro della cartella clinica. La procura ieri ha confermato la denuncia ma ha spiegato che al momento non sono state ancora compiute indagini e che «la prospettazione dei fatti esposta dalla famiglia andrà verificata».
È stato l’avvocato dei familiari di Valentina Milluzzo a
raccontare ai giornalisti questo tremendo episodio di mala
sanità nella Sicilia dove i medici obiettori di coscienza sono
la regola. L’inchiesta dovrà verificare «se ci siano state negligenze, o imprudenze, imperizie diagnostiche o terapeutiche dei sanitari che hanno avuto in carico la paziente». A condurre le indagini il sostituto
procuratore Fabio Saponara,
che non ha ancora fissato la data dell’autopsia.
I familiari hanno riferito di
essere stati ammessi accanto
alla donna nel momento in cui
era stata certificata la morte
del primo feto, e di averla trovata in una condizione di grande sofferenza. «Urlava dal dolore e in continuazione chiedeva
aiuto», hanno denunciato. Dopo che anche il secondo feto
era nato morto, un secondo
medico - diverso da quello che
si sarebbe qualificato come
obiettore - gli aveva avvisati
che «le condizioni di Valentina sono gravissime perché la
sepsi si è estesa, con una setticemia diffusa. È stata sedata
ed è stata portata in rianimazione». I familiari hanno anche riferito di averla vista con
i cerotti a chiudere le palpebre, e di aver avuto la notizia
del decesso solo il giorno dopo, domenica 16 ottobre.
6
società
giovedì 20 ottobre 2016
GB
Improntedentali
aiminoridiCalais
L’ideanonpassa
LEONARDO CLAUSI
Londra
II Controlli dentali. Ma non
Genova, la notte del 21 luglio 2001 davanti alla Diaz foto Reuters
ViolenzealG8,
loStatocondannato
amaxirisarcimento
Giudice di Genova riconosce l’indennizzo per un’attivista tedesca
Furono «condotte di vera tortura», ma il reato ancora non c’è
PATRIZIO GONNELLA,
ANDREA OLEANDRI
II Dopo 15 anni arriva una condanna per le violenze perpetrate alla scuola Diaz e alla caserma
di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001. Si tratta di quella
con cui una giudice del tribunale civile di Genova ha condannato lo Stato Italiano a risarcire una ragazza tedesca con 175
mila euro per danni morali e fisici dovuti alla privazione dei
diritti, alle lesioni patite, alle
umiliazioni che dovette sopportare e alle gravi violenze alle quali ha assistito.
Nel dettaglio la giudice Paola
Bozzo Costa ha riconosciuto 40
mila euro per i reati, 80 mila euro per i due terribili giorni trascorsi nella caserma di Bolzaneto e 55mila per il danno subito. Tra le poche cause civili arrivate a sentenza per quella «macelleria messicana», questa finora è la più ingente in quanto ad
entità del risarcimento. Risarcimento che tuttavia non fa giustizia per le «condotte di vera e propria tortura» attuate con «la volontà di cagionare dolore
nell’abusare delle rispettive posizioni di potere e autorità» che
Tanja W., ventiduenne all’epoca, ha subito.
Da trent’anni chi, come l’associazione Antigone, si occupa
di tortura, va dicendo che questo reato è l’unico direttamente
previsto dalla nostra Costituzione laddove, all’articolo 13, è
scritto che «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone
comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
A dirlo oggi è anche questa
giudice quando parla di «lesione di diritti della persona a protezione costituzionale che non
sono oggetto di tutela della
norma penale sanzionatrice in
questione». In poche parole si
può procedere con il risarcimento per quelle torture, ma
nessuno dei responsabili potrà
essere punito.
Dunque ancora una volta un
giudice in un tribunale italiano
parla di tortura sentenziando,
al tempo stesso, come in Italia
non si possa fare giustizia nei casi in cui questo crimine contro
l’umanità si manifesti. A farlo
fu già il giudice chiamato a pronunciarsi sulle violenze perpetrate contro due detenuti nel
carcere di Asti. Portati in isolamento furono denudati, gli venne razionato il cibo, impedito di
dormire e furono sottoposti a
percosse quotidiane. Fatti che,
pur qualificandosi come tortura
ai sensi della Convenzione delle
Nazioni Unite, non potevano essere perseguiti come tali, scriveva il giudice nella sentenza, poiché in Italia non esiste una legge che riconosca questo reato.
Ora il caso di Asti è dinanzi alla Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, anche grazie al soste-
Ci furono «condotte di vera
e propria tortura» attuate
con «la volontà di
cagionare dolore
nell’abusare delle rispettive
posizioni di potere e
autorità»
la sentenza
gno di Antigone nella stesura
del ricorso, e a breve è attesa la
sentenza dei giudici di Strasburgo. Sentenza che il Governo ha
provato a evitare patteggiando
45mila euro a ognuno dei torturati. Offerta rispedita al mittente
dalla Corte. Così come era stata
rispedita al mittente, in questo
caso dagli stessi trentuno ricorrenti, un’analoga offerta per archiviare il ricorso pendente proprio sulle torture a Bolzanento.
Offerte con le quali si è provato a rimediare a un ritardo quasi
criminale, quello che il nostro
Parlamento ha accumulato per
l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. È dal 1988,
da quando lo stesso Parlamento
ratificò la Convenzione delle Nazioni Unite, che l’Italia aspetta
questa norma. Una lacuna che
nell’aprile del 2015 ci ha fatto
notare la stessa Corte Edu nella
sentenza con la quale il nostro
Paese venne condannato per le
torture alla scuola Diaz.
All’indomani di quella pronuncia il presidente del Consiglio Renzi, attraverso un tweet,
prese l’impegno di far approvare questa legge. Un impegno
che il Senato, nel mese di luglio,
ha affossato. L’Italia è ancora il
paradiso dei torturatori. Per questo motivo giovedì scorso Antigone ha organizzato una manifestazione davanti a Montecitorio cui hanno partecipato numerose organizzazioni per i diritti
umani e studentesche, il sindcato con la Fp-Cgil, gli avvocati delle Camere Penali e i giudici di
Magistratura Democratica. In
quella piazza abbiamo chiesto
proprio a Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando di impegnarsi in prima
persona. Dopo 28 anni non si
può ancora aspettare.
per verificare la salute dei denti, quanto per accertare l’età,
proprio come fanno i paleontologi o la polizia scientifica. Solo che qui non si tratta di resti
di ominidi, ma dei bambini/minorenni della «giungla» di Calais diretti in Uk, alcuni dei
quali hanno già cominciato ad
arrivare via pullman. Accompagnati non certo dai genitori,
ma da un nugolo d’incresciose
polemiche.
A lanciare la totalitaria idea
è stato un backbencher conservatore, David Davies. Che ha giustificato ai microfoni della Bbc
il ricorso a simile tecnica con
la necessità di vagliare la minorità dei giovani profughi in
mancanza di documenti
d’identità. Unendosi alle schiamazzanti proteste dei tabloid,
che insistono sul rischio che alcuni di loro minorenni non lo
siano affatto - e lasciando cinicamente intendere che si tratti in tutta probabilità di adulti
pronti a compiere qualsiasi nefandezza una volta raggiunte
le albioniche sponde.
È quindi intervenuta l’associazione medici dentisti britannici (British Dental Association)
per ribadire l’ovvio, e cioè che
si tratterebbe di una pratica
non solo deplorevole, ma anche scientificamente inadatta
a stabilire l’età con sufficiente
approssimazione. Evidentemente persuasi, anche al ministero degli interni ne hanno
escluso l’utilizzo, definendola
«inaccurata, inappropriata e
immorale».
La lista dei selezionati è stata stilata dall’organizzazione
benefica Citizens Uk, in collaborazione con il governo britannico e ratificata dalle autorità francesi, che hanno tenuto colloqui con i minorenni.
Laddove mancano i documenti si sono regolati in base
all’aspetto. Ulteriori controlli
saranno effettuati una volta arrivati su suolo britannico. La
legge Uk’s Immigration Act, approvata all’inizio dell’anno,
contiene un emendamento
che obbliga legalmente il governo a organizzare il trasferimento di almeno tremila rifugiati minorenni, purché abbiano un parente ad accoglierli.
La riluttanza con cui il governo May sta gestendo la questione del futuro dei circa 1300 minori - 800 dei quali afferma di
avere familiari in Gran Bretagna - bloccati a Calais, ha consentito loro solo nei giorni
scorsi via libera al Regno Unito. La ministra dell’interno
Amber Rudd, dopo l’infelice
proposta di schedatura dei lavoratori stranieri nel paese, si
è lasciata sfuggire la promessa
di accoglierne almeno 300. Ma
ora Citizens Uk minaccia di denunciare il governo per non
aver messo in opera un piano
efficace di accoglienza.
Nel frattempo, il tribunale
francese, cui era stata chiesta
una proroga da varie organizzazioni umanitarie allo sgombero e allo smantellamento
del campo - fissato secondo i
piani delle autorità per lunedì
- ha dato verdetto negativo. Parte dei sei/ottomila rifugiati sono al momento stati assegnati
a veri centri di accoglienza nel
resto della Francia, mentre altri saranno deportati.
Francia, manifestazione dei poliziotti
FRANCIA
Poliziottiinpiazzacontro
il governo: noi incompresi
ANNA MARIA MERLO
Parigi
II Bisogna risalire a molti anni fa, all’ottobre del 1981, per
trovare tracce di massicce manifestazioni di poliziotti. Allora, era contro l’abolizione della pena di morte, voluta da Robert Badinter, ministro di Mitterrand.
In questo ottobre 2016, si
stanno moltiplicando le proteste spontanee di agenti di polizia: ieri di nuovo a Marsiglia, lunedì a Parigi sugli Champs
Elysées, a Evry due giorni fa, dove hanno contestato e chiesto
le dimissioni del direttore generale della polizia nazionale,
Jean-Marc Falcone. Altre manifestazioni spontanee hanno
avuto luogo in provincia, portando in piazza una categoria
che non ha il diritto di sciopero
in divisa (e che la gerarchia minaccia di sanzioni). Il 26 ottobre è prevista una marcia silenziosa di poliziotti, in varie città
francesi. I sindacati, due dei
quali sono stati ricevuti ieri dai
ministri degli Interni, Bernard
Cazeneuve e Jean-Jacques Urvoas, sono travolti dalla rabbia
della base, che denuncia «una
gerarchia carrierista, delle élites sindacali sfibrate nei conflitti interni, e una giustizia
completamente disinteressata
al nostra destino».
I poliziotti si sentono incompresi e disprezzati. C’è la fatica, dovuta al lavoro extra causato dagli attentati. C’è la violenza. Due poliziotti sono stati uccisi a casa loro da un terrorista
il 13 giugno a Magnanville. L’8
ottobre, un violento attacco
contro un’auto della polizia, a
Viry-Chatillon (banlieue parigina), andata a fuoco per delle
molotov, ha ferito dei poliziotti, uno dei quali è ancora tra la
vita e la morte. Al Val-Fourré, a
Mantes-la-Jolie, c’è stato un altro attacco nella notte del 15 ottobre. In certe banlieue, i poliziotti si sentono come «una
truppa di occupazione», ricevuta a colpi di pietre, o peggio. E
se pure il primo ministro, Manuel Valls, ha promesso di rafforzare le auto di pattuglia e
delle divise ignifughe, non è bastato.
Tra sei mesi in Francia ci sono le elezioni presidenziali. Ieri, il Partito socialista ha denunciato «la mano» del Fronte nazionale dietro l’esplosione della rabbia dei poliziotti. Un’inchiesta rivela che il 50% dei poliziotti (e dei militari) sarebbe
pronta a votare per il partito di
estrema destra. Persino un sindacato come Alliance, molto a
destra, sembra ora travolto dai
poliziotti di base. Il governo sottolinea che con Sarkozy 7mila
posti sono stati tagliati nella polizia, mentre i socialisti hanno
ripreso le assunzioni. La diminuzione del numero di agenti,
unita alla concentrazione dovuta al terrorismo, ha lasciato
via libera alla delinquenza comune, con la quale hanno a
che fare i poliziotti di base. Ieri, dopo una serie di incontri
con i Prefetti, Cazeneuve ha
promesso misure imminenti:
nuovo materiale più protettivo, ma anche eliminazione di
alcune cariche di lavoro giudicate «incongrue» (come l’accompagnamento dei detenuti
in tribunale, che assorbe molto personale).
La violenza non è a senso
unico. Riguarda anche il comportamento dei poliziotti. Ci
sono vari procedimenti in corso per la repressione dei manifestanti ai cortei contro la loi
Travail. Un giovane ha perso un
occhio, molti sono rimasti feriti. I poliziotti, che nella manifestazioni spontanee denunciano il «lassismo» della magistratura, accusata di rilasciare sistematicamente gli arrestati, chiedono invece indulgenza per loro stessi, nelle rare volte in cui
viene istruito un processo per
uso eccessivo della forza nelle
manifestazioni. Nel clima elettorale ormai infuocato, sembrano ormai lontani gli applausi ai poliziotti, spontanei dopo
gli attentati.
internazionale
giovedì 20 ottobre 2016
7
ARGENTINA
Ilprimosciopero
nazionale delle donne
controilfemminicidio
Dopo l’omicidio della sedicenne Lucia Perez, il «mercoledì nero»
ha visto l’astensione per un’ora da tutte le attività lavorative
GERALDINA COLOTTI
II «Non una di meno. Non
una precaria in più». Così le
donne argentine hanno sfilato
ieri, vestite a lutto per dire basta al femminicidio. E’ stato definito «il mercoledì nero
dell’Argentina». Prima, dalle
13 alle 14 (le 19 e le 20 in Italia),
le femministe hanno realizzato uno storico sciopero, il primo del genere in Argentina:
per un'ora, si sono astenute da
ogni attività. Nei giorni precedenti, avevano lanciato questo
appello: «Nel tuo ufficio, la tua
scuola, il tuo tribunale, la tua
redazione, il tuo commercio o
la fabbrica nella quale stai lavorando, fermati per un'ora per
dire basta alla violenza maschilista, perché noi ci vogliamo
tutte vive».
I FEMMINICIDI, in Argentina, sono in preoccupante aumento:
19 casi negli ultimi 18 giorni,
uno ogni 23 ore. L’ultimo,
quello della sedicenne Lucia
Perez, ha scosso l’opinione
pubblica, ponendo il tema della violenza sulle donne al centro dell’attenzione. La ragazza
è stata drogata, violentata e
impalata nella zona turistica
di Mar del Plata: «Un’aggressione sessuale disumana», ha detto la magistrata Isabel Sanchez, incaricata del caso. Due
uomini - uno di 23 anni, l’altro
di 41 - sono stati arrestati. Ieri,
il fratello di Lucia ha reso pub-
blica una commovente lettera, e anche la madre ha invitato a manifestare «Perché non
ci siano altre Lucie».
La campagna #NiUnaMenos
ha preso avvio nel marzo del
2015. Il giorno prima venne ritrovato sotto un ponte il cadavere seminudo di Daiana Garcia, 19 anni, violentata e asfissiata con un calzino. L’idea dello sciopero delle donne è nata
in Islanda il 24 ottobre del
1975, quando il 90% delle islandesi si astenne per un’ora da
ogni attività. E di recente si è ripetuto in Polonia. Anche ieri,
la partecipazione è stata altissima. Con rabbia e commozione, hanno risposto in molti paesi dell’America latina: Bolivia,
Venezuela, Uruguay, Honduras, Colombia. E in Messico, dove - a seguito della mattanza di
Ciudad Juarez - ha preso forma
la nozione giuridica di femminicidio. Solidarietà anche dalle
femministe italiane, spagnole,
francesi e tedesche.
«COME TUTTE VOI, compagne, voglio le donne della mia Patria
vive», ha scritto in Facebook la
ex presidente argentina, Cristina Kirchner, invitando a partecipare allo sciopero. Cristina,
ha chiesto di marciare «per tutte quelle donne che, come Milagro Sala, hanno lottato per dare nome e diritti a chi prima
non ne aveva nessuno». La deputata indigena Milagro Sala è
La manifestazione delle donne a Buenos Aires foto LaPresse. A sinistra, la mappa della solidarietà
in carcere dal dicembre scorso
con l’accusa di aver sottratto
denaro pubblico nella costruzione di case popolari autogestite. Sala, che fa parte dell’organizzazione indigena Tupac
Amaru e della Central de los
Trabajadores Argentinos (Cta)
ha sempre respinto le accuse e
denunciato le manovre politiche del governatore di destra
Gerardo Morales. Per lei si è
mobilitato anche il papa Francesco, che ha avuto modo di co-
noscerla durante l’incontro
con le organizzazioni popolari
in Vaticano, e che le ha inviato
un rosario in carcere.
LA CTA ha aderito allo sciopero
insieme ad altre organizzazioni sindacali, in crescente agitazione contro i massicci licenziamenti, l’aumento delle tariffe, la privatizzazione e la chiusura degli spazi per la libera informazione decisi dal presidente neoliberista Mauricio Macri.
«Vi voglio vive e in tutti gli spa-
MOVIMENTI
L’avvocatoJorgeElizondo:«Ledonneapronounafasenuova»
GE.CO.
II «Il movimento delle donne
sta crescendo, in Argentina, e
così pure quello operaio e sindacale. Si apre una fase nuova». Così dice al manifesto il professor
Jorge Elizondo, avvocato del lavoro e comunista. Lo abbiamo
incontrato a Cremona, durante
la tre giorni di incontri dal titolo Identidad y Resistencia, organizzata dall’associazione Latina
America.
Le piazze tornano a riempirsi,
in Argentina
Dopo oltre 12 anni di governo
popolare, democratico, si è riaperta una fase che credevamo
di aver archiviato. E’ tornata
una destra che combina aspetti
neoliberisti con vecchi fascismi. Una destra che, si è detto,
per la prima volta ha vinto con
metodi democratici. Però quelle del 10 ottobre non sono state
elezioni trasparenti. Macri ha
vinto, e per meno del 2%, a seguito di una campagna sporca,
orchestrata dai media al servizio dei grandi gruppi economici nazionali e sovranazionali e
dal partito dei giudici a loro le-
gato, intenzionato a farla finita
con Cristina Kirchner: rea di
aver approfondito le politiche
di non allineamento e di essersi
schierata con il Venezuela e con
i paesi dell’Alba, di aver privilegiato il mercato interno e la
re-industrializzazione. Colpevole, soprattutto, di aver portato
all’Onu la protesta contro i fondi avvoltoio. Il miliardario Paul
Singer ha minacciato di fargliela pagare. E gli avvoltoi hanno
investito moltissimo denaro
nella campagna elettorale, così
come hanno fatto potenti terminali Usa ed europei. Macri ha
confuso il popolo con la promessa che non avrebbe smantellato
il buono del kirchnerismo, né
svalutato la moneta. Invece, per
prima cosa ha deciso una svalutazione del 40%, ha licenziato oltre 208.000 persone e bloccato
una legge che impediva i licenziamenti senza giusta causa. Ha
abolito le tasse per le industrie
minerarie e per i grandi produttori agricoli esportatori. Salvo
poi tornare sui suoi passi nei riguardi di questi ultimi, perché
la promessa di ridurre il deficit
non si è realizzata, anzi. Il suo
prossimo obiettivo è quello di
smantellare la nostra scala mobile, arrivando alla contrattazione individuale o al massimo
concordata con i vertici sindacali addomesticati: sul modello
europeo.
Cristina Kirchner ha proposto
un Fronte ampio cittadino. Da
una nuova mutazione del peronismo può nascere un’alternativa?
Il movimento sindacale è diviso, e in molti casi ha remato contro il kirchnerismo, spianando
la strada a Macri. Una delle due
componenti della Cta, però, è
assai radicale, sta organizzando
gli scioperi dei bancari e degli
statali. Quello confluito un mese fa a Plaza de Mayo è stato uno
sciopero storico. Le componenti di sinistra portano avanti la rivendicazione delle 35 ore, o almeno delle 40 com’è in Venezuela. E ci sono forti movimenti popolari come quello delle donne, che abbiamo visto a
Rosario.
Le piazze si mobilitano anche
per Milagro Sala.
Conosco la regione del Jujuy.
Quello che ha fatto l’organizzazione Tupac Amaru di Milagro
per gli indigeni è straordinario:
case, scuole. Il governatore Gerardo Morales viene dalla
Union Civico Radical dell'ex presidente Alfonsin, una formazione centenaria di classe media
che ha fornito la struttura politica nazionale al partito di Macri. Una struttura anti-operai,
anti-peronista, anti-poveri. Un
governo razzista. Hanno paura che, dalla vicinissima Bolivia, arrivi il vento dell’aymara
Evo, che ha portato gli indigeni al potere.
zi politici e sociali, nella scienza e nella cultura, in ogni spazio che porti la nostra società
verso un luogo più giusto e
ugualitario, nella giustizia e negli ospedali. Nelle scuole e per
strada», ha scritto Cristina. Dieci giorni fa, nella città di Rosario, una grande manifestazione di donne, al termine di un
incontro nazionale, è stata brutalmente dispersa dalla polizia. Oltre 30 i feriti, anche giornalisti.
Arrestato in Brasile
Eduardo Cunha
Eduardo Cunha è stato
arrestato con l’accusa di
corruzione, nell’ambito
dello scandalo per
tangenti che coinvolge
l’impresa petrolifera di
stato brasiliana Petrobras.
L'ex presidente della
Camera era decaduto
dalle sue funzioni il 5
maggio scorso: durante il
processo d’impeachment
all’allora presidente Dilma
Rousseff, di cui è stato il
principale promotore. Lo
scorso settembre, la
Camera dei deputati del
Brasile ha poi votato la
cessazione del mandato
parlamentare di Cunha e la
sua ineleggibilità fino al
2026. Per salvarsi, ora il
potente capo delle chiese
evangeliche potrebbe
vuotare il sacco.
8
internazionale
giovedì 20 ottobre 2016
GUERRAALL’ISIS
InfugadaMosul,
islamistiecivili
tuttiversolaSiria
Foto grande, truppe
irachene verso
Mosul. A sinistra,
i primi profughi dai
villaggi vicini alla
città assediata
foto LaPresse
I primi residenti scappano dalla città irachena. Il giornalista al Nasrawi:
«Ecco la mappa dei soggetti in campo e dei loro interessi contrapposti»
CHIARA CRUCIATI
II La fuga, limitata dalle violenze dell’Isis, è cominciata: in
10 giorni circa 5mila iracheni
della zona di Mosul sono fuggiti in Siria. Si trovano ora nel
campo profughi di al-Hol, già
sovraffolato. L’Onu ne aspetta
molti di più. Sul campo le truppe irachene avanzano con la
lentezza dovuta alla resistenza
islamista, campi minati e kamikaze: si parla di almeno due
settimane per entrare in città e
due mesi per liberarla.
Intanto crescono le tensioni
intorno alle milizie sciite:
Washington – su spinta della
Turchia – ieri ha ribadito di
non volersi coordinare con loro, sebbene operino sotto l’ombrello governativo. I gruppi
più potenti si difendono: non
cerchiamo vendetta sui sunniti, dicono. Ma i timori peggiori
si concentrano sulla fuga dei
miliziani Isis verso la Siria.
«La fase militare è la più semplice, molto più complessa quella politica. Dipenderà da come
ogni parte proverà a consolidare la propria agenda». Salah
al-Nasrawi, editorialista iracheno di Al-Ahram, Bbc e Ap, guarda
a Mosul con pessimismo. Ha
tracciato per il manifesto una
mappa dei soggetti che combattono e dei loro interessi.
Chi si trova oggi sul campo di
battaglia?
Le forze che partecipano
all’operazione sono distinguibili in categorie: irachene e
straniere. Sul lato interno ci sono le forze di sicurezza governative – esercito, polizia federale e unità speciali di contro-terrorismo – a cui si affiancano le
milizie sciite, le Unità di Mobilitazione Popolare. Sono in teoria sotto Baghdad e il suo comandante in capo, ma nella
pratica hanno la loro agenda e
potrebbero sorprenderci in futuro. All’interno di queste milizie non ci sono solo sciiti ma anche unità turkmene e cristiane
come la Brigata Babilonia,
gruppo caldeo. Si tratta di soggetti che intendono tornare
nelle zone intorno Mosul a
maggioranza cristiana o sciita,
comunità sradicate da Daesh.
Spostandoci nel Kurdistan
iracheno abbiamo i peshmerga, non certo un blocco unico:
alcune unità sono sotto il Kdp
(il partito del presidente Barzani), altre sotto il Puk (la fazione
avversaria di Talabani) e altre
ancora nate all’interno del Puk
ma da cui si sono scisse. E poi
migliaia di peshmerga «indipendenti», per lo più presenti
al confine con la Siria e a
Sinjar, che hanno legami con i
kurdi siriani, con piani diversi:
rifondare il Kurdistan storico.
Sul piano internazionale c’è
la coalizione a guida Usa, con
alcuni paesi particolarmente
attivi come gli stessi Stati Uni-
ti, la Gran Bretagna, la Francia,
la Germania, l’Italia – presente
nella diga di Mosul – e l’Australia. Il comando congiunto è a
Erbil e da lì si coordina con Baghdad e Erbil.
E poi c’è la Turchia.
Ankara è il principale ostacolo perché non intende coordinarsi con il governo iracheno
ma solo con Barzani e le tribù
sunnite che addestra da tempo. Non vuole andarsene
dall’Iraq, sulla base di quelli
che chiama «diritti storici» su
Mosul. Una narrativa pericolosa: altri potrebbero usarla per
rivendicare territori, come
l’Iran. L’insistenza turca si fonda sull’obiettivo di impedire la
nascita di un grande Kurdistan: mantenendo truppe a
Bashiqa e Mosul, creerà una situazione simile al nord della Siria anche grazie all’eventuale
sostegno sunnita e turkmeno.
Tanti attori, tante agende: un
conflitto nel fronte anti-Isis è
probabile?
La mappa che abbiamo disegnato lo spiega bene: ognuno di
questi soggetti combatte nello
stesso luogo ma con obiettivi opposti. Senza coordinamento sul
futuro di Mosul e dell’Iraq è probabile che a breve si combattano
traloro. Mancaun pianopolitico:
si parla di riconciliazione ma
emerge solo disgregazione. Il governo iracheno e l’Iran, dopo
aver investito denaro, energie e
sangue, intendono riprendere
Mosul, evitare la divisione del paese e sradicare non solo l’Isis ma
tutti i gruppi estremisti sunniti
per ricreare un asse sciita solido.
Turchia e Usa puntano all’opposto.EErbilvuolesalvaguardarela
sua autonomia e magari tramutarlainindipendenza.
Mosul non è la fine del conflitto, ma l’inizio. Un inizio reso peggiore da eventuali abusi
sui civili sunniti e dalla fuga
dalla città di migliaia di miliziani islamisti. Dove andranno?
«Non è la fine del conflitto,
ma l’inizio. La fase
militare è la più semplice,
molto più complessa
quella politica. La Turchia
è l’ostacolo peggiore»
Salah al-Nasrawi
Le speculazioni sono molte:
rapporti credibili parlano di
un probabile ritorno dei foreign fighters ai paesi di origine
attraverso la Turchia, da cui sono anche entrati. Erdogan gli
ha permesso di entrare ed è
possibile che ora gli copra la fuga, con un’Europa che non sa
costringere Ankara ad un accordo in merito.
Come si inserisce in tale contesto la decisiva questione
energetica?
Russia e Turchia hanno firmato da poco un accordo sul
Turkish Stream, con un’intera
regione che va da Cipro a Israele fino al Qatar che compete
per vendere risorse energetiche. Senza accesso al mercato
europeo, alcuni attori potrebbero interferire per ritagliarsi il
proprio pezzo di export. Senza
dimenticare l’Iran che rende la
ECUADOR
Kerrys’infuria:meno
internetperAssange
GE. CO.
II Un confinato sotto censura?
Sta suscitando molte polemiche la decisione di limitare l’accesso a internet al giornalista Julian Assange, fondatore del sito
Wikileaks: nel pieno delle rivelazioni sulle mail della candidata democratica Usa, Hillary Clinton. Le ultime in ordine di tempo, diffuse dal sito dopo quelle
sull’intervento in Siria e sul
doppio binario seguito da Clinton in America latina, riguardano i messaggi con John Podesta, consulente della candidata. Una corrispondenza in cui
emerge il disprezzo per i latinoamericani e per i cattolici, mentre si conferma il feeling con le
grandi corporazioni come Goldman Sachs.
UNA PRATICA che ha fatto infuriare il governo Usa e ha spinto
John Kerry a intervenire direttamente presso il presidente ecuadoriano Rafael Correa. Secondo
Wikileaks, gli avrebbe parlato
durante la firma degli accordi di
pace tra Farc e governo colombiano a Cartagena. Dopo il terribile terremoto che lo ha colpito
e il ritorno del Fondo Monetario
internazionale fra i «donatori»,
a seguito del mutamento di clima che si registra in America latina, l’Ecuador - un paese comunque dollarizzato - ha dovuto scendere a più miti consigli?
I PIÙ MALEVOLI sostengono di sì.
Un comunicato del governo
Il fondatore di Wikileaks Julian Assange foto LaPresse
ecuadoriano ammette che la limitazione nei confronti di Assange c’è stata ed è dovuta alla
«quantità di documenti pubblicati da Wikileaks, che hanno
un impatto sulla campagna elettorale negli Stati uniti». E siccome Quito «non s’immischia nei
processi elettorali in corso né
appoggia alcun candidato in
particolare», si è deciso di mettere un po’ di museruola ad Assange. D’altro canto - precisa il comunicato - la misura non influi-
sce sulla libertà di stampa del sito, che può continuare a svolgere la propria attività giornalistica. E che ha minacciato altre rivelazioni sulle elezioni dell’8
novembre.
IL GOVERNO ECUADORIANO ribadisce comunque la volontà di non
smentire «la sua tradizione di difesa dei Diritti umani, specialmente nei confronti di chi è vittima di persecuzione politica,
riafferma l’asilo a Julian Assange e reitera l’intenzione di salva-
competizione ancora più stringente. Il conflitto non riguarderà solo il gas ma anche il controllo del territorio all’interno del
quale le condutture correranno, in direzione Europa.
Sullo sfondo sta la graduale
e incessante disgregazione degli Stati-nazione. Guardate a Erbil: ha assunto il controllo di
porzioni di territorio che non intende dare indietro. O ascoltate
Erdogan: martedì ha di nuovo
parlato del suo piano B, restare
a tempo indeterminato in Iraq
su «invito» del Kurdistan iracheno. Questo creerebbe una nuova realtà sul terreno e porterebbe all’ufficiosa ma forse definitiva divisione dell’Iraq. Un paese
che non vedrà stabilità e pace
per anni. Forse l’obiettivo statunitense: dopotutto Obama non
ha fatto che proseguire la via
tracciata da Bush.
guardarne la vita e l’integrità fisica finché non potrà recarsi in
un posto sicuro». La politica
estera dell’Ecuador - conclude «risponde esclusivamente a decisioni sovrane e non cede alle
pressioni di altri Stati».
ASSANGE si trova nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra dal
2012. Quito gli ha concesso asilo politico, sottraendolo alle ire
degli Usa, beffati dal Cablogate.
La corrispondenza diplomatica, svelata dal soldato Bradley
Manney - ora Chelsea - e pubblicata da Wikileaks aveva gettato luce sui piani di guerra di
Washington e su altre magagne di non poco conto. Ad Assange è poi arrivata un’accusa
di stupro (che ha sempre negato) e una richiesta di estradizione dalla Svezia, con conseguente pericolo di essere da lì portato negli Usa.
internazionale
giovedì 20 ottobre 2016
«Ankara resterà nel nord-Iraq per disgregare il
Paese. E la regione compete sulle fonti energetiche»
9
Chez Merkel, i leader occidentali discutono con Kiev
e Mosca sull’applicazione degli accordi di Minsk
Polemiche a Parigi
per la visita saltata
di Putin. E oggi
a Bruxelles si
riparla di sanzioni
A. M. M.
Parigi
II L’incontro avrebbe dovuto
Sequestro Bonatti in Libia, manager indagato
Perquisizioni ieri mattina alla società di costruzioni Bonatti
di Parma e un manager indagato dalla procura di Roma per
omissioni colpose e violazioni delle norme di sicurezza del
lavoro in riferimento al sequestro che portò all’uccisione di
due dipendenti della ditta in Libia, i tecnici Salvatore Failla
e Fausto Piano, uccisi in una sparatoria mai del tutto
chiarita il 3 marzo scorso. Il manager indagato, Dennis
Morson, era il responsabile della logistica in Libia, paese
dove la Bonatti ha sempre lavorato fin dai tempi di
Gheddafi. Il 19 luglio dell’anno scorso quattro dipendenti
vennero sequestrati al confine con la Tunisia: insieme a
Failla e Piano, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno che, al
contrario degli altri due, riuscirono a liberarsi. Secondo
una «prassi societaria» e un presunto «protocollo interno»
sui trasferimenti in zone rischiose i quattro avrebbero
dovuto viaggiare via mare fino al cantiere di Mellitah e
proseguire in aereo. Ma mentre erano in viaggio verso la
Tunisia, Morson li avvisò che all’aeroporto di Gerba
avrebbero trovato una macchina con autista libico, il quale
li avrebbe condotti a destinazione. Questa variazione di
programma, con l’ingaggio dell’autista che dopo il
sequestro è stato arrestato, avrebbe, secondo pm Sergio
Colaiocco, posto le condizioni per il rapimento.
— segue dalla prima —
Presidenziali Usa,
tutte le promesse
di guerra
FRANCESCO STRAZZARI
entando di contenere
milizie filo-iraniane e
militari turchi. La fretta
potrà rivelarsi cattiva consigliera, portando a usare la mano
pesante con l’artiglieria, così
non aiutando a riconquistare
la fiducia della popolazione.
Ma le elezioni Usa hanno implicazioni più profonde per il Medio oriente: è infatti impensabile che nella fase pre- e post-elettorale la Casa Bianca si impegni in un mutamento di rotta
in politica estera. Stante l’arretramento dell’Isis in Iraq, a passare al prossimo Presidente
sono soprattutto le guerre di
Siria - dove si gioca la partita
più complessa per l’egemonia
T
internazionale. Mentre la diplomazia è in stallo, Hillary
Clinton annuncia, nei dibattiti
in tv, armi ai curdi per marciare su Raqqa e i principali attori
regionali sanno di disporre di
una finestra di opportunità di
qualche settimana. Ne è consapevole la Russia, che ha inasprito i toni, miscelando spregiudicatezza diplomatica, propaganda e assertività militare: per
quanto Trump si sforzi di sostenere Mosca come alleato anti-Isis, Putin ha girato alla larga
dal Califfato concentrandosi
invece su Aleppo con massicci
bombardamenti ‘anti-terroristi’ (centinaia morti civili in un
mese di cessate il fuoco). Lo scopo è spezzare il fronte jihadista
in città tenendo allineate le
forze di Assad e quelle iraniane
su sette fronti di guerra.
Quest’azione è stata preparata
da un riallineamento (alleanza
è dire troppo) con la Turchia di
Erdogan, pronta a sacrificare
quei ribelli di Aleppo che finora erano strenuamente sostenuti contro Assad. In cambio
aver luogo a Parigi ieri, in occasione dell’inaugurazione del
centro spirituale e culturale
russo, con la grande chiesa ortodossa che tocca i 37 metri di
altezza (il massimo permesso
dalle regole urbanistiche della
capitale francese), a due passi
dalla Tour Eiffel. Ma la tensione tra Russia e Francia ha fatto
saltare la visita di Putin a Parigi. Hollande e Putin però si sono trovati ieri sera a Berlino, assieme a Petro Poroshenko, su
invito di Angela Merkel: un incontro «formato Normandia»
confermato solo alla vigilia, dopo una discussione sulla Siria.
Ombre siriane dunque su
un incontro dedicato all’Ucraina, voluto dall’Occidente per
uscire dallo stallo in cui si trova l’applicazione degli accordi
di Minsk, un anno e mezzo dopo la firma, sia sul piano militare nelle regioni dell’est che su
quello politico a Kiev. Nessuno
è arrivato a Berlino aspettandosi grandi risultati, ma l’incontro in sé è già qualcosa. È considerato una vittoria dalle potenze occidentali, visto che il «formato Normandia» non era più
stato convocato dall’ottobre
2015, e che c’è appena stato il
veto di Mosca al Consiglio di sicurezza su una risoluzione
francese sulla Siria. La Russia
ha fatto un gesto, prolungando da 8 a 11 ore la tregua dei
raid su Aleppo, anche se Germania e Francia vogliono tenere separate le due crisi.
Il portavoce di Putin, Dmitri
Peskov, deplora che alla crisi
dell’Ucraina venga dedicata
«solo una sera, neppure una
giornata». Per Peskov, la Russia è «aperta ai negoziati», ma
«la situazione resta difficile»,
cioè la Russia non ha nessuna
intenzione di fare pressione
sui separatisti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk perché cedano a Kiev. Poroshenko
Erdogan ha ottenuto l’assenso
russo all’annessione di fatto
dei territori siriani a ridosso
della frontiera, dove ha convogliato le forze jihadiste più fedeli, scortandole a soppiantare
l’Isis e ad arginare l’avanzata
dei curdi del Rojava. La Russia
ha abbandonato i curdi, lasciando cadere la richiesta di
una loro sedia al tavolo del negoziato, ben prima che gli Usa agendo su intimazione turca invertissero anche loro la marcia per contenerne il protagonismo a Ovest dell’Eufrate.
Seguendo le direttive russe,
ora il regime di Damasco lascia
che sia il nemico turco ad arrivare per primo alla strategica
cittadina di Al-Bab, fermando
l’unificazione dei cantoni curdi. Forte di questo posizionamento, Erdogan alza la voce
internazionalmente e sul piano domestico proroga lo stato
d’emergenza fino all’insediamento del prossimo presidente americano.
La finestra apertasi con il voto
americano concede il vento in
François Hollande e Angela Merkel ieri a Berlino foto LaPresse
BERLINO
Ombresirianesulsummit«ucraino»
SalelatensionetraFranciaeRussia
punta a sfruttare la debolezza
degli alleati europei: «Non ci
aspettiamo niente da questo
incontro, non mi faccio illusioni sulle capacità di Merkel e
Hollande di temperare le ambizioni di Putin a questo stadio»,
ha affermato prima dell’incontro. Ribadendo che «fino a
quando il pacchetto sicurezza
non è rispettato, l’Ucraina si
asterrà dall’avanzare nel processo politico», per dotare il
Donbass di uno statuto speciale, che ne garantisca un’autonomia, e permettere così le elezioni. Per Putin la questione
militare è «un pretesto» per
bloccare la soluzione a livello
politico. Francia e Germania
propongono una Road Map,
che prenda in conto contemporaneamente gli aspetti militari e quelli politici: è proprio
questo che blocca l’applicazione di Minsk, perché nessuno
dei contendenti vuole cedere
per primo. L’Eliseo fa sapere
che «se si avanza di un millimetro è già un bene». Merkel ha ricordato i punti di blocco: il rispetto effettivo del cessate il
fuoco (Kiev ha affermato che 7
suoi soldati sono morti a ottobre, domenica è stato ucciso
Arsen Pavolov, capo separatista detto «Motorola»); le questioni politiche; le questioni
umanitarie. «Non ci aspettiamo miracoli, ma al punto in
cui siamo bisogna fare sforzi»,
ha commentato Merkel.
Oggi, la crisi in Ucraina è in
agenda al Consiglio europeo a
Bruxelles. Sul tavolo di nuovo
le sanzioni, escluse al vertice
dei ministri degli Esteri della
Ue di lunedì. Il bombardamento su Aleppo ha gelato l’offensiva dei paesi più scettici verso
le sanzioni alla Russia, decise
nel marzo 2014 dopo l’annes-
poppa alle forze lealiste di Damasco, sparigliando le carte:
l’Egitto si è spinto a votare anche la risoluzione Onu con cui
la Russia ha affondato le richieste francesi di uno stop alle
bombe, circostanza che ha fatto infuriare i sauditi, grandi
sovventori del regime di Al-Sisi. A Riyadh si torna a parlare
di forniture ai ribelli di armi
anti-aeree portatili. Assumendo che tali armi possano penetrare dentro Aleppo Est, difficilmente sarebbero efficaci contro aerei russi che bombardano da alta quota. E nessuno
può prevedere passaggi di mano in un caleidoscopio di milizie in cui il cliente di oggi è il
qaedista di domani. In questo
contesto la Clinton sembra avere buon gioco nel corteggiare i
repubblicani sull’idea - domani, da Presidente - di un ingaggio Usa sulla protezione aerea
di Aleppo città, nonostante i
rischi di collisione diretta con
la Russia: un cessate il fuoco
negoziato è lontano, mentre si
avvicina un’ipotesi di resa di
componenti jihadiste, evacuazione armi in mano e poi
‘assistenza umanitaria’ .
Infarcito di contraddizioni,
provocazioni e incidenti, il boccone siriano verrà passato a chi
già resse le fila della politica
estera sotto il primo mandato
Obama: Hillary Clinton. Il suo
esordio al Dipartimento di Stato coincise con una linea scettica rispetto alle primavere arabe. Da questa linea si smarcò
Obama, che si recò al Cairo a
celebrare la ‘Storia in marcia’.
Mentre la realpolitik clintoniana, che aveva voluto l’armamento dei ribelli siriani, affondava con la gestione catastrofica del ‘caso Bengasi’ (uccisione
dell’ambasciatore statunitense
l’11 settembre 2012), l’Egitto
cadeva sotto un golpe militare,
e il jihadismo dilagava a macchia d’olio.
La regione mediorientale che
Obama oggi lascia, vede la superpotenza Usa, che ha reincorporato l’Iran nel gioco internazionale, sfidata ormai su più
fronti. Ne sono la prova i pro-
sione della Crimea, poi rafforzate, legate all’avanzamento
degli accordi di Minsk nel marzo 2015 e confermate di nuovo
a luglio, fino al gennaio 2017.
Oltre a Grecia e Cipro, tradizionalmente vicini alla Russia,
Ungheria, Austria, Spagna, Slovacchia e Italia hanno cercato
di fermare le sanzioni, poiché
l’economia ne paga il prezzo.
In Germania, l’Spd non è sulla stessa posizione intransigente di Merkel. In Francia, Hollande alza la voce, concentrandosi sulla Siria (ieri all’Eliseo è arrivato il presidente dei Caschi
bianchi siriani, oggi al Quai
d’Orsay c’è un summit sulla Siria). Ma l’annullamento della
visita di Putin ha suscitato molte critiche. La Russia ha molti
amici in Francia, qualcuno nel
Ps, molti a destra (estrema destra), e ovviamente anche nel
mondo deli affari.
blemi con Israele, Arabia Saudita, Egitto e Turchia. Ne è prova
il deterioramento senza precedenti delle relazioni con Mosca, accusata persino di interferenze elettorali, a Washington
come in Europa.
Per quanto Obama sostenga
che gli interventi militari della
Russia provano difficoltà di
leadership, è verosimile che la
Presidente Clinton cercherà di
riasserire la potenza americana, così da riallineare alleati
andati in ordine sparso in cerca del proprio interesse nazionale, e scardinare le posizioni
su cui la Russia riesce a fare perno nonostante i limiti economici e le sanzioni. A partire dalle
tensioni lungo i propri confini
orientali, il rischio è che l’Europa venga trascinata in una spirale dagli esiti imprevedibili.
Francia e Regno Unito sono ai
ferri corti con Mosca in Siria.
C’è da impegnarsi perché le
dinamiche che si avvitano sulle elezioni statunitensi non
mantengano tutta la guerra
che promettono.
10
culture
giovedì 20 ottobre 2016
VIOLETAPARRA
Oltre a cantare, realizzava le «arpilleras», grandi
arazzi di juta ricamata e componeva poesie
Uno dei primi gesti di Pinochet fu quello di togliere
il suo nome a un quartiere popolare di Santiago
Unaspregiudicata
combattente
Al via le celebrazioni del centenario dell’autrice di «Gracias a la vida»
FRANCESCALAZZARATO
II A pochi passi da Plaza Italia,
nel centro di Santiago del Cile,
c’è un edificio basso e imponente (visto dall’alto, potrebbe assomigliare a una chitarra tagliata a
metà in verticale), fatto di immense vetrate: è il museo Violeta Parra, che, inaugurato nel
2015,apartiredaquestomesesaràilfulcrodialmenotrecentoiniziative nazionali organizzate in
vistadel 4 ottobre 2017, centenario della nascita di colei che il fratelloNicanor,poetatraipiùgrandi, chiama Viola piadosa, admirable, volcánica, nei versi del lungo
poema DefensadeVioletaParra,oggi incisi lungo la rampa d’ingressoalmuseo.
NON VA DIMENTICATO, però, che
in una delle strofe della «Difesa» (pubblicata per la prima volta nel 1958, e apparsa in una
versione ampliata nel 1969), aggiunte dopo la morte dell’amatissima sorella, Nicanor la definisce anche «Viola funebris», aggettivo che sembra far presente un secondo anniversario,
quello della morte di Violeta,
suicida con un colpo di pistola
nel febbraio del 1967; tra la venuta al mondo di una donna
straordinaria e la sua scomparsa corrono dunque solo cinquant’anni, durante i quali ha
preso vita un’opera vastissima
che l’ha resa celebre non solo
nel suo paese, ma in tutta
l’America latina e in Europa, dove è vissuta per alcuni anni tra
Francia e Svizzera, visitando instancabilmente altre nazioni
per portarvi la sua musica.
È STATA DAVVERO LUNGA la strada percorsa dalla bambina nata
in una famiglia assai povera
(dieci figli, una madre sarta; un
padre stroncato dalla tubercolosi e dall’alcolismo), dall’adolescente cresciuta in campagna
ed emigrata nei quartieri popolari di Santiago, dalla giovane
donna sposata con un ferroviere comunista e incapace di trasformarsi in casalinga rassegnata, dalla piccola cantora che si
guadagnava la vita esibendosi
per strada e nei bar. E il museo,
insieme alla Fondazione che
porta lo stesso nome, dà conto
di questo percorso tumultuoso
accostando immagini e suoni,
documenti, oggetti, musica
(una sala è occupata da un «bosco sonoro» dove, appoggiando
l’orecchio a tronchi d’albero cavi, si possono ascoltare le canzo-
ni di Violeta) e infine opere d’arte, ossia i quadri, le ceramiche,
le sculture in filo di rame e soprattutto le stupende arpilleras
(grandi arazzi di juta ricamata)
che «la Viola» produceva a getto
continuo e che nel 1959 espose
a Parigi, in un padiglione del
Louvre.
SE QUELLA DI ARTISTA visuale è
una delle meno note tra le tante identità di Violeta, più celebre è quella di musicista, compositrice e cantante, nonché di
folclorista che ha registrato e
salvato almeno tremila canti
popolari del suo paese, e che nutriva il sogno di offrire a tutti il
frutto del lavoro suo e di altri
nell’ormai leggendaria Carpa
de la Reina, un tendone da circo alla periferia di Santiago: un
progetto difficile, osteggiato da
molti, che le costò duro lavoro
e amare delusioni, e finì per essere lo scenario del suo congedo definitivo.
Ancor meno conosciuta della Violeta pittrice e ricamatrice
è poi, almeno in Europa, l’autrice dei versi raccolti finalmente
in Poesia, un volume di oltre quattrocento pagine curato da Paula
Miranda,docentepressol’Università Cattolica del Cile e già autrice
nel2013 diunsaggio notevole, La
poesíadeVioletaParra.
Presentato il 4 ottobre presso
il museo per dare inizio all’anno
parriano, il libro include, oltre ai
contributi di grandi poeti e scrittori che la stimarono e le furono
amici, come de Rokha, Arguedas, Rojas, Neruda, i testi delle
118 canzoni composte da Violeta(traesse,alcunevariantisconosciute di Gracias a la vida, la più famosa e la più fraintesa), ma anche molti testi inediti e un’autobiografia in versi intitolata Decimas, scritta tra il 1954 e il ’58 per
incitamento di Nicanor. Pubblicata due anni dopo la morte di
Violeta, Decimas utilizza un metro arcaico e tipico del folclore,
che incatena strofe di dieci versi
ottosillabi, in rima e con l’obbligodi trattare unmedesimo argomentoper ogni strofa.
UN ESERCIZIO COMPLICATO, che
Violeta praticava con meravigliosa naturalezza, fondendo
poesia popolare e letteratura
colta, memoria personale e collettiva, e aprendo così la strada
alle sue creazioni musicali più
significative, come le canzoni
splendide e a volte strazianti
riunite nel disco Ultimas composiciones (un vero e proprio conge-
do, prima del suicidio già altre
voltetentato).
Proprio dalle pagine di Decimas, Violeta sembra venirci più
chemai incontro:dotata diinnumerevolitalentiedienergiaspropositata, orgogliosa, iraconda e
autoritaria, generosa all’estremo; qualcuno, scrive Nicanor,
che «non si veste da pagliaccio,
non si compra e non si vende,
parlalalinguadellaterra».Maanche qualcuno che certi settori
della società cilena di allora, profondamenteclassista e oligarchica, e della sua cultura ufficiale,
elitaria e votata al mantenimento dello status quo, non sapevano né potevano accettare, e non
solo per via delle posizioni politiche di Violeta, espresse in canzoni mai rassegnate che trasudavano indignazione, dolore, rabbia
e ironia. Se per una parte del Cile
«la Viola» è stata troppo a lungo
una nemica alla quale negare
ogni sostegno e riconoscimento
–unodeiprimigestidelladittatura di Pinochet fu quello di togliere il suo nome a un quartiere popolare di Santiago -, lo si deve anche al suo rigore, alle sue scelte
di vita, al suo essere incredibilmente in anticipo sul proprio
tempo.
IL SUO APPROCCIO al folclore,
per esempio, non era certo
quello più diffuso e ufficialmente accettato, che considerava
cultura e usanze del popolo come un pittoresco cadavere da
imbalsamare per garantirne
l’incorruttibilità, pronto per essere esibito in occasione di qualche festa patronale. Invece lei,
la Viola, non intendeva semplicemente «salvare» la musica e
la cultura popolare, anche se
dedicò tempo ed energia a sottrarre all’oblio canzoni, leggende, musiche registrate nei suoi
infiniti viaggi attraverso il Cile;
quello che voleva era rivitalizzare e usare materiali e forme
del folclore, come nota Arguedas, «nel modo più lucido e aggressivo», per creare qualcosa
di originale che parlasse a tutti,
uscisse dal ghetto in cui si voleva rinchiuderlo e creasse contaminazioni continue tra mondo
contadino e urbano, tra «alto» e
«basso», tra vecchio e nuovo, in
modo da evitare che ogni diversità venisse cancellata dall’imposizione di un modello culturale unico.
Il tratto più eversivo di Violeta, la sua provocazione più
grande, era però il suo modo di
L’omaggio
Un fratello
in versi per lei
Nicanor Parra
Sprizza fulmini la tua voce
Verso i punti cardinali
Vendemmiatrice ardente
di occhi neri
Violeta Parra.
Ti accusano di questo
e anche di quello
Io ti conosco e dico chi sei tu
Oh agnellino
vestito da lupo!
Violeta Parra
«Senza Nicanor non ci sarebbe
Violeta» Violeta Parra
Dal mondo circense
a quello della musica
Violeta Parra apparteneva
a una famiglia in cui l’arte
era di casa: quattro dei suoi
fratelli e sorelle sono
diventati musicisti di
valore, uno è stato un
celebre artista circense, e il
maggiore, Nicanor, è
considerato uno dei più
grandi poeti
latinoamericani del ’900.
L’attività artistica dei Parra
è proseguita nel tempo: figli
e nipoti sono a loro volta
cantanti e compositori,
anche se non tutti hanno
seguito la via del folclore.
Alcuni tra i membri più
giovani di quella che si
potrebbe considerare una
vera e propria dinastia, si
sono infatti dedicati al pop,
al rock e al punk rock.
essere donna: libera, spregiudicata, avventurosa, insofferente
a ogni costrizione – lo testimonia, tra le altre cose, la sua intensa e instabile vita amorosa,
mai sacrificata alla strada che
vedeva tracciata davanti a sé -,
lontana dai modelli di femminilità domestica e conciliante proposti e imposti a quell’epoca,
non solo in America Latina.
SONO LE DONNE del popolo, impegnate come sua madre Clarisa in un lavoro continuo e logorante, pietre angolari di una sopravvivenza difficile, quelle cui
Violeta dà voce e che incarna
scegliendo panni modesti, ignorando la moda, rifiutando il
trucco e le apparenze, vivendo
in case dal pavimento di terra
battuta, scrivendo canzoni e
cantandole, trovando le parole
per raccontarsi, ricamando,
modellando ceramiche, trasformando le tradizionali forme
espressive femminili in arte autentica e personale, mai puramente popolare o colta, sempre lontana da ogni compiacenza o criterio commerciale.
«Uccello in volo che nessuno
può fermare», pronta a correre
i rischi che la sua etica rigorosa, la sua assoluta coerenza e le
sue scelte audaci comportavano, logorata infine dall’enorme stanchezza del combattente solitario e ostinato (troppo
facile ricondurne il suicidio a
un amore deluso, piuttosto
che a un’ultima sfida), Violeta
Parra è oggi onorata da un paese che l’ha misconosciuta a
lungo, eppure non rischia di
trasformarsi in un’immaginetta stereotipata o di lasciarsi imprigionare nel museo che giustamente la celebra: la qualità
eversiva della sua opera è ancora così evidente, così palpabile, da non poter essere del tutto metabolizzata neppure
adesso, nel tempo del suo centesimo compleanno.
culture
giovedì 20 ottobre 2016
Da oggi al 23 ottobre si svolgerà in
Sardegna (tra Sassari, Ozieri, Tissi e
Porto Torres) la decima edizione de
«OttobreInPoesia», il festival
internazionale letterario che
quest’anno è dedicato al
«naufragio». Fra gli ospiti
partecipanti, tra gli altri, di Riccardo
Ilcampodellavoro
nell’opera
diunhomoacademicus
Capitale simbolico, movimenti sociali, ascesa e declino
del salariato. Un volume collettivo su «Bourdieu et le travail»
MICHELE NANI
II Pierre Bourdieu è uno dei
sociologi francesi più letti e citati nel mondo: tuttavia il suo
ruolo è stato e resta marginale
in uno dei settori più importanti della sociologia francese, la
sociologia del lavoro. Parte da
questo paradosso la ponderosa
raccolta di studi Bourdieu et le
travail (Presses universitaires
de Rennes, pp. 400), promossa
e curata da Maxime Quijoux.
Noto ai più per le sue ricerche
sulla cultura, sulle istituzioni
formative e sugli intellettuali,
oppure per il suo impegno pubblico a fianco dei movimenti sociali nel corso degli anni Novanta, Bourdieu si è forse disinteressato del lavoro come oggetto di studio? Quijoux e compagni lo negano recisamente, a
partire dall’esperienza algerina del sociologo.
Il primo libro di ricerca di
Bourdieu, in collaborazione
con altri studiosi, fu dedicato
nel 1963 a Lavoro e lavoratori in
Algeria. Prendendo congedo dalla sua formazione filosofica, il
giovane ricercatore aveva operato una svolta verso le scienze
sociali parallelamente al suo
trasferimento all’Università di
Algeri durante la guerra di indipendenza (su quel momento
fondativo si veda In Algeria. Immagini dello sradicamento, Carocci, volume impreziosito dalle
foto scattate dallo stesso sociologo, la cui edizione italiana
dobbiamo ad Andrea Rapini).
L’INTRECCIO fra violenza coloniale e trasformazione capitalistica facevano dell’Algeria un
laboratorio politico e sociale: il
giovane studioso leggeva i conflitti in corso attraverso le trasformazioni del lavoro, contadino e urbano. Il mercato del la-
voro algerino era caratterizzato dalla polarizzazione fra una
massa di sottoproletari espulsi
dalle campagne (anche ad opera dell’esercito coloniale) e la
minoranza salariata urbana:
mentre i primi vivevano lacerati fra i valori dell’universo contadino di partenza ormai dissolto e la precarietà della vita nei
«campi di raggruppamento» e
nelle bidonvilles urbane, cercando o inventandosi occupazioni giorno per giorno, i secondi grazie alla relativa sicurezza
dell’impiego potevano accedere a una vera trasformazione
antropologica, al riconoscimento di interessi collettivi, al
conflitto, alla politica. I limiti
di una lettura delle comunità
rurali «tradizionali» legata agli
studi coloniali precedenti e di
uno schiacciamento sul presente di capitalismo e salarizzazione, ben evidenziati dai bei sag-
gi di Fabien Sacriste e di Claude
Didry, nulla tolgono all’antropologia della precarietà e del salariato delineate da Bourdieu
nel quadro di una storicizzazione del capitalismo e dell’agire
economico.
Al ritorno in patria il sociologo si sarebbe convertito ad altri oggetti e avrebbe così dimenticato i lavoratori? Se lo
spostamento degli interessi
di ricerca è innegabile,
Quijoux sostiene, con buone
ragioni, che l’esperienza algerina e dunque la focalizzazione sul lavoro, abbia forgiato
l’arsenale concettuale e teorico delle indagini a venire.
Bourdieu non avrebbe mai rinunciato all’idea che il lavoro
salariato, veicolo di dominazione sociale, è anche condizione del suo superamento e
dunque dell’emancipazione
dei subalterni.
IL LAVORO è inoltre essenziale
nella definizione della teoria
bourdieusiana delle classi e del
loro conflitto, che nel volume
è meno presente di quel che
forse avrebbe meritato, così come non vi figurano le considerazioni sul movimento operaio, che hanno anche rappresentato il punto di partenza per la
riflessione di Bourdieu sul
«campo politico». La più sintetica introduzione in merito è forse in un saggio del 1978 (Capitale simbolico e classi sociali) ora disponibile in italiano grazie a
Marco Santoro, che lo ha fatto
tradurre sulla rivista «Polis» (n.
3), assieme a un utilissimo contributo di Loïc Wacquant su
«come Bourdieu ha riformulato la questione delle classi».
L’approccio del sociologo
francese alle classi rappresenta un’integrazione critica e
non un rifiuto di quello marxista (si veda la recensione, uscita su queste pagine il 7 febbraio scorso, di Andrea Girometti
alla recente traduzione del saggio bourdieusiano Forme di capitale). Anche per questo nel volume compaiono un interessante contributo di Sophie
Béroud sulla fertilità del concetto di «campo» per indagare
il mondo sindacale e un ricco
studio in cui Michael Burawoy, uno dei più importanti
sociologi (neo)marxisti del lavoro, mette a confronto il proprio approccio e quelli di
Gramsci e Bourdieu.
Un ritratto
di Hillary Clinton
«Una pericolosa
estremista di sinistra; il
braccio politico delle
corporation americane;
una donna cinica, fredda e
bugiarda, pronta a tutto
pur di conquistare il
potere». E si potrebbe
aggiungere: Hillary Clinton
è la leader politica che si è
fatta forte di uno screditato
e burocratico apparato del
partito democratico per
sconfiggere Bernie
Sanders, ritenuto l’unico
personaggio in grado di
cambiare lo stato delle
cose negli Usa. Si presenta
così il volume del
giornalista e studioso di
«cose americane» Oliviero
Bergamini da oggi nelle
librerie. Un titolo piano
(«Chi è Hillary Clinton») per
un saggio che prova a
dipingere un ritratto della
candidata alla presidenza
che deve vedersela con il
populista neoliberista
Donald Trump.
Bourdieu et le travail non è solo un’opera filologica e teorica
di ricostruzione degli approcci
del sociologo al lavoro, ma presenta molte ricerche che si servono dei suoi strumenti per
leggere le trasformazioni del
presente, analizzando un ampio ventaglio di figure lavorative, ad esempio, fra gli altri, gli
insegnanti, le professioni artistiche, le bibliotecarie, i poliziotti e i concierges degli alberghi di lusso.
NON È UN CASO che l’arsenale teorico di Bourdieu sia ancora
produttivo: è stato modellato
con l’attenzione costante a uomini e donne concreti, alle loro «pratiche» reali, lavoro incluso, da uno studioso che non ha
mai dimenticato che «i movimenti per l’emancipazione sono lì per provare che una certa
dose di utopismo» - traduco liberamente dalla splendida Lezione sulla lezione con la quale
Bourdieu ha inaugurato nel
1982 la sua presenza in uno dei
templi della cultura francese,
il Collège de France - «può anche contribuire a creare le condizioni politiche di una negazione pratica della mera constatazione realistica».
TEMPO LIBERO
RapportoFederculture,crescelaspesa
delle famiglie ma resta il divario nord-sud
ARIANNA DI GENOVA
II Se è vero che nel 2015 è aumentato il numero di italiani
che ha frequentato musei
(+7%), teatri (+4%) e concerti
(+8%), facendo lievitare la spesa
famigliare destinata alle attività culturali (+4%), resta pur vero
che il 18,5% di italiani (corrispondente a undici milioni di
individui) non entra mai in contatto con nessun luogo ricreativo e neanche si affaccia in libreria. È un numero minore rispetto a quello presentato nello
scorso Rapporto di Federculture (19,5%), quindi «positivo» ma
rimane impressionante. La cul-
tura è una risorsa che vede la
sua linea grafica salire, eppure
in Italia la frattura fra nord e
sud è evidentissima e non accenna a saldarsi: a fronte dei 200 euro famigliari di media spesi nel
Trentino per teatro, cinema o
arte, ce ne sono solo 59,08 investiti dalla Calabria e 59,99 nella
Basilicata.
Aincrementare i dati della cultura però sono soprattutto i giovani,evidentementenonsolo «digitali»: sono gli adolescenti e i cosiddettiyoungadulta affollaremusei (+10,6%) e teatri (+16,6%), meno i concerti di musica classica.
Il 12°Rapporto Federculture
indica anche che nel 2015 il 42%
degli italiani dai sei anni in su
ha aperto almeno un libro: una
cifra rimasta stabile, pur se nel
2010 la percentuale dei lettori
si aggirava intorno a un ben migliore 47%.
Dalla Buchmesse di Francoforte, l'Aie ha diffuso i dati Nielsen riguardo il settore dell’editoria: una tendenza positiva che
sembra lasciarsi alle spalle la lunga flessione dei tempi recenti,
+0,2% per il fatturato dei libri di
carta (librerie, librerie online al
netto di Amazon, grande distribuzione organizzata) controbilanciata da un -2,9% (1,4 milioni
di pezzi) per le copie vendute,
«comunque un calo più contenu-
Turisti in visita a Firenze
to rispetto al -5% dello stesso periodo dello scorso anno». Ma il problema è trovare l’utente/lettore.
La soluzione ci sarebbe e riguarda da vicino le politiche di investimento ad hoc che puntino su
un potenziamento della rete di
biblioteche (e non sulla loro disfatta) e sull’educazione mirata
tra i banchi di scuola.
Continua invece a crescere
l’attrattività del paese per cultura e suo patrimonio artistico: il
turismo culturale in Italia, costituito per il 60% dagli stranieri,
promette grandi numeri. I turisti nelle città d’arte hanno lasciato in Italia 12,9 miliardi di
euro, pari al 57,7% della spesa
turistica complessiva.
11
Noury (Amnesty International),
Alessandro Bergonzoni, Fahredin
Shehu, Marco Cinque, Ornella
Vorpsi. Oggi alle 18 presso la
Biblioteca Comunale di Sassari
incontro su «Scritture migranti». Il
programma è consultabile su
internet: www.ottobreinpoesia.it
ASTRONOMIA
IllanderSchiaparelli
segnala
l’atterraggiosuMarte
ANDREA CAPOCCI
II Schiaparelli è giunto su
Marte, ma nella serata di ieri
non si conoscevano le sue
condizioni dopo l'atterraggio. Il «lander» si era staccato
dalla navetta madre (il Trace
Gas Orbiter) tre giorni fa, iniziando la marcia di avvicinamento verso l’atmosfera e il
suolo marziano. L’ultima
mezz’ora è stata quella più delicata. Schiaparelli, due metri di diametro, due di altezza
e mezza tonnellata di massa,
è entrato nell'atmosfera a circa 21mila chilometri l’ora.
L’attrito con le particelle
dell'atmosfera ha surriscaldato la superficie fino a 1500°C è lo stesso fenomeno che incendia le stelle cadenti nel
cielo di agosto. I desideri dei
progettisti dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) e di quella
russa Roskosmos si sono avverati. Schiaparelli ha resistito
al calore, ha azionato il paracadute e i razzi di frenata e ha
toccato il suolo marziano intorno alle 17.30. Un'ora e
mezza più tardi, un segnale
radio ha rassicurato ingegneri e ricercatori in attesa nella
base di Darmstadt (Germania): un segnale positivo, ma
che non dà certezze sullo stato di salute del lander.
L'OBIETTIVO dei prossimi giorni è studiare l'atmosfera marziana usando sia i dati raccolti dall'orbiter che i sensori
montati su Schiaparelli. Il lander, infatti, è provvisto di una
stazione meteorologica chiamata Dreams («Dust Characterisation, Risk Assessment, and Environment
Analyser on the Martian Surface») che misurerà pressione, umidità, velocità del vento e temperatura sul suolo
marziano. Dreams rileverà i
campi elettrici su Marte, al fine di comprendere l'origine
delle tempeste di polvere che
ogni tre anni perturbano la tenue atmosfera del pianeta. I
ricercatori italiani sono in prima fila: la responsabile dello
sviluppo di Dreams è Francesca Esposito dell'Istituto Nazionale di Astrofisica di Napoli, che ha diretto un team internazionale in cui università ed enti di ricerca italiani
hanno un ruolo preminente.
Nel complesso, l'Italia fornisce il finanziamento maggiore a ExoMars.
QUELLA DI OGGI è una tappa
importante per la missione,
dopo le difficoltà seguite al ritiro della Nasa dal progetto
nel 2013 dovuto all'eccessivo
impegno economico. Il costo
per l'Esa ha superato il miliardo di euro e ciò ha causato il
rinvio di due anni della seconda fase della missione, prevista nel 2018. I dati di Dreams
dovrebbero servire proprio a
preparare «ExoMars 2020», in
cui Esa e Roskosmos porteranno su Marte un «rover». Il
veicolo cercherà tracce di attività biologica, come acqua,
metano e molecole compatibili con la vita.
12
visioni
giovedì 20 ottobre 2016
CINEMA
Nel rush finale della campagna presidenziale esce
a sorpresa il film del regista statunitense
Ma il soggetto vero è mobilitare il voto per Clinton
oltre lo spauracchio del candidato repubblicano
MooreinTrumplandia:Hillary,ILoveYou
Girato in solo due settimane, ricorda più i monologhi di Spalding Gray che i suoi classici documentari
GIULIA D’AGNOLO VALLAN
New York
II Improvvisata in poco più
di un giorno, il film finito solo
alle sette di martedì mattina,
era la «premiere» meno cerimoniosa possibile. Niente tappeti rossi, niente star. Eppure
è bastato l’annuncio via Twitter, nel primo pomeriggio, che
la gente si è messa in fila per
ore, lungo la Sesta Avenue e
Cornelia Street, nel Village. Alcuni avevano portato le sedie
pieghevoli. Fatti entrare frettolosamente, sono arrivati luminari dei salotti progressisti
newyorkesi - Wendy Goodman, Phil Donahue, Joyce Bear, e Chris Rock. Da un traballante tavolino pieghevole, MoveOn.org distribuiva biglietti
premio ai volontari che, il prossimo week end, si sono offerti
di andare a raccogliere voti in
Pennsylvania, di casa in casa,
bussando alle porte degli indecisi. La sorpresa d’ottobre di uno
deipiù amatipamphlettistidella
sinistraUsasichiamaMichael Moore in TrumpLand, un film che ricorda più i monologhi di Spalding Gray che i documentari di
Moore, e che il regista di Flint -a
New York per presentarlo- ha
girato solo due settimane fa,
«nemmeno un’ora dopo che è
saltata fuori la registrazione di
Trump sul pullman».
ALL’ENTRATA DEL CINEMA, martedì sera, un collettivo di artisti di Brooklyn aveva portato
una statua di Trump che, come un chiromante con gli occhi di fuoco, alla Zoltan, prediceva un futuro apocalittico;
ma chi è venuto a vedere il nuovo lavoro di Moore sperando
in una scorpacciata di gag anti-Trump ancora più feroci di
quelle che ci riservano, ogni sera, comici come Steven Colbert, Bill Maher e Samantha
Bee, sarà rimasto male. Perché, nei 74 minuti che si sono
visti, il miliardario newyorkese è poco più di un’ombra. Seppure molto minacciosa. Egocentrico com’è, rimarrà male
anche lui. La TrumpLand del titolo è Wilmington, in Ohio, un
posto - ha spiegato Moore prima dell’inizio - dove su 15mila
iscritti alle liste elettorali, nel
2008, poco più di mille hanno
votato per Obama e dove, alle
primarie 2016, il rapporto tra i
Un murales contro Trump fra
le strade di Ny, sotto un ritratto
del regista Michael Moore
e in basso Hillary Clinton
voti per la Clinton e quelli per
Trump era di uno a quattro. È
nel cuore dell’America arrabbiata, sfiduciata, povera e rivoltosa che ha abbracciato la demagogia trumpista, da uno di
quelli di che Moore ha definito
«gli stati Brexit» – Ohio,
Iran, la strategia di «House of Cards»
La politica americana è
«sporca e corrotta» basta
vedere «House of Cards» ed i
dibattiti presidenziali tra
Hillary Clinton e Donald
Trump per rendersene
conto. L'Iran risponde alla
diffusione a cultura
americana attraverso media
e social network mostrando
la corruzione di cui sarebbe
permeata la politica a stelle
e strisce. E così due
settimane fa la tv di stato ha
trasmesso per la prima volta
il dibattito il tycoon
repubblicano e la candidata
democratica. E il mese
scorso, sempre con
l'intenzione di mostrare il
peggio della politica
americana, i censori
avevano dato il via libera
anche alla trasmissione di
«House of Cards»
Ovviamente è solo fiction,
ma fa parte della strategia
della leadership di Tehran
per fermare l’influenza
culturale dgli States.
Wisconsin, Pennsylvania e Michigan - che il regista ha messo
in scena il one-man-show del titolo; davanti a un pubblico
composto, per circa metà di sostenitori di Hillary e per il resto di un mix di trumpisti, indecisi e gente che vuole votare
un terzo candidato.
DAL PALCO, Moore inizia la performance con un paio di
sketch comici - gli spettatori
messicani sono tutti radunati
in galleria, dietro a un muro di
mattoni in cartone; mentre su
quelli musulmani, cordonati
anche loro, aleggia minacciosamente un drone. Poi, con un
riff che contrappone il cliché
del liberal molle e indeciso (come lui) a quello del conservatore forte, risoluto e senza dubbi, stende un ramo d’ulivo a
chi, tra i presenti, si è dichiarato pro Trump (il pubblico, ci
spiegherà dopo la proiezione,
è stato selezionato in modo da
evitare «i fanatici»). Stereotipati dai controcampi in primo
piano, gli uomini (tutti bianchi, non giovani e con la pelle
arrossata dal sole) lo guardano
con diffidenza. Lui sa che probabilmente non può convincerli, ma offre empatia. Cita i
problemi economici, la paura,
il senso di inutilità che sentono, ed emette un urlo tra il furioso e il disperato: è «l’urlo del
dinosauro» che scuote i rally di
Trump. «Sono anch’io, come
voi, un dinosauro», dice Moore, beniamino dell’élite liberal
detestata dai trumpisti, che però tiene sempre un’antenna
tra le rovine dell’America post
industriale da dove viene, e
per i cui si battono i suoi film
(era stato, non a caso, insieme
a Michael Cimino, uno dei pochi registi di sinistra ad aver apprezzato/capito American Sni-
per). Dopo il preambolo conciliatorio, un saluto ai millennials («siete una generazione
che non odia. Non abbiamo
nulla da insegnarvi») e dopo
aver inquadrato una cosa che
non si dice mai abbastanza, e
cioè quanto, su quest’elezione, pesi ancora il carico della
misoginia, Moore passa a quello che è veramente il soggetto
del suo film: mobilitare il voto
per Hillary oltre lo spauracchio di Trump. Contestualizzare questa corsa alla Casa bianca aldilà della scelta -per metterla come fa di questi tempi
South Park- tra «un enorme testa di cazzo» (Trump) e «un panino di cacca» (Clinton).
GIGANTOGRAFIE DI HILLARY, giovane e bella, lo circondano sul
palco; a un certo punto ne sentiamo la voce, nell’idealistico
discorso di laurea, fatto a ventidue anni. Nel suo libro del
1996, Downsize This!, Moore aveva dedicato a Clinton, allora
first lady troppo indipendente
e già nemico pubblico numero
uno non solo della destra, un
intero capitolo, My Forbidden Love for Hillary. È a quegli anni, e
alla sua battaglia persa per la ri-
Non possiamo stare a casa
il prossimo 8 novembre.
Sarebbe proprio come
un gesto di narcisismo che
in questo momento non
possiamo assolutamente
permetterci
forma sanitaria, a Pechino, alle crociate per i bambini, alla
rivendicazione di un suo ruolo
politico alla Casa bianca.. che
Moore ci riporta («i giovani
non possono ricordarsi»).
DA PARTE SUA - chiarisce- lui
non ha mai votato per un Clinton (nel 2008 era per Obama e
alle primarie per Bernie Sanders. A Bill aveva preferito una
terza via). A Hillary, non ha perdonato il voto a favore della
guerra in Iraq e trova problematici i suoi rapporti con Wall
Street. Ma, dice nel film, e ha ripetuto dopo la proiezione, questo non gli, e non ci, dà il diritto di stare a casa l’8 novembre.
Sentirsi superiori è, nelle sue
parole, «un gesto di narcisismo» che non ci possiamo permettere. Moore non è un comico da stand up e il suo monologo riesce meno nelle iperboli
(«votiamola perché Hillary è come un Ninja. Isis scapperà dalla paura». O, peggio ancora,
«Hillary potrebbe essere il nostro papa Francesco») che
quando tratteggia Hillary Clinton come una persona che ha
lottato con tenacia e convinzione per degli ideali importanti
e condivisibilissimi. E un politico che andrà allo stesso tempo, appoggiato e criticato. «Come dice Bernie, il nostro lavoro comincia il 9 novembre».
Michael Moore in TrumpLand ,
che uno spettatore ha definito
«una lettera d’amore per Hillary
Clinton», in realtà arriva a dire
poco più di «diamole una chance!». Ma lo fa in modo intelligente, e molto sentito. Il film, uscito
ieri a Ny e Los Angeles, sarà in altre sale tra oggi e le elezioni e
presto disponibile su iTunes.
Moore ha detto che, da qui all’8
del mese prossimo sarà on the
road per incoraggiare il voto.
visioni
giovedì 20 ottobre 2016
«Lepanto» ecco
l’ultimo gangaceiro
GIONA A. NAZZARO
II C’è un’immagine di Ken
Loach che a Cannes affiora
sempre alla memoria non appena la presenza di un suo
nuovo film è annunciata in
concorso. Il regista inglese, seduto in un bar dalle parti del
porto, con la sua squadra di
collaboratori, avvolto da una
nube di fumo quasi impenetrabile (all’epoca si fumava
ancora nei locali pubblici), a
seguire una partita di calcio
su un televisore. Birra, urla, tifo. E i francesi che prendono
in giro l’inglese perché la sua
squadra è sotto di qualche
gol. A ben vedere, il precipitato del mondo di Loach, lontano dalle discussioni cinefile e
politiche. E quella sera, forse
il suo film più bello. E ogni
qual volta i suoi lavori negli
ultimi anni parevano girare a
vuoto, l’immagine di quella
sera lontana si ripresentava
come segno di un cinema che
il regista inglese, pur avendo
sempre il cuore al posto giusto, non riusciva più a fare.
E INVECE su questo nuovo
film con il quale ha vinto la
palma d’oro lo scorso maggio
- Io, Daniel Blake - e che arriva
domani nelle sale italiane,
l’attenzione scatta subito dopo i titoli di testa, quando parte uno dei migliori dialoghi
di sempre del cinema loachiano, quell’inconfondibile stridore fra umorismo disperato
e indignazione, l’attenzione
scatta subito e resta puntata
saldamente sino alla fine del
film. Lui è Daniel Blake. Un falegname che ha subito un infarto e vorrebbe il suo sussidio. La cosa difficile è passare
attraverso la società paramedica (statunitense) cui il governo inglese ha appaltato la
gestione dei lavoratori con disabilità.
Loach è chiarissimo. Il sistema non è dalla parte dei lavoratori. Il sistema è dalla parte
di se stesso. E questo si sapeva. Ci mancherebbe. Daniel,
molto avanti con gli anni, deve compilare moduli on line,
lui che non ha nemmeno un
computer. E ovviamente il
modulo scade sempre prima
che lui riesca ad inviarlo. Le
addette all’ufficio non possono e non devono aiutare i richiedenti in difficoltà. La Tha-
Nella foto Briana Shann e Dave Johns, a destra Fausto Lealifoto di Marco Piraccini
Dentroilsistema
Quelcheresta
dellaclasseoperaia
I nuovi poveri della società in «Io, Daniel Blake», il film
di Ken Loach palma d’oro a Cannes da domani in sala
tcher sarà pure morta, ma il
suo sistema è vivo e vegeto.
Daniel si trova quindi costretto a dimostrare di avere cercato lavoro ma, se cerca lavoro,
non può avere diritto al sussidio. Un comma 22 neoliberista. Loach ritrova il colore ambientale del suo cinema settantesco. I movimenti di macchina essenziali e le inquadrature attente a contestualizzare il conflitto nell’inquadratura con il fuori campo; una vividezza, finalmente di nuovo
capace di graffiare, dovuta alla precisione con la quale il
linguaggio diventa parte integrante della tessitura sonora
del film, sono gli elementi formali che segnalano di una urgenza ritrovata. Il rapporto
che Daniel ha con il suo vicino di casa che non ne vuole sapere troppo di differenziata
dei rifiuti e che s’inventa, in
perfetta coerenza neoliberista, un commercio di sneaker
con un cinese innamorato
perso di calcio britannico, co-
glie alla perfezione la riorganizzazione dal basso di ciò
che resta della classe operaia
britannica e del proletariato
ormai privo di orientamento
che non sia la sua mera sopravvivenza.
LA PRESENZA DI RACHEL, madre con figli a carico alla ricerca di un lavoro, pur inserendosi in un’idea di melò che
ha in Chaplin e De Sica le sue
punte più alte, offre a Loach
la possibilità di tratteggiare
con agghiacciante precisione
Da oggi nelle sale il film
«Lepanto - Ultimo
cangaceiro» il doc di
Enrico Masi (produzione
Caucaso in collaborazione
con Alma Mater
Studiorum), sarà oggi, il 27
ottobre e il 3 novembre al
Cinema Odeon di Bologna
alle 19, per continuare,
quindi, la sua distribuzione
indipendente a Roma,
Milano e Torino. La prima
odierna sarà introdotta
dagli autori e dal critico
cinematografico, saggista
e giornalista Giorgio
Gosetti. Dal 27 ottobre le
proiezioni saranno rese
accessibili alle persone
non udenti, con i
sottotitoli, e non vedenti,
con una app dedicata.
«Lepanto» documenta le
resistenze abitative di un
Brasile che ha ospitato in
pochi anni i Mondiali e
Olimpiadi, eventi che
hanno cambiato per
sempre il volto del Paese.
il quadro di una nuova e atroce povertà. Costretta a servirsi delle cosiddette «food
bank», ossia super market gestiti da volontari dove vengono distribuiti cibo e beni di
prima necessità, tormentata
dalla fame, Rachel letteralmente divora della frutta in
scatola prima di iniziare a singhiozzare sconsolata, tramortita dalla vergogna per la sua
condizione. Un momento altissimo, quasi insostenibile,
lontanissimo da qualsiasi tentazione miserabilista, offerto
con nitore e pudore documentario. In fondo è vero: si
tratta del «solito» Loach.
SOLO CHE IL «SOLITO» Loach
con Io, Daniel Blake ha ritrovato la necessità delle sue opere
migliori. Ed è grazie a film
come Io, Daniel Blake che il
Ken Loach amato una sera
lontana in un pub di Cannes
mentre seguiva una -partita
di calcio, pensando ai tanti
film di routine da lui macinati, torna a coincidere, quasi
miracolosamente, con quella
di un cineasta che in fondo ci
è dispiaciuto non amare più
con il trasporto tributato alle
sue opere migliori.
L’OPERA DI SAINT-SAENS A PARIGI
Oppressi e oppressori per Sansone e Dalila
ilcolpoditeatrogriffatoMichieletto
ANDREA PENNA
Parigi
II Privare la messa in scena
di Samson et Dalila di Saint-Saens del tratto voluttuoso,
orientaleggiante e pompier,
fra le principali cifre musicali
dell’opera, è una scelta radicale gravida di rischi, che può
generare un contrasto insanabile fra scene e contenuti profondi dell’opera. Questo sembrerebbe al primo impatto
l’inconveniente principale
dello spettacolo di Damiano
Michieletto,
in
scena
all’Opéra Bastille fino al 5 novembre.
Imperniato sull’imponente scena di Paolo Fantin, citazione fra Mies van der Rohe e
Neutra resa minacciosa dalle
luci di Alessandro Carletti, lo
spettacolo propone un contrasto tutto contemporaneo fra
oppressi e oppressori, in cui
scolorano le identità dei popoli: «ho preferito far emergere
il
cuore
problematico
dell’opera – spiega Damiano
Michieletto - il tema dell’oppressione e della schiavitù.
Un popolo che celebra la propria forza, trionfando con la
violenza su un altro popolo
oppresso e su un uomo accecato, ma anche obbligando
Dalila, vittima del Gran Sacerdote, a vendere il proprio
Ho fatto emergere il cuore
dello spettacolo, un popolo
che celebra la propria
forza trionfando con
la violenza su un altro
popolo in schiavitù,e un
uomo accecato dall’odio
amore». Si fondono in questo
modo i due profili, quello dello scontro storico-politico e la
storia d’amore fra i protagonisti in una visione in cui gli
ebrei oppressi sono appena riconoscibili e i filistei sono genericamente dei violenti paramilitari contemporanei. Un
colpo di teatro efficacissimo
nel terzo atto permette a tutto il portato dell’esotismo di
riemerge prepotentemente:
il baccanale si trasforma in
un ballo in maschera-orgia degno del Caligola di Tinto Brass,
conferendo quindi un taglio
grottesco e inedito all’intera
scena.
Dalila ritrova allora le sue
vesti da sacerdotessa, quasi
una diva di quel cinema muto
per cui Saint-Saens fece in
tempo a scrivere una celebre
colonna sonora. La donna rinuncia nel finale alle sue prerogative di vincitrice per aiutare Sansone nella sua ultima, immane, catartica impre-
Scena da «Sansone e Dalila»foto di Vincent Pontet-OnP
sa, la distruzione del tempio
di Dagon, con una scena di notevole profilo spetttacolare.
«Dalila – precisa Michieletto scopre attraverso il gesto di
Sansone, che nel mio spettacolo si taglia spontaneamente i capelli per amore, che in
lui c’è qualcosa d’altro oltre alla potenza guerresca; da quel
momento apre gli occhi sulla
sua condizione e decide di stare dalla parte del vinto».
Michieletto ha saputo ottenere una volta di più la piena
partecipazione delle masse
corali e dei protagonisti: Anita Rachelishvili, una Dalila
ammaliante e applauditissima ma anche il ruvido Gran
Sacerdote di Egils Silins e il
Sansone ben cantato di
Alexandrs Antonenko, che rispetto a altre prove teatrali è
sembrato più coinvolto e presente sulla scena. Molto ben
equilibrato il rapporto fra buca e palcoscenico, grazie alla
tenuta sicura del direttore
Philippe Jordan, che imprime
alla narrazione un passo spedito ma assicura alle voci un
accompagnamento attento e
mai soverchiante. Successo
pienissimo con un vero trionfo per Dalila.
13
INCONTRI
GliamiciLeali
DuettitraNapoli,
Beatleseilblues
STEFANO CRIPPA
II Il timbro è sempre quello
come l’emissione vocale, potente. Ugola inossidabile si direbbe. «Beh, se non fosse così spiega Fausto Leali, classe 1944
- avrei tirato i remi in barca da
molto tempo». E invece programma concerti, tour e
un’ipotesi sanremese: «Il pezzo c’è, è forte, ma le variabili sono tante...» e torna anche a incidere un disco sette anni dopo
l’ultimo album in studio. Non
solo Leali - in uscita domani per i
tipi della Carosello (distribuzione Universal) - è il suo primo di
duetti. «Sì, ma ho voluto evitare i cliché del genere. Me l’ha
suggerito Mina da cui è partito
tutto. Mi ha detto che era inutile cantare i propri pezzi e invece era meglio concentrarsi su
brani altrui. Lei mi ha proposto
A chi mi dice dei Blue, nella traduzione italiana di Tiziano Ferro. È quello che preferisco». Di
impatto, certamente, ma la vera sorpresa è il confronto con
Francesco De Gregori sulle note di Sempre per sempre: «È un
brano molto dolce giocato
sull’emozione, e credo che il
contrasto tra le voci sia la sua
forza aggiunta».
Leali e la canzone napoletana, un filo che si riavvolge partendo da Vierno - classico del
1946 di Acampora e De Gregorio - inciso una prima volta nel
1975 e ora ripreso con «l’amichevole partecipazione» del
rapper Clementino: «Mi sembrava la ’voce ’giusta: il pezzo è
drammatico e il suo parlato si
inserisce perfettamente nella
metrica. È coinvolgente e attuale». Solo lei è stata scelta per una
storia particolare: è un brano
provinato da Claudio Baglioni,
ma destinato a Leali: «Poi quando Claudio mi ha invitato a
Lampedusa sei anni fa per
O’Scià, gli ho proposto di fare
quel pezzo. Era inevitabile che
alla fine lo incidessimo insieme per questo disco».
Una vita per la musica: «Da
cinquant’anni canto A chi nella
stessa tonalità, non voglio abbassarla anche se magari mi capita di fare venti concerti al mese. Così come ho fatto per le
tracce del nuovo lavoro». Gavetta tanta: «Nei locali e poi con i
Novelty, facevo blues e amavo
la musica inglese». E i baronetti, i Beatles, sopra ogni altra cosa: Leali è tra gli artisti che aprono i concerti italiani dei Fab
Four nel 1965: «Un’emozione
incredibile, ma non ero solo.
Gli organizzatori avevano dovuto reclutare diversi artisti
perché i Beatles avevano firmato un contratto per soli 12 pezzi, 30 minuti di esibizione.
C’ero io, i New Dada, Peppino
Di Capri, che è stato fondamentale non solo sul palco ma anche perché aveva filmato alcune esibizioni di McCartney &
co. La Rai li aveva ignorati...».
community
14
direttore responsabile
Norma Rangeri
condirettore
Tommaso Di Francesco
desk
Matteo Bartocci, Marco Boccitto,
Micaela Bongi, Massimo Giannetti,
Giulia Sbarigia
consiglio di amministrazione
Benedetto Vecchi (presidente),
Matteo Bartocci, Norma Rangeri
il nuovo manifesto
società cooperativa editrice
redazione, amministrazione
via Angelo Bargoni 8, 00153, Roma
fax 06 68719573, tel. 06 687191
e-mail redazione
[email protected]
e-mail amministrazione
[email protected]
sito web
www.ilmanifesto.info
iscritto al n.13812 del registro stampa
del tribunale di Roma
autorizzazione a giornale murale
registro tribunale di Roma n.13812
il manifesto fruisce dei contributi
statali diretti di cui alla legge
07-08-1990 n. 250
Pubblicazione a stampa:
ISSN 0025-2158
Pubblicazione online:
ISSN 2465-0870
abbonamenti postali per l’italia
annuo 320 € - semestrale 165 €
versamento con bonifico
bancario presso Banca Etica
intestato a “il nuovo manifesto
società cooperativa editrice”
via A. Bargoni 8, 00153 Roma
IBAN:
IT 30 P 05018 03200 000 000153228
copie arretrate
06/39745482 - [email protected]
STAMPA
RCS PRODUZIONI SPA via A. Ciamarra
351/353, Roma - RCS Produzioni
Milano Spa via R. Luxemburg 2,
Pessano con Bornago (MI)
concessionaria esclusiva pubblicità
poster pubblicità srl
e-mail
[email protected]
sede legale, dir. gen.
via A. Bargoni 8, 00153 Roma
tel. 06 68896911, fax 06 58179764
tariffe delle inserzioni
pubblicità commerciale: 368 €
a modulo (mm43x11)
pubblicità finanziaria/legale: 450 €
a modulo finestra di prima pagina:
formato mm 60 x 83, colore 4.550 €
posizione di rigore più 15%
pagina intera: mm 278 x 420
mezza pagina: mm 278 x 199
diffusione, contabilità, rivendite,
abbonamenti:
Reds, rete europea distribuzione
e servizi
viale Bastioni Michelangelo 5/a
00192 Roma
tel. 06 39745482, fax 06 83906171
certificato
n. 8142
del 06-04-2016
chiuso in redazione ore 22.00
tiratura prevista 35.530
Inviate i vostri commenti su
www.ilmanifesto.info
[email protected]
I bambini ci parlano
Sul
ritorno
a scuola
GIUSEPPE CALICETI
O
ggi è il vostro primo giorno di scuola in classe
terza. Mi dice, sinceramente, se avevate voglia di tornare a scuola o se, come me,
avreste preferito fare qualche
giorno di vacanza in più? «Io
avrei preferito una settimana in
più, invece di qualche giorno!
Anzi, un mese di vacanze in più!
Un anno!». «A me invece piaceva
l’idea di tornare a scuola». «Anche a me. Io avevo proprio vo-
Con il cappello in mano
Come dice Norma Rangeri
(editoriale di ieri) «Certo, quando
Alcide De Gasperi, dopo la guerra,
andò negli Stati uniti con il cappello
in mano a ringraziare per gli aiuti del
Piano Marshall, erano altri tempi».
Ma quel cappello lo abbiamo
ancora in mano e anche il capo
chino. Dal '46 in poi il ruolo
dell'Italia è sempre stato
subalterno anche se con alcuni
distinguo, ma non siamo mai stati
in grado di diventare dei veri alleati
e abbiamo continuato a essere
sudditi, rigirando sempre il
cappello tra le mani. Il 4 dicembre
si avvicina e anche se sono
fiduciosa che i cittadini italiani
saranno saggi, una certa
inquietudine è quasi obbligatoria;
mai dare nulla per scontato.
Voterò No come ho votato No al
precedente tentativo
berlusconiano di massacrare la
nostra Costituzione; spero che gli
italiani non cerchino alibi e siano
capaci di comprendere l'impatto
tremendo che questa riforma avrà
sulle nostre vite; questo non è
riformare ma semplicemente
l'ennesimo tentativo di
concentrazione di potere, legato a
interessi privati e mai pubblici. Io
credo che ancora una volta
possiamo dimostrare, almeno noi,
di essere cittadini attivi e non
sudditi.
Tiziana Pompili Roma
Dissoluzione civile
L’intervento di Gianandrea Piccioli
«Con la morte della politica il crollo
morale della società», pubblicato
dal Manifesto il 19 ottobre,
contiene molti spunti interessanti;
un’osservazione in particolare mi
pare vada sottolineata. Quando si
afferma che le parole della politica,
anche della nostra politica, persino
il No al referendum non coagulano
più. E’ vero e questo avviene non
soltanto per l’insufficienza delle
soggettività organizzate in campo,
ma perché il trascinamento
dell’«autonomia del politico» sul
quale si basa il rapporto con la
società oggi ha completamente
trascurato un dato di fondo che
emerge e che sta a monte di
questa situazione, generandola. Ci
troviamo, infatti, in una fase di
scivolamento verso una sorta di
«dissoluzione civile» provocata da
un arretramento culturale di
grande portata che attraversa
trasversalmente la società
moderna. Emergono, infatti,
retaggi di un nazionalismo molto
simile a quello che generò il
colonialismo degli anni’30;il
tentativo di far tornare la
condizione della donna a quella di
«fattrice» generante gli 8 milioni di
baionette; l’inesistenza di una
elaborazione di politica estera; una
visione della politica del lavoro
intesa soltanto nei termini di
sfruttamento e precarietà;
glia. Perché ero stanca di stare a
casa». «Anche io. Perché poi è già
da un mese che io e la mia famiglia siamo tornati dalle vacanze
al mare e non vedevo l’ora di venire a scuola». «Anche io sono
felice di essere tornato a scuola
perché a casa mi annoiavo”. “Io
volevo stare a casa». «A me le vacanze piacciono molto all’inizio,
dopo no». «Anche a me non mi
piaceva stare ancora in vacanza
perché se guardo tutto il tempo
la tv dopo mi annoio». «A me
piacciono le vacanze quando
viaggi, quando vai al mare, ma
dopo, quando sei a casa, non
sono molto belle e allora preferisco la scuola perché mi diverto di più. L’unica cosa brutta è
che ci sono anche i compiti da
fare». «Anche per me le vacanze sono troppo lunghe». «A me
invece piaceva di più stare in
vacanza perché facevo quello
giovedì 20 ottobre 2016
fotonotizia
Orso marsicano
ucciso a Roccaraso

Un orso marsicano è stato
investito e ucciso sulla statale
17 nei pressi di Roccaraso
(AQ), verosimilmente da un tir
che non ha dato l’allarme. La
strada costeggia il parco
nazionale della Majella (Pnalm)
in Abruzzo, dove vivono circa
50 orsi, e non è nuova a
incidenti simili. L’associazione
«Salviamo l’orso» critica Anas
e regione per non garantire la
sicurezza di animali e persone.
Secondo l’associazione «negli
ultimi 10 giorni ben 2 cervi
sono stati investiti da auto poi
ridotte in lamiera». Mentre a
gennaio fu ferito un intero
branco. Nel 2010 un altro orso
trovò la morte sulla stessa
strada. (foto Pnalm)
SULLA CONDANNA A 30 ANNI DELLA MAMMA DI LORIS
Veronica era «capace di intendere e di volere»?
Veronica Panarello, la madre siracusana accusata di aver ucciso il figlio Loris di otto anni, è
stata condannata a 30 anni di reclusione per
aver commesso il fatto di cui era accusata, essendo capace di intendere e di volere.
Di fronte ad una sentenza come questa o ad
altre simili, mi chiedo: ma quale essere umano che ammazza un altro essere umano (in
questo caso addirittura il figlio) può essere giudicato «capace di intendere e di volere», almeno nel momento in cui compie un tale delitto?
Qui – sia bene inteso – non è da mettere in discussione la pericolosità sociale della madre
di Siracusa (se veramente colpevole del delitto
che le viene ascritto), né di tutti quelli che
commettono delitti simili al suo o anche meno atroci del suo. È del tutto evidente per me
che tali persone vanno messe nelle condizioni
di non poter reiterare simili azioni. In questo
io non mi sento affatto un buonista e meno
che mai un lassista. Anzi! Ci tengo però a dire
l’annullamento delle autonomie
territoriali. Questi elementi hanno
provocato un imbarbarimento
complessivo su diversi piani
tagliando «a fette» l’identità sociale,
così la politica ha perso di
significato e si è ridotta agli annunci
senza entrare mai in contatto con
la realtà viva dell’agire quotidiano.
Franco Astengo
Il Sì a caccia di ex
Sono indignata per la notizia
apparsa sul giornale il 13/10, «Il Sì a
caccia degli ex». Non pensavo si
arrivasse a tale scempio della
storia , della memoria, del
presente.
Come militante attiva, non
dimentica del passato cui ho
partecipato con impegno e gusto
che volevo e giocavo con gli
amici che volevo». «Io no, io
preferisco la scuola, preferisco
venire qui a scuola».
Facciamo una votazione: alza
la mano chi questa mattina aveva voglia di tornare a scuola. Bene, adesso alza la mano chi invece avrebbe preferito fare qualche giorno di vacanza in più.
Dunque, i risultati dicono che la
maggioranza della classe aveva
voglia di tornare a scuola. Come
è possibile? Mi spiegate meglio
perché? «Ma perché a scuola ci
sono gli amici!». «Io volevo solo
due o tre giorni di vacanza in
più». «Anche io. Preferivo venire
a scuola in un giorno in cui pioveva, non un giorno in cui c’è il
sole come oggi. Perché oggi potevo andare a giocare». «Io avevo
così voglia di venire a scuola che
questa notte non ho dormito.
Ero emozionata. Mi mancavano
con forza che il giudizio che spesso viene
emesso dai periti psichiatrici dopo delitti simili, «capace di intendere e di volere», è del tutto
sballato e infondato. Anzi a volerla dire tutta –
se il termine non fosse stonato in contesti simili – è addirittura ridicolo. Ma quale essere
umano «pienamente in grado di intendere e
di volere» sarebbe capace di togliere la vita ad
un suo simile? A meno che per «capacità di intendere e di volere» non si intenda la pura capacità intellettiva di eseguire delle operazioni
logiche e di far seguire ad un ragionamento
un’azione meccanica operativamente congrua. Ma questa è una definizione molto limitata, parziale, direi rozza, della personalità
umana comunemente definita come sana.
Che non tiene per nulla conto dell’insegnamento, oramai antico più di un secolo, proveniente dalla psicoanalisi e dal suo fondatore,
che ebbe a dire, a proposito dell’inconscio,
che nessun individuo è mai veramente padro-
della lotta, chiedo che si formuli un
manifesto del no.
Oppure che si porti a conoscenza
dei giovani che dal ‘68 non potrà
mai nascere un tale vergognoso
uso pubblico della storia e della
memoria, uso asservito al potere
che ieri come oggi smascheriamo
con la conoscenza e dissacriamo
con l’ironia e lo sberleffo (in ricordo
di Dario Fo).
Maria Teresa Gavazza
Quargnento (Al)
ne in casa propria. Neanche il più sano o il più
«normale» che dir si voglia. Con questo cosa voglio concludere: una persona che commette
un delitto deve essere lasciata libera come se
egli non lo avesse mai compiuto? Niente affatto! Significa solo cambiare radicalmente l’approccio al tema della colpa, del reato e della
sanzione ad essi collegata. Significa, ad esempio, che ad una madre come quella di Siracusa
(o come quella di Cogne, che anni fa commise
analogo delitto) non le si può appioppare semplicemente la pena di 30 anni di carcere. Vuol
dire che, di fronte a delitti simili, ci si pone il
problema innanzitutto di comprendere cosa
può succedere nella testa (e nel cuore) di un essere umano quando compie azioni così inumane e in secondo luogo di mettere in atto le azioni terapeutiche possibili per provare (se non
altro provare) a recuperarlo sul piano psicologico, prima ancora che morale.
Giovanni Lamagna
Diritto di voto
Vorremmo segnalare il mancato
rispetto del diritto di voto che
subiremo in occasione del
prossimo referendum
costituzionale. Siamo da due anni
nel percorso dell’adozione
internazionale che si è felicemente
concluso con la nostra prossima
partenza per un soggiorno di due
mesi in Cile, al termine del quale
torneremo con due meravigliosi
bambini. Naturalmente, la serenità
della nostra futura famiglia ci sta a
cuore tanto quanto la serenità del
paese in cui vivremo. Per cui
vorremmo – come speriamo
milioni di altri - votare un netto No
alla riforma autoritaria del governo
Renzi. Abbiamo chiamato di
conseguenza il Ministero degli
Affari Esteri per sapere come poter
votare dal Cile e abbiamo scoperto
che la possibilità di voto è
riconosciuta alle persone
«temporaneamente all’estero»
solo se la permanenza è di almeno
3 mesi e per motivi di lavoro, studio
i miei amici e le mie amiche. Avevo voglia di rivederli». «Beh, per
me la maggioranza voleva venire a scuola perché eravamo di
più che volevamo venire a scuola: è quella la maggioranza».
«E’ possibile perché i grandi
non lo capiscono, non sono
bambini e allora non sanno
niente di queste cose della scuola e dei bambini». «Perché a
scuola c’è più movimento». Perché a scuola ci sono più cose da
fare, a casa invece meno».
Qualcun altro, questa notte,
ha avuto problemi a dormire
bene? «Io ho dormito benissimo.
Solo che avrei voluto dormire di
più. Ho avuto problemi solo al
mattino, quando era ora di alzarsi. Perché avrei voluto continuare a dormire». «Anche io ho avuto qualche problemino ad alzarmi perché durante le vacanze
mi ero abituato a dormire di più,
al mattino, invece adesso che
sono ricominciate le scuole mi
dovrò ancora abituare ad alzarmi presto e dormire meno». «Io
adesso devo andare a letto più
presto alla sera, per svegliarmi
prima alla mattina: me lo ha detto mia mamma». «Io ho dormito
benissimo». «Io mi svegliavo
ogni ora, ma era sempre notte.
Mi svegliavo perché avevo paura
di arrivare tardi a scuola». «A me
la notte è passata benissimo, è la
mattina che iniziata male!». «Io
ero un po’ emozionata ma mi
sono svegliato non in ritardo
perché mia mamma aveva messo la sveglia». Mi dite altri motivi
per cui avevate voglia di tornare
a scuola, naturalmente chi ne
aveva voglia? «Perché i miei genitori dovevano andare a lavorare
e non avevamo tempo di giocare
con me e allora io mi stancavo».
«Anche io mi stancavo a stare
o cure mediche. Quindi noi siamo
esclusi! Siamo rimasti senza
parole. Ad aggravare il fatto – già di
per sé impensabile in una moderna
democrazia – le risposte
inaccettabili del funzionario del
ministero a cui abbiamo chiesto
chiarimenti. Si commentano da
sole: “e allora facciamo votare
anche chi va in vacanza?” “in alcuni
paesi il voto dei temporaneamente
all’estero non esiste”. La nostra
indignazione è doppiamente alle
stelle. Per la parzialità della legge
parziale sul diritto di voto all'estero
e per i toni ormai sempre più
costantemente sprezzanti da parte
delle istituzioni e di chi le
rappresenta nei confronti di
persone e diritti.
Marco Bersani e Federica Battellini
sempre da solo o con mio cugino». «Perché a scuola c’è sempre
qualcuno con cui parlare o che ti
ascolta, per esempio un tuo amico o la maestra, invece a casa
no». «Perché dopo le vacanze,
per me è giusto ritornare a scuola». «Perché è più bella la scuola».
«Perché ci sono più persone, più
amici, più bambini. Poi il cortile
è più grande e c’è anche la mensa e si mangia tutti insieme e per
me è bellissimo». «Per me io avevo voglia di venire a scuola perché se fai sempre la stessa cosa,
per esempio se fai sempre la
vacanza, è logico che dopo non
hai più voglia di fare la vacanza
e hai voglia di fare un’altra cosa». «Per gli amici». «Perché a
scuola ci sono le sedie e i banchi
proprio per noi, per la nostra
altezza. Poi ci sono anche dei
giochi. Poi c’è anche la palestra
e noi ci andiamo».
community
giovedì 20 ottobre 2016
15
Glieffettiinvisibilidelsensodicolpa
nellacrisipiùlunga
TONINO PERNA
— segue dalla prima —
II Stan O’ Neal, Ceo della Merill Lynch licenziato nell’autunno del 2007 in seguito al crollo in borsa della società, ricevette una liquidazione di 161
milioni di dollari. Charles
Prince capo della potente City
Group costretto alle dimissioni dopo aver portato la società
vicina al fallimento, ricevette
una liquidazione di 140 milioni di dollari.
Molti di noi hanno pensato
che con il crollo delle Borse,
con il licenziamento in massa
degli operatori finanziari
(150mila solo a New York),
con gli evidenti effetti collaterali sull’economia reale, il sistema capitalistico mondiale
dovesse cambiare rotta. Invece dopo 10 anni osserviamo
che la capitalizzazione nelle
principali Borse del mondo è
tornata a livelli superiori al
2007, il debito pubblico e privato (Stato, famiglie e imprese) è arrivato al 265% del Pil
mondiale (con un incremento
del 35%) ed in particolare cresce il debito statale, impropriamente chiamato "sovrano", di oltre 20 mila miliardi
di dollari. Insomma, tutto è
tornato come prima e peggio
di prima nel mondo della finanza.
Come è ormai evidente questa crisi non è paragonabile a
quelle precedenti: ha provocato una accelerazione nella diseguale distribuzione di redditi, patrimoni, potere; ha impoverito una buona parte della
popolazione mondiale, compresi i paesi occidentali industrializzati che hanno visto
per la prima volta una forte riduzione dei ceti medi.
Conosciamo gli effetti nefasti sull’occupazione, sulla crescita del disagio sociale, sul taglio dei servizi pubblici, sul
crollo degli investimenti, ma
non abbiamo ancora preso atto dei segni profondi che questa crisi ha lasciato, «segni invisibili» che le statistiche non
registrano, ma che possiamo
cogliere nei mutamenti culturali, nelle visioni del mondo,
nell’agire quotidiano. Ha ragione Roberto Esposito quando afferma che «la crisi economica degli ultimi anni è diven-
— segue dalla prima —
REFERENDUM
La nostra debolezza
sullo scacchiere
americano
LUCIANA CASTELLINA
S
ostenere Renzi nel momento in cui deve affrontare Bruxelles sulla finanziaria, avrebbe potuto implicare una utile critica
alla politica dell'austerity. E
così infatti la cosa è stata presentata. Ma quanto il presidente americano ha lodato
in Renzi può esser difficilmente presentato come
un'alternativa all'infausta
linea ordoliberista, perché
Antony Gormley, "Learning to think"
tata biopolitica nel senso che
impatta fortemente con la vita delle persone».
Come docente universitario ho vissuto sia nel contatto
con i miei studenti, sia attraverso delle ricerche sul campo, il dramma della inoccupazione giovanile, dei Neet (Not
employement, education, training) ed ho percepito come prima cosa che i giovani laureati,
ed anche "masterizzati" o "dottorati", abbassavano di anno
in anno le loro aspettative. Anche a livello nazionale, in alcune ricerche sulla condizione
giovanile, emerge come i giovani ( dai 18 ai 35 anni) tendano ad accontentarsi quando
riescono ad avere un lavoro,
magari malpagato, e che alcuni si sentono dei fortunati e
privilegiati solo perché sono
riusciti a vincere un concorso
pubblico, magari per una
mansione dequalificante e
con uno stipendio, che in una
grande città, ti consente appena di sopravvivere. In questo
senso si può dire che la crisi
economico-finanziaria ha avuto un carattere "disciplinante" nell’accezione di Foucault,
ha abbassato le aspettative e
quindi ha permesso di ridurre
i diritti sociali senza che ci fossero delle grandi rivolte popolari (eccetto che in Francia, dove questi diritti erano storicamente più radicati). Chi viene
sfruttato e maltrattato sul luogo di lavoro si lamenta, ma
poi aggiunge «meglio di niente: almeno io un lavoro ce
l’ho».
anzi è apparso come l'incoraggiamento a perseguirne
la sostanza: il Job Act, l'abolizione dell'articolo 18, e dunque l'estrema precarizzazione del lavoro. E proprio nelle stesse ore in cui venivano
resi pubblici i dati sull'aumento esorbitante dei licenziamenti senza giusta causa
che "le riforme" hanno prodotto.
Senza dimenticare l'accenno al famoso Ttip, il trattato
per la liberalizzazione degli
scambi transatlantici che la
Francia ha rifiutato (e che
incontra ancora molte sacrosanta ostilità a livello europeo), e cui, invece, il disciplinato governo italiano ha
aperto le porte. Un accordo
che darebbe un colpo mortale proprio all'autonomia europea per quanto di meglio
ancora conserva.) Nel plauso
di Obama c'è anche il ringraziamento per il pronto servizio offerto dall'Italia, inviando 450 soldati nientemeno
che in Lettonia, per presidiare le nostre frontiere occidentali dall'invasione dei
cosacchi.
Una Europa più forte e disciplinata nell'attuale contesto serve ad Obama, oggi criticato per le sue "debolezze"
in politica estera. Ma difficilmente mira a creare l'Europa di cui avremmo bisogno
noi europei; e anche il mondo. Obama in realtà si trova
oggi alla testa dell'insensato
rilancio della guerra fredda,
che arriva del resto dopo l'altrettanto insensato e pericolosissimo accerchiamento
della Russia operato dalla
Nato sin dall'indomani della
La crisi economica
ha avuto un profondo
effetto disciplinante.
Ha abbassato difese
e aspettative permettendo
di ridurre i diritti sociali
senza grandi rivolte
caduta del Muro. Se oggi a
Mosca comanda Putin è anche perché è quella strategia
che ha stimolato le peggiori
reazioni di un paese cui l'Europa avrebbe dovuto invece
aprire le porte.
In realtà questo incontro
Renzi-Obama dovrebbe preoccupare. Se il presidente
americano avverte la necessità di ricorrere ad una politica estera più aggressiva vuol
dire che cresce l'escalation in
favore di una rischiosissima
più dura competizione fra le
potenze mondiali. Purtroppo è la linea di cui si fa portavoce Hillary Clinton ( che
siamo costretti a preferire a
Trump). E che Obama è costretto a favorire.
Lo spot propagandistico
di Renzi a Washington è ovviamente parte della batta-
Ho visto una condizione simile, per la prima volta in vita
mia, nel Cile di Pinochet nel
1986, quando ero in quel paese. Una sera un taxista che mi
accompagnava a casa di compagni cileni mi raccontò il fallimento della azienda dove lavorava: «Ero un lavoratore superfluo ed ho dovuto trovarmi un altro lavoro e per fortuna ho trovato un padrone che
mi affitta il suo taxi». Mi è rimasto impresso il suo senso
di colpa , si era convinto che il
licenziamento fosse giusto,
che lui fosse il colpevole, come nelle culture premoderne
lo erano ( e lo sono ancora in
alcune aree del mondo) le persone disabili che vivevano
l’handicap come l’espiazione
per un peccato commesso.
glia referendaria. C'è chi lo
userà per dire che la vittoria
del No sarebbe non solo una
catastrofe per l'Italia ma anche - "vedete cosa ha detto
Obama?" - per il mondo. Sarà dunque ancor più necessario insistere nel rispondere
ai non pochi che pur condividendo le ragioni del No, sono stati convinti che una sua
eventuale vittoria porterebbe ad una pericolosa destabilizzazione del Pd, lasciando
spazio alla destra (o ai 5 Stelle). Credo sia davvero il contrario: se non si costruisce
una reale alternativa al pericolo di un accentuato autoritarismo e alla deriva liberista e iperatlantica cui sta portando, non si farà che dar
spazio alle forze antisistema. In Italia come altrove in
Europa. Che proprio dal ve-
I «segni invisibili» della crisi
li possiamo cogliere anche in
una maggiore indifferenza
verso i migranti e le guerre. E’
quella «indifferenza globalizzata» denunciata da papa Francesco. Cammina nei discorsi
sul treno, al bar, o al ristorante, tra persone estranee quanto tra gli amici più cari. E’ il
frutto di un profondo senso di
impotenza che questa crisi ha
rafforzato. Dalla finanza è
transitata all’economia reale,
segnando paradossalmente il
trionfo del pensiero unico: il
mercato è l’unica salvezza;
non è possibile modificare
questo modello di sviluppo capitalistico; i paesi del socialismo reale sono crollati e i comunisti cinesi e vietnamiti si
sono salvati dal crollo e dalla
perdita del potere convertendosi al turbo capitalismo.
Aldilà di una possibile ripresa economica (piuttosto improbabile) i segni della crisi resteranno per molto tempo, a
segnare la forza del neoliberismo trionfante. Non è tanto e
solo la concorrenza che ha scatenato tra lavoratori sempre
più precarizzati, tra disoccupati ed immigrati, è il processo di interiorizzazione e di colpevolizzazione. L’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di là delle nostre possibilità, che abbiamo esagerato
nel welfare, nella spesa pubblica, nello Stato sprecone (vedi la necessità strombazzata
di una spending review). Pertanto il debito insostenibile dello
Stato- che è cresciuto iperbolicamente per salvare le grandi
banche- è colpa nostra, la perdita di competitività delle nostre imprese è colpa nostra,
dei lacci e lacciuoli che le leggi impongono (come lo Statuto dei lavoratori).
Chi vuole costruire un’alternativa economica e politica,
non può non fare i conti con «i
segni invisibili» della crisi penetrati nelle nuove generazioni, insieme alla paura del futuro. Una visione del mondo che
è antitetica all’idea di progresso sociale, alla inevitabile evoluzione
sociale
positiva
dell’umanità, che ha accompagnato il pensiero socialista,
marxista, anarchico per due
secoli.
nir meno della partecipazione politica della gente, dalla
mortificazione dei movimenti, dalla demonizzazione dei corpi intermedi e dei
contropoteri che rappresentano, dalla marginalizzazione della dialettica democratica che ne deriva, traggono
in definitiva vantaggio.
L'alternativa immediata,
in termini di governo, forse
non c'è. Ma rinviare il processo capace di costruirla non
fa che deteriorare il terreno
su cui dobbiamo misurarci.
E' pericoloso, potremo vedere compromesse per un tempo assai lungo le nostre prospettive. In pericolo è oggi il
tessuto democratico, e nessuna sinistra - e neppure un
centrosinistra - può prosperare in una simile situazione.