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Lc 18,9-14
9Disse
ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e
disprezzavano gli altri: 10"Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro
pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché non sono
come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due
volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo". 13Il pubblicano invece,
fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo:
"O Dio, abbi pietà di me peccatore". 14Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua
giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato".
La parabola presentata oggi da Luca, è l'unica raccontata nel Tempio di Gerusalemme, il
luogo più santo per Israele. E' importante tenere presente a chi Gesù rivolge questa
parabola, per evitare di identificarci immediatamente con il pubblicano e meno con il
fariseo: Gesù racconta la parabola ad alcuni, non a tutti, che si reputavano giusti e
disprezzavano gli altri. Gesù rivolge il suo insegnamento a quanti hanno eccessiva fiducia
in se stessi (16,15; Mt 5,20) perché si ritengono giusti davanti a Dio e agli uomini (Pr 30,12;
2 Cor 1,9), e per di più, sempre con giudizio sommario e squalificante, disprezzano «gli
altri», tutti gli altri, perché considerati inferiori sul piano spirituale e morale (Is 65,5).
I protagonisti della scena sono: un fariseo Φαρισαῖος Pharisaios, e un pubblicano τελώνης
telónés. Ricordo che i farisei erano i perfetti osservanti della legge, e le loro principali
preoccupazioni erano quelle di mantenersi ritualmente puri e per questo avevano
costituito, addirittura, delle cooperative alimentari, per essere sicuri che il cibo che
mangiavano fosse stato trattato secondo le regole di purezza e, soprattutto, che per ogni
cosa che compravano e mangiavano fosse stata pagata la decima. Che cos’è la decima?
Nella Bibbia, la decima (in ebraico ‫מעׂשר‬, ma‛ăśêr, in greco δεκάτη, dekatē) era una tassa
imposta sugli agricoltori e allevatori di bestiame della decima parte dei prodotti del suolo
e del gregge per sostenere i Leviti e i sacerdoti. (Levitico, 27,30-32). Di fatto era una specie
di "tangente" che, nell'Antico Testamento, bisognava versare al Tempio per il
mantenimento del medesimo e di tutti quelli che vi esercitavano un ufficio. Hai dieci
alberi? Uno è per Dio. Hai dieci pecore? Una è per Dio. La decima è ciò che l’uomo deve a
Dio. Naturalmente, offrire a Dio una capra è impossibile e allora c'erano i sacerdoti che si
dicono incaricati di riscuotere la parte di Dio. I farisei che, ripeto, erano i pii osservanti
1
dell’epoca, stavano attenti soprattutto all’osservanza scrupolosa del riposo dello ָּ‫תשַׁב‬
shabát (Sabato), ritenuto il più grande dei precetti.
Il termine fariseo, lo sappiamo, significa "separato". Separato da che? Separato dal resto
della gente. Il fariseo era chi metteva in pratica, nella vita quotidiana, i 613 precetti che
erano stati estrapolati dalla legge di Mosè, e stava meticolosamente attento a non
infrangere nessuno dei 1.521 divieti di lavori da compiere nel giorno di sabato, e
soprattutto aveva un’attenzione maniacale rispetto a ciò che era puro e ciò che era impuro,
cioè non conforme alla legge mosaica. Questo era il fariseo, un professionista del sacro e
della religione ed era il più osservante della legge.
Chi è il pubblicano? E' l'assoluto opposto del fariseo! Al tempo di Gesù la riscossione del
dazio era assegnata in appalto dall'impero di Roma.
Chi offriva di più riceveva la
riscossione del dazio, ma i prezzi erano aumentati dai dazieri, autentici strozzini.
Il
pubblicano, daziere, era una persona normalmente avida, un imbroglione, un ladro e per
di più a servizio degli invasori romani, per cui immensamente "impura".
Ebbene al tempo di Gesù, non c’era categoria più spregevole dei pubblicani. Si pensava
che questa categoria fosse macchiata indelebilmente con il marchio d'impuro per cui,
anche se un domani il pubblicano avesse voluto convertirsi, per lui non ci sarebbe stata
speranza, perché la legge prescriveva che avrebbe dovuto restituire 4 volte tanto quello
che aveva rubato. Come avrebbe fatto il pubblicano ad andare in cerca di tutte le centinaia
di persone che erano passate attraverso il dazio e che lui aveva imbrogliato? L'impurità del
pubblicano era equiparata a quella dei lebbrosi, al punto che era impuro il bastone con il
quale controllavano le merci, non potevano entrare in un'abitazione altrimenti la casa era
tutta contaminata, era impuro tutto il loro abito ecc. Se accidentalmente ci si sfregava con
l’abito di un pubblicano, bisognava andare a lavare con l’acqua bollente tutti i tuoi vestiti.
Nonostante la legge proibisse di giurare il falso, era permesso farlo per sottrarsi all’avidità
di questi personaggi. Questo è il pubblicano. Da questi esempi, comprendiamo che Luca,
mettendo in scena questi due personaggi, ci presenta i due poli opposti: il più vicino e il
più lontano da Dio.
Mi pare importane fare un'altra considerazione. Spontaneamente ci viene più facile
identificarci con il pubblicano piuttosto che con il fariseo. Il fariseo, però, non è una
persona cattiva; lui osserva scrupolosamente la legge, paga la decima su tutto e, sapendo
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che molti contadini facevano un po' i furbi, paga più di quello che era richiesto per
appianare il non versato all'erario del Tempio. Il pubblicano, viceversa, è un vero
delinquente, perché non solo riscuoteva le tasse per i romani, ma la percentuale che
applicava per sé stesso era da strozzino! Incurante delle norme morali, viveva da
dissoluto, contento di essere passato a servizio dell'impero. Perché allora c'è così antipatico
il fariseo? Perché è autocentrato su se stesso, e si presenta a Dio con il libro contabile
perché l'Altissimo prenda nota delle sue buone opere, dei suoi meriti. Quello che sbaglia
profondamente è la visione di Dio che ha questo fariseo: un Dio contabile che premia i
giusti e condanna i peccatori. Non è la visione di Gesù! Fondamentalmente la "colpa" del
fariseo, consiste nel negare la giustizia di Dio, pensando di riconoscere sia la giustizia sia
l'empietà da se stesso. Così, l'affermazione centrale che guida la professione di fede, di Ben
Sirach, secondo la quale «Il Signore è giudice» (Sir 35,15), è rigettata.
Analizziamo il testo.
v. 10 Il luogo per eccellenza della preghiera quotidiana è il Tempio, e con tanti altri vi
salgono un fariseo e un pubblicano. Al tempio, com'è noto, «si sale» ἀναβαίνω,
espressione tipica, perché esso era posto sul colle santo di Sion, che si trova in alto rispetto
alla terra e alla stessa Gerusalemme.
A Gerusalemme, vedere gente che saliva al tempio per pregare era normale; esso era il
luogo per eccellenza della celebrazione sacrificale quotidiana, la mattina e la sera. In
queste due occasioni il popolo presente era aiutato dai leviti a pregare, in specie i Salmi,
mentre i sacerdoti e gli offerenti procedevano alla complessa operazione del sacrificio, con
il rito del sangue e dell'offerta. In genere queste due liturgie erano sempre molto affollate.
Con tanti altri, "salgono" (il tempio era più in alto dell'abitato) in particolare "due uomini",
due tipi ben specificati di persone: un Fariseo e un Pubblicano. Che cos’hanno in comune?
Sono entrambi ebrei!
Il fariseo è però un “separato”; la «separazione» dagli altri assegnava addirittura il nome
ai farisei, dall'ebraico ‫ פ ַׁרש‬parash "separare", e costituiva un motivo di gratitudine a Dio.
Il secondo è anche lui un Ebreo, ma ha accettato di collaborare con l'invasore romano, è dei
pubblicani, gli appaltatori che per lucro s'incaricavano di taglieggiare il popolo
riscuotendo per i Romani i gravosi tributi, così odiati dagli Ebrei, anche perché segno di
schiavitù verso i pagani.
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Pagare le tasse agli stranieri e pagani era perciò il segno vergognoso di:
a) essere recensiti dai romani, fatto abominevole per il popolo "del Signore", che
apparteneva solo a Dio; (cfr. Es 19,3-6);
b) di essere costretti a pagare contro volontà. Era il segno abietto, demoralizzante della
schiavitù.
I pubblicani, dunque, avevano antipatia e disprezzo da parte dei loro connazionali, Gesù,
però, non esiterà a essere ospite delle loro case, a visitare Baccheo (Lc 19,1-10) e a mangiare
con lui, e soprattutto a scegliere tra essi un personaggio decisivo nella Chiesa apostolica,
Levi il pubblicano (Lc 5,27), che dai paralleli si sa che è anche Matteo pubblicano (Mt 9,9),
abile a leggere, scrivere e a far di conti.
Gesù è venuto per salvare quanto era ormai perduto, come umile ma onnipotente Figlio
dell'uomo (cfr. Lc 19,10, a proposito di Zaccheo addirittura ἀρχιτελώνης architelónés capo
del corpo degli esattori; v). Egli si dirige verso i malati, non verso (anzitutto) i sani (Lc
5,31), da Medico divino dei corpi e delle anime.
vv. 11-12 "Il fariseo sta in piedi e pregava così verso sé stesso ... πρὸς ἑαυτὸν ". Nel
tempio, il Fariseo "sta in piedi", nell'atrio degli Israeliti, con lo sguardo rivolto al "Santo dei
Santi" che vede da vicino attraverso la porta che conduce nell'atrio dei sacerdoti dove si
svolge il culto. È la classica posizione della preghiera ebraica, che conosce, senza problemi,
anche la prostrazione a terra. Tale postura resta nell'uso dei cristiani dell'Oriente. Stare in
piedi davanti al Signore indica la dignità dei figli, ai quali il Padre dona il suo Spirito, lo
Spirito del Risorto.
Egli dunque sta davanti al suo Signore, invisibile Presenza nel
santuario, dal quale promette ogni grazia, come parla l'intero Salterio. Interessante
osservare, come nessuno dei due personaggi prega realmente. Il fariseo, come dice bene la
versione greca: ταῦτα πρὸς ἑαυτὸν προσηύχετο tauta pros heauton prosēucheto "pregava
così verso se stesso". Lui non prega verso dio ma verso se stesso … è un "narcisista".
L'azione di grazie del fariseo non è una caricatura. Se ne trova un esempio negli scritti
rabbinici: «Ti rendo grazie, Signore mio Dio, di avermi posto fra coloro che siedono nella casa del
sapere e non fra coloro che siedono a tutti i cantoni. Perché come loro, io mi alzo presto; ma io mi
alzo presto per studiare la parola della tua legge, ed essi si alzano presto per occuparsi di cose senza
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importanza... ».1. La sua preghiera corrisponde a verità, perché la sua osservanza
minuziosa, descritta con compiacimento (decima, digiuno bisettimanale), è un dono di
Dio, ed egli lo sa. È dunque realmente un «giusto» secondo le categorie bibliche (cfr. Sal 1).
La preghiera del fariseo è però del tutto strana, perché è vera nel contenuto, ma molto
inopportuna quanto alla sostanza. Da un punto di vista formale, il fariseo, nella sua
preghiera, pone al centro Dio, lodando la sua azione nel proprio modo di agire; in realtà, il
suo atteggiamento, normale in questo tipo di preghiera, denota non solo ostentazione ma,
quel che è peggiore, postosi alla presenza del Signore, rimane incentrato su sé stesso.
Anche se le parole della sua orazione sono rivolte a Dio, in realtà sono un compiaciuto
soliloquio sulla propria santità. Osservando i 613 precetti della legge, sicuramente lui non
è come gli altri uomini: è peggiore! Perché? Accecato dalla trave dei propri meriti, il
fariseo non scorge la sua rapacità, così denunciata da Gesù in Luca 11, 29: “ Voi farisei pulite
l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di cattiveria”.
Gesù
rivela che la smania del fariseo di ostentare la sua giustizia davanti agli uomini in realtà
serve solo a smascherare la sua profonda ingiustizia davanti a Dio: “Voi siete quelli che si
ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini è esaltato,
davanti a Dio è cosa detestabile” (Luca 16,15). Il Fariseo rende grazie per il beneficio
impareggiabile della sua fede, della sua fedeltà alla Legge santa e all'alleanza fedele,
poiché si è tenuto nella purezza dei costumi, non ruba, rende giustizia, non è adultero,
dunque ha rispettato osservandoli scrupolosamente i comandamenti 7°, 8°, 6°, e se quel
giorno è sabato, com'è probabile, anche il 3°.
Non c'è male: 3 comandamenti verso il prossimo, e 1 verso il Signore, ma tenendo conto
che il 6° e il 9° comandamento vanno sempre insieme, e il 7° con il 10°, si hanno ben 5
comandamenti verso il prossimo e 1 verso il Signore. Si potrebbe dedurre, dal silenzio del
Fariseo che non nomina il 4° comandamento, che i suoi genitori siano defunti; la non
menzione del 5°, fa comprendere che è un buono e pacifico. In pratica, le Due Tavole sono
rispettate. È una dichiarazione di purità sacra, che apre il libero accesso al Signore,
permesso dai Sal 14 e 23. Dentro il tempio, incensando e glorificando se stesso anziché Dio,
1
Trattato Berakhot 28b del Talmud babilonese, citato dai commentatori (ad es. J. Jeremias, Les paraboles de Jésus,
o.c, 145/201); per i testi, si veda H.L. Strack - P. Billerbeck, o.c, t. II, 239-249.
5
il fariseo sta, però, usurpando il posto del Signore e commette peccato d'idolatria, che, per
Israele, era considerato il vero e proprio adulterio.
Da che deriva quest'autopresentazione? Probabilmente proprio dalla pratica di un tipo di
preghiera, poiché molti Salmi autorizzerebbero il Fariseo nella sua dichiarazione. Si
guardino i Sal 7; 14 e 23; 18 (in bocca al re stesso); 25, con la dichiarazione d'innocenza
proprio nell'"ingresso" al santuario e all'altare; 26; 34; 36; 38... Sono tutte dichiarazioni
d'innocenza motivata davanti al Signore, accanto ovviamente a Salmi di penitenza. Ancora
una volta il Fariseo sarebbe tranquillo con la sua coscienza, se non che aggiunge una
clausola brutale: non sono come gli altri uomini - oppure come questo pubblicano. Tutti
giudicati e condannati.
Non sazio, il fariseo aggiunge l'autogratifìcazione compiaciuta: il suo digiuno
bisettimanale, che si era fissato il lunedì e giovedì da regole umane. E' noto che l'unico
digiuno rigorosamente prescritto dalla Legge2 era quello del «
‫יום‬
‫ כפור‬yom kippùr,
"Giorno dell'espiazione" ma gli ebrei fervorosi, e in prima fila i farisei (cfr. Lc 5,33),
digiunavano anche il lunedì e il giovedì, giorni nei quali, secondo i rabbini, Mose era salito
sul monte Sinai e ne era disceso quando aveva ricevuto da Dio la Legge.
Egli dunque ribadisce la sua religiosità con un'autogratificazione compiaciuta: il digiuno e
le decime puntualmente assolti (v. 12). Quanto al digiuno, alcuni giorni erano fissati per
alcune grandi celebrazioni nazionali, come il Capo d'anno e il Kippür, l'Espiazione, al 1° e
al 10 del mese di Tisrt, con la formula "affliggerete le anime vostre" in segno di penitenza. La
tradizione poi aveva fissato il digiuno regolare bisettimanale il martedì e il giovedì in
quanto ricordavano la salita e la discesa di Mosè al monte Sinai (i cristiani poi avevano
spostato polemicamente il mercoledì e il venerdì, fino ad oggi). Quanto alle decime, esse
erano fissate dalla Legge divina e concernevano tutto quello che si possedeva (prodotti dei
campi, del bestiame, delle industrie varie), e, come nel caso del Fariseo, qui, quello che si
acquistava (któmai); cfr. Dt 14,22. Del popolo di Dio, nessuno e nulla doveva sfuggire alle
decime (oltre alle primizie), poiché si trattava di conferimenti carichi di santità (v. 12).
Quanto alle decime, esse erano prelevate a favore dei sacerdoti e dei leviti sugli animali e
sui frutti della terra (cfr. Dt 14,22), ma i farisei le estendevano per scrupolo anche ad altri
2
cfr. Lv 16,29
6
prodotti (cfr. Lc 11,42; Mt 23,23) o le pagavano anche nei casi, come del grano, del mosto e
dell'olio, in cui il pagamento spettava al venditore (Dt 12,17), nel timore che costui non
avesse adempiuto il suo dovere, violando la Legge.
Il pubblicano, l’esattore delle tasse, da lontano e battendosi il petto, a differenza del fariseo
che si era messo in prima fila, dice: Signore, usami compiacenza, usami misericordia,
perché vedi cosa sono, un peccatore. Sono così fatti conoscere nel loro intimo i due
personaggi: da un lato una persona fedelissima nelle proprie osservanze religiose,
scrupolosa e dall’altra un ladro di professione, un impuro; uno dice ti ringrazio Signore,
perché non sono come gli altri e, l’altro, guardando il Signore, gli dice dimostrami il tuo
amore, perché vedi che vita faccio, sono un peccatore. La situazione è già tesa, ma,
continua l’evangelista: ebbene, io vi dico che il pubblicano se ne tornò assolto dalla sua
condotta, al contrario del fariseo. Qui si capovolgono le situazioni! Come fa Dio a
perdonare il pubblicano di una condotta della quale non si pente e non si può pentire?
Eppure, per il solo fatto di aver chiesto al Signore di usargli misericordia, questi gli
concede il condono di tutte le sue colpe. Questo è strano da capire, perché il pubblicano
non esprime il proposito di cambiare vita, perché non poteva cambiare condotta; continua
la sua esistenza ma coerente con questa immagine di un Dio che comunica amore a tutti.
Gesù dice che il pubblicano si è posto in sintonia con quest'amore di Dio e lo può
accogliere. E’ già difficile capire questo, ma quello che è ancora più strano, è la non
assoluzione data al fariseo. Di che cosa è colpevole il fariseo? Sarà stata una persona, forse
vanagloriosa, vanitosa, che davanti al Signore quasi gli presenta il conto per quello che Il
Signore stesso gli deve essere grato; ma che colpa ha per non rimanere assolto dalle sue
eventuali colpe, o quali colpe ha che non riusciamo a individuare? Seguendo la linea
teologica di Luca, la soluzione è chiara: il fariseo è un uomo che non fa niente per gli altri!
E chi non fa niente per gli altri, per Gesù è una persona inutile. Il fariseo, quindi, tutto
quello che fa, (ecco il rappresentante della religione) lo fa per compiacere Dio: preghiera,
pagamento della decima, riti al tempio ecc., non sono espressione di una fede libera e
liberante, ma solo l'occasione per salire nella scala di gradimento verso Dio. Ripetiamo
ancora una volta: non siamo di fronte ad una cattiva persona, a un malvagio, ma solo a un
pio osservante della legge che però ha scambiato Dio per un notaio che tiene il libro
contabile delle opere meritorie. Manca poi, la dimensione orizzontale, cioè il rispetto per le
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altre persone e il trattenersi nell'emettere giudizi che competono solo a Dio. Non c’è
nessuno dei suoi atteggiamenti che indichi questo fariseo come partecipe delle sue
sostanze, o della sua attività nei confronti degli altri. Il fariseo, per gli altri, non fa
assolutamente niente. Allora per Gesù, ritorna ancora il parametro caro a Luca: Dio non ha
bisogno di obbedienti e di osservanti la sua legge ma Dio ha bisogno di assomiglianti alla
sua pratica d’amore. E mentre il fariseo, l’osservante della legge, vive una situazione che lo
rende capace di disprezzare gli altri, di sicuro il pubblicano, nella condizione di sofferenza
e di miseria morale e religiosa che sta vivendo, sarà incapace di disprezzare gli altri.
Sinceramente pentito sta lontano dal santuario, tiene gli occhi bassi per la vergogna, e si
batte il petto in segno di dolore, pregando una formula epicletica ridotta all'essenziale:
«Dio, sii propizio a me peccatore» (cfr. Sal 50,3; 78,9; Dan 9,19; ricorda i 10 lebbrosi, il cieco
nato, ecc.).
Di più non sa dire. E sa che non servirebbe a nulla. Ha fiducia nel Dio che scruta i cuori, e
si rimette a Lui solo … ma la preghiera dell'umile penetra le nubi (la lettura Sir 35,17).
v. 14 «Io parlo a voi», Gesù trae la conclusione severa.
E' il giudizio di Dio pronunciato in modo solenne da Gesù, maestro della Legge.
Il pubblicano discese dal tempio riammesso alla divina amicizia, la «giustificazione», a
differenza dell'altro.
«Quando dunque il fariseo uscì dal tempio aveva perduto la sua giustizia, il pubblicano invece
l'aveva ottenuta: le sue parole furono più forti delle opere. Quello nonostante le sue opere, perse la
giustizia; questo invece con parole di umiltà la conquistò, benché la sua non fosse propriamente
umiltà. Infatti è umiltà quando uno che è grande si fa piccolo; l'atteggiamento del pubblicano non
fu umiltà, ma verità: erano vere quelle parole, perché egli era peccatore.»3 La situazione è dunque
capovolta; giusto risulta chi si riconosce debitore a Dio del perdono, invocato come un
dono immeritato dalla divina pietà.
Che conclusione trae Gesù dalla parabola? Osserviamo prima di tutto che il fariseo non è
condannato (cfr. 7,42: «fece grazia a entrambi»). Ma il suo atteggiamento appare come un
vicolo cieco, da cui dovrà tornare indietro. La sua mancanza consiste appunto nel credersi
3
(Dalle «Omelie »di San Giovanni Crisostomo, vescovo, Om. 2,4-5).
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«giusto»: anche se rende grazie a Dio e compie i propri sforzi per Dio, se ne attribuisce il
merito e si presenta a Dio con una credenziale. Da questa immagine deformata di Dio
derivano tutti gli altri guai, primo fra tutti il bisogno di creare una barriera divisoria fra
giusti e peccatori. Il suo stesso nome significa separato.
Il pubblicano, dal canto suo, viene indubbiamente da lontano, ma è sulla buona strada: la
sua apertura alla salvezza di Dio, ci dice Gesù, è la sua giustificazione. Gratuitamente egli
si trova «giustificato», e non grazie ai propri sforzi.
Dobbiamo pensare che il fariseo sia escluso dalla salvezza, in base alla duplice conclusione
del v. 14? Tradurre: «Questi discese giustificato a casa sua, e l'altro no», sarebbe senza
dubbio un'esagerazione. In realtà, se il fariseo è «giusto» perché Dio gli fa questa grazia —
come lui stesso riconosce —, il pubblicano è «giustificato accanto a» lui, con una gratuità
ancora più evidente, perché non ha compiuto le opere della grazia. Dei due atteggiamenti,
quello del pubblicano è in armonia con la salvezza che viene, mentre quello del fariseo ha
ancora della strada da fare, ma sono comunque complementari.
Il Fariseo per sé non aveva necessità immediata di "giustificazione", poiché per sé era
"giusto". Ma disse la piccola bensì sprezzante parola: Non sono rapace, ingiusto, adultero
come il resto degli uomini, e fin qui la genericità non offendendo nessuno. Poi però viene a
sparare: "o anche come questo Pubblicano" (v. 11b). Così si era messo contro tutto il suo
prossimo, lontano e immediato, nell'"ingiustizia" verso di esso, e dunque anche contro Dio.
Poiché Dio aveva detto: "Misericordia voglio, più che sacrifici" (Os 6, 6), e lo aveva
confermato per la bocca santa del Figlio: "Andate e imparate che significa: Misericordia Io
voglio, più che sacrificio" (Mt 9,13), e il Figlio aveva insistito su questa Parola profetica: "Se
voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio, più che sacrificio" (Mt 12,7a), con la
sentenza durissima: "allora non avreste condannato gli innocenti" (Mt 12,7b).
Dove sta il peccato del Fariseo, formalmente? Sta nella condanna del fratello, ma
soprattutto nella causa di questa scriteriata condanna: "Chiunque è esaltante se stesso, sarà
umiliato, mentre chi è umiliante se stesso sarà esaltato" (v. 14b). E' la stessa parola già usata per
i convitati presuntuosi, che occupano i migliori posti (cfr. Lc 14,11).
Come altrove in Luca, la parabola ha per seconda conclusione una sentenza: "perché chi si
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esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» che si ritrova anche in altri contesti "4
Gesù non esitò ad assumere questa dinamica di servizio; Dio si umiliò con il farsi servo, e
accettò la morte dello schiavo, la Croce, tuttavia Dio lo esaltò donando "il nome» che è al
di sopra di orni altro nome. (cfr. Fil 2,6-11).
La seconda parte del versetto 14 non è una pura ripetizione della prima; lo si ritrova, del
resto, in contesti differenti: in Lc 14,11 a proposito della scelta dei posti a tavola, in Mt
23,12 a proposito dell'ostentazione degli scribi e dei farisei, e in Mt 18,4 per esortare ad
assumere l'atteggiamento dei bambini. Se si collegano strettamente le due parabole del c.
18, si vedrà in questa seconda conclusione un'allusione al giudizio: vivendo la gratuità del
pubblicano, noi manifestiamo la venuta del regno.
Questa conclusione, poi, ci mette in guardia da una tentazione sottile: il fariseismo del
pubblicano! Si può mettersi in vista anche ostentando la propria umiliazione.
Evidentemente non si tratta di questo, ma di imparare a ricevere la salvezza in una totale
gratuità, come sarà messo in luce in seguito.5 La nostra preghiera, confrontata con il
nostro agire, ci giudica di fronte alla presenza del regno di Dio.
Il rischio di noi cristiani è quello di dire: «Ti ringrazio che non sono come quel fariseo», e
vivere l'ipocrisia di un'umiltà solo gestuale.
Il fariseo, come abbiamo visto, non è superbo perché sta in piedi dritto davanti a Dio
mentre prega, a differenza del pubblicano che sta piegato e lontano, lo è per quello che
dice, per il sentimento che ha guidato le sue azioni.
Argutamente alcuni intendono quel «tra sé» come se il fariseo si ascoltasse pregare,
compiaciuto di sé e della sua volontà.
Non serve stare in fondo alla chiesa durante le celebrazioni per esprimere il proprio
disagio davanti a Dio dei peccati fatti, ma subito dopo allontanarci per continuare la
nostra vita, con la scusa che «...tanto siamo tutti peccatori»; sarebbe un fariseismo rovescio!
E' inoltre un subdolo fariseismo, tacciare i credenti di "ipocrisia" perché celebrano
l'eucaristia domenicale accusandoli "di essere peggiori degli altri" o di andare a Messa solo
4
cfr. Lc 14,11; Mt 18, 4; 23,12.
5 Questa gratuità, come vedremo, invita all'azione, a una pratica concreta, ma si andrebbe al di là delle
effettive dimensioni della parabola se si volesse vedere in essa un «libello contro le preghiere fatte nel
tempio» e un invito a passare «dal raccoglimento religioso alla militanza contro le ingiustizie della città» (L.
Simon, a.c nota 35, 1-14).
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per farsi vedere. Ognuno esamini sé stesso, e scopra le menzogne che ci sono in lui, spesso
mascherate da bravi moralizzatori. Solo una retta coscienza e Dio ci possono sbugiardare,
rivendo veramente chi siamo, qualunque sia la posizione che assumiamo nei confronti
della chiesa.
Diceva un padre del deserto:
Chi riconosce i propri peccati è più grande di chi risuscita i morti; e chi sa confessare i
propri peccati al Signore e ai fratelli è più grande di chi fa miracoli nel servire gli altri.
Sì, il vero miracolo, l’intelligenza delle intelligenze, è riconoscere e confessare i propri
peccati: siamo noi i pubblicani! Allora forse comprenderemo che è una povera e inutile
fatica quella di nascondere o mascherare il proprio peccato, magari sforzandosi, anche in
buona fede e con grande impegno, di edificare il proprio sepolcro imbiancato (cfr. Mt
23,27). Basterebbe riconoscere consapevolmente le proprie precise mancanze nei confronti
dell’amore, per scoprire che Dio è già là e ci chiede solo di accettare che egli le ricopra con
la sua inesauribile misericordia. Nessuno deve sentirsi così perfetto da umiliare e
disprezzare gli altri; nessuno può porsi davanti a Dio trattandolo come un suo debitore.
Tutto ciò che si riceve da Lui è dono di grazia e di amore. Solo così si arriva al cuore di
Dio, che si dona ai piccoli (Lc 10,21), ma disperde i superbi nei pensieri del loro cuore,
innalzando gli umili (Lc 1,51-52). Ricordiamocelo tutti, nessuno escluso!
A cura di padre Umberto
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