Roma 16.10.43 - La Repubblica.it

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ROMA
ONO NATO IN VIA del Porti-
co d’Ottavia al numero
9. Quella mattina del 16
ottobre 1943 i tedeschi
ci entrarono in casa. Ci
hanno svegliati e siamo scesi in strada, seguendo istruzioni precise. Dovevamo attraversare la via, passare sul marciapiede opposto e camminare verso il Tevere. Poco
più avanti, al primo slargo con un incrocio,
ci aspettava un camion dove saremmo dovuti salire per iniziare un lungo viaggio».
Parla con precisione e commozione Mario Mieli (meglio conosciuto come Mario Papà) mentre riavvolge il nastro di una storia
che ha inizio alle prime luci dell’alba di un
sabato mattina di settantatré anni fa. Sono
tracce di memorie lontane, parole che a fatica mettono insieme sensazioni, ricordi,
racconti collettivi passati attraverso la ferita di un giorno inimmaginabile: la grande
retata degli ebrei romani, la tragedia che
giunge in pochi minuti, irrompe nelle famiglie, nelle storie più diverse, senza preavviso. E la vita rimane appesa a un filo, a un
confine che non esiste tra il prima e il dopo.
L’irruzione in casa di uomini in divisa, porte sfondate, armi in pugno, il calcio del mitra, terrore diffuso in lunghi attimi di attesa rotti da poche parole per molti incomprensibili. A seguire la consegna delle istruzioni dattiloscritte su un piccolo ritaglio di
carta bianca: “1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti. 2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno otto giorni;
b) tessere annonarie; c) carta d’identità;
d) bicchieri. 3. Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personale, coperte; b) denaro e gioielli. 4. Chiudere a chiave
l’appartamento e prendere con sé le chiavi.
5. Ammalati, anche casi gravissimi, non
possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo. 6. Venti
minuti dopo la presentazione di questo biglietto la famiglia deve essere pronta per la
partenza”. Un linguaggio sinistro che è già
una condanna pianificata: tenere insieme i
nuclei delle famiglie per fingere di dare conforto evitando reazioni o resistenze, indicare una meta inesistente (il trasferimento),
giocare sul fattore tempo, far presto senza
lasciare tracce o prove degli spostamenti di
truppe o persone mobilitate in quella mattina. Solo venti minuti prima che la tragedia
abbia inizio: appena il tempo di chiudere
con la vita precedente per piombare increduli e impreparati nel cono d’ombra della
deportazione. E da lì il destino delle situazioni diverse, degli imprevisti del caso o delle piccole grandi azioni di chi si trova dentro il tracciato di un itinerario che inizia
con gli sportelli di un camion parcheggiato
dietro casa per concludersi sulla rampa di
Auschwitz-Birkenau.
Ma torniamo alle parole di Mario Papà e
a quella marcia di avvicinamento verso il
camion.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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delle ruote per
farci salire. E qui cominciano le mie fortune, i gesti di altri che, senza che me ne accorgessi, mi mettono in salvo. Mia zia si
era mossa da piazza Costaguti, a pochi
metri da noi, e camminava lentamente
sul marciapiede opposto. Sapeva della retata, suo marito non c’era, e pensava che
riguardasse solo gli uomini che venivano
portati via per lavorare». Mario ha due
anni e mezzo, sta al sicuro nelle braccia
del papà che chiude la fila, la zia torna
sull’altro lato della strada. «A quel punto, mentre tutti si mettono in coda per salire sul camion, passa una donna che cammina in senso inverso al nostro, una signora cattolica (così la chiama con affetto, OES) con due buste della spesa in mano. Mentre stavo salendo con
gli altri, lei ad alta voce si rivolge a qualcuno che potesse ascoltarla: i$IFTFMPQPSUBOPBGB
RVFMSFHB[[JOPDIFWBOOPBMBWPSË 1FSDIÏOPOTFMPUJFOFRVBMDVOPDIFSJNBOF ”». Parole che la zia di Mario ascolta e non lascia passare invano. Il coraggio di due donne che s’incrociano per caso nel destino di quella mattina. «”4FMFJWBBDIJFEFSFFHMJFMPEBOOPNFMP
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punto la signora con le buste della spesa passa all’azione: «”$FSUPDIFDFWBEPFWPHMJPWFEÏ
DIFOPONFMPEBOOP”». Si rivolge a un soldato tedesco, dice che quello è suo figlio, che lo
aveva lasciato per andare a fare la spesa, e gli chiede di poterselo riprendere. Non si capiscono fino a quando un imprevisto interprete, Arminio Wachsberger, che già era sul camion, non si preoccupa di tradurre le frasi che aveva ascoltato. «Il soldato ci crede, mi fa
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passare e mi consegna nelle braccia della signora. A quel punto mia zia si avvicina pensando di potermi portare via. Ma la signora
non si fida e le dice: “$IFTPNBUUBDIFUFMP
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in attesa che mia zia potesse venire a prendermi». Fuori pericolo, senza sapere cosa
avveniva a chi era rimasto a pochi metri di
distanza. «Con mia zia siamo saliti sul tram
e siamo rimasti per alcune ore sotto il colonnato di San Pietro. Poi mi hanno nascosto
in un convento, sono stato adottato e sono
cresciuto con i miei zii».
A pochi metri di distanza un ragazzo di
dodici anni, Emanuele Di Porto, è appena
salito su un altro camion seguendo la sorte
della sua famiglia. Oggi che di anni ne ha ottantacinque gli trema la voce mentre va indietro con i ricordi: «Arrivarono a casa prima delle cinque. Mia madre corse fuori per
avvisare papà che lavorava alla stazione
Termini. Voleva dirgli di non tornare, pensava che prendessero solo gli uomini, chi
poteva lavorare». Dalle finestre di casa il ragazzo vede che la fermano. Che le dicono di
andare verso un camion. Corre in strada, la
raggiunge. Si ritrovano stretti l’uno all’al-
tra sul camion che si sta mettendo in moto.
Sarà per l’ultima volta. La mamma sente il
pericolo. Un’altra donna coraggiosa butta
in strada Emanuele con una spinta. «Sono
corso via e mi sono nascosto. Sono arrivato
al deposito dei tram a Monte Savello e sono
salito mettendomi vicino a chi strappava i
biglietti. Gli ho detto che ero ebreo e che
scappavo dai tedeschi. Per due giorni ho vissuto dentro la Circolare. Quando saliva un
conducente o un bigliettaio a ogni cambio
turno mi diceva “/POUJNVPWFSF”. Mi davano anche da mangiare, una mezza ciriola,
ché allora non c’erano i panini».
Una rete di partecipazione e solidarietà
inattesa nella vicinanza spontanea di chi
vuole nascondere una giovane vita. Tutto
si concentra nelle strettoie e nelle possibilità di poche ore. Chi riesce a tirarsi fuori e
chi finisce in una strada senza ritorno. Tanti vengono venduti per poche lire, altri trovano rifugio presso conventi, abitazioni o
luoghi di ritrovo. Alcuni romani collaborano con le direttive naziste, altri rischiano la
vita per mettere in salvo amici o concittadini. Chi guarda, chi scappa, chi viene preso e
chi ferma immagini e situazioni nella propria mente accompagnandosi a un taccui-
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no su cui perfezionare scarabocchi, disegni, schizzi, scene di vita. Così fa Aldo Gay,
anche quel sabato mattina. Aveva poco meno di trent’anni, allora, e una grande passione per il disegno. Girava sempre con un
blocco di carta e una matita, talvolta con
piccoli quadernetti che teneva in tasca.
Una sorta di ripresa continua che si sofferma sui particolari, ingrandisce dettagli, ri-
produce in diretta o rielabora dopo qualche
tempo ciò che l’occhio ha visto e memorizzato.
Per molti, i sommersi, la sorte prenderà
una direzione spietata. Il territorio urbano
viene diviso in ventisei zone. Alle dipendenze di Herbert Kappler e Theodor Dannecker (già responsabile delle deportazioni anti ebraiche in Francia e inviato a Roma di-
rettamente dall’ufficio di Adolf Eichmann)
si muovono 365 uomini appartenenti alle
truppe di occupazione, coadiuvati dalla
Questura di Roma e dalla polizia fascista.
Secondo il rapporto Kappler quella mattina a Roma vengono arrestate 1.259 persone e inviate al Collegio militare di via della
Lungara, nei pressi del carcere di Regina
Coeli: in 252 vengono rilasciati. All’alba del
17 ottobre 1943, all’interno del Collegio militare, nasce un bambino, figlio di Marcella
Perugia, rimasto senza nome.
Il giorno seguente un convoglio si mette
in moto dalla stazione Tiburtina. Il numero
complessivo dei deportati dovrebbe essere
di una decina superiore a quello indicato da
Kappler. Ha inizio il viaggio senza ritorno,
arrivo ad Auschwitz il 22 ottobre 1943. La
selezione porta all’inserimento nel campo
di 149 uomini e 47 donne: gli uomini vengono immatricolati con i numeri da 158491 a
158639, le donne con quelli da 66172 a
66218. Tutti gli altri, oltre l’80 per cento,
vengono uccisi negli impianti di messa a
morte di Birkenau. Degli abili al lavoro si
salveranno in sedici: quindici uomini e una
donna, Settimia Spizzichino. Degli oltre
duecento bambini nessuno tornerà indie-
tro. Tante ricerche senza un segno, un’immagine, un oggetto per continuare a sperare.
Cosa rimane oggi di quel giorno e della
sua memoria? Che segno ha lasciato nel tessuto di una città ferita? L’apertura dell’Archivio della Croce Rossa Internazionale (a
Bad Arolsen, in Germania) ha permesso di
portare alla luce tracce di vite spezzate dalla violenza. Studi e ricerche su fonti tedesche, italiane, statunitensi o inglesi hanno
consentito di squarciare il velo che copriva
una pagina drammatica della nostra storia
indagando sui silenzi, le complicità o le collusioni. E dai cassetti, dalle scatole o dagli
album di famiglia continuano a venir fuori
nuove tracce, tasselli unici e preziosi di un
mosaico collettivo. Molti li possiamo vedere esposti in una mostra che oggi si inaugura, raccolti in questi anni dalla Fondazione
Museo della Shoah: sono carte di archivio,
memorie o testimonianze come quelle riportate in queste pagine. E poi fotografie,
lettere, pagine di diari. Per comprendere
ciò che è accaduto, continuare a raccontare
storie e far sì che quella giornata lontana
non venga rimossa né dimenticata.
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EI VIENE DA LÌ. DA FLINT, MICHIGAN. Da una città che non
è nulla e che non promette nulla. Ricordate il documentario di Moore: 3PHFS.F? Nessuno fa strada a Flint.
Si muore prima: violenza, droga, caso. Non c‘è una ragione per finire male. È così e basta. A Flint si spara, si
spaccia, non si spera. L’acqua è avvelenata, il lavoro
non c’è, le case sono in rovina. Però c’è Claressa
Shields. Lei a pezzi non ci va, vi ci manda. Ha ventun
anni, è nera, è la pugile più forte del mondo, categoria
pesi medi, la prima con due ori olimpici consecutivi,
Londra 2012, Rio 2016. Claressa non doveva farcela:
fame, madre tossica, padre in galera, nessuna fissa dimora, stupri e molestie subite. Condannata e pestata dalla vita, come tutti a
Flint. Ma a undici anni Claressa ha trovato una palestra e un coach, Jason Crutchfield. Unica ragazza tra ragazzi. Il suo ring si è allargato, c’erano regole e disciplina, per non far evaporare la rabbia. C’era un modo per dare pugni, per
scrollarsi il dolore, la lettera scarlatta che hai tatuata sulla pelle, nessuno nello
sport è reietto. È stata una scoperta importante che l’ha portata in cima al mondo. Il soprannome di Claressa è “T-Rex” perché da bambina era scheletrica e
con le braccia corte. Ma feroce come un dinosauro. E 3FY si chiama il libro di fotografie di Zackary Canepari per Contrasto (ha
girato anche un documentario).
Claressa ha una sorella, Briana, di diciotto mesi più giovane, e un fratellino, Peanut.
Il libro non è sulla boxe, sulla povertà, su
Flint, sulle città e sull’umanità depressa,
sulla mamma che dorme con molti uomini e
sbatte alle tre di notte le bambine fuori casa, su chi vive in macchina, su chi scambia i
buoni pasto per la droga, su posti sconosciuti. Ma su una parte del mondo che noi pensiamo di conoscere, su due sorelle illuminate diversamente, su chi forse ce la fa e su chi
invece di sicuro no, sulla facile equazione buona-cattiva, su chi riesce a volare e
su chi precipita, ma se sei circondata da burroni come fai a non cadere?
Claressa ha trovato una palestra, Briana no. Claressa ha ascoltato il racconto
di suo padre che parlava di Muhammad Ali e di sua figlia Laila, anche lei pugile,
Briana ha dato retta alle sirene della sniffata. Quando la situazione a casa peggiorava, Claressa andava a stare da Jason, l’allenatore. Briana invece girava
per strada, niente più scuola, solo risse e aggressioni. Quando Claressa era a
Londra per i Giochi Olimpici, Briana era in riformatorio. Ogni sorella porta l’altra dentro: Claressa voleva fuggire da Flint, Briana era impantanata. Una si costruiva ali, l’altra se le bruciava. Canepari ha seguito per più di quattro anni l’adolescenza di Claressa che per sé, Briana, il fratellino e la famiglia voleva altro:
una città dove all’incrocio non ti sparano per sbaglio, dove anche la memoria urla che ti perderai, perché quello è un buco da cui nessuno risale. Claressa e Briana si vogliono bene, ma questo non ha impedito le scazzottate e i sensi di colpa
di Claressa per aver fatto un occhio nero alla sorella. L’oro di Londra doveva migliorare la vita, ma era solo un’illusione. Nella quotidianità era un oro di latta,
senza valore. Lei con quella medaglia, bendata nella mano, ci andava a letto, anche se di giorno la nascondeva a casa del coach per non farsela rubare. Claressa
immaginava l’arrivo di sponsor, soldi, celebrità. Ma a Flint queste cose restano
al largo, non hanno diritto di cittadinanza. Così lei ritornava sui banchi di scuola, e il suo allenatore Jason a lavorare come installatore di fili elettrici. Flint t’inchioda: sei un rifiuto, puzzerai per sempre. Dice Canepari: « È quello che mi interessava far vedere. Quello che tutti hanno sotto gli occhi, ma non guardano.
Quello che è difficile da capire: come fai a sopravvivere se tutto attorno a te è povero: la morale, la sanità, la scuola, l’economia, se l’acqua che esce dai rubinetti
è inquinata, se i tuoi amici vengono assassinati? Claressa è forte, strepitosa, a
diciassette anni è diventata la più giovane e prima campionessa olimpica di boxe americana, è riuscita a trovare un’arma con cui difendersi e avanzare nella
vita. Ma gli altri, le altre, sua sorella? Io ho votato Obama, con lui un piccolo
cambiamento c’è stato, ma forse la speranza era più grande e radicale».
Claressa fino a cinque anni non ha parlato. Afasica. Per le violenze, perché
staccare la presa dal mondo a volte è una forma di autodifesa, perché non farsi
sentire è un modo di dire che non esisti e che quelle cose non le stanno facendo
a te. E un paio di anni fa ha adottato una
bimba, che si chiama quasi come lei, Klaressa, figlia di sua cugina, che ne aveva già due
di figli e non ne voleva più. In più aiuta sua
sorella Briana, che ha avuto un bimbo, Bradford, da un tipo che è finito in prigione. Claressa con i soldi della boxe ha preso in affitto un posto a mille dollari al mese dove si è
trasferita con Rell, il suo fidanzato, anche
lui il pugile, e con sorella e fratello, sempre
più problematici. Ma le cose non hanno funzionato, troppi litigi, troppi sbandamenti.
Così le strade si sono divise. Briana con il figlio è tornata dalla madre, ma le violenze
nel quartiere non sono diminuite, e la loro
casa è quasi bruciata. Così Briana si è di nuovo trasferita, ne ha già cambiati tre
di posti, e ancora continua a vagabondare. Claressa invece ha lasciato Flint, la
sua palestra, Jason, e con la sua Pontiac se n’è andata prima a Colorado
Springs, dove c’è il centro olimpico americano, poi a Rio, dove ha rivinto, e poi
verso la Florida dove vuole iniziare la sua vita da pugile professionista. Il suo idolo è Serena Williams. Non rinnega Flint. «Combatto per me, per la mia famiglia,
per il mio futuro, per la mia città». Ma ora che Hollywood è interessata a lei, alla
nuova Million dollar baby, ora che arrivano gli sponsor, vuole costruirsi un’altra immagine. Più di successo, meno disgraziata. Questa parte nel libro, che si
ferma a Londra 2012. Una delle ultime foto è un pezzo di plastica messo al posto di una finestra, distrutta da una sparatoria, e qualcuno, forse Peanut, il fratellino, che guarda fuori. Tutto è appannato, come il futuro. Claressa è uscita da
Flint, Briana ci è affogata. Certi mari non hanno schiume.
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MILANO
UANTO DEVE L’ATTUALE for-
tuna dell’arte moderna e
d’avanguardia in Italia
agli sghignazzi d’epoca
dei casuali visitatori di
mostre, all’indignazione
di critici canuti e sapienti, ad Alberto Sordi che infila la testa nel buco di
una scultura di Viani, alla
pubblicità dell’aperitivo
che mostra signore e signori eleganti in un salotto tappezzato di quadri moderni? Praticamente molto, da quando una folla scalpitante
di artisti impazienti di esprimere il Nuovo, e stanchi di
sentirsi incompresi anche se per questo più geniali, uscirono dal chiuso altezzoso delle gallerie, delle collezioni private e di tante grandi mostre, per diventare soggetti da
rotocalco. Anni Cinquanta ovvio, e primi Sessanta, quelli
dell’inizio del boom economico, quando la gente trovava
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#00.
il mondo e l’evasione dallo stesso sulle tante testate di
quei settimanali allora a massima diffusione, pieni di fotografie anche a colori e divisi in due direzioni: una più colta
e politica tendente a sinistra, l’altra più popolare, con articoli dedicati alle famiglie reali, ai divi del cinema, ai cantanti, a fatti di cronaca nera e rosa, tutto raccontato con
uno spirito bonario, edificante, rassicurante, democristiano.
#PPN&SBBSUFNPEFSOB è il titolo di una mostra molto curiosa che, inaugurando nuove sale espositive, si apre
martedì (sino al 12 marzo 2017) al milanese Museo del
Novecento, a cura di Mariella Milan e Desdemona Ventroni, con l’allestimento curato dall’Atelier Mendini. Centoquaranta opere scelte soprattutto tra quelle che i rotocalchi biasimavano (le più ardite) o lodavano (le più tradizionali), appoggiate a nuvole di specchi che rimandano a chi
guarda le sue reazioni; su monitor scorreranno i ritagli
dei giornali e un pannello raccoglierà le vignette satiriche
dedicate al “buco”, uno dei temi che appassionavano gli
artisti più ardimentosi e innervosivano i rotocalchi e il loro pubblico. Erano tempi in cui i critici erano molto autorevoli, mitici padroni del mondo dell’arte, e più erano anziani e più erano temuti. Anche i rotocalchi, pur nella loro
semplicità, ne avevano uno, spesso cattivissimo, il cui
pensiero alto coincideva con quello più innocente dei lettori. E per esempio sulla %PNFOJDBEFM$PSSJFSF del luglio
1954, Leonardo Borgese sotto il titolo “Vecchiumi” definiva il percorso della XXVII Biennale di Venezia, un “noioso, disgustoso, penoso spettacolo”, e attaccava furibondo
tutto, “cubismi, futurismi, concretismi, dadaismi, automatismi, spazialismi”, rimpiangendo i De Pisis, i Tosi, i
Guidi.
Sulla facciata dell’Arengario ci sarà la grande scritta tipo fumetto, “Boom 60!” in blu e fucsia luminosi, quasi a
sottolineare il senso di gioco della mostra, in memoria di
un tempo in cui non si formavano come oggi code interminabili per vedere e lodare qualunque mostra anche delle
più furbe, ma esisteva ancora un pubblico che reagiva secondo il cuore e una stampa che sapeva accompagnarlo
con leggerezza nei meandri oscuri della retro e dell’avanguardia. Ecco quindi in mostra, messe insieme secondo la
visione dei rotocalchi antichi, le opere di Burri, César,
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Spoerri con i loro “stracci e chiodi sulla Laguna”, il “lunapark” di Baj, Cavaliere e Rotella, gli “arrabbiati in fonderia”, cioè Nivola e i fratelli Giò e Arnaldo Pomodoro; ma
anche “l’arte in sartoria”, con i ritratti della allora star
dell’alta moda Germana Marucelli creati da Messina e
Campigli, e di quest’ultimo anche lo schizzo di un invito alle sfilate, poi i gioielli della maison creata da Scheggi e un
abito dal tessuto optical disegnato da Getulio Alviani. “Celebre per conglomerati pittorici quali un’enorme capra
d’angora imbalsamata e campeggiante sopra un immenso collage per il suo 0EBMJTRVF che è un guanciale sporchiccio su cui poggia un parallelepipedo decorato a spruzzi,
macchie e fotografie di donne in costume da bagno, il tutto sormontato da una gallina livornese…”. Così scrive con
ironia massima la grande Camilla Cederna in un suo -BUP
EFCPMF del 1961 su -&TQSFTTP, dedicato a una mostra alla
galleria milanese dell’Ariete, del “ragazzotto” americano
Rauschenberg all’inizio della sua immensa fortuna. Storie di artisti in ascesa ma anche velocemente ripudiati. Così Irene Brin, un’altra giornalista pure lei magnifica nel
raccontare il suo tempo, testimonia su una 4FUUJNBOB*O
DPN*MMVTUSBUB del 1964 “l’esito catastrofico” di un’esposizione a NewYork di Bernard Buffet, elogiato sui rotocalchi sempre portati al trionfo della ricchezza come “il pittore in Rolls Royce”: “Fummo noi a fare la sua prima mostra
italiana. Vendemmo faticosamente due pezzi a un ingegnere di Palermo, il quale poi mi raccontò di averli venduti comprando col ricavato tre appartamenti… Seguirono
la gloria, lo yacht, il castello, i miliardi, il matrimonio con
Annabel e poi la decadenza”. Gli artisti di quegli anni, per
quanto sublimi e sicuri del loro genio, non disdegnavano
di apparire sulla stampa popolare, ricordando anche che
era stato Guttuso, negli anni Quaranta, a dire che se mai
fossero stati fotografati per le copertine dei settimanali,
la fortuna sarebbe stata assicurata. Ecco quindi sull’&VSP
QFP Birolli che sfoglia un pacchetto enorme di mille lire,
un milione in totale, vinto col premio Lissone; su una quarta di copertina di 5FNQP del 1954 Roberto Crippa, autore
delle vorticose 4QJSBMJ, si fa fotografare quasi in ginocchio
accanto alla ballerina Camille in guepiere con in testa le
stesse spirali; Enrico Baj su un numero di (FOUF del 1964
si lascia ritrarre con il suo celebre1FSTPOBHHJP6SMBOUF
tra mobili antichi di casa sua, sotto il titolo “Sono il papà
di trillali-trillala”. Chi osava scrivere in quei due decenni
ciò che i più sempliciotti ancora pensavano, per esempio
delle opere di Modigliani, nei suoi anni giovanili definite
orribili, o di quelle facce sghembe e con molti occhi di Picasso, ormai diventati da tempo due geni consacrati e venerati, uno defunto da più di trent’anni, l’altro vivo e vegeto, ultrasettantenne e ricchissimo? Nel 1958 Palazzo
Reale di Milano dedica una grande retrospettiva al mitico
ritrattista dei lunghi colli e presentandola 4FUUJNP(JPS
OP preferisce soffermarsi sulle foto di Gérard Philipe, protagonista di .POUQBSOBTTF, il film in cui interpreta il pittore, accompagnato da Lea Padovani. Raccontare di Picasso poi è cosa molto facile, con tutte quelle donne che misteriosamente lo adorano sino a suicidarsi: “Mi vuole nudo!” è il titolo sopra la foto del vecchio dal torace peloso
nella vasca; “Per amore ha rinunziato a Picasso” racconta
di come la sua giovane modella Sylvie, dalla celebre coda
di cavallo bionda, abbia venduto un suo famoso ritratto
dell’artista per curare il marito; mentre sulla copertina di
7JF/VPWF con il titolo “L’eterna giovinezza” lui bacia in
bocca una signora ingioiellata.
Non si sa se a un certo punto siano stati i divi dello spettacolo a sfruttare quelli dell’arte o viceversa, ripresi in numerosi servizi fotografici ovunque: in mostra ci sono almeno tre Lollobrigida di Sassu, Cassinari, Bettina, due Anna
Magnani di Levi e Guttuso, una Sandra Milo di Messina.
Ma certo il massimo delle modelle lo raggiunge il da molti
deprecato Annigoni, detto “il pittore delle regine”, per
cui Elisabetta II ha voluto posare, e quel fortunato ritratto sarà poi riprodotto su milioni di francobolli. La grande
diffusione dei rotocalchi in quegli anni ha fatto diventare
di moda darsi all’arte visiva possibilmente molto astratta, e nella mostra dell’Arengario c’è anche l’opera 5PSPT
di Tony Dallara, cantante anni Cinquanta dagli urli molto
apprezzati. Si deve anche a quella stampa la nascita dello
chic del collezionismo diffuso: “Un altro simbolo di prestigio considerato oltre che tale, anche uno dei migliori investimenti del momento è il quadro moderno: sono state così le più importanti aste di questi tempi a rivelare accanto
ai meno recenti, anche i nuovissimi miliardari” (Camilla
Cederna, -&TQSFTTP, novembre 1961).
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4
MILANO
EDUTO ALL’OMBRA DI TRE COLONNE dai
simboli arcaici, Arnaldo Pomodoro ha
l’aria di un alchimista della scultura.
La sua pietra filosofale è il bronzo, capace di trasformare in oro sfere, dischi
e piramidi monolitiche. «Ma negli anni Sessanta
non potevo permettermi la fonderia. Usavo il
piombo, più economico. Saldavo con la fiamma ossidrica piccole strutture costruite attorno ad anime di legno». Oggi, a novant’anni compiuti, che
festeggerà con una mostra a novembre al Palazzo
Reale di Milano, Pomodoro guarda al passato con
un po’ di nostalgia.
Erano davvero favolosi quegli anni?
«Estremamente vitali. Milano, Roma, Venezia
avevano un’impronta internazionale, erano città
d’avanguardia. Nell’arte, come nel teatro e nella
musica. Artisti e compositori americani venivano
a fare ricerca grazie al programma Fulbright che
offriva borse di studio per favorire il dialogo fra
Italia e Usa».
E Parigi?
«Aveva passato il testimone a New York. A Parigi conobbi Giacometti, celebrato poi da una sala
alla Biennale del 1962. Era il padre putativo della
scultura del Novecento. Ma l’asse era cambiato e
il nuovo orizzonte era Oltreoceano».
Cambiò anche la scultura?
«Si liberò dalle gabbie espressive dell’estetica
di regime. Dovevamo uscire dal clima celebrativo
che si era radicato negli anni della guerra. Il grande illuminatore fu Fontana, spirito audace, ricco
di fantasia. Ci ha liberato tutti».
Parlando di suo fratello Giò, alla Biennale del
‘62, Buzzati scrisse (con ironia) che le sue sculture si lucidavano col sidol.
«Al contrario, il sidol le rovina! Per le nostre
sculture, solo olio di gomito. La critica forse non
era preparata alle sperimentazioni. Si tentava di
spremere la mente per trovare nuove idee e altri
linguaggi. Anche recuperandoli dal passato. Io
avevo (re)inventato una tecnica antica: incidevo
ossi di seppia per farne stampi e colarvi il piombo
o l’argento».
Il suo rapporto con gli scrittori?
«Ricordo che Ginsberg arrivò a Milano di ritorno dall’India. Con Nanda Pivano e Ettore Sottsass
organizzammo nel mio studio un incontro. Lui, vestito di bianco come un guru, declamava poesie
accompagnandosi con un suono di campanelli,
un canto sciamanico. Nanda era riuscita a portarlo in salotti importanti e lui incantava perfino le signore della buona borghesia o gli intellettuali
snob».
Nel suo studio passarono anche attori?
«Quando Monica Vitti era a Milano per recitare
%PQPMBDBEVUB, il dramma che Miller aveva dedicato a Marilyn, decidemmo di dare una festa nel
mio studio con un gruppo di musicisti rock che ricordavano i Beatles. Arrivò la polizia tanto era forte la musica. C’erano anche Gian Maria Volontè,
la Gravina e Lou Castel reduce da *QVHOJJOUBTDB
di Bellocchio. Le arti si mescolavano. Non come
oggi che si vive per compartimenti stagni».
È vero che la Pivano amava i suoi gioielli?
«Nanda vestiva fuori da ogni schema. Completava l’abbigliamento con decori etnici e primitivi.
Per lei ho realizzato un bracciale-scultura quasi
importabile, che però riusciva a indossare con
grazia. Tempo dopo, decise di ridarmelo. “Regalalo a una donna che ami” mi disse».
Ricorda l’invasione degli americani in Laguna?
«Fu entusiasmante conoscere Rothko o de Kooning. Peggy Guggenheim fu la prima americana
che mi comprò un lavoro. L’idea che fosse lei ad acquistare un mio pezzo equivaleva a un sogno».
Ma lei vendeva già in America?
«Feci una mostra nel 1962 a Los Angeles. Vennero Angela Lansbury e Virna Lisi, che Hollywood stava cercando di lanciare al posto di Marilyn. Era bellissima e comprò una sfera».
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NAPOLI
ONO LE FOTO NEI CORRIDOI A RACCONTARE come sono cambiati i
protagonisti. Per alcuni fortunati il tempo sembra essersi fermato, per gli attori bambini le decine e decine di episodi segnano la crescita, come le foto scolastiche. Luca Turco (Niko)
aveva nove anni quando è entrato nella grande famiglia di
6OQPTUPBMTPMF, oggi è un bellissimo ragazzo di ventisei.
Tra cinque giorni, il 21 ottobre, la più longeva soap opera
italiana, un miracolo industriale made in Napoli, compie
vent’anni. La fabbrica della fiction è il centro di produzione
Rai di Fuorigrotta, a due passi dallo stadio. «Quando c’è la partita qui bisogna organizzarsi per tempo, i napoletani hanno
due amori: 6OQPTUPBMTPMF e il Napoli» sorride Alberto Rossi,
ovvero Michele Saviani, volto storico della soap. «Più che storico, preistorico, vent’anni sul
set, tutti i giorni: devi reggere fisicamente. La prima scena che ho girato è stata quella di
un funerale, ma ha portato bene». Con decine di attori “abita” in questa sede Rai austera e
vitale, inaugurata dall’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani nel 1963. L’Auditorium alla fine degli anni Sessanta ospitò uno dei gloriosi varietà della tv, 4FO[BSFUF, dove
sfilavano, da Mina a Venditti, le star della musica. Oggi, negli studi trasformati in salotti e
cucine, Marina Tagliaferri (Giulia Poggi) come se fosse a casa sua cerca una pentola: «L’avevo lasciata sul tavolo, non capisco chi l’abbia spostata». È qui che s’intrecciano amori,
dubbi, tradimenti, della più grande famiglia televisiva allargata, quella dei condomini di
Palazzo Palladini a Posillipo (per gli esterni si sono alternate Villa Lauro e la magnifica Villa Volpicelli), microcosmo di cui gli italiani conoscono segreti e virtù e meta di pellegrinaggio, tappa del turismo da fiction nato con Montalbano e*$FTBSPOJ. Seguito da oltre due milioni di spettatori (con l’8,5 di share), 6OQPTUPBMTPMF è il programma più visto di RaiTre,
con una community (alta percentuale di laureati) da nord a sud. Tanto che Diego Bianchi, in arte Zoro, chiama6OQPTUP"MDPB lo
spazio che, in (B[FCP, dedica alla battaglia
degli operai sardi usando la sigla della soap.
Esempio virtuoso di coproduzione tra pubblico e privato (Rai Fiction, FremantleMedia
Italia e Centro di produzione Rai di Napoli),
la fabbrica di 6OQPTUPBMTPMF non chiude mai.
Ideata da Giovanni Minoli, nasce dal format
/FJHICPVST, serie australiana (sulle famiglie
che vivono nell’immaginaria Ramsay
Street) scritta in Italia da Wayne Doyle con
Adam Bowen e Gino Ventriglia. Rielaborata,
la soap rivive a Napoli. «È la nostra %PXOUPO
"CCFZ» ironizza Patrizio Rispo, che interpreta Raffaele, il portinaio del palazzo di Posillipo dove tutte le storie s’intrecciano, «è lo stesso principio di 6QTUBJSTBOE%PXOTUBJST, la vita ai piani alti che s’incrocia con quella dei piani bassi». Rispo — compagno per fiction di
Marina Giulia Cavalli (la dottoressa Ornella
Bruni) — è quello che ha girato il maggior numero di scene: diecimilaquattrocento.
La produttrice esecutiva Renata Anzano è
il generale sul campo assegnata a questa
macchina che impegna duecentoventi persone: «Il nostro è un sistema industriale, ci sono
quattro registi perché dobbiamo produrre
cinque episodi a settimana e un episodio al
giorno, giriamo dal lunedì al venerdì, sempre, dalle nove alle diciannove. L’unica settimana che siamo fermi è quella di Natale. Qualunque cosa succeda, andiamo avanti, grazie
alla bravura degli attori. Quando Marzio Honorato (Renato Poggi) ebbe un incidente, abbiamo scritto che era caduto e si era fatto male al braccio. Il segreto è il rapporto strettissimo che c’è con la scrittura. Paolo Terracciano
e gli autori capiscono le esigenze produttive,
si adattano, a volte rinunciando alla loro creatività. Terracciano è il caposcrittore e poi ci sono tre editor, cinque story liner, quelli che
scrivono la puntata, più una serie di dialoghisti a cui viene dato il trattamento».
La visita guidata continua, Anzano spiega
che tutta la Rai diventa set: «Il cortile è bello,
vero? Abbiamo girato anche qui: lo abbiamo
trasformato nel cortile dell’ospedale». 6OQP
TUPBMTPMF segue il calendario. La puntata va
in onda diverse settimane dopo rispetto a
quando è stata scritta. Ma avvengono magie:
«Magari in un episodio c’è la battuta: “Certo
che quest’estate è caldo record” e quel giorno
a Napoli fa veramente caldo. Gli spettatori sono entusiasti ma è pura fortuna» scherza Ter-
la Repubblica
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Yasujiro Ozu
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Non so chi (vi) abbia segnalato che
sarei uno spettatore accanito e
affezionato di 6OQPTUPBMTPMF, in onda da
vent’anni su RaiTre. Lo seguo, è vero, ma
senza particolare trasporto. Non mi
appassiona, anche se lo trovo
appassionante. Mi irritò per i primi anni
perché segnava chiaramente il venir
meno della linea editoriale della “nostra”
rete (quella di Angelo Guglielmi),
erodendo lo spazio di #MPC mediante
privilegi feroci sanciti dalla tipica
“bibbia” necessaria per lanciare e
imporre un “format” di fiction
internazionale.
I nomi di personaggi e attori non li ho
mai davvero imparati, a differenza di
facce corpi sguardi situazioni; l’affetto
era e resta dovuto alla visione di sguincio
o di sbieco, occhi rimbalzanti di persone
amate — a cominciare da mia madre —
che lo apprezzavano e lo amavano, spiate
sorprese protette nell’eco telefonica o
nella curva bella tra nuca e spalle. E la
banale magnifica illusione ti lascia deluso
con tutti gli ossessi che credono di essere
entrati nel santuario delle immagini
ferme in moto. Perché quasi ogni serie ti
appare troppo lunga dopo mezza puntata
e troppo corta dopo venti ore o cento o
dopo vent’anni. Le immagini insomma
non durano abbastanza, o durano troppo
fino a far mancare la vita stessa,
oltrepassandola con la leggerezza
agghiacciante dell’Odradek di Kafka.
Ma basta davvero uno sciagurato o
salutare istante per accorgersi che un
posto al sole è garantito, e il casting della
serie “un posto nella vita” è spettacolo
infinito seppur risibile. Un trailer? Un
sopralluogo? Sia quel che è, il casting si
avviò fin dalle prime immagini Lumière
— La scelta è infinitamente finita. Una
goccia di pioggia ti porta ovunque. E
questa citazione da Jean Paul che vorrei
recitare mille volte: “La vita è
l’anagramma dei nostri desideri”. E
neanche chi vivrà vedrà.
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racciano che scrive la soap con Sara Rescigno
e Guglielmo Finazzer: «Cerchiamo di non tradire mai il patto di verosimiglianza, e teniamo alla commistione tra dramma e commedia. Il racconto quotidiano deve dare anche
positività. In questi anni abbiamo trattato
tutti i temi, dalla camorra all’omosessualità». «Nel format di 6OQPTUPBMTPMF», aggiunge Rescigno, «c’è la possibilità di avere un certo numero di guest, e questo elimina “l’effetto acquario”». «Napoli è grande protagonista», dice Finazzer, «la raccontiamo con le
sue ombre, ci siamo spostati dal mare nel centro storico». Gabriele Immirzi, direttore generale di Fremantle Italia sottolinea come «la
collaborazione con la Rai sia perfetta, siamo
un’unica squadra». E il vicedirettore di RaiFiction Francesco Nardella, che segue 6OQPTUP
BMTPMF da sempre, annuisce: «Ormai quando
vengo a Napoli non so più chi lavori per noi o
per loro. Il successo della soap nasce dal fatto
di potersi fidare reciprocamente, perché si
può parlare di tutto. La media di età del pubblico è ringiovanita, abbiamo attratto nuovi
spettatori. È venuta a trovarci l’ambasciatrice di Milk, l’associazione gay, per come avevamo raccontato la storia dei due adolescenti
omosessuali, una grande soddisfazione. Nel-
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la soap c’è l’assenza di manicheismo che non
significa buonismo, ma accettare i punti di vi sta più diversi. Si sarebbe potuta girare in
un’altra città? Forse no, Napoli la cultura
dell’accoglienza ce l’ha nel Dna».
Al cast fisso, diciassette protagonisti, si aggiungono una trentina di “attori ricorrenti” e
le guest star: ce ne sono state tante — da
Amanda Lear a Pupo, da Luigi De Filippo a
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Peppino Di Capri. Il set è stato galeotto: Mi'*-*110*-#3"703"(";;0
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chelangelo Tommaso (Filippo Sartori) fa cop4&3&/"-"/&0-"63&"5"
pia con Samanta Piccinetti (Arianna Landi)
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e hanno una avuto una bimba, Sole (guarda
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un po’) Caterina (in omaggio a Santa Cateri/*/"40-%"/0
na da Siena); Serena Rossi, che interpretava
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il personaggio di Carmen, è la compagna di
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Davide Devenuto (Andrea Pergolesi) ed è in
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attesa di un figlio. La soap ha lanciato registi
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come Gabriele Muccino, Stefano Sollima, Lu03/&--"-".0(-*&%*3"''"&-&
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cio Gaudino. «Un mondo», sorride Francesco
(*6-*"-"44*45&/5&40$*"-&
Pinto, direttore della sede Rai di Napoli, sedu-6*4""."56$$*
to alla sua scrivania con alle spalle un magnifi4*-7*"-"13013*&5"3*"%&-$"''μ76-$"/0
co dipinto del Vesuvio: «6OQPTUPBMTPMFha
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cambiato la concezione industriale della fic5&3&4"-"/0//"
tion. L’anno prossimo faremo una puntata
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speciale: in diretta. È una grande sfida ma sia7*0-"-"'*(-*"%*03/&--"
mo pronti. Pure gli attori ne sono entusiasti».
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ROMA
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EIL GERSHENFELD, classe 1967, cammina veloce
fra i padiglioni della Maker Faire di Roma in una strana giornata calda e ventosa ma con il cielo grigio. Direttore del Center for Bits and Atoms del Massachusetts Institute of Technology (Mit), autore fra gli altri di 2VBO
EPMFDPTFJOJ[JBOPBQFOTBSF (Garzanti) e 'BC5IF$PNJOH
3FWPMVUJPOPO:PVS%FTLUPQ, è considerato il padre dei
“fab lab”. Abbreviazione di GBCSJDBUJPOMBCPSBUPSZ, ovvero piccole officine dedicate alla fabbricazione digitale.
Nati negli anni duemila, dopo la grande crisi delle
dot-com del 2009 che ha dato vita alla cultura dei
maker, i fab lab costituiscono in qualche modo le
radici di quella che sarebbe poi diventata la Maker Faire. Che oggi compie dieci anni. Non è un caso che sul primo numero di .BLF.BHB[JOFdi Dale Dougherty, che poi creò la fiera, ci fosse
una sua lunga intervista. E non è un caso che Gershenfeld sia l’ospite
d’onore dell’edizione europea organizzata in questi giorni a Roma.
«Intanto bisogna chiarire alcuni equivoci», mette le mani avanti Gershenfeld. «I fab lab non sono dei garage dove
si stampa in 3d né semplicemente un luogo dove si produce attraverso delle macchine controllate da un computer.
I fab lab sono fabbricazione digitale: il loro scopo è creare
materiali, processi e controllare la produzione attraverso
computer. Che ha implicazioni molto più profonde di quel
che si crede. La stampante 3d è uno degli strumenti meno
usati. In secondo luogo i fab lab sono una rete, così come lo
è internet. Il web non viene definito dai singoli nodi o computer, ma dal fatto di essere, appunto, un network. Dai
mille fab lab nel mondo nascono business, attività, creazioni; condividono fra loro conoscenza e progetti. Così come i computer e la comunicazione sono divenuti a un cer/"4$&46,*$,45"35&3
to punto digitali, quel che fanno i fab lab e i maker è far
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diventare la fabbricazione digitale. Non è tanto impor3*%055*&$0/4&/5&
tante l’atto in sé, quanto creare attraverso il codice i
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materiali stessi fino a toccare i processi e l’organizza4$*&/5*'*$)&'"*%"5&
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la Repubblica
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Se ognuno di noi può fabbricare qualunque cosa,
il futuro della manifattura e dell’industria cambia».
È un sogno che i maker coltivano
da molto tempo. Uscire dalla società dei consumi così come la conosciamo. Ma è
ancora un sogno.
«Non possiamo ancora competere con la produzione di massa e con prezzi tanto bassi, ma la
produzione di massa non può competere con le
personalizzazioni che si possono creare in un fab
lab. La musica un tempo era rappresentata dalle
etichette. Ci sono ancora, ma hanno un ruolo minore e le persone accedono ai brani in tante maniere diverse e possono anche crearne di propri e
condividerli. Anche se le produzioni locali non sostituiscono quelle seriali, di fatto finiranno per
cambiare il mondo».
È un’alternativa al mercato?
«Una alternativa al mercato di oggi. In Spagna
è nato il progetto Fab City, supportato dalla sindaca di Barcellona, che coinvolge altre città come Amsterdam e ha ottenuto finanziamenti per
milioni di euro dall’Unione europea. L’idea è di installare una serie di fab lab per produrre localmente tutto quel che serve evitando di importare merci con quello che ne consegue in termini di
sprechi, trasporto, inquinamento. Con la Croce
Rossa stiamo lavorando per portare nelle zone disagiate laboratori capaci di fabbricare medicine
piuttosto che inviarle dall’altro capo del mondo».
Ma lei è sicuro che ci siano così tante persone
in giro che hanno voglia di mettersi a costruire macchine per costruire altre macchine?
«La tipologia di persone che ha creato la Silicon Valley o la cultura dei maker è molto più diffusa di quel che si crede. La differenza è che in molti posti non può emergere né seguire la strada
che vorrebbe. Sono individui invisibili, eppure
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ogni volta che apriamo un fab lab escono allo scoperto e badi che parlo del Ruanda, del Ghana o
della Norvegia settentrionale, non degli Stati
Uniti. La nostra società ha separato per anni in
maniera chirurgica il lavoro dall’apprendimento
e dal divertimento. In pratica, stiamo uccidendo
le nuove generazioni in questo modo, e stiamo
impedendo che nascano nuovi lavori legati a
quel che davvero serve».
Qual è la reazione delle grandi compagnie alla
rete dei maker e dei fab lab?
«Collaboriamo con grandi multinazionali come la Philips, Boeing o Nike. Molte di loro sanno
perfettamente che il mondo nel quale sono ora
sta per finire entro quaranta o cinquanta anni.
Ma vogliono continuare a giocare un ruolo fondamentale. Domani quindi più che fabbricare una
scarpa, forniranno il design per costruirla o suggeriranno i colori o, ancora, venderanno i materiali. Questo varrà per cose come gli aerei, ma anche per gli elettrodomestici. In Cina, per esempio, i fab lab sono stati accolti con grande interesse, al contrario di quel che si potrebbe pensare,
anche e soprattutto dal governo. Perché invece
di produrre un oggetto in quantità enormi per il
mercato globale, costruiranno gli strumenti per
produrlo localmente e su misura. Sanno che il loro modello di business cambierà ma questo non
significa che non ci sarà un business. In fondo è la
stessa cosa successa ai computer, divenuti oggetti a basso costo e molto accessibili. E tanti che prima vivevano costruendoli e vendendoli a caro
prezzo, oggi invece prosperano vendendo servizi
digitali. Google e Facebook forniscono gratuitamente i loro servizi mentre in passato altri chiedevano dei soldi. In futuro succederà qualcosa
del genere anche nel mondo degli oggetti. Per
questo, all’inizio, dicevo che quello che i fab lab e
i maker stanno facendo è far diventare la fabbricazione digitale. Con tutto quello che implica».
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SPASSO CON LE API. Dal Gran Paradiso alle Madonìe, dai boschi della Ma-
remma a quelli delle Dolomiti, sulle rive del Garda e alle falde del Vesuvio. Tornano a casa in questi giorni, dopo una meravigliosa estate vacanziera, fatta di aria pulita, profumi inebrianti, nettari irresistibili di
infinite fioriture selvagge. Lontane dai pesticidi (nicotinamide in primis) che le avvelenano azzerandone il senso dell’orientamento e condannandole a morte lontano dall’alveare a cui non sanno più fare ritorno.
Non c’è bisogno di scomodare Einstein, vera o falsa che sia la sua denuncia sul legame letale tra fine delle api e fine dell’umanità. La vita
del pianeta dipende in larga misura dalle impollinazioni, e nessuno
meglio delle api conosce il mestiere del volare “di fiore in fiore”. Un
battito d’ali dopo l’altro, le bottinatrici portano negli apiari il loro prezioso bottino, da trasformare
rapidamente nel cibo degli dei. Li chiamano mieli nomadi e fanno parte di una tradizione millenaria mai dismessa, malgrado negli anni le api siano state incardinate come tutti gli animali da reddito ai comandamenti dell’industria alimentare. Certo, piegare le api alle esigenze del “tanto a poco”
non è semplice, come testimoniano i moltissimi episodi di morìe apparentemente inspiegabili. Più
facile truccare quel che viene prodotto, riscaldando e miscelando, e pazienza se le analisi chimiche
e organolettiche non sono specchiate. Resilienti e resistenti, gli apicoltori che amano e rispettano
queste straordinarie micro-operaie del gusto continuano a portarle a spasso, in una sorta di transumanza ronzante.
Il percorso tra pianura e montagna o da una nomade, invece, è quasi sempre millefiori, percollina all’altra è compiuto con le api ben protet- ché a essere glorificato è il terroir di cui porta il
te negli alveari, mentre i loro custodi individua- nome in etichetta. Privilegiati, naturalmente,
no i paradisi ecologici in cui liberarle. Al ritorno, sono gli alpeggi, quegli stessi che rendono le
il miele viene ricavato senz’altra intrusione del- mucche felici e con loro gli appassionati dei forlo smielatore — cilindro rotante che separa il maggi di latte di pascolo. La stessa genziana
miele dai favi — e del rifrattometro per control- che punteggia di blu la pasta delle tome di mallare l’umidità. Ma non è un generico miele: mu- ga dell’alto Piemonte regala una nota piacevoltuando la dizione enologica, si tratta di veri e mente amaricante al miele prodotto ai margini
propri “cru”, perché figli di un luogo unico e vo- del pascolo. Così, gli apicoltori transumanti sono diventati compagni d’elezione dei raccoglitocato.
Nelle produzioni artigianali, le stagioni ca- ri di erbe selvatiche e adottare un alveare il nuodenzano quelle di primavera e quelle d’estate, vo modo di amare la natura, assicurandosi una
figlie di fioriture diverse e riconoscibilissime. riserva di miele meraviglioso, panacea di tutti i
Oppure vengono esaltate le singole piante o me- guai da raffreddamento.
Con le temperature autunnali, mai cura prelate (resine zuccherine) tipiche di un territorio
incontaminato: i carciofi dell’isola-orto di ventiva vi sarà sembrata tanto dolce.
Sant’Erasmo o il corbezzolo di Gallura. Il miele
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INGREDIENTI
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1 PEPERONCINO ROSSO, 2 SPICCHI DI AGLIO, 100 GR. DI FONDO DI VITELLO,
20 GR. DI MIELE DI CORBEZZOLO, 1 MELA VERDE (GRANNY SMITH),
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pepe rosa. Spegnere e raffreddare. Bucherellare la lingua con un ago, immergerla nel liquido, coprire con
un peso, lasciare cinque giorni in frigo, poi lavarla e cuocerla
in acqua un’ora e mezza per ogni chilo di carne, raffreddare e
pelare. Mondare il broccolo, tagliarlo a pezzi, lessare e frullare con poca acqua. Soffriggere aglio, acciuga e peperoncino,
aggiungere la crema, far prendere bollore, spegnere, togliere l’aglio e rifrullare. Raffreddare e riporre in frigo. Ridurre il fondo di vitello di un terzo del suo peso.
Una volta tiepido, aggiungere il miele e mantenere
a bagnomaria. Affettare la mela, mettere sottovuoto con il succo e lasciare in frigo due giorni. Impiattare con la crema tiepida a
specchio. Sopra la lingua affettata e
glassata, alternando con la mela. Rifinire con erbe spontanee e cioccolato bianco grattugiato.
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LI UOMINI HANNO sempre
cercato il dolce, spinti non
solo dall’appagamento
del gusto ma anche dalla
convinzione che il dolce
sia il sapore più “giusto”, buono e
salutare. In questa ricerca, il loro primo
alleato sono state le api. Per un
lunghissimo arco della nostra storia, la
voglia di dolce è stata soddisfatta dal
miele. Miele dappertutto. Non solo nelle
focacce, nei biscotti, nelle frittelle, ma in
ogni genere di piatto: l’idea che il dolce
renda migliore il salato, che temperi e
completi l’acido e l’amaro ha fatto parte a
lungo della cultura alimentare degli
uomini, nei più vari contesti culturali – la
tradizione mediterranea ed europea,
quella indiana, quella cinese. Ecco perché
la cucina antica letteralmente gronda di
miele: nel ricettario di Apicio si mescola
all’aceto, al pepe, alla salsa di pesce,
dando ai sapori una complessità che noi
troveremmo disorientante. I ricettari
medievali proseguono questa tradizione:
miele nelle frittelle dolci (un libro toscano
del Trecento, dopo avere insegnato come
si fanno, raccomanda: “mettivi su del
mele bollito, e mangia”) ma anche sulle
carni (il piccione al miele è un classico
della cucina araba dell’epoca) e
dappertutto. Perfino nelle bevande: il
miele si mescolava al vino per addolcirlo,
o all’acqua, che, fermentata dal miele,
diventava idromele. Fu proprio negli
ultimi secoli del Medioevo che al miele si
affiancò un prodotto nuovo, lo zucchero.
Anch’esso fu utilizzato come dolcificante
a tutto pasto e le due storie per un po’ si
incrociarono, per poi imboccare direzioni
diverse e destinazioni (sociali) ben
distinte: lo zucchero, costosissima merce
importata dai mercati orientali o
marginalmente prodotta nel sud estremo
d’Europa, diventò un segno di distinzione
dell’alta cucina; il miele sempre più si
caratterizzò come dolcificante “povero”, il
solo alla portata dei comuni mortali.
I dolci di campagna, come i pani
addolciti che accompagnavano le feste
natalizie, erano tutti a base di miele: “i
nostri contadini”, notava l’agronomo
bolognese Vincenzo Tanara nel
diciassettesimo secolo, “impastano la
farina con lievito, sale, e acqua,
incorporando dentro uva secca, e zucca
condita con miele, aggiuntovi pepe, e ne
fanno una pagnotta grossa, quale
chiamano Pan da Natale”. Variante
povera delle antiche ghiottonerie
dolci-salate-speziate. Sappiamo come è
andata a finire. Sempre più abbondante e
meno costoso, anche perché prodotto
nelle sterminate piantagioni coloniali
lavorate da schiavi, nei secoli della
modernità lo zucchero è diventato merce
per tutti e ha pervaso cibi e bevande,
assecondando gli interessi dell’industria
e riuscendo nella non facile impresa di
costruire attorno al dolce inedite
immagini di timore, sospetto, diffidenza,
che i nostri avi non avrebbero compreso.
E come per magia il miele torna di moda,
diventa chic. La storia dei cibi è sempre
(anche) una storia di immagini.
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la Repubblica
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È il più famoso compositore italiano vivente ed ha appena ricevuto
il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia. Eppure non ha
nulla del “parruccone” vanesio e solenne. Forse perché è sempre
stato un allergico alle accademie: “Mai fatto studi tradizionali, per
me conta l’insieme del sapere: saggi, poesia, scienza. Se ci si specializza troppo la testa non si apre. Non si possono imparare a scuola
grammatica e sintassi e poi sentirsi poeti”. Sa bene che la sua musica, quella colta, “passa per esse- Roma
la mattina presto. Gioca, scherza, divaga, suggerisce, commenta. Emana qualcosa d’innocente e impudico, da folletto. Nulla di solenne o istituzionai suoi discorsi. Si colloca all’opposto del grande compositore parruccoe vanesio. Sembra appagato, salutista e zen. Da oltre un trentennio ha prere noiosa e ansiogena”. Ma una ri- lenesosfiora
casa a Città di Castello, «tuffato nel verde e respirando aria pulita, fondamentale per le mie allergie». Parla del proprio corpo e del suo tono energeti«Per tenermi in forma cammino moltissimo, dai sei ai dodici chilometri al
cetta lui ce l’ha: “Fare tabula rasa co:
giorno, e faccio tanto l’amore». Si è stabilito nella cittadina umbra perché vi
ha trovato la dimora che cercava, «duecento metri su tre piani, dove ho potumettere tutta la mia biblioteca e la mia folta quadreria». A Roma è di pasdi pubblicità, televisione e inse- tosaggio
dopo aver ritirato il suo Leone, e narra che la cerimonia veneziana è
stata «un po’ una festa di compleanno, che mi ha fatto evadere dalle mie abidi uomo schivo e riservato».
gnanti. Infine, imporre un po’ di tudini
La motivazione del premio lo ha definito un autore capace di conquistare
dimensioni sonore inaudite, “mostrando come la musica, per rinnovarsi, debba uscire da forme storicizzate e divenire un’esperienza dove lo spettatore è
silenzio”
al centro di fenomeni misteriosi e quasi ancestrali”. In effetti certi suoi lavori
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ROMA
fingere che
non sia vero. I pezzi “classici” composti oggi o nel passato prossimo pesano come sassoloni nelle scarpe di molti spettatori. Che fine ha fatto la melodia? Dov’è il piacere dell’ascolto? L’atonalismo
e la dodecafonia hanno prodotto guasti mai sanati nel rapporto tra
autori di estrazione colta e pubblico. Lo sa bene Salvatore Sciarrino, il più famoso compositore italiano vivente. È troppo intelligente per non saperlo. Però sostiene di non crederci. A suo parere quelle difficoltà dipendono dagli esiti di eccessivi condizionamenti sensoriali: «Certa musica risulta ostica a causa di un diffuso imprinting negativo. L’intero clima sonoro che ci circonda
ignora la libertà d’ascolto e impone esclusivamente la musica leggera: la pubblicità, la televisione, gli insegnanti nelle scuole... Andrebbe fatta tabula rasa». In verità, segnala, «tutta la musica colta, e non solo la contemporanea,
passa per noiosa e ansiogena. Tempo fa mi capitò di sottoporre, per conto di
un istituto di psicologia della musica, un gruppo di bambini a una serie di
test, constatando che associavano un quartetto di Beethoven a un’invasione di marziani». Intende dire che già da piccoli siamo plagiati musicalmente? «Esatto». Ma come si fa a partire da un grado zero dell’ascolto in
questa nostra realtà soffocata dal rumore? «Tramite un lavoro di ecolo-
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A MUSICA CONTEMPORANEA È UN GUAIO GROSSO: inutile
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gia. Da ragazzino, in Sicilia, facevo ascoltare Stockhausen nei circoli di paese e gli uditori sentivano il suono
dell’acqua o il canto degli uccelli. Se si è dentro la routine della vita, non si fa altro che parlare. Parli e parli, senza riflessione: il tacere ci dà ansia. Solo nel silenzio sarà possibile riflettere e ascoltare».
Sciarrino ha appena ricevuto il Leone d’oro alla carriera per la musica dalla Biennale di Venezia: riconoscimento alto e meritato per un creatore eretico e genialmente singolare, ormai eseguito in tutto il mondo. A
quasi settant’anni (li compirà nel 2017), mantiene
un tono scanzonato da ragazzo. È il più buffo e gradevole incontro che si possa fare in un caffè del centro di
strumentali danno l’impressione sorprendente di percorrere il limite magico
tra suono e silenzio, movimento e stasi. Poco o niente succede nella sua musica, recitava la laudatio del Salzburger Musikpreis attribuitogli nel 2006. Ma
quel niente, che penetra nei più reconditi moti naturali, si affaccia sull’infinito. E fa scoprire l’infinitamente piccolo come gli Haiku giapponesi, di cui
Sciarrino è un cultore dall’infanzia, «quando ebbi la fortuna di leggere il maestro Basho, asceta del periodo Edo. Le sue poesie rapide ed essenziali fanno
percepire con immediatezza il mondo esterno per trarne un ritmo e una successione».
Salvo, come lo chiamano gli amici, è stato un bimbo precoce: nato a Palermo in un famiglia piccolo-borghese, dipingeva quadri a quattro anni,«e a nove ero giunto all’informale dopo aver visto riprodotte le opere di Burri. Ne avevo dodici quando la musica ha fatto irruzione nella mia vita, senza studi tradizionali: mai avuto un diploma di conservatorio». È un autodidatta ostile agli
accademismi: «Da ragazzo mostravo i miei esperimenti musicali a un compositore, Antonino Titone, fondatore delle settimane di Nuova Musica di Palermo, manifestazione profetica e seguita a livello internazionale, dove a diciott’anni venni stroncato dalla critica perché scrivevo cose non somiglianti a
niente». Osserva che i musicisti tendono a essere corporativi, «mentre per
me conta l’insieme del sapere: saggi, poesia, temi scientifici. Da bambino studiavo i minerali e prendevo la corriera per fare ricerche sui terreni in collina
come un archeologo». Diffida degli apprendimenti schematici: «Se ci si specializza troppo la testa non si apre. Sono un anti-scolastico cresciuto con felice
libertà». Era in seconda media quando Titone controllava i suoi abbozzi musicali, «ma senza impormi manuali. “Questo tuo passaggio funzionerebbe meglio se guardi i /PUUVSOJ di Debussy”, mi diceva. Io oggi insegno nello stesso
modo». A Siena, come a Boston e a Toronto, ha un approccio didattico molto
differente da quello in uso nei conservatori: «Non si possono imparare a scuola la grammatica e la sintassi, e poi sentirsi poeti. Perciò parto dal linguaggio
dei grandi compositori: solo analizzando in profondità le loro partiture si as-
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sorbiranno certe caratteristiche».
Durante il suo apprendistato, confessa, è stato vittima di «alcune malattie della musica contemporanea, dall’aleatoria al grafismo, per
poi trovare la mia strada, senza ideologie né filiazioni». Prima di approdare a Città di Castello ha vissuto sia a Roma, «dove ho fatto anche il copista per Ricordi», sia a Milano, «dove mi diedero un posto
al conservatorio per chiara fama, poiché avevo già debuttato alla
Scala. Mi è successo tutto in anticipo». Oggi ha al suo attivo più di
un centinaio di cd e ha composto varie opere liriche, con una sensibilizzazione progressiva per l’uso della voce: «Via via ho compreso che il mio modo di usarla non era caratterizzato come
negli strumenti, e ho messo a punto un mio stile vocale utile ai lavori teatrali». Ama il racconto scenico e gli piace
ispirarsi alle passioni nere e antiche: la follia di Torquato
Tasso, il suicidio di Borromini, il principe omicida Gesualdo da Venosa. Rievoca e trasforma con partecipazione
emotiva Mozart, Scarlatti o Gesualdo, filtrando dentro un
linguaggio nuovo, ombroso e poetico, la sua fiducia nella
musica del passato. L’ultima figura a cui ha voluto dedicarsi è il compositore secentesco Alessandro Stradella, che rappresenta lo spunto dell’opera 5JWFEPUJ
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ad accoglierne il debutto scenico il 14 novembre. Il
soggetto «riguarda il potere di seduzione della musica e l’erotismo». D’altronde il corpo è sempre al centro
dell’arte di Sciarrino, che pare come stupefatta di fronte
ai miracoli della natura e dei tesori sensoriali: «Io non prescindo mai dalla fisicità del suono».
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