L`Europa respinga gli antichi fantasmi

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L’Europa respinga gli antichi fantasmi
Solo una macabra farsa: questo era il referendum ungherese contro gli stranieri e contro “i diktat” di
Bruxelles fortemente voluto dal premier Viktor Orbàn. E tale si è rivelato. II popolo cui amano fare
appello piccoli e grandi dittatori questa volta ha preferito tacere. Forse ha fiutato l’inganno e ha
evitato di acclamare l’uomo forte di Budapest. Ma il danno resta per l’immagine di quel Paese e per
il destino futuro dell’Europa. La grande speranza si è rivelata una fugace illusione: avevamo
creduto che la caduta del Muro di Berlino se non proprio la “fine della storia” avesse, almeno in
Europa, segnato la fine dell’età dei muri e dei reticolati di filo spinato. E invece sta accadendo
esattamente il contrario. Quella che una volta tra ammirazione e sospetto veniva chiamata
Mitteleuropa sembra tornata preda di antichi fantasmi e di pulsioni identitarie nell’illusione di
trovare risposte alle sfide del mondo globale in una inattuale autarchia economica e spirituale. I
governanti dei Paesi dell’Est Europa capeggiati proprio da Orbán credono possibile dare risposta
alla sfida planetaria rappresentata dalla migrazione di popolazioni in fuga dalle guerre del Medio
Oriente, o dalla miseria del continente africano, ricostruendo quella che, per più di mezzo secolo,
era stata causa delle loro sofferenze: una nuova cortina di ferro. Un passo dopo l’altro, una crisi
dopo l’altra, dunque, l’Europa procede spedita verso la sua disunione politica e culturale: come
capitò ai sonnambuli che scivolarono senza neppure averne consapevolezza nella Prima guerra
mondiale, gli europei potrebbero uno di questi giorni scoprire di aver superato il punto di non
ritorno verso uno storico fallimento. Un fallimento che appare tanto più paradossale in quanto i
governi dei singoli Paesi cercano risposte nazionali, o peggio ancora nazionaliste, a sfide che essi
stessi definiscono di natura globale e condannano in tal modo i propri Paesi e l’intera Europa ad un
declino irreversibile. Oggi, come accadde negli anni ’20-’30 del Novecento, assistiamo infatti allo
scontro di “due Europe”: quella che crede che sia possibile governare le metamorfosi in atto nel
segno della giustizia sociale, della libertà e dell’universalismo dei diritti. L’altra che, invece, fa
politica con la paura e l’odio e insinua la velenosa convinzione che sia possibile impedire
l’irruzione del mutamento innalzando Muri e chiudendo i confini nazionali. Sappiamo come andò a
finire allora. Non è del resto un caso che, da buon conoscitore della storia europea, Helmut Kohl nel
discorso tenuto nell’ottobre del 1993 dinnanzi all’Assemblea nazionale francese avesse messo in
guardia gli europei ricordando loro che «gli spiriti maligni non sono stati banditi per sempre
dall’Europa» e ammonendo che «ad ogni generazione si pone di nuovo il compito di impedire il
loro ritorno, di superare i pregiudizi e di far cadere i sospetti. La previsione fatta dal Cancelliere
dell’unificazione tedesca appare drammaticamente confermata da quanto accade oggi in tutto il
Vecchio Continente, dalla Brexit all’anarchia spagnola. E soprattutto dall’enorme potenziale di
consenso che movimenti xenofobi e populisti riescono a catalizzare anche in Paesi di antica civiltà
giuridica e storica tradizione di universalismo politico com’è il caso della Francia. La verità è che in
quel Paese come in molti altri, Italia compresa, si contrappongono, provocando una crescente
conflittualità politica e spirituale che supera la classica contrapposizione tra destra e sinistra, due
“visioni del mondo”. Una è convinta non solo della possibilità di governare la dimensione di questo
esodo carico di tragedie, ma anche che questo fenomeno rappresenti un obbligo morale e al tempo
stesso una opportunità per il futuro che altrimenti la demografia condannerebbe a un declino
irreversibile. L’altra è una “visione del mondo” dominata da dubbi e paure, da pregiudizi ma anche
da timori diffusi tra le parti più deboli, socialmente e culturalmente, delle società europee sulla
possibilità di riconquistare o quanto meno di difendere determinati livelli di sicurezza sociale. Come
pure i valori tradizionali che guidano il funzionamento della vita quotidiana, minacciati dalla
sensazione di non essere più padroni del proprio destino di cui è metafora la crisi della sovranità sui
confini nazionali. Oggi è molto difficile formulare una ragionevole previsione sui destini d’Europa
o addirittura di quello che abbiamo imparato a indicare, dopo la fine della Seconda guerra mondiale,
come l’Occidente. Non sappiamo se le istituzioni dell’Unione europea reggeranno l’urto del
terribile ciclo elettorale che vedrà coinvolti nei prossimi dodici mesi — nel settembre del 2017 si
svolgeranno le elezioni in Germania — praticamente tutti i principali Paesi del Vecchio continente.
Né quale America uscirà dal confronto tra il feroce populismo di Trump e l’occidentalismo
tradizionale ma dallo scarso carisma di Hillary Clinton. Certo tutto sarebbe diverso se l’Europa
fosse in grado di esprimere una politica, se sapesse e potesse parlare con una sola voce. Se: ma non
è cosi. Le democrazie europee strette in una implacabile tenaglia, da un lato le questioni globali e
dall’altro la necessità di conquistare legittimità politica parlando un linguaggio locale, tra dover
elaborare un ‘nuovo racconto che tenga conto delle mutate condizioni geo-politiche e geoeconomiche del pianeta-mondo dell’età globale e dover dare ascolto alle attese spesso corporative
di cittadini protagonisti di cicli elettorali sempre più brevi, rischiano il corto circuito. Se da qualche
parte in Europa c’è qualche leader capace di impedire che essa faccia bancarotta una seconda volta
nel giro di un secolo, è questo il momento che si faccia sentire. Hic Rhodus, hic salta.
Angelo Bolaffi, Repubblica, 3 ottobre 2016