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Non so dove mi porterà, #1
Federico Malvaldi
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Me ne andai di casa perché non ne potevo più di cenare alle otto e mezza, ogni maledetta sera che Dio o
chi per lui, mandava in terra. E poi dovevamo stare lì, un’ora tra silenzi pieni di parole non dette che ti
trapanavano il cervello, o a parlare di cose di cui, in genere, a nessuno frega mai un cazzo.
Mi sarei dovuto mettere sulla strada,questo avrei davvero voluto. Ma la verità è che non avevo il
coraggio per affrontare un’avventura alla Jack Kerouac e, diciamola tutta, Pisa non è gli Stati Uniti
d’America.
Dove sarei potuto andare? In autostop fino a Roma a trovare Mirko, quel folle ubriacone che studiava
fotografia per cinema, o a Trieste da Carlotta, la più bella ragazza che avessi mai visto? E poi? E poi sarei
tornato a morire di una vita non vissuta. Era questo il mio problema: avevo una folle voglia di vivere,
ma non sapevo come fare, o forse, semplicemente non avevo il coraggio. Appunto.
Mi portai via solo una valigia con dei vestiti, il computer e la macchina fotografica. Ero convinto non
mi servisse altro nella vita che un qualcosa per scrivere e la macchina fotografica per creare vite e storie
da vite e storie che già esistevano.
Era venerdì, erano le dieci e io ero davanti al portone del palazzo dove sarei andato a vivere. Avevo
trovato quel posto grazie ad un annuncio pubblicitario pubblicato sul giornale. La cosa buffa è che non
leggevo mai i giornali perché li trovavo inutili e pieni di cose dette a metà, ma quel giorno la sorte aveva
voluto che mi ritrovassi senza aver nulla da fare per mezz’ora, privato di un ben più gradito Hemingway
o di un Bukowski. Mi stavo fumando la sigaretta del dopo caffè quando lessi l’annuncio: pensai subito
che fosse tutta opera del destino.
Il pomeriggio stesso chiamai il numero dell’annuncio per fissare la stanza, la sera annunciai ai miei che
me ne sarei andato, a notte inoltrata chiamò Alberto per dirmi che se volevo c’era un posto al teatro Sax,
dove lui lavorava. Quindi lasciai anche il mio inutile lavoro da cameriere, ovviamente. Me la sarei cavata
con quei duecento euro al mese e con le lezioni di pianoforte alle bambine ricche dei pochi ricchi di
Pisa. E poi avrei scritto e finito l’università, ma più che altro scritto: drammaturgie, sceneggiature e
magari quel romanzo che non avevo mai trovato il tempo di scrivere.
Ero giovane, anche se non troppo, e pieno di speranze: sembrava che qualcosa potesse cambiare
davvero.
Come dicevo ero lì davanti al portone. Il palazzo si trovava sui Lungarni. Suonai e mi rispose una voce
di donna. «Chi è?» Chiese. «Sono il nuovo coinquilino». Il portone si aprì e io entrai. Dovevo arrivare
fino al quinto piano. Dopo cinque minuti di salita e un bel po’ di sudore speso a causa della valigia
maledettamente pesa, mi ritrovai davanti una donnina bassa e un po’ grinzosa. «Salve» le dissi. «Entra»
mi disse lei studiandomi con due grandi occhi azzurri. Mi accompagnò in cucina. Tutte le porte della
casa erano chiuse, ma da quello che pensai fosse il salotto, veniva una luce di televisore. La porta era a
vetri.
«Muoviti» esortò la donna. La seguii. La cucina era un ambiente semplice, senza troppe pretese ma
molto ordinato. Mi fece segno di sedermi al tavolino e io obbedii. Lei prese la macchina del caffè e me
ne versò un po’ in una tazza ammaccata, lei non lo prese. La ringraziai senza osare chiedere se avesse
dello zucchero e bevvi il caffè. Era buono.
«Devo dirti poche cose, non ci metterò molto.» Esordì guardandomi negli occhi.
«Mi dica.» Risposi.
«Il padrone di casa, il Signor Marquez, non è un tipo facile. Sa, ha fatto la guerra ed è cieco.»
La guardai senza capire. Non sapevo di nessuno Signor Marquez, ero convinto che in quella casa
vivessero altri studenti come me. Lei sembrò leggermi nel pensiero. «No, questa non è una casa per
studenti, ragazzo. Qui vivrete tu e il Signor Marquez e io verrò ogni mattina, esclusa la domenica, a fare
le pulizie e a preparare la colazione e il pranzo a lui. La domenica… dovrai pensarci tu.»
«Cosa?» Chiesi spiazzato.
«Quanto spendi per la stanza?» Mi chiese accigliata.
«Cento euro.” Dissi iniziando a capire dove stesse la trappola. «E non ti sembra poco?» Mi chiese ancora
lei.
Deglutii.
«Chi è questo Signor Marquez?» Le chiesi agitandomi sulla sedia.
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«È un uomo come un altro, solo che è cieco.»
«Meraviglioso.» Iniziai a pensare di andarmene ma lei mi bloccò. «Il contratto dura almeno tre mesi, lo
sai bene ragazzo. Altrimenti devi sborsare tremila.»
«Eh, ma questa è una fregatura» le risposi.
«Dovevi informarti sui coinquilini.» Disse lei sorridendo divertita.
Vecchia rugosa, ero fregato. Pagavo sì, poco, ma sarebbe andata a finire che dovevo fare da badante a un
vecchio cieco. E così da dover pensare a tutti i casini da cui ero fuggito mi ritrovavo a dover preparare la
colazione a uno sconosciuto.
«Andiamo figliolo, si tratta solo di un giorno alla settimana»
«Ma io nemmeno lo conosco questo!» protestai.
«Lo conoscerai, non avere furia. Ora vieni che ti faccio vedere la tua stanza.»
Si alzò senza darmi il tempo di aggiungere nulla e si avviò lungo il corridoio della casa. Mi alzai e mi
affrettai a seguirla. Sculettava come un’oca, da giovane probabilmente aveva fatto bollire il sangue di
tanti. Arrivammo davanti a una porta di legno, lei tirò fuori una chiave e l’aprì. C’era un letto attaccato
al muro, un armadio e una scrivania. Una finestra dava sui lungarni, in direzione del mare. Non era così
male.
«Posso avere una chiave?» Le chiesi. Lei estrasse la sua dal suo mazzo e me la consegnò, dicendomi che
avrei dovuto fare al più presto una copia per consegnarla a lei che doveva pulire e quando doveva pulire
non le importava che io dormissi o scopassi con una o con uno, anche questo le importava poco, lei
doveva entrare e pulire e non sarebbe stata ad aspettare me.
Quando la donna tornò in cucina io sistemai la mia roba. Mi ripromisi di passare i prossimi tre mesi
resistendo, per poi andarmene davvero sulla strada. A Parigi c’erano degli amici, sarebbe diventata
quella la mia meta. Ero senza speranze.
Dopo aver sistemato tutto andai in cucina, chiesi del bagno alla vecchia e mi feci la prima pisciata nella
mia nuova casa. Ora ero curioso di conoscere quel signor Marquez a cui avrei dovuto preparare la
colazione domenicale per almeno i prossimi tre mesi della mia vita. Ma che poi che mangiava quel
signor Marquez? Perché con una fetta biscottata si potevano risolvere molte cose. Le chiesi se potevo
conoscerlo e mi disse di no perché stava guardando la Tv e non andava disturbato mentre guardava la
Tv. «La Tv?» le chiesi io, «ma è cieco». Ma a lui andava bene così, mi disse lei. Era il suo rito. Il
maledetto stupido rito di un vecchio cieco.
«Ragazzo devi avere un po’ di pazienza, poi ti abituerai.»
Lo speravo, anche se non ero così fiducioso come la vecchia. Ero scappato di casa per fuggire a degli
orari che mi venivano imposti e mi ritrovavo impigliato in altri orari, diversi, ma sempre imposti.
Doveva essere un qualche scherzo del destino.
Me ne andai in camera mia e mi misi a sedere alla scrivania, presi il computer, lo accesi e aprii il
programma di scrittura. Ma non avevo nulla da dire e mi sentivo un po’ confuso, come se tutto quello
che stava accadendo fosse surreale e quasi un sogno. Forse perché andarsene di casa non è poi così
semplice come si pensa da ragazzi. Anzi, a dirla tutta è un po’ un gran bel casino. Il giorno prima hai
qualcuno che ti rifà il letto e ti lava le mutande, il giorno dopo le mutande te le devi lavare da solo, e
come puzzano! Cazzo come puzzano, specialmente quando sei giovane e funziona tutto come deve.
Quando scoppi di ormoni e la vita non ti basta mai e ne vuoi sempre di più.
Non ti basta mai nulla e tutto quello che puoi avere è quella leggera insoddisfazione che in qualsiasi caso
ti accompagna, giorno dopo giorno. Lasciai lì il computer acceso e mi misi sul letto con Kerouac. Quel
giorno avevo poco o nulla da fare, la mia unica missione sarebbe stata solo conoscere quel misterioso
Signor Marquez e scoprire cosa mangiasse di solito a colazione.
Iniziai a leggere e mi ritrovai sulla strada.
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