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venerdì 07 ottobre 2016, 16:30
Economia e geopolitica
Cina e Stati Uniti sempre più ai ferri corti
Una rivalità che si manifesta anche in ambito finanziario
di Giacomo Gabellini
Fin dallo scoppio della crisi economia del 2008, la struttura economica degli Stati Uniti ha cominciato a presentare
crepe sempre più larghe e profonde. Il prezzo del salvataggio, attuato con denaro pubblico, delle banche statunitensi
finite sull'orlo del baratro si è infatti rivelato salatissimo. Basti ricorda che nel maggio 2011, con il deficit commerciale
schizzato alle stelle e il debito pubblico arrivato a quota 15.000 miliardi di dollari, il Segretario al Tesoro Timothy Geithner
si vide costretto a decretare la sospensione del versamento ai fondi pensione dei dipendenti federali, in attesa che il
Congresso approvasse un innalzamento del tetto massimo del debito. Il tetto venne innalzato il successivo 2 agosto – e
diverse altre volte in seguito – così da autorizzare il Tesoro a riprendere ad erogare obbligazioni. Ciononostante,
l'indebitamento complessivo degli Stati Uniti è giunto a superare il 350% del Pil e la classe politica Usa non si è dimostrata
capace di adottare misure in grado di invertire la tendenza. Il che ha ingigantito decisamente il problema, al punto da
travalicare i meri confini nazionali degli Stati Uniti. La Cina è stata la prima nazione ad essere toccata direttamente
dal disastro economico statunitense, seguita da Giappone, Unione Europea e Russia – rispetto ai quali Pechino ha
comunque mantenuto un netto distacco. Pechino è stata per svariati decenni la principale finanziatrice del debito
statunitense, investendo parte consistente dei proventi derivanti dall'esportazione delle proprie merci soprattutto
nell'acquisto dei Buoni del Tesoro statunitensi. Gli Stati Uniti, in cambio, hanno aperto le porte del proprio mercato interno ai
prodotti cinesi. Il particolare rapporto instauratosi grazie a questo tacito accordo conferisce teoricamente alla
Cina il potere effettivo di controllare l'economia nordamericana, ma di fatto, nel caso in cui Pechino decidesse
di approfittare di questa posizione, Washington avrebbe modo di lanciare la propria rappresaglia mettendo al
bando le merci cinesi e congelando i patrimoni cinesi denominati in dollari, in modo da assestare un colpo
durissimo al gigante asiatico. Col tempo, tuttavia, la Cina ha dato la chiara impressione di averne abbastanza di questo
impianto squilibrato che consente agli Usa di mantenere l'esorbitante privilegio spettante a chi detiene il controllo della
valuta di riferimento internazionale, vale a dire la possibilità di importare merci prodotte in qualsiasi parte del mondo in
cambio di semplici pezzi di carta stampati dalla Federal Reserve. Un meccanismo che risale al 1971, quando il
presidente Richard Nixon pose unilateralmente fine al sistema aureo dei cambi fissi concordato nel 1944 a
Bretton Woods e inaugurando il modello 'fluttuante', che sancì l'ancoraggio del dollaro al petrolio e la
trasformazione delle valute nazionali in merci come tutte le altre, il cui valore sarebbe da quel momento stato
stabilito in base alle dinamiche domanda-offerta. Come scrive l'intellettuale Alain De Benoist: «è evidente che il paese
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che emette la moneta di riserva internazionale dispone di un formidabile strumento per finanziare la sua economia e il suo
debito pubblico, imporre le sue condizioni finanziarie al resto del mondo e sciogliersi da vincoli esterni. A cosa serve
preoccuparsi dei propri deficit con l'estero quando è possibile fabbricare dollari per pagare i propri fornitori? Essendo
scollegato dall'oro, il dollaro poteva moltiplicarsi senza un immediato effetto automatico sul suo valore o sull'inflazione, il
che avrebbe permesso agli americani di far finanziare all'infinito i loro crescenti deficit commerciali dal resto del mondo, in
particolare grazie alla emissione di Buoni del Tesoro. Di fatto, la massiccia domanda di dollari ha permesso a lungo agli
americani di accumulare deficit commerciali e di bilancio esorbitanti senza soffrire del negativo impatto economico dei debiti
che tali squilibri avrebbero normalmente dovuto provocare. Il risultato è che gli Stati Uniti hanno potuto vivere al di sopra dei
loro mezzi grazie ai capitali esteri e che, da almeno trent'anni, l'economia americana vive alle spalle del resto del mondo.
Essa fabbrica una falsa crescita, che provoca il regolare aumento degli indici di borsa per il solo fatto dell'accumularsi del
denaro nei portafogli di investimento, ma che non rinvia più allo sviluppo economico reale. La macchina gira generando un
debito che cresce meccanicamente». È nella piena consapevolezza dei vantaggi assicurati agli Usa da questo specifico
modello finanziario che il segretario al Tesoro John Connally rivolse agli europei la sua famosa, sprezzante battuta: «il
dollaro è ora la nostra divisa e il vostro problema». Nel corso del G-20 tenutosi a Londra nel 2009, il governatore della
Banca Centrale cinese Zhou Xiao Chuan ha infatti dichiarato che «lo scoppio della crisi e il suo straripamento nel mondo
intero riflettono le vulnerabilità inerenti e i rischi sistemici del sistema monetario internazionale». L'esternazione di Zhou
Xiao Chuan rispecchiava indubbiamente le intenzioni del governo cinese, che mirava a fare piazza pulita di
ogni messa in discussione della propria moneta, notoriamente sottovalutata, e lanciare un monito alle autorità
statunitensi, invitandole a guardarsi bene dall'operare una svalutazione della moneta Usa suscettibile di
produrre una netta diminuzione del valore effettivo delle riserve in dollari detenute dalla Cina. D'altro canto, i
cinesi avevano da tempo cominciato a valutare la possibilità di rimpiazzare il dollaro come moneta di riferimento
internazionale con una nuova valuta non corrente, utilizzabile soltanto per gli scambi internazionali (come aveva proposto
John Maynard Keynes a Bretton Woods), il cui valore verrebbe stabilito in base a un paniere di valute nazionali (euro,
dollaro, yen, yuan, rublo, ecc.). Pechino dimostrava quindi piuttosto chiaramente l'intenzione di affossare il
modello economico incardinato sul dollaro e su istituzioni dominate dagli Stati Uniti quali la Banca Mondiale, il
Fondo Monetario Internazionale (di cui Washington detiene il 17% dell'intera capacità decisionale) e
l'Organizzazione Mondiale del Commercio, rimpiazzandolo con un nuovo sistema internazionale capace di
riflettere i reali rapporti di forza, sia militari, che economici, che demografici del pianeta. Parallelamente, la Cina
ha iniziato a contenere in misura rilevante i propri attivi espressi in dollari e a ridurre l'acquisto dei Buoni del Tesoro
statunitensi, nella consapevolezza che crescere a spese degli altri rappresenta una pessima idea, in quanto l'esportatore,
per il fatto stesso di vendere agli altri Paesi i propri beni, finisce inevitabilmente per importare i loro problemi nel momento
in cui l'importatore, per una qualsiasi ragione, vede compromessa la propria capacità di pagare. Per questo motivo dal
2005 i cinesi mantengono la barra in direzione di una costante rivalutazione dello yuan e di una parallela
riduzione del saldo commerciale, nel tentativo di sottrarsi il più possibile alle turbolenze dell'economia
globale. Qualora questo trend dovesse acquisire una stabile continuità, gli Stati Uniti molto difficilmente riuscirebbero a
piazzare tutti i Buoni emessi dal Dipartimento del Tesoro. Malgrado, infatti, tali Buoni continuino ad usufruire del
sostegno artificiale accordato dalle compiacenti (e organiche al sistema) agenzie di rating, è assai improbabile
che gli acquirenti internazionali riescano ad ovviare alla gigantesca voragine che si aprirebbe con l'eventuale
sganciamento cinese. Se ciò dovesse verificarsi, gli Stati Uniti si vedrebbero costretti a ripetere più e più volte la
desolante vicenda accaduta nel marzo 2009, quando alla Federal Reserve non rimase altro da fare che acquistare 300
miliardi di dollari di Buoni del Tesoro rimasti invenduti, andando ad alimentare una pericolosa spirale inflazionistica. Mentre
riduceva la propria esposizione nei confronti degli Stati Uniti, la Cina iniziava a stipulare accordi finanziari
bilaterali con le potenze regionali emergenti – come Brasile, Argentina, Indonesia ed Iran – slegati dal vincolo
del dollaro e ad autorizzare i Paesi nei confronti dei quali vanta crediti commerciali ad emettere obbligazioni
denominate in yuan, sottoscritte dalla Banca Centrale Cinese. Va sottolineata, in aggiunta, la tendenza di diversi
Paesi produttori di petrolio a commercializzare il greggio in valute alternative al dollaro. Dal 2007, l'Iran chiede
principalmente euro e yen in cambio del proprio petrolio. È proprio nel prendere atto che i destini del sistema dollarocentrico sono sempre di più nelle mani della Cina che Washington ha deciso di accogliere Pechino nel paniere dei
Diritti Speciali di Prelievo assieme a dollaro, euro, yuan e sterlina, in previsione che un passaggio epocale di
questo tipo costringa le autorità cinesi ad integrarsi maggiormente nel sistema vigente abbandonando i due
punti di forza su cui si fonda il paradigma socialista cinese, vale a dire il monopolio del commercio estero e la
fissazione a livello statale del valore dello yuan-renminbi. Si tratta di un obiettivo di portata analoga a quelli perseguiti a Bretton Woods (l'adesione di tutto il mondo al sistema monetario imperniato sul dollaro) e con il Piano Marshall
(l'apertura totale dei mercati mondiali alle merci statunitensi), reso necessario dalle concrete prospettive di affermazione
dello yuan-renminbi a livello internazionale, che in questo modo andrebbe ad affiancarsi alle monete statunitense ed euroEstratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/cina-stati-uniti-sempre-piu-ai-ferri-corti/
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pea in conformità al modello trivalutario promosso da Pechino. In questo modo la divisa cinese sarebbe inesorabilmente
destinata a dominare gli scambi di prossimità che avvengono entro la regione asiatica costringendo gli Usa a procedere a un
ritiro valutario forzato che di fatto ha già avuto luogo nei confronti dell'Europa. La zona-euro, unificando il proprio mercato
interno sotto la moneta unica, ha capitalizzato un ragguardevole livello di 'autarchia monetaria'. Ciò indica che la stessa
esistenza della moneta unica, con tutti i suoi enormi difetti, rappresenta un pericolo per il sistema del dollaro,
poiché spalanca automaticamente le porte a prospettive 'diversificazioniste' che divengono particolarmente
pericolose soprattutto alla luce del progetto di 'internazionalizzazione del renminbi' portato avanti da Pechino.
Come ha spiegato l'influente politico ed ex banchiere cinese Guo Shuqing sulle colonne dell'ufficialissmo 'Quotidiano del Popolo': «il ruolo della Cina in ambito finanziario dipende da come essa promuoverà il renminbi in quanto valuta internazionale
[…]. Pechino contribuirà a stabilizzare il sistema monetario internazionale con l'aggiunta di una o anche due valute
'internazionalizzate'. Allo stato attuale il dollaro e l'euro sono le divise più comunemente utilizzate come valuta internazionale, ma ritengo che occorra aggiungere al paniere almeno un'altra valuta. Un triangolo è più stabile e rappresenta un bene
per la diversificazione». La creazione di questo triangolo valutario rappresenta un incubo per gli Stati Uniti,
poiché intacca automaticamente la supremazia esercitata dal 'biglietto verde'. E dal momento che la Cina, in
forza del suo ruolo di 'banchiere' degli Usa, non può essere colpita più di tanto con le armi della finanza, la
speculazione statunitense si è abbattuta pesantemente sulla rimanente gamba del tavolo, e più precisamente
sugli anelli deboli della zona-euro, allo scopo di indebolire la moneta unica. Significativamente, l'effetto
dell'offensiva finanziaria è stato fortemente contenuto proprio grazie all'intervento della Cina, che ha acquistato in un solo
colpo ben 100 miliardi di euro di bond europei. Se a ciò si sommano i progetti cinesi come l'Asian Infrastructure Investment
Bank (Aiib) e la Nuova Via della Seta, miranti a promuovere l'integrazione di tutte le economie della massa continentale
eurasiatica, si comprendono le ragioni che stanno alla base del crescente attivismo della marina militare
statunitense al largo delle acque territoriali cinesi e l'insistenza con cui Washington ha (vanamente) cercato di
promuovere il Trans-Pacific Partnership.
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