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LA NUOVA INFORMAZIONE
CARDIOLOGICA
Periodico di informazione cardiologica – Anno 36° – Settembre 2016
SOMMARIO
Imaging in cardiologia
2
Un caso particolare di cardiomiopatia...
(dott.ssa Chiara Devecchi)
Editoriale
10
Novità, punti di forza ed interrogativi delle nuove
linee guida ESC 2016 sullo scompenso cardiaco
(dott. Federico Guerra)
Leading article
15
Lo studio PARADIGM-HF
(dott.ssa Virginia Di Ruocco)
Focus on… 19
Scompenso cardiaco
(dott. Gabriele Dell'Era e dott. Enrico Boggio)
Medicina e morale
23
Il dibattito sull’anima nella scienza moderna:
l’evoluzionismo ed il problema mente-corpo
(prof. Paolo Rossi)
Foglio elettronico 3 a generazione – n°65
Editor: prof. Paolo Rossi
Direttore Responsabile: dott. Eraldo Occhetta ([email protected])
Direttore Scientifico: dott. Gabriele Dell’Era ([email protected])
Progetto grafico e realizzazione: Studio27 Progetto Editoriale, Novara – www.studio27snc.it
[email protected]
www.nuovainformazionecardiologica.it
IMAGING in cardiologia
Un caso particolare
di cardiomiopatia...
Dott.ssa Chiara Devecchi
Azienda Sanitaria Locale VC - P. O. SS. Pietro e Paolo Borgosesia (VC)
Struttura Organizzativa Complessa Cardiologia
[email protected]
Un paziente di 42 anni si sottopone a visita cardiologica per dispnea. Riferisce pregresso tabagismo e diabete mellito insulino-dipendente in
terapia dall’età di 13 anni. In anamnesi esiti di
ustioni da arma da scoppio e intossicazione da
fumi complicata da necrosi polmonare e stenosi
tracheale trattata con laser alcuni anni fa.
Lamentava da alcuni mesi, dispnea ingravescente (CF NYHA III) e tosse stizzosa per cui era stata
consigliata esecuzione di RX torace che aveva
mostrato versamento pleurico bilaterale maggiore a destra trattato con ciclo di cortisone e antibioticoterapia. Riferiva, inoltre, due verosimili
episodi simil-influenzali alcune settimane prima,
negava angor, cardiopalmo e sincopi. All’ECG (Figura 1) evidenza di RS con FC 85 bpm, conduzione AV nei limiti, blocco di branca sinistra (QRS
170 msec).
Figura 1. ECG dopo avvio di terapia betabloccante.
2
All’esame obiettivo toni cardiaci validi ritmici,
soffio sistolico 3/6 puntale; al torace ipofonesi
bilaterale medio-basale e qualche crepitio bilateramente; assenza di edemi declivi e reflusso epatogiugulare. La radiografia del torace confermava
persistenza di versamento pleurico bilaterale; l’ecocardiogramma mostrava un quadro di cardiomiopatia dilatativa ipocinetica con severa riduzione della funzione sistolica ventricolare sinistra e
insufficienza mitro-tricuspdalica moderato-severa
con ipertensione polmonare moderata, severa dilatazione atriale sinistra. Agli esami ematochimici:
emocromo nei limiti, indici di flogosi nei limiti di
norma, lieve disfunzione epatica, funzione renale nei limiti, sfumato aumento della troponina I
(0,18 ng/ml; vn < 0,04 ng/ml). Veniva quindi ricoverato nel reparto di Cardiologia per proseguire
gli accertamenti diagnostici. Anche ai successivi
controlli non sono emersi dati significativi relativi
allo screening della sierologia virale e alle indagini
ematologiche (quadro proteico, catene kappa e
lambda). Durante il ricovero è stata avviata terapia cardioattiva con betabloccante, ace inibitore,
antagonista dei mineralcorticoidi e diuretico.
Il paziente è stato successivamente sottoposto
a coronarografia che ha mostrato diffusa ateromasia calcifica di discendente anteriore risultata
critica alla valutazione FFR e IVUS, con indicazione ad angioplastica dopo miglioramento della
funzione renale.
L’ecocardiogramma (Figura 2) ha confermato
la severa disfunzione ventricolare, mettendo in
evidenza una marcata trabecolatura del tratti
distali del ventricolo sinistro. In considerazione
dei reperti ecocardiografici e del quadro di insufficienza renale era stato avanzato il sospetto di
una cardiomiopatia nel contesto di malattie infiltrative (come amiloidosi o malattia di Fabry) o di
ventricolo sinistro non compatto.
Gli accertamenti diagnostici sono stati completati con risonanza magnetica (RMN) cardiaca che
ha mostrato in corrispondenza dell’apice ventricolare sinistro una netta accentuazione della
trabecolazione della parete miocardica con evidenza di flusso nel contesto di lacune intramiocardiche, compatibile con il sospetto diagnostico
di ventricolo sinistro non compatto (Figura 3 e 4).
Figura 2: A asse corto parasternale; B e C apicale 4-camere Si evidenzia la marcata trabecolatura con i recessi.
Figura 3: A e B proiezione rispettivamente 3 e 4-camere in sequenze T1W con mdc.
3
Figura 4: A e B proiezioni asse corto rispettivamente in T1W con mdc e T2W.
COMMENTO
Data la giovane età, la grave compromissione
della funzione ventricolare sinistra e il quadro
clinico di scompenso cardiaco, il paziente è stato
sottoposto a impianto di defibrillatore associato
a resincronizzazione (CRT-D) in prevenzione primaria alla morte cardiaca improvvisa (Figura 5).
Il ventricolo sinistro non-compatto (VSNC), noto
altresì come miocardio spongioso, è una rara cardiomiopatia congenita, talvolta associata a disfunzione ventricolare sinistra, caratterizzata da
prominenti trabecolature e profondi recessi che
comunicano con la cavità ventricolare. Si tratta
di una patologia che colpisce bambini e adulti;
la diagnosi in quest’ultimo gruppo è in aumento
a causa della crescente attenzione per tale patologia nelle ultime decadi e grazie ai progressi dei
test di imaging come ecocardiografia e risonanza magnetica.
CENNI STORICI
Il VSNC è stato descritto autopticamente per la
prima volta in un neonato con atresia aortica e
fistola coronarico-ventricolare nel 1932 [1]. Da
allora sono stati riportati altri casi di non compattazione in associazione a difetti cardiaci congeniti, come ad esempio, ostruzione all’efflusso
destro o sinistro, cardiopatie cianogene complesse, anomalie coronariche. La prima descrizione della forma isolata nell’adulto è stata effettuata con ecocardiografia nel 1984, da Engberding
e Bender [2], in una donna di 33 anni. Nel 1990
Chin et al. [3] hanno presentato una casistica che
comprendeva 8 bambini con età media di 7 anni
senza anomalie cardiache associate e hanno proposto il nome di “ventricolo sinistro non compatto isolato”.
Nella classificazione della World Health Organization (WHO) [4] e della European Society of Cardiology (ESC) [5] si trova nel gruppo delle cardiopatie non classificate, invece in quella proposta
dall’American Heart Association (AHA) [6] appartiene al gruppo delle cardiopatie geneticamente
trasmesse.
Figura 5: A proiezione antero-posteriore; B proiezione
laterale.
4
PATOGENESI
cavità ventricolare. Nelle forme familiari, si può
ipotizzare che una mutazione dei geni associati
a VSNC possa interferire con il normale sviluppo
della parete ventricolare nel cuore embrionario,
attraverso vari meccanismi. Alcuni studi hanno
mostrato una trasmissione familiare di VSNC: nel
lavoro di Oechslin [10], 6 di 34 pazienti (18%) erano affetti da da VSNC.
Dal punto di vista istologico, non ci sono reperti
specifici o differenze significative tra le forme di
VSNC e quelle associate ad altre cardiopatie. Gli
unici reperti descritti su biopsia endomiocardica
sono aree di fibrosi interstiziale e fibroelastosi
endocardica [7].
Al riscontro autoptico (Figura 6) invece la presenza di ipoplasia dei muscoli papillari è un reperto
frequente nei casi di VSNC [8].
Durante le prime fasi embriogenetiche il miocardio è costituito da una rete di fibre muscolari
con aspetto spongioso, caratterizzato da trabecole frammiste a recessi e sinusoidi che mettono in continuità il circolo coronarico epicardico
con la cavità ventricolare. Tra la quinta e l’ottava
settimana di vita intrauterina questa struttura
spongiosa miocardica va incontro ad una graduale compattazione e nel VS progredisce gradualmente dall’epicardio all’endocardio e dalla
base all’apice. Contemporaneamente si sviluppa
la circolazione coronarica ed i recessi intertrabecolari si trasformano in capillari [2]. Non è ancora
nota l’eziopatogenesi per la quale nei pazienti
con VSNC questa transizione non avviene e lascia posto allo sviluppo di prominenti trabecolature e profondi recessi che comunicano con la
Figura 6: (A) Evidenza autoptica di trabecolature apicale in quadro di VSNC; (B) illustrazione di VSNC.[9]
EPIDEMIOLOGIA
di VSNC dell’1.3% (rispettivamente 0.5% la forma
isolata e 0.8% associata ad altre cardiopatie) [14].
In uno studio epidemiologico condotto su 314
nuovi casi di cardiomiopatia primitiva, in bambini di età <10 anni, la prevalenza di VSNC isolato
è risultata del 9%, terza cardiomiopatia per frequenza, dopo la forma dilatativa (58%) ed ipertrofica (25%) [15]. La prevalenza nella popolazione adulta è stata stimata inizialmente intorno a
0.1-0.2‰ (0.14‰) [10, 16]. Più recentemente, in
un ampio studio condotto su un totale di 42000
pazienti adulti ambulatoriali, 67 sono risultati affetti da VSNC isolato, con una prevalenza di 1.4‰,
Il VSNC interessa prevalentemente il sesso maschile [10-13]. Tuttavia, la sua prevalenza nella
popolazione generale non è ben nota e i dati
epidemiologici disponibili devono essere considerati con cautela per le evidenti limitazioni metodologiche degli studi, come l’assenza di una
definizione standardizzata, selezione della popolazione esaminata, variabilità della metodologia
di studio. Nella popolazione pediatrica, la casistica più numerosa comprende 66 bambini, su un
totale di 5220 soggetti sottoposti ad ecocardiografia per motivi diversi, e mostra una prevalenza
5
circa 10 volte più alta rispetto ai precedenti studi
[11]. Recentemente Kohli et al. [17] hanno condotto uno studio retrospettivo su una popolazione di 199 pazienti consecutivi, con disfunzione
sistolica di qualsiasi eziologia, riportando che circa un quarto di tali soggetti presentava aspetti di
non compattazione che corrispondeva ai criteri
ufficiali, con una maggiore prevalenza nella popolazione nera (35 vs 16%). Tale dato suggerisce
una diversa prevalenza allo sviluppo di regioni
non compatte del ventricolo sinistro in diverse
popolazioni, con ovvie implicazioni per quanto
riguarda il ruolo del background genetico in tale
anomalia. Tuttavia, secondo gli autori dello studio, una così ampia prevalenza di non compattazione riscontrabile nell’ambito delle cardiopatie
più varie suggerisce che i criteri ecocardiografici
diagnostici correnti sono probabilmente troppo
sensibili e possono determinare una sovrastima
di tale patologia [17].
pratica clinica. Più recentemente Jenni et al. [18]
hanno stabilito nuovi criteri ecocardiografici,
che risultano più facilmente applicabili e riproducibili, validati anche dai reperti anatomo-patologici; questo criterio è diventato, pertanto, il
più utilizzato. Questi prevedono, oltre all’assenza
di coesistente cardiopatia, congenita o acquisita,
il riscontro di due strati distinti all’interno della
parete miocardica, uno di maggior spessore non
compatto, a livello endocardico, che comprende
trabecolature e recessi interposti ed uno sottile e compatto epicardico. Il rapporto tra questi
due strati deve essere >2 nel punto di massimo
spessore. Secondo Stollberger [19] un criterio
aggiuntivo è costituito dal riscontro di più di 3
trabecole prominenti, nella stessa sezione ecocardiografica, localizzate nella regione apicale al
di là dell’impianto dei muscoli papillari. Inoltre
Stollberger ha proposto diversi gradi di accuratezza diagnostica, in base ai criteri sopracitati: la
diagnosi viene considerata “definita” se sono pienamente soddisfatti tutti i criteri; “probabile” in
mancanza di uno solo di questi; “possibile” quando si osservano meno di 3 trabecole prominenti
o il rapporto tra strato non compatto/compatto
è <2.
DIAGNOSI
La diagnosi di VSNC è strettamente legata a un
test di imaging che permetta di identificare le
trabecolature e i recessi miocardici. L’ecocardiogramma è l’esame di primo livello ed è fondamentale, nonostante non ci sia ancora una univocità di interpretazione nei criteri proposti per
la diagnosi. La risonanza magnetica cardiaca è
altresì molto utile nella conferma del sospetto
clinico.
Il limite principale è dato dalla scarsità del campione studiato: è difficile, infatti, ottenere dei criteri precisi per la diagnosi, limitando i falsi positivi.
CRITERI ECOCARDIOGRAFICI
Le caratteristiche che si riscontrano nei pazienti
con VSNC sono:
un tessuto miocardico spesso e formato da due
strati, uno compatto e uno non compatto;
trabecolature prominenti;
profondi recessi endomiocardici.
I criteri diagnostici (Figura 7) sono stati proposti da tre gruppi: Jenni et al. [18], Chin et al. [3] e
Stollberger et al. [19]. Nel 1990 Chin et al. [3] hanno proposto il rapporto della distanza tra epicardio ed apice dei recessi e tra epicardio e apice
delle trabecole in telediastole. Un rapporto >0.5
viene considerato necessario per la diagnosi, ma
questo metodo non ha trovato diffusione nella
Figura 7: Criteri ecocardiografici per per la diagnosi
di VSNC proposti da Jenni [18] e Chin [3].
CRITERI RISONANZA CARDIACA
La RMN cardiaca riesce con facilità ad identificare anche fini trabecolature in ogni segmento
ventricolare sinistro, compresa quindi la regione
apicale e la parete laterale [20], sedi preferenziali di non compattazione, che l’esame ecocardiografico non sempre riesce a visualizzare in modo
adeguato. La RMN cardiaca può permettere una
più dettagliata definizione del grado di ipertrabecolatura, del rapporto tra strato non compat-
6
to/compatto e dell’estensione della non compattazione, rispetto all’ecocardiogramma. Per la
diagnosi di VSNC con RMN viene raccomandato
un rapporto tra strato non compatto e compatto >2.3 in telediastole [21]. Questo criterio risulta
utile per distinguere la forma isolata di VSNC da
una semplice accentuazione della trabecolatura
presente talvolta nella cardiomiopatia dilatativa o ipertrofica. Infine, la RMN cardiaca permette di identificare aree di ritardata eliminazione
del mezzo di contrasto (gadolinio) all’interno
del miocardio (delayed enhancement). In base a
studi di validazione istologica, tale reperto viene
spesso correlato con un aumento di fibrosi intramiocardica [22]. È importante notare che le aree
di impregnazione tardiva si riscontrano non solo
nelle zone di non compattazione, ma possono
estendersi anche al miocardio di normale spessore [23]. Tale osservazione fa ipotizzare che il VSNC
sia espressione di un processo patologico diffuso
a carico del miocardio, come accade per altre CM.
L’entità, la distribuzione e la progressione della
fibrosi possono aiutare a definire la severità del
quadro clinico di VSNC [23]: non si hanno tuttavia
dati sufficienti relativamente alla prognosi.
dominante ed è associata ad altri difetti cardiaci
congeniti.
Recentemente è stata identificata anche una
mutazione nel gene che codifica la proteina
Cypher/ZASP, che si trova a livello della banda Z
dei miociti scheletrici e cardiaci [29]. Mutazioni
della proteina ZASP possono determinare anche
altre cardiopatie, come la cardiopatia dilatativa
[30]. Infine, mutazioni di alcuni geni sarcomerici
[catena pesante della beta-miosina (MYH7), alfa-actina cardiaca (ACTC), troponina T (TNNT2)],
geni associati anche a cardiopatia ipertrofica,
possono determinare VSNC [31, 32]. Quest’ultimo dato è di particolare interesse, in quanto
conferma l’ipotesi che mutazioni diverse a carico
di stessi geni possano esprimere fenotipi molti diversi, portando alla diagnosi di diverse cardiopatia. Secondo questa ipotesi, la cardiopatia
idiopatica o dilatativa e il VSNC sono elementi di
un continuum fisiopatologico che riconosce nei
geni sarcomerici un’origine molecolare comune.
EVOLUZIONE CLINICA E TRATTAMENTO
Esistono diverse espressioni fenotipiche di malattia che si ripercuotono sulla varietà clinica di
presentazione. Alcuni pazienti, la cui diagnosi
avviene in modo incidentale o in seguito a screening familiare, possono rimane del tutto asintomatici per molti anni. I pazienti, invece, che si
presentano con uno o più dei sintomi della tipica triade sintomatologica, scompenso cardiaco,
aritmie ed eventi tromboembolici, hanno una
prognosi peggiore [13].
È stato ipotizzato che la disfunzione sistolica sia
secondaria all’ipoperfusione subendocardica e
ad una disfunzione primitiva del microcircolo,
dimostrata con tomografia ad emissione di positroni [33]. La disfunzione del microcircolo sembra inoltre rappresentare un fattore prognostico
indipendente di alto rischio di evoluzione verso
lo scompenso cardiaco grave [34].
L’incidenza di disfunzione sistolica ventricolare sinistra è nettamente inferiore nei pazienti
asintomatici (2%) rispetto ai pazienti sintomatici
(61%) [35]. Il trattamento è lo stesso raccomandato dalle linee guida internazionali correnti relative allo scompenso cardiaco [36], compreso
l’utilizzo di defibrillatore in prevenzione primaria, associato a resincronizzazione cardiaca dove
indicato [37-39].
Circa un quarto dei pazienti adulti presenta episodi di fibrillazione atriale parossistica. All’ECG dina-
TEST GENETICI
Il VSNC isolato su base familiare presenta un’ampia eterogeneità genetica, mentre nella maggior
parte dei casi sporadici le mutazioni genetiche
non sono state identificate. La prima mutazione
genetica, identificata da Bleyl et al. [24] in una
famiglia composta da 6 bambini affetti da VSNC,
è stata descritta a livello dell’introne 8 del gene
G4.5, sul cromosoma X nella regione q28 (Xq28).
Questo gene codifica la tafazzina, una proteina
presente sia nelle cellule cardiache che muscolari scheletriche. In prossimità di questo locus troviamo geni le cui mutazioni sono responsabili di
distrofie muscolari con interessamento cardiaco,
come la distrofia di Emery-Dreifuss o la sindrome
di Barth [25]. Altri casi sono stati descritti in associazione alla distrofia muscolare di Becker [26] o
di Duchenne [27].
Una seconda mutazione è stata identificata da
Ichida et al. [28] nel gene codificante l’alfa-distrobrevina, una proteina del citoscheletro che interagisce con la distrofina. Questo gene è localizzato sul cromosoma 18 nella regione q12 (18q12).
Questa mutazione, identificata in una famiglia
giapponese con membri affetti di quattro diverse generazioni, si trasmette in modo autosomico
7
CONCLUSIONI
mico sono state osservate brevi salve di tachicardia ventricolare non sostenuta nel 22-41% dei casi
[10, 13, 40]. In età pediatrica le aritmie sono più
rare, mentre la preeccitazione ventricolare è relativamente più frequente (15%) [40]. La morte improvvisa aritmica (fibrillazione ventricolare o tachicardia ventricolare sostenuta) è causa di morte
prematura in oltre la metà dei pazienti adulti con
VSNC [10, 11]. Invece nella popolazione pediatrica
è un evento raro: non è mai stata riportata nella
casistica più numerosa di 66 bambini [14].
Gli eventi tromboembolici sono le complicanze
più grave e si riscontrano nel 5-38% dei casi [41,
42] Le trabecolature e i profondi recessi predispongono al ristagno ematico e alla formazione
di trombi [43].
Il rischio di eventi aumenta in caso di fibrillazione
atriale e disfunzione ventricolare sinistra [44] La
terapia anticoagulante orale pertanto appare indicata in caso di fibrillazione atriale, disfunzione
ventricolare e presenza di formazioni trombotiche in ventricolo [10, 13]; non ben chiaro l’utilizzo
in caso di funzione sistolica conservata [11, 42].
Il VSNC isolato è considerato una cardiopatia
con bassa prevalenza nella popolazione generale. Tuttavia, aree di non compattazione, la cui
rilevanza clinica è ancora incerta, si possono osservare nell’ambito di cardiopatie congenite e
di cardiopatia su base genetica. In famiglie con
VSNC, recenti studi hanno identificato mutazioni a carico dei geni sarcomerici solitamente associati a cardiopatia ipertrofica e, più raramente,
dilatativa. Viene pertanto proposta l’ipotesi che
il VSNC sia una delle manifestazioni fenotipiche
causate da mutazioni genetiche capaci di generare un intero spettro di cardiopatie. Questa
possibilità apre nuove prospettive di ricerca sui
meccanismi etiopatogenetici delle malattie genetiche del miocardio. Ad oggi la diagnosi non
è semplice in quanto sono disponibili criteri inadeguati per la diagnosi e non esiste una terapia
mirata ma solamente una terapia dei sintomi.
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9
EDITORIALE
Novità, punti di forza ed interrogativi
delle nuove linee guida ESC 2016
sullo scompenso cardiaco
Dott. Federico Guerra
Clinica di Cardiologia ed Aritmologia
Università Politecnica delle Marche, A.O.U. “Ospedali Riuniti”, Ancona
[email protected]
SCOMPENSO CARDIACO E FRAZIONE
D’EIEZIONE
Nonostante sia stata una delle prime patologie
cardiovascolari ad essere definita, diagnosticata
e studiata, lo scompenso cardiaco è tuttora un
evergreen che interessa tra 1% e il 2% della popolazione globale, arrivando a più del 10% nella popolazione anziana [1]. Questa importante
prevalenza, sostanzialmente stabile negli ultimi
decenni, è la risultante di un mutato equilibrio
tra i tradizionali fattori di rischio per scompenso cardiaco, fortunatamente in declino (infarto
miocardico e stenosi mitralica per citarne due) e
nuovi ed emergenti determinanti di alterata funzione sistolica e diastolica, attualmente in rapido
aumento, come la fibrillazione atriale e la cardio-tossicità da chemioterapici.
Recentemente, la task force della Società Europea di Cardiologia ha reso pubbliche le nuove
linee guida sullo scompenso cardiaco [2]. Scopo
di questa breve disamina è quello di focalizzarsi
su alcuni aspetti di novità che distinguono questa nuova edizione dalle precedenti.
Le recenti linee guida ESC 2016 introducono per
la prima volta una nuova definizione atta a comprendere i pazienti con segni e sintomi di scompenso cardiaco e una frazione d’eiezione dal 40%
al 49%: lo scompenso cardiaco a frazione d’eiezione moderatamente compromessa (“heart failure with mid-range ejection fraction” o HFmrEF).
Questo gruppo di pazienti rappresenta un’area
grigia e, come i pazienti con scompenso cardiaco a frazione d’eiezione preservata (“heart failure
with preserved ejection fraction” o HFpEF) differiscono dai pazienti con scompenso cardiaco con
frazione d’eiezione ridotta (“heart failure with
reduced ejection fraction” o HFrEF) per variabili
demografiche, eziologia, comorbidità e risposta
alla terapia. Quest’ultima assume un valore rilevante, in quanto i più grossi trial randomizzati
sullo scompenso cardiaco hanno classicamente
10
reclutato pazienti con FE<40%, e tuttora la terapia medica ha dimostrato una riduzione della
mortalità e della morbidità solo nei pazienti con
HFrEF.
Riguardo alla vecchia definizione di scompenso
cardiaco diastolico, già messa in secondo piano
nelle linee guida 2012 [3], in questa nuova edizione è completamente scomparsa in quanto
l’alterazione della funzione diastolica del ventricolo sinistro accompagna spesso i pazienti
con HFpEF e HFmrEF, ed è quasi invariabilmente
presente nei pazienti con HFrEF, rendendo la dicotomia “scompenso sistolico vs. diastolico” non
percorribile in pratica clinica, in quanto spesso
sovrapponibili come entità.
Ovviamente non mancano le critiche a questa
nuova classificazione, che “crea” sostanzialmente una nuova patologia da quella che prima era
considerata un’area grigia, critica a cui gli autori
delle linee guida già rispondono nel testo con
una excusatio non petita sottolineando come
l’identificare l’HFmrEF come entità a se stante
abbia come scopo quello di stimolare la ricerca
in questo gruppo di pazienti. Ovviamente non
mancano gli scettici, primi tra tutti i responsabili ACC/AHA che hanno preferito non riportare la
classificazione riportata in tabella 1 all’interno di
un recente aggiornamento [4].
Tabella 1. Definizione di scompenso cardiaco in relazione alla frazione d’eiezione
Tipo di scompenso
cardiaco
Criteri diagnostici
I
II
III
HFrEF
HFmrEF
HFpEF
Sintomi e/o
segni
Sintomi e/o segni
Sintomi e/o segni
FE 40-49%
FE ≥ 50%
FE < 40%
Livelli elevati di peptidi
natriuretici
Un altro criterio tra:
Ipertrofia ventricolare sinistra
Ingrandimento atriale sinistro
Disfunzione diastolica
GLI INIBITORI
DELLA NEPRILISINA
Livelli elevati di peptidi natriuretici
Un altro criterio tra:
Ipertrofia ventricolare sinistra
Ingrandimento atriale sinistro
Disfunzione diastolica
antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi in
combinazione.
Dall’altro lato, gli effetti benefici del sacubitril
sono stati attributi alla sua inibizione della neprilisina come principale responsabile della degradazione dei peptidi natriuretici. La neprilisina è
un enzima ad alta affinità per l’ANP e più bassa
per il BNP, che deve essere legato al recettore
peptide-C prima di essere degradato.
Nello scompenso cardiaco, la somministrazione
di valsartan /sacuubitril ha dimostrato di aumentare i livelli plasmatici di BNP e di incrementare i
livelli di GMP ciclico in maniera dose-dipendente, riducendo la vasocostrizione, la ritenzione
di sodio e liquidi e contestualmente l’ipertrofia
miocardica (Figura 1).
Valsartan/sacubitril (anche conosciuta come
LCZ696) è la prima molecola di una nuova classe di farmaci chiamata angiotensin receptor–
neprilysin inhibitors (ARNI) che combina al suo
interno le proprietà attiva di un antagonista del
recettore dell’angiotensina II e di un inbitore della neprilisina [5]. Gli effetti del valsartan come
antagonista del recettore dell’angiotensina II
sono noti da tempo ma la riduzione della vasocostrizione, l’aumentata natriuresi e la riduzione
dei fenomeni infiammatori vascolari possono,
nella terapia di lunga durata, attenuarsi a causa
di meccanismi di “escape” o fuga dell’aldosterone
[6], spiegando peraltro il razionale dell’uso degli
11
Figura 1. Effetti combinati della terapia con valsartan/sacubitril (modificata da [5]).
Recentemente, il PARADIGM-HF ha confrontato
valsartan/sacubitril 97/103 mg due volte al giorno contro enalapril 10 mg due volte al giorno nella riduzione della mortalità e della riospedalizzazione in pazienti con frazione d’eiezione ≤ 40%
(poi ridotto a ≤ 35% durante lo studio) [7]. Ulteriori criteri d’inclusione erano un BNP o NT-proBNP elevato, un filtrato glomerulare stimato ≥ 30
ml/min, e la capacità di sopportare entrambi i
farmaci durante un periodo pre-randomizzazione. In questa popolazione, il valsartan/sacubitril
si è dimostrato migliore rispetto all’enalapril nel
ridurre mortalità totale, mortalità cardiovascolare, e riospedalizzazione per riacutizzazione di
scompenso cardiaco. Per questo motivo, le nuove linee guida (in maniera stranamente concorde con la controparte americana) suggeriscono
il valsartan/sacubitril raccomandato al posto
dell’ACE-inibitore in pazienti con HFrEF sintomatici nonostante terapia già in atto con ACE-inibitori o antagonisti del recettore dell’angiotensina
II, beta-bloccanti e antagonisti del recettore dei
mineralcorticoidi (classe di raccomandazione I,
livello di evidenza B).
Nonostante l’ottimo risultato ottenuto nel PARADIGM-HF, permangono tuttora alcune incertezze
legate all’utilizzo di questa molecola in pratica
clinica. In primis, esistono dei problemi di sicurezza legati alla maggiore incidenza di ipotensione
sintomatica e angioedema (rispettivamente 18%
e 0.4% dei pazienti in valsartan/sacubitril contro
12% e 0.2% dei pazienti in enalapril), incidenza
peraltro ridotta nel trial randomizzando solo i
pazienti che avessero completato senza effetti
collaterali un periodo di run-in con entrambi i
farmaci. In secundis, esistono problemi al passaggio dalla terapia con ACE-inibitore a valsartan/
sacubitril (attualmente si consigliano almeno 36
ore di distanza prima di passare all’ARNI) e preoccupazioni legati ad una potenziale accelerazione
della degradazione del peptide beta-amiloide a
livello cerebrale [8].
C’è anche da considerare un aspetto diagnostico, legato all’effetto diretto del sacubitril: essendo il BNP un substrato diretto della neprilisina,
il dosaggio di questo peptide nel sangue può
risultare falsamente aumentato nei pazienti in
trattamento con ARNI, rendendolo scarsamente
sensibile come marcatore prognostico. Nei pazienti in terapia con valsartan/sacubitril è quindi
da preferirsi il dosaggio dell’NT-proBNP, il quale
non essendo un substrato diretto della neprilisina rimane un accurato marcatore prognostico indipendentemente dal dosaggio del farmaco [9].
Questa peculiarità, fondamentale per la gestione
del paziente in un setting ambulatoriale, non è
stata però riportata dalle attuali linee guida, che
continuano ad indicare entrambi i dosaggi come
sostanzialmente equivalenti.
12
TERAPIA DI RESINCRONIZZAZIONE
CARDIACA
ancora accordo unanime. Da un parte la durata
del QRS è stata un criterio di inclusione in tutti gli
studi di fase 3, ed è correlata ad un risposta alla
terapia; dall’altra la presenza di una morfologia
a blocco di branca sinistro (BBS) è associata ad
una migliorata risposta clinica ed ecografica nei
pazienti sottoposti a CRT2. La tabella 2 elenca le
attuali indicazioni all’impianto di CRT a seconda
delle caratteristiche del QRS.
Le recenti linee guida hanno cercato di semplificare le indicazioni all’impianto di un dispositivo
di resincronizzazione cardiaca (CRT) partendo
dalla durata e dalla morfologia del QRS come
variabili fondamentali per una risposta ottimale
ed un beneficio clinico su morbidità e mortalità.
Su quale di queste sia la più importante non c’è
Tabella 2. Indicazioni all’impianto e morfologia e durata del QRS
Raccomandazione
Classe
Livello
FE ≤ 35%, terapia ottimale, QRS ≥ 150 ms, morfologia BBS
I
A
FE ≤ 35%, terapia ottimale, QRS ≥ 150 ms, morfologia non-BBS
IIa
B
FE ≤ 35%, terapia ottimale, QRS 130-149 ms, morfologia BBS
I
B
FE ≤ 35%, terapia ottimale, QRS 130-149 ms, morfologia non-BBS
IIb
B
Le nuove linee guida sottolineano anche come
una stimolazione destra prolungata possa esacerbare la dissincronia nei pazienti con HFrEF,
indipendentemente dalla sintomatologia. Per
questo motivo è attualmente indicato l’impianto
di una CRT nei pazienti con HFrEF ed indicazione al pacing ventricolare per ridurre l’incidenza
di riacutizzazione di scompenso, mentre non
sono stati evidenziati risultati significativi sulla
mortalità (classe di raccomandazione I, livello di
evidenza A).
la classe di raccomandazione è meno forte ma
comunque presente in assenza di indicazione al
pacing ventricolare ma con una classe NYHA IIIIV, una frazione d’eiezione ≤35%, un QRS ≥130
ms e una strategia farmacologica di ottimizzazione del pacing biventricolare in atto (classe di
raccomandazione IIa, livello di evidenza B).
Altra novità è la controindicazione per QRS stretti: il recente Echo-CRT [10] ha dimostrato un aumento della mortalità per QRS ≤130 ms, motivo
per cui la CRT è attualmente controindicata nei
pazienti con QRS al di sotto di questa soglia (classe di raccomandazione III, livello di evidenza A).
La presente raccomandazione include anche i
pazienti con fibrillazione atriale, nei quali invece
13
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14
LEADING ARTICLE
Lo studio PARADIGM-HF
Dott.ssa Virginia Di Ruocco
Cardiologia
Ospedale S Pietro e Paolo, ASL Vercelli
[email protected]
INTRODUZIONE
l’eccessiva attivazione e la disregolazione neurormonale. Infatti, è oggi ben documentato che
l’evoluzione sfavorevole dello scompenso cardiaco riconosce una componente primaria nell’iperattivazione del sistema simpato-adrenergico
e del sistema renina-angiotensina-aldosterone
(SRAA) [2]. Questa risposta neurormonale predomina sui meccanismi controregolatori ormonali,
ad esempio, l’incremento della sintesi dei peptidi
natriuretici, che, pur rivolta a contrastare vasocostrizione, ritenzione idrosalina, attivazione del
SRAA e processi infiammatori e di crescita, risulta
di fatto inadeguata ed insufficiente a controbilanciare l’attivazione simpatica e del SRAA da cui
è sovrastata.
La ricerca è riuscita di recente a mettere a punto
una nuova strategia per riequilibrare questa disregolazione neurormonale nello scompenso attraverso la combinazione di un ARB, il valsartan,
e di un inibitore della neprilisina, il sacubitril, che
lega i due principi attivi in un rapporto molare di
1:1, nello LCZ696, una molecola prototipo di una
nuova classe farmacologica, oggi testata nello scompenso cardiaco (angiotensin receptorneprilysin inhibitors [ARNI]) [3].
Negli ultimi decenni, il trattamento dell’insufficienza cardiaca è stato caratterizzato da grandi
progressi: i grandi risultati ottenuti con l’approccio farmacologico “neurormonale”, attraverso
l’impiego degli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) e degli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II (ARB), degli antialdosteronici e dei betabloccanti, hanno non solo
determinato una vera e propria rivoluzione culturale nella strategia terapeutica della malattia,
ma soprattutto hanno condotto ad un insperato
beneficio clinico che si è tradotto in minore morbilità e mortalità in tutti gli stadi della malattia;
inoltre la terapia elettrica dello scompenso cardiaco e le procedure di resincronizzazione e defibrillazione hanno inciso in modo rilevante sul
quadro clinico e sulla storia naturale della malattia [1].
Nonostante questo lo scompenso cardiaco rimane a tutt’oggi una patologica gravata da un
elevato rischio di riospedalizzazione e da un
alto tasso di mortalità. La frontiera della ricerca farmacologica si è ultimamente concentrata
sulla ricerca di nuove soluzioni per combattere
15
RISULTATI
Un largo trial randomizzato – PARADIGM-HF – ha
testato comparativamente il capostipite degli
inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) enalapril vs LCZ69 [4-6]. La neprilisina degrada numerosi peptidi vasoattivi
endogeni, inclusi i peptidi natriuretici, la bradichinina e l’adrenomedullina, di fatto antagonisti
dei mediatori adrenergici e dell’angiotensina. La
sua inibizione prolunga la vita di queste sostanze
aumentandone l’effetto e riducendo così l’iperattivazione neurormonale tipica dello SCC.
Nel PARADIGM-HF sono stati arruolati 8442 pazienti. Il trial è stato interrotto per evidenza di
beneficio dopo 28 mesi dal suo avvio. Rispetto
all’enalapril, il LCZ696 ha determinato una riduzione del rischio di morte cardiovascolare del
20% (in valori assoluti dal 16.5% al 13.3%; hazard
ratio [HR] 0.80; p<0.0001) e del rischio di ospedalizzazione per SCC del 21% (in valori assoluti
dal 15.6% al 12.8%; HR 0.79; p<0.0001). Anche
gli outcome secondari sono risultati significativamente migliorati, in particolare la mortalità
per ogni causa è diminuita da 19.8% a 17.0% (HR
0.84; p<0.001) ed i sintomi e le limitazioni fisiche
misurati con il Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire hanno mostrato una significativa riduzione (p=0.001). Durante il periodo di run-in il
12% dei pazienti è stato escluso dallo studio per
eventi avversi (più frequenti: tosse, iperpotassiemia, disfunzione renale o ipotensione), più spesso in corso di trattamento con enalapril. Durante
lo studio, meno pazienti trattati con LCZ696 hanno interrotto l’assunzione del farmaco per eventi
avversi (10.7 vs 12.3%; p=0.03). Tra gli effetti collaterali, l’ipotensione sintomatica è stata più frequente nei pazienti trattati con LCZ696 rispetto a
quelli trattati con enalapril (14 vs 9.2%; p<0.001),
ma l’interruzione del trattamento si è verificata
meno frequentemente nei primi che nei secondi
(10.7 vs 12.3%; p=0.03). Non è stato osservato un
rischio rilevante di angioedema. Alla visita finale
la dose media di enalapril era 18.9 ± 3.4 mg/die e
quella di LCZ696 era 375 ± 71 mg/die, corrispondente, per la componente di blocco recettoriale
dell’angiotensina, a una dose di valsartan di 320
mg (160 mg bid, come raccomandato dalle attuali linee guida) [9].
In conclusione, il LCZ696 è risultato superiore all’enalapril nel ridurre il rischio di morte e ospedalizzazione per SCC a parità di sicurezza. È dimostrato
quindi che l’inibizione combinata della neprilisina
e dei recettori dell’angiotensina è superiore all’inibizione del solo sistema renina-angiotensina nello SCC a funzione sistolica depressa [1].
IL TRIAL
Il disegno generale del trial è un confronto tra
due farmaci, l’enalapril e il LCZ696. Per verificarne la sicurezza è stato programmato un accurato
run-in. La prima fase consisteva nella somministrazione a tutti i pazienti, in singolo cieco, di
solo enalapril 10 mg bid per 2 settimane. In assenza di effetti collaterali inaccettabili seguiva la
seconda fase, con sospensione dell’enalapril ed
avvio del trattamento in singolo cieco con solo
LCZ696 somministrato a tutti i pazienti per 4-6
settimane (ad una dose iniziale di 100 mg fino
a una dose massima di 200 mg bid). Da questo
momento in poi aveva inizio lo studio vero e proprio, in doppio cieco. I pazienti venivano rivisti
ogni 2-8 settimane per i primi 4 mesi e poi ogni 4
mesi fino al termine dello studio.
I pazienti arruolati nel PARADIGM-HF erano in
classe NYHA I (5%), II (70%), III (24%) o IV (1%),
presentavano una FE ≤40% (emendata durante
il trial a ≤35%) e concentrazioni plasmatiche di
peptide natriuretico cerebrale almeno moderatamente elevate. I criteri di esclusione includevano ipotensione sintomatica (<100 mmHg), una
velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR)
<30 ml/min, livelli sierici di potassio >5.2mmol/l
e storia di angioedema.
L’endpoint primario era costituito da un composito di morte cardiovascolare o ospedalizzazione per SCC, anche se il calcolo della numerosità è stato impostato per rilevare una differenza
significativa di morte cardiovascolare. Di fatto,
questo era il punto chiave, tenuto conto che era
necessario dimostrare un beneficio sulla mortalità superiore a quello osservato nei due studi di
mortalità condotti con enalapril alcune decadi fa
(SOLVD [7] e CONSENSUS [8]) [1].
CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI
Una considerazione sicuramente non nuova ma
sempre valida riguarda le differenze di gestione
della terapia tra trial e pratica clinica. Le cautele
messe in atto nell’avvio della terapia con LCZ696
nel PARADIGM-HF e la frequenza dei controlli dei
16
pazienti nel tempo sono inapplicabili alla pratica clinica e verosimilmente non necessarie una
volta verificata la sicurezza del farmaco nel trial.
Il dosaggio di mantenimento rappresenta inoltre
un problema pratico importante. La dose media
di enalapril nel PARADIGM-HF è stata di 18.9 mg/
die, ma lontana dalle dosi attualmente utilizzate
nella pratica clinica. In Europa oggi, nello SCC, l’enalapril è somministrato alla dose media di 5-10
mg/die nel 71% dei pazienti [1]. A quale dosaggio verrà poi impiegato il farmaco nella pratica
clinica ?
In conclusione questo trial che ha testato LCZ696
contro lo storico “gold standard” enalapril in 8442
pazienti con scompenso cardiaco in classe NYHA
II-IV in aggiunta alla terapia ottimale, ha lasciato
pochi equivoci, dimostrando una superiorità significativa di oltre il 20% nel gruppo trattato con
ARNI vs ACE- inibitori sia sull’endpoint combinato primario (mortalità cardiovascolare e ospedalizzazioni per scompenso cardiaco) sia sul singolo endpoint mortalità cardiovascolare. Persino la
mortalità totale è stata ridotta in modo significativo del 16% nel gruppo trattato con LCZ696.
Tanto più, se il vantaggio clinico significativo nei
confronti dell’ACE-inibizione si è manifestato di
fatto con una tollerabilità comparabile e con un
buon profilo di sicurezza.
Figura 1. Curve di Kaplan Meyer. Pannello A: mostra come stimare la probabilità degli endpoint primary compositi
(morte per cause cardiovascolari o prime ospedalizzazioni per scompenso); pannello B: morte per cause
cardiovascolari, pannello C: prime ospedalizzaioni per scompenso; pannello D: morte per tutte le cause.
17
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of the European Society of Cardiology. Developed in collaboration with the
Heart Failure Association (HFA) of the ESC. Eur Heart J 2012;33:1787-847.
18
FOCUS ON...
Scompenso cardiaco
a cura di dott. Gabriele Dell'Era
e dott. Enrico Boggio
SCDU Cardiologia 1,
AOU Maggiore della Carità, Novara
[email protected]
METODI
La terapia di resincronizzazione cardiaca nello scompenso cardiaco cronico con frazione di
eiezione ventricolare sinistra moderatamente
ridotta: insegnamenti dallo studio MIRACLE
EF (Multicenter InSync Randomized Clinical
Evaluation).
Lo studio prospettico, randomizzato e controllato in doppio cieco MIRACLE EF è stato progettato
per valutare la CRT-P in pazienti con scompenso
cardiaco in classe funzionale NYHA II-III, blocco
di branca sinistro (LBBB), LVEF compresa tra 36%
e 50% e non portatori di pacemaker o ICD. L’endpoint primario era un composito del tempo trascorso al primo episodio di scompenso cardiaco
o alla morte. Tutti i pazienti sono stati impiantati con un CRT-P e randomizzati 2:1 nei gruppi
CRT-P ON o CRT-P OFF. Il tempo minimo di follow
up doveva essere 24 mesi.
CONTESTO
I benefici della terapia di resincronizzazione cardiaca (CRT) nei pazienti con scompenso cardiaco (HF) sintomatico con QRS largo e frazione di
eiezione ventricolare sinistra ridotta (LVEF≤35%),
sono ben dimostrati dagli studi clinici. Analisi
post-hoc di alcuni sottogruppi suggeriscono che
i benefici della CRT potrebbero estendersi anche
ai pazienti con LVEF>35%.
RISULTATI
Lo studio MIRACLE EF è stato interrotto dopo
19
13 mesi per difficoltà nell’arruolamento dei pazienti, e dopo aver reclutato solo 44 individui. I
problemi principali nel reclutamento sono stati
la mancanza di pazienti arruolabili, la presenza
di ICD precedentemente impiantati e la riluttanza delle istituzioni, dei pazienti o dei medici ad
essere inclusi in uno studio che comprendeva un
potenziale periodo di 5 anni di CRT OFF.
tensione arteriosa polmonare idiopatica (IPAH).
Il nostro obiettivo è stato determinare come le
dimensioni dell’atrio sinistro (LA) e dell’atrio destro (RA) possano aiutare a distinguere questi
due gruppi di pazienti.
METODI E RISULTATI
In uno studio iniziale, la risonanza magnetica
cardiaca (CMR) è stata usata in 15 pazienti con
IPAH e 15 pazienti con PH-HFpEF per stabilire le
dimensioni di LA e RA durante l’intero ciclo cardiaco. Mentre sono state notate variazioni significative nelle dimensioni del LA durante il ciclo
cardiaco, il rapporto tra le dimensioni di atrio
sinistro e atrio destro (rapporto LA/RA) rimaneva stabile (durante il ciclo cardiaco) in entrambi
i gruppi e discriminava tra PH-HFpEF e IPAH. In
un secondo studio, una CTA non sincronizzata è
stata usata per validare l’utilizzo diagnostico del
rapporto LA/RA in 95 pazienti consecutivi naive alla terapia e con una diagnosi finale di IPAH
(n=64) o di PH-HFpEF (n=31). Sono state eseguite analisi ROC per stabilire le capacità discriminative dei vari parametri sulle dimensioni atriali.
In un piano di visione trasversale, le dimensioni
di LA erano 19cm2 (±5) nel gruppo IPAH versus
27cm2 (±6) nel gruppo PH-HFpEF (p<0.001). Il
rapporto LA/RA derivato dalla CTA era significativamente più alto nei pazienti PH-HFpEF rispetto
ai pazienti IPAH e aveva quindi buone capacità
discriminative tra i due gruppi (AUC=0.833).
CONCLUSIONI
Nonostante un’attenta progettazione dello studio, l’identificazione e la randomizzazione dei
pazienti arruolabili sono state difficoltose e non
è pertanto stato possibile testare né stabilire la
morbilità e la mortalità dell’intervento in studio.
L’esperienza di MIRACLE EF dimostra le difficoltà
di progettare uno studio scientificamente robusto e al contempo fattibile per stabilire le nuove
potenziali indicazioni per i dispositivi impiantabili. Studi randomizzati di dimensioni inferiori
con endpoint surrogati potrebbero forse essere
più ragionevoli dal punto di vista clinico, sebbene il potenziale impatto di tali studi sulla pratica
clinica, sulle linee guida e sulla rimborsabilità rimane ancora da stabilire.
Linde C, Curtis AB, Fonarow GC, et al. Cardiac
resynchronization therapy in chronic heart failure with
moderately reduced left ventricular ejection fraction:
Lessons from the Multicenter InSync Randomized
Clinical Evaluation MIRACLE EF study. Int J Cardiol.
2016 Jan 1;202:349-55. doi: 10.1016/j.ijcard.2015.09.023.
Epub 2015 Sep 21.
CONCLUSIONI
La valutazione del rapporto tra le dimensioni LA/
RA attraverso una CTA non sincronizzata consente un’accurata discriminazione tra pazienti con PH-HFpEF e pazienti con IPAH. Poiché la
CTA è spesso disponibile nel work up diagnostico precoce, il rapporto tra le dimensioni LA/RA
potrebbe guidare il processo decisionale clinico
e diagnostico, persino prima delle misurazioni
emodinamiche invasive.
Il rapporto tra le dimensioni atriali sinistre e
destre ottenuto mediante CTA permette di discriminare tra l’ipertensione polmonare causata dallo scompenso cardiaco e l’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica.
CONTESTO/OBIETTIVI
Huis In ‘t Veld AE, Van Vliet AG, Spruijt OA, et al.
CTA-derived left to right atrial size ratio distinguishes
between pulmonary hypertension due to heart failure
and idiopathic pulmonary arterial hypertension. Int
J Cardiol. 2016 Aug 22;223:723-728. doi: 10.1016/j.
ijcard.2016.08.314. [Epub ahead of print]
Stabilire le dimensioni atriali attraverso angiografia-CT (CTA) non sincronizzata potrebbe essere utile per discriminare tra ipertensione polmonare (PH) causata da scompenso cardiaco con
frazione di eiezione preservata (HFpEF) e iper-
20
Okura H, Kataoka T, Yoshida K. Comparison of Left
Ventricular Relaxation and Left Atrial Function
in Patients With Heart Failure and Preserved
Ejection Fraction Versus Patients With Systemic
Hypertension and Healthy Subjects. Am J Cardiol.
2016 Jul 18. pii: S0002-9149(16)31183-3. doi: 10.1016/j.
amjcard.2016.07.013. [Epub ahead of print]
Confronto tra la funzione di rilasciamento
del ventricolo sinistro e la funzione atriale sinistra in pazienti con scompenso cardiaco a
frazione di eiezione conservata rispetto a pazienti con ipertensione arteriosa sistemica e
soggetti sani
ABSTRACT
Lo scompenso cardiaco con frazione di eiezione
conservata (HFpEF) potrebbe essere descritto
come una riduzione della funzione di rilasciamento del ventricolo sinistro (LV) e/o una riduzione della funzione dell’atrio sinistro (LA),
proprietà che peraltro sono correlate all’età e al
sesso. L’obiettivo di questo studio era investigare
la funzione di rilasciamento del LV e la funzione
del LA nel HFpEF. Sono stati studiati un totale di
71 pazienti con HFpEF (età media 73 anni, 38 uomini). La velocità di flusso trans mitralico tardiva
(A), la velocità annulare mitralica tardiva (a’), e la
velocità annulare mitralica precoce (e’) sono state misurate e confrontate con quelle di soggetti
normali di controllo di età e genere paragonabili
(CTL; n=71) e con quelle di pazienti ipertesi (HT;
n=71). Per chiarire l’impatto prognostico della
funzione del LA, la sopravvivenza libera da eventi cardiaci è stata confrontata tra il gruppo con
a’ elevato (≥7.9 cm/s, n = 36) e il gruppo con a’
ridotto (<7.9 cm/s, n = 35). Un evento cardiaco è
stato definito come un composito della mortalità
da tutte le cause e l’ospedalizzazione a causa della recidiva di scompenso cardiaco congestizio.
Sia nel gruppo HFpEF che nel gruppo HT, e’ era
similmente e significativamente ridotto rispetto
al gruppo CTL (p = 0.005). Sebbene A fosse simile nei 3 gruppi, a’ era significativamente più
basso nel gruppo HFpEF rispetto ai gruppi HT e
CTL (7.9 ± 2.1 vs 9.0 ± 1.9 vs 9.3 ± 1.96 cm/s, p
<0.0001). Pazienti con HFpEF e basso a’ mostravano una sopravvivenza libera da eventi cardiaci
significativamente inferiore rispetto ai pazienti
con HFpEF e alto a’ (log rank, p = 0.02). Attraverso
un’analisi proporzionale multivariata di Cox, un
basso a’ era l’unico predittore indipendente di
eventi cardiaci (HR 2.896, intervallo di confidenza 95% 1.004 - 8.355, p = 0.049). Sia la funzione
di rilasciamento del LV sia la funzione di LA sono
compromesse in HFpEF. Una compromissione
della funzione LA potrebbe essere associata con
una peggior prognosi in HFpEF.
La terapia con nitriti riduce la disfunzione
miocardica nello scompenso cardiaco cronico
attraverso il signaling di H2S e Nrf2 (Nuclear
Factor-Erythroid 2-Related Factor 2).
CONTESTO
La biodisponibilità dell’ossido nitrico (NO) e
del solfuro di idrogeno (H2S) sono ridotte nello
scompenso cardiaco (HF). Studi recenti hanno
suggerito un interscambio nelle vie di signaling
di NO e H2S. In precedenza avevamo segnalato
come il nitrito di sodio (NaNO2) riduca il danno miocardico da ischemia-riperfusione e lo HF.
Nrf2 (Nuclear factor-erythroid-2-related factor 2)
regola l’espressione delle proteine antiossidanti
e la sua espressione è stimolata da H2S. Abbiamo
esaminato gli effetti di NaNO2 sulla biodisponibilità endogena di H2S e sull’attivazione di Nrf2
in un modello sperimentale con topi con scompenso cardiaco cronico indotto dall’ischemia
miocardica.
METODI E RISULTATI
I topi sono stati sottoposti a un’occlusione di 60
minuti dell’arteria coronaria sinistra e quindi a 4
settimane di osservazione dopo la riperfusione.
Al momento della riperfusione è stato somministrato NaNO2 (165 μg/kgic) oppure una sostanza
inerte, e quindi la somministrazione è proseguita
attraverso l’acqua da bere (100 mg/L) per 4 settimane. La frazione di eiezione (EF) del ventricolo sinistro (LV), e le dimensioni telediastoliche
(LVEDD) e telesistoliche (LVESD) del ventricolo
sinistro sono state determinate all’inizio dello
studio e dopo 4 settimane dalla riperfusione. Il
tessuto miocardico è stato analizzato per ricercare tracce dello stress ossidativo e con saggi
per individuare la presenza di proteine correlate
all’espressione di determinati geni. Abbiamo os-
21
CONCLUSIONI
servato che la terapia con NaNO2 preservava la
LVEF, LVEDD e LVESD dopo 4 settimane in questo
modello di HF indotto dall’ischemia. Il contenuto
di malondialdeide nel miocardio e il contenuto
di carbonile nelle proteine erano significativamente ridotti nei topi trattati con NaNO2 rispetto
ai topi trattati con la sostanza inerte, suggerendo
una riduzione dello stress ossidativo nei primi.
La terapia con NaNO2 ha incrementato significativamente l’espressione di Cu-Zn superossido
dismutasi, di catalasi e di glutatione perossidasi
durante le 4 settimane successive alla riperfusione. Inoltre, NaNO2 ha incrementato l’attività
di Nrf2, così come degli enzimi producenti H2S,
determinando in ultima analisi un’aumentata
biodisponibilità di H2S nei topi con CHF indotto
dall’ischemia, rispetto ai topi di controllo.
I nostri risultati dimostrano che la terapia con
NaNO2 migliora significativamente la funzione
del LV aumentando la biodisponibilità di H2S,
l’attivazione di Nrf2 e incrementando le difese
antiossidanti.
Donnarumma E, Bhushan S, Bradley JM, et al. Nitrite
Therapy Ameliorates Myocardial Dysfunction via H2S
and Nuclear Factor-Erythroid 2-Related Factor 2 (Nrf2)Dependent Signaling in Chronic Heart Failure. J Am
Heart Assoc. 2016 Jul 29;5(8). pii: e003551. doi: 10.1161/
JAHA.116.003551.
22
MEDICINA e MORALE
Il dibattito sull’anima nella scienza moderna:
l’evoluzionismo ed il problema mente-corpo
Prof. Paolo Rossi
La scienza moderna ha rivolto la sua attenzione
alla questione dell’anima umana, in modo diretto o indiretto, lungo due direzioni principali:
l’evoluzione della specie umana con il problema
dell’ominizzazione ed il problema del rapporto
mente-corpo.
loro patrimonio genetico, è comprensibile che
tale linea di interpretazione continui ad occupare sia scienziati che filosofi. A cavallo fra il XIX e
il XX secolo, parecchi pensatori cristiani (Gardeil,
1893; Leroy, 1891; Zahm, 1896) formularono ciò
che venne chiamata «l’ipotesi trasformista», che
spiegava la provenienza del corpo umano da
progenitori non umani, stabilendo però che l’anima veniva creata in modo diretto da Dio.
1. EVOLUZIONISMO
ED OMINIZZAZIONE
Critica del trasformismo. Se esaminiamo i fatti e il comportamento degli esseri viventi, l’esperienza appare contraria a qualsiasi specie di
trasformismo che oltrepassi la stessa specie sistematica ed oggi come ai tempi di Darwin conserva tutto il suo valore l’argomento fisiologico
dalla non fecondabilità degli incroci tra animali
di specie diversa. Anche i risultati di laboratorio
finora ottenuti non oltrepassano i caratteri delle
differenze razziali entro la specie.
Gli argomenti poi che gli evoluzionisti portano
a favore delle loro teorie, allo stato attuale della
scienza non hanno alcun valore decisivo, ma presentano solo indizi a favore di un evoluzionismo
ristretto, che non oltrepassa l’ordine sistematico
e non tocca quindi la specie naturale. Esaminiamoli brevemente:
Nel 1859 Charles Darwin (1809-1882) pubblica il
famoso lavoro “L’origine delle specie” mediante selezione naturale. Nonostante i risultati di Darwin
siano stati col tempo rivisti, ed in buona parte
anche superati, la tesi generale della sua opera,
e cioè che la specie umana discenda dai primati,
divenne estremamente popolare.
Sulla base della continuità genetica ed evolutiva
con gli animali inferiori, e dunque con il mondo
biologico, chimico e fisico, cominciò ad affermarsi l’idea che l’uomo potesse essere il risultato
naturale e spontaneo dell’evoluzione di forme
inferiori di vita [1]. Sebbene vari scienziati e filosofi accettarono l’ipotesi darwiniana e ne diedero seguito, la maggior parte dei filosofi e teologi
cristiani espressero delle riserve. Ritenendo tale
visione contraria all’insegnamento delle Scritture, questi ultimi percepirono che l’evoluzionismo
poneva in seria discussione l’unità ed il carattere
trascendente dell’essere umano. Poiché gli umani
condividono con forme superiori di primati circa
il 99,5% della loro storia evolutiva ed il 95% del
a) Argomento della sistematica.
Gli organismi viventi non sono uguali e presentano forme e strutture diverse, ma sempre gradualmente più complesse e perfezionate dagli
organismi più semplici ai più complessi, il che fa
23
pensare a un legame genetico che li unisce.
Risposta. Questa somiglianza graduale non prova una discendenza comune. Anche i cristalli
per es. si possono classificare secondo una scala
di perfezioni graduale dai più semplici e meno
simmetrici ai più complessi e simmetrici, ma nessuno ha mai pensato che derivino gli uni dagli
altri e che abbiano un’origine comune. Inoltre
questa continuità graduale di perfezione negli
organismi viventi, è vera se ci si contenta di uno
sguardo superficiale alle linee generali, ma allo
scienziato che discende ad esaminare i singoli
passaggi, la continuità è rotta da salti e differenze incolmabili tra i vari gruppi di viventi (per es.
tra vertebrati e invertebrati).
mando che “l’embrione di una forma superiore
non rassomiglia mai ad un altro animale, ma solamente all’embrione del medesimo” il che mentre nulla prova in favore del trasformismo, è in sè
troppo evidente: dall’indeterminato non si arriva
al più determinato se non passando attraverso il
meno determinato.
d) Argomento dagli organi rudimentali.
Molti organismi superiori hanno organi rudimentali che invece si trovano bene sviluppati e
funzionanti in organismi inferiori. Questo non si
spiega razionalmente se non nella teoria trasformista.
Rispondo che in molti casi è discutibile se si tratti
di organi rudimentali, cioè non funzionanti, o di
organi di cui ancora ci è ignota la funzione. Nel
caso poi di organi veramente rudimentali (quali
le ali dello struzzo, gli occhi della talpa, gli stiletti
del cavallo, i denti del pappagallo, ecc.) abbiamo
un indizio di probabile evoluzione parziale tra
viventi che non oltrepassa i limiti dell’ordine sistematico e quindi non tocca la specie naturale;
nessuna difficoltà ad ammettere un evoluzionismo così ristretto. Parimenti non abbiamo difficoltà ad ammettere una evoluzione tra la fauna
dell’Oceano Pacifico e quella dell’Oceano Atlantico presso l’istmo di Panama, che una volta non
esisteva, solo accidentalmente diverse. Lo stesso
dicasi delle faune e flore endemiche nelle piccole
isole coralline disseminate negli oceani accidentalmente differenti da quelle delle isole vicine e
da quelle del continente. Nè finalmente fanno
difficoltà i casi più tipici del cosiddetto “atavismo”
caratteri cioè anormali e mostruosi che appaiono
in certi organismi e ricordano disposizioni normali di animali inferiori. Gli studiosi seri sanno
che sono dovuti a disturbi dello sviluppo e non si
tratta che di permanenze formative di una disposizione anormale acquistata nella vita intrauterina. (RANKE, L’uomo, U. T. E. T., v. 1, p. 172)
b) Argomento dalla paleontologia.
Gli organismi viventi sono apparsi gradualmente
sulla terra, prima i più semplici poi i più complessi. Dunque gli organismi superiori sono sorti per
evoluzione dagli inferiori.
Risposta. Veramente il solo fatto che un organismo viene dopo l’altro non basta a provare che
uno discende dall’altro. Inoltre se è vero che i viventi non sono apparsi tutti insieme sulla terra
(neppure sarebbe stato possibile date le condizioni della terra che solo gradualmente divenne capace di ospitare gli organismi superiori); è
anche vero che la loro apparizione graduale vale
appena per le grandi linee (invertebrati vertebrati, pesci, mammiferi ... e analogamente per le
piante), ma non si estende a tutti i tipi e tanto
meno a tutti i raggruppamenti minori, come sarebbe necessario se il trasformismo fosse vero.
Assistiamo infatti a comparse contemporanee di
numerose classi e ordini (per es. tutte le forme
degli invertebrati), anzi a innumerevoli casi di inversione per cui organismi più complessi appaiono prima di organismi meno complessi.
c) Argomento dall’embriologia.
Haeckel studiando lo sviluppo di un organismo
dall’ovulo fecondato allo sviluppo adulto, credette di osservare evidenti rassomiglianze con gli
stadi adulti di organismi appartenenti a specie
inferiori, e di potere formulare a sostegno della
teoria evoluzionista la così detta legge biogenetica fondamentale “l’ontogenesi (cioè lo sviluppo
dell’individuo) è la ricapitolazione della filogenesi (cioè dello sviluppo della specie)”.
Risposta. La legge fu dagli stessi scienziati dimostrata falsa e Von Baer conchiudeva le sue classiche ricerche di embriologia comparata affer-
Ominizzazione. Divenire essere umano - ciò
che viene chiamato «ominizzazione» - sarebbe
dunque un processo verificatosi nel corso della
storia. Considerare il problema a questo modo
avrebbe semplificato alquanto le cose, perché il
corpo sarebbe il campo di indagine delle scienze,
mentre l’anima e lo spirito ne venivano separati
per essere oggetto dello studio dei filosofi e dei
teologi.
Le reazioni delle autorità ecclesiastiche furono
inizialmente contrarie a tali posizioni, ma la rifles-
24
2. IL PROBLEMA MENTE-CORPO
sione della teologia non si arrestò e con Pio XII si
chiarì che l’ipotesi evolutiva, per quanto attenesse allo studio circa l’origine del corpo umano a
partire da forme viventi preesistenti, non si opponeva a priori alla fede cattolica (Humani generis, è la XIX enciclica di papa Pio XII. Gli argomenti
trattati sono le “false” nuove teorie e opinioni che
stavano minacciando di sovvertire i fondamenti
della dottrina cattolica). Tale insegnamento verrà riconfermato e precisato da Giovanni Paolo II
(Messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze, 22.10.1996; cfr. anche Catechesi del mercoledi, 27.5.1998, n. 5), che si riferirà all’evoluzione
non più in termini di ipotesi ma di «teoria».
Va comunque notato che, da un punto di vista filosofico, una comprensione semplicistica dell’ominizzazione come fase propriamente “umana”
che compare ad un determinato punto dell’evoluzione biologica, anche nella sua forma mitigata, resta problematica, in quanto parrebbe
segnare un ritorno alle spiegazioni plurimorfiche
sviluppate in epoca medievale o, perfino, il ritorno ad un certo dualismo. Se infatti il corpo umano possedesse una “forma” di per sé completa
(vegetativa e sensitiva), anteriore alla creazione
e all’infusione dell’anima, quest’ultima potrebbe essere difficilmente considerata come «unica
forma del corpo» e le difficoltà già incontrate nel
dualismo platonico e cartesiano tenderebbero
ad emergere nuovamente. Sebbene non ci sia
dato comprendere come possa essere avvenuto
il “collegamento” fra le forme superiori di primati
e gli esseri umani, per evitare il suddetto estrinsecismo [2] occorre riservare l’aggettivo «umano» al corpo soltanto in quanto unito all’anima:
esso, in quanto umano, comincerebbe ad essere
tale solo con la creazione dell’anima. Va anche
aggiunto che l’osservazione e le teorie scientifiche sono certamente in condizione di stabilire in
quale misura la storia evolutiva ed il patrimonio
genetico della specie umana “coincidano”, nel
presente o nel passato, con quelli di altri animali, ma tale continuità non è sufficiente, pena un
chiuso riduzionismo, per stabilire una “connessione causale” diretta fra l’essere di progenitori
non umani e l’essere umano. Tale connessione
non è, in senso stretto, un oggetto scientifico da
ricercare, ma un passaggio filosofico (e non solo
teologico) da comprendere e da chiarire.
La crescita della psicologia sperimentale ha dato
origine nel XX secolo ad una varietà di scuole e di
approcci scientifici ai problemi dell’anima e della
specificità umana. Di particolare importanza, in
proposito, il «comportamentismo metodologico»
(methodological behaviourism) e quello «logico»
(logical behaviourism), dovuti rispettivamente
alle scuole di B.F. Skinner (The Analysis of Behavior, New York 1969) e G. Ryle (The Concept of
Mind, London 1949). In termini semplici, i «behavioristi» considerano gli esseri umani come delle macchine particolarmente complesse, le cui
leggi ed operazioni possono essere totalmente
dedotte dall’osservazione scientifica e dal comportamento esterno. Dualismi di tipo platonico o
cartesiano vengono qui esclusi.
Le critiche al «behaviorismo» non si sono fatte
attendere (Feigl, 1958; Bunge, 1980; Rorty, 1992),
in quanto l’eterno dilemma del rapporto fra anima e corpo torna alla ribalta nei termini del rapporto fra la «mente» (che fa qui le veci dell’anima
o dello spirito) ed il «cervello» o anche il «corpo».
L’esistenza di una componente chiamata «mente» è inequivoca in questi autori, in contrasto
con le visioni empirista, materialista o comportamentista.
Ci si continua in definitiva a chiedere: qual è la
relazione fra l’io, la soggettività, la mente, da
una parte, e l’organo biologico, chimico o fisico,
usualmente indicato come cervello, dall’altra?
Una grande varietà di risposte o spiegazioni per
questa domanda sono state suggerite negli ultimi anni dalla neurobiologia, dalle scienze cognitive, dalla teoria dell’informazione e dall’informatica, dalla filosofia del linguaggio e dalla
sociologia. Fra queste vanno menzionate la teoria dell’identità (Feigl), con associata la questione della intelligenza artificiale, l’emergentismo
(Bunge) e infine la teoria del dualismo interattivo
(Popper, Eccles).
Prendendo spunto dalla posizione comportamentista, nel suo saggio The “Mental” and the
“Physical” (1958), Helmuth Feigl [3] insiste sull’esistenza della mente umana, considerato che l’uomo è assai di più che un meccanismo automatico,
regolato sulla base di stimoli e di risposte. Il suo
comportamento è, almeno in parte, diretto da
25
un Io autocosciente. L’Io (the self ) non può essere identificato con il comportamento come tale,
ma con il principio interno del comportamento.
Tuttavia, per Feigl la mente si identifica in modo
semplice e diretto con il cervello, e ciò, secondo
questo autore, per un “principio di economia”, in
base al quale non si devono moltiplicare non necessariamente le cause di un fenomeno. Se tutti
i processi umani e tutti gli stati e le operazioni
della mente (intenzionalità, comportamento,
cognizione, libero arbitrio, ecc.) possono essere
spiegati adeguatamente a partire dalle operazioni del cervello, non vi sarebbe allora necessità di
postulare l’esistenza di un principio spirituale di
vita. Feigl ritiene che se i processi cerebrali potessero essere descritti ed analizzati con sufficiente
accuratezza, e ad esempio rappresentati su uno
schermo, le azioni umane ed il loro sviluppo potrebbero essere facilmente predetti. Lasciando
da parte il fatto che molti filosofi e scienziati si
rifiuterebbero di identificare la mente (o l’anima) con il cervello, resterebbe comunque aperto
ciò che Crick (1994) [4] chiama «il problema del
collegamento» (binding problem), e che potrebbe essere così formulato: cosa tiene le strutture
dell’organismo al loro posto e, ancor più, dove
esse si sono formate od originate?
Il materialismo emergentista di Mario Bunge [5]
(1980) ha voluto superare il riduzionismo di Feigl. Anche secondo Bunge tutto ciò che esiste è
solo materia, ma quest’ultima si esprime in livelli
qualitativi differenti. Ogni livello suppone quello
inferiore e lo sorpassa ontologicamente. L’esperienza comune, certamente, non ci permette di
comprendere ogni cosa in termini puramente
fisici. Egli accetta che la mente si identifichi con
il cervello, ma aggiunge che il cervello differisce
non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente da ogni altro oggetto fisico-materiale
conosciuto. L’essere umano deve essere distinto
sia dalla biosfera generalmente intesa, sia dagli animali a lui più vicini, come ad esempio gli
scimpanzé. La principale proprietà del materialismo emergentista di Bunge è ciò che egli chiama
«plasticità», cioè l’attitudine del cervello a programmarsi ed organizzarsi. La teoria emergentista cerca di interpretare i fatti meglio di quanto
non faccia il riduzionismo della teoria dell’identità; tentativi nella stessa linea sono stati compiuti da autori come Changeaux (1983), Dennett
(1995), Edelman (1987), Boncinelli (1999). Tuttavia simili tentativi, almeno in quanto utilizzano
come punto di partenza una visione monista della realtà, dalla quale i livelli più alti di vita sono
visti emergere spontaneamente, difficilmente
tolgono l’impressione che si tratti in definitiva
di differenze solo quantitative, e non qualitative,
come essi vorrebbero. Secondo Maldamé, 1998,
ben poco spazio è lasciato alla trascendenza ed
all’intenzionalità umane. [6]
Un’impostazione dualista del rapporto fra mente
e corpo continua ad essere popolare fra filosofi e
scienziati, fra i quali Karl Popper [7] e John Eccles
sono probabilmente i più rappresentativi (Popper e Eccles, 1981; Eccles, 1990; Popper, 1996).
Popper si accosta al rapporto mente-corpo dalla
sua prospettiva dei «tre mondi». Oltre il mondo
delle entità fisiche (mondo 1) e quello dei fenomeni mentali come le esperienze soggettive e la
coscienza (mondo 2), vi è anche il mondo composto dai prodotti della mente, quali la storia, le
teorie scientifiche, le istituzioni sociali, le opere
d’arte, ecc. (mondo 3). L’esistenza del mondo 1
non può essere messa in dubbio, e così anche
l’esistenza degli altri mondi, in quanto essi hanno effetti nel mondo gerarchicamente inferiore.
È poi evidente che i prodotti della mente e della cultura umana (mondo 3) sono ciò che maggiormente influisce sulla realtà fisica (mondo 1),
sebbene essi lo facciano attraverso le operazioni
della mente (mondo 2). La mente non può dunque identificarsi con il cervello e le sue operazioni, sebbene la prima interagisca strettamente con il secondo. È l’io a possedere il cervello e
non viceversa. Le metafore usate sono di stampo nettamente platonico: l’io (l’anima) è per il
corpo come il timone per la nave, dice Popper.
In continuità con questa posizione si collocano
Eccles ed altri scienziati come A. Green, R. Penrose e R. Sperry. Pur confermando la necessità di
un principio non materiale di azione nell’essere
umano, si tenderà ugualmente a tornare verso i
problemi generati dalle impostazioni di Platone
e di Descartes.
26
NOTE
1. Possiamo distinguere tre specie di evoluzionismo:
a) Evoluzionismo ateo: afferma che tutti gli esseri viventi attuali, non
escluso l’uomo coll’anima razionale, provengono per discendenza da organismi anteriori e questi da altri fino a germi iniziali, formatisi per generazione spontanea.
b) Evoluzionismo teistico integrale: afferma la creazione di uno o pochi
organismi semplicissimi i quali avrebbero avuto la capacità di evolversi fino
a produrre il corpo umano (l’anima sarebbe stata infusa da Dio).
c) Evoluzionismo teistico parziale: afferma la creazione di più organismi
i quali avrebbero dato origine agli altri appartenenti allo stesso genere o
sottordine o ordine ecc. secondo la maggiore o minore estensione concessa
all’evoluzione, escluso però sempre l’uomo, non solo quanto all’anima, ma
anche quanto al corpo.
2. L’ottica è quella di comprendere come interagiscono l’azione di Dio e quella dell’uomo nell’esistenza cristiana. La proposta salvifica di Dio suppone
la capacità di riceverla da parte dell’uomo, e tale capacità si esplica in
maniera primordiale attraverso il sì del cristiano nella sua interezza; “tale
sì” viene chiamato opzione fondamentale. Il concetto di opzione fondamentale nasce quindi per superare una tendenza che può essere chiamata di
positivismo ed estrinsecismo teologico. L’ambito in cui venne “plasmato”
è quello della filosofia e teologia trascendentale. Fu poi completato dal
“teologumeno (ipotesi teologica) dell’opzione finale, secondo il quale l’uomo opera l’opzione definitiva e decisiva della propria salvezza nell’attimo
della morte”. Le scelte particolari fatte durante la vita predeterminano,
ma non in maniera automatica, la scelta finale; la libertà non perde il suo
significato.
3. Helmuth Feigl, (1926 a Vienna, † 2008), archivista, storico, direttore dell’Istituto Bassa Austria per gli studi regionali, e degli Archivi di Stato della
Bassa Austria .
4. The Astonishing ipotesi è un libro del 1994 dallo scienziato Francis Crick
sulla coscienza . Crick, uno dei co-scopritori della struttura molecolare
del DNA, in seguito divenne un teorico per neurobiologia e lo studio del
cervello,
5. Mario Augusto Bunge (Buenos Aires, 21 settembre 1919) è un filosofo e
fisico argentino attivo soprattutto in Canada.
6. Jean-Michel Maldamé, (Algeri 1939), teologo domenicano francese,
dottore in Teologia, è uno specialista riconosciuto della relazione tra
la scienza e la religione, è membro onorario della Pontificia Accademia
delle Scienze.
7. Sir Karl Raimund Popper (Vienna, 1902 – Londra, 1994) è stato un filosofo e
epistemologo austriaco naturalizzato britannico. Popper è anche considerato un filosofo politico di statura considerevole, difensore della democrazia e
dell’ideale di libertà e avversario di ogni forma di totalitarismo. Egli è noto
per il rifiuto e la critica dell’induzione, per la proposta della falsificabilità
come criterio di demarcazione tra scienza e non scienza, per la difesa della
“società aperta”.
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