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Giovedì 29 Settembre 2016
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Anche Keynes direbbe che un paese con un debito pari al 132% deve tagliare le spese pubbliche
Non si cresce se il debito cresce
Nella legge di bilancio c’è una miriade di piccole misure
DI
STEFANO CINGOLANI
M
eno crescita, più deficit, più debito. Con
questo triangolo tragico Matteo Renzi
lancia quella che, con ampio ricorso alla retorica, viene chiamata «la sfida» a Bruxelles.
Va bene, l’austerità sarà finita
(davvero?) come ci annuncia la
Repubblica. D’accordo, anche la
Germania ha bisogno di allentare le briglie e spendere un po’
di più in salari e investimenti.
Okay, la Francia sfora ancora
i limiti di Maastricht per non
parlare della Spagna. Ma nessun Paese europeo (se si esclude la Grecia che viene tenuta a
bagnomaria ai limiti della zona
euro), può vantare una tale triade di record negativi: le stime
per il 2017 sono peggiori in tutti
i parametri fondamentali, perché il tasso di crescita previsto
all’1,4 scende all’un per cento
(ed è già tanto visto che il tasso
tendenziale è appena lo 0,6%),
il disavanzo passa dall’1,8% del
pil al 2,4% e il debito sul prodotto lordo sale anch’esso dal
130,9% al 132,2%.
Si può dire che 132,2% segna comunque una piccola riduzione rispetto al 132,8% con
il quale si chiude il 2016, ma
l’aumento continuo, mese dopo
mese, mette ragionevolmente in
dubbio anche l’obiettivo fissato
per l’anno prossimo. Perché, se è
vero che il denominatore (il pil)
non si muove, è anche vero che
il numeratore (il debito in cifra
assoluta) continua a salire. Del
resto, come potrebbe scendere
se si pensa che le due manovre
economiche firmate da Renzi
hanno sempre aumentato il
disavanzo pubblico e la terza
s’appresta a farlo ancora. Con
queste cifre e con questo tipo di
politica fiscale, il governo pensa di convincere l’Unione europea? E di convincere i mercati
finanziari, obiettivo ancor più
importante perché a differenza
di Bruxelles le borse muovono
quattrini veri non virtuali tipo
il piano Juncker?
A Palazzo Chigi intendono usare un argomento
politico: in un clima elettorale
infuocato come quello italiano
una legge di bilancio all’insegna
del rigore nei conti pubblici, in
modo da confermare l’impegno
a ridurre il debito, avrebbe provocato scossoni sociali e politici,
favorendo il no al referendum
del 4 dicembre. Tagliare la spesa pubblica corrente provoca
conflitti con i Comuni, le Regioni, i sindacati, e tutte le lobby malmostose e tumultuanti
che prolificano dentro lo Stato
assistenziale. Può darsi. Ma,
fatta saltare una consistente
spending review, il governo ha
alzato bandiera bianca. Le folle
armate di forconi sperano che
Beppe Grillo, una volta preso
il potere, cancellerà il debito
pubblico? Vedremo cosa accadrà col debito di Roma visto
che non sono in in grado di nominare nemmeno un assessore
al Bilancio. Più che grillini sono
semmai grullini.
Non solo. La manovra che
la nota di aggiornamento al
Def fa intravedere e che sarà
contenuta nella legge di bilan-
stro dell’Economia Pier Carlo
Padoan nel suo indomabile
realismo, e non si può dargli
torto. Ma il governo ha scelto,
non di concentrare le limitate
disponibilità finanziarie in pochi provvedimenti chiari e netti
(per esempio cominciando a ri-
GIANNI MACHEDA’S TURNAROUND
È morto Shimon Peres, una vita per la pace. Sulla sua
tomba l’epitaffio «Fatica sprecata».
***
Quindi il Ponte si farà / anche se a campate strette / forse un giorno lo finirà / un governo Renzi
sette.
***
Roma senza Olimpiadi. Niente circenses e anche il panem
ormai scarseggia.
***
Lascia il lavoro e gira il mondo per scrivere libri:
boom su Amazon. L’avrei scambiato per Veltroni. Se
non fosse per il boom su Amazon.
Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan
cio, è composta da una miriade
di piccole misure, stando attenti
ad accontentare categorie sociali o parte di esse, una distribuzione di sollievi momentanei,
di cardioaspirine, senza una
medicina efficace. Le risorse
sono scarse, ha detto il mini-
durre le imposte sui redditi per
sostenere la domanda e dividere in modo più equo la piccola
torta), bensì di far cadere una
pioggerella.
Inutile prendersela con
i soliti «falchi rigoristi del
nord» (una retorica stantia come
la cantilena sulla flessibilità).
Anche perché gli stessi paesi
del sud (Grecia esclusa) fanno
meglio di noi; non solo, crescono
di più e in modo meno squilibrato pure quelli che hanno subito
la mannaia della trojka. L’Italia
chiede alla Ue di essere aiutata,
ma più deficit e più debito non
è il miglior biglietto da visita.
Senza riaprire la diatriba tra
monetaristi e keynesiani (ormai trita e ritrita, altrettanto
noiosa della flessibilità e delle
invettive anti-tedesche), nessuno, nemmeno la buonanima
di Keynes, potrebbe sostenere che un debito al 132%
del pil spinge un Paese come
l’Italia (con i suoi problemi
di produttività declinante,
pubblica amministrazione
inefficiente, servizi vecchi e
dissestati) a uscire da questa
infinita stagnazione. Semmai,
è il contrario. Nei bilanci delle
banche italiane i Btp spiazzano i crediti, perché il debito pubblico (dopo la crisi del
2010-2011) non è più a rischio
zero. E l’idea che possiamo
comunque galleggiare, tanto
continuiamo a indebitarci è
proprio quella che ci ha portato
dritti dritti nella palude.
Formiche.net
ON THE ROAD, NOTE DI VIAGGIO FRA I MEDIA DI MARIO SECHI
Debito schizzato di altri 80 mld in sette mesi
DI
MARIO SECHI
Titoli. Le elezioni americane
vengono considerate lontane (in
realtà sono quanto di più vicino alla
politica e al futuro dell’Italia) dunque
l’apertura dei giornali è dedicata a
temi domestici dai quali emerge inesorabilmente il nostro gioco al buio o
quasi. Prendete il Def, quel documento
che deve tracciare lo scenario della nostra economia, dice quello che si sapeva: il prodotto interno lordo rallenta, la
crescita del 2017 è fissata all’uno per
cento (e si fa professione di ottimismo),
il deficit sale (più 2,4 per cento), c’è
una partita aperta con Bruxelles su
uno spazio di flessibilità di bilancio
(per migranti e terremoto, lotteria da
circa sei miliardi da trattare con i paesi del Nord Europa), il debito pubblico
(record storico a quota oltre 2.252 miliardi) forse l’anno prossimo comincerà
calare, ma questo era già stato detto
in altre occasioni.
Si capisce anche che la manovra non ha carburante sufficiente
per andare lontano, ci sono sì e no 5
miliardi da mettere sul piatto e poi il
resto se ne va in interventi già ampiamente programmati. Ecco perché
è stato surreale assistere al dibattito
sotto l’ombrellone sulla pensione anticipata, e non si capisce il motivo per
cui il presidente del consiglio debba
commentare il confronto tra la politica
di bilancio italiana e l’Europa con un
«che noia, che barba, che noia». Merkel e Schauble la pensano così e tutto
questo forse sarà pop, ma poi bisogna
spiegare agli italiani che restano sono
sotto la pressa fiscale, che l’Irpef non
calerà, che il debito pubblico nei primi
sette mesi dell’anno è schizzato di altri
80 miliardi, che la produzione nell’ultimo trimestre è zero, che gli ordinativi
dell’industria sono crollati (meno 10,8
per cento a luglio), che siamo inesorabilmente attaccati alla Jeep di Sergio
Marchionne.
La leadership si esprime in queste forme, per carità, ma ottimismo
e razionalità si accompagnano alla
conoscenza dei fatti, dei numeri, alla
loro proiezione in un futuro non troppo
lontano che si accompagni a misure
coraggiose che non siano legate alla
continua ricerca del consenso. Forse
di questi tempi è chiedere troppo e,
visto cosa si agita negli altri partiti,
possiamo anche dire che questo passa
il convento, ma c’è una cifra istituzionale da fiera dell’Est che forse sarebbe
il caso di abbandonare. I quotidiani titolano su questo, con l’aggiunta della
riapparizione del Ponte di Messina,
un sempre verde di Palazzo Chigi: «I
paletti dell’Europa sui conti» (Corriere
della Sera); «Crescita lenta, spinta del
governo» (Il Messaggero); «Pensioni,
mancano i soldi» (Carlino-NazioneGiorno); «Def, l’Italia alza il deficit al
2,4% braccio di ferro con Bruxelles»
(Repubblica); «Ponte sullo Stretto, sfida Renzi-Grillo» (La Stampa). La lettura dei titoli dice tutto e il contrario
di tutto, la sensazione è quella giusta:
siamo prossimi a un punto di rottu-
ra, quello del referendum. E questo ci
sarà, sia in caso di vittoria del Sì, sia
in caso di affermazione del No.
Nel primo caso, avremo Renzi
in sella per lungo tempo; nel secondo,
avremo il premier disarcionato e vai
con la rumba di un altro governo di
transizione. Lo scenario è stato saggiamente dipinto da Carlo De Benedetti in un’intervista sul Corriere
della Sera: «Se vincesse il no, Renzi
dovrebbe dimettersi il giorno dopo. Anche se non credo che lascerà la politica.
E per fortuna, perché ha dimostrato
di avere energia e qualità (…) Berlusconi aspetta col cappello in mano.
Comunque finisca il referendum, ci
guadagna: anche se vince il sì, Renzi
avrà bisogno di lui. La scelta di Parisi
si spiega così. Insieme, Renzi e Parisi si accorderanno, ridimensionando
la sinistra e restituendo Salvini alle
valli che aveva disceso con orgogliosa
sicurezza. Di sicuro per combattere i
populismi appare inevitabile che al
partito di Renzi si sommino una parte
dei voti e dell’apparato del centrodestra». Non sarà mai una Grosse Koalition (i tedeschi fanno queste cose con
metodo e non con improvvisazione) ma
il percorso appare quello. In un parlamento con tre forze che sono una debolezza, la logica politica dice che due
fanno un patto e la terza resta fuori.
Non resta che attendere la sera del 4
dicembre, il giorno del referendum, e
vedere lo spoglio dei voti. Sì o No, tutto
cambierà. Buona giornata.
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