Transcript addenda

ANTONIO MARCELLO CALAMIA – VIVIANA VIGIAK
MANUALE BREVE
DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
TUTTO IL PROGRAMMA D’ESAME
CON DOMANDE E RISPOSTE COMMENTATE
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
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ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
Nel corso del più recente periodo, nell’ambito diritto dell’Unione e nell’ordinamento giuridico europeo, si sono registrati
alcuni interventi degni di nota che hanno modificato e implementato l’originario assetto. In particolare, gli elementi di novità di
seguito trattati attengono ai profili istituzionali, agli aspetti normativi dell’Unione ed ai suoi riflessi sul diritto interno e riguardano,
altresì, alcuni recenti e rilevanti interventi giurisprudenziali.
Sul piano istituzionale si segnalano il recente Regolamento
(EU, Euratom) del 16.12.2015 n. 2422/2015 recante modifiche del
Protocollo n. 3 dello Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione e
conseguente modifica della struttura della Corte di Giustizia dell’Unione europea con l’aumento dei membri del Tribunale, nonché
l’accordo interistituzionale “legiferare meglio” del 13 aprile
2016.
Nell’ambito normativo vengono esaminati il nuovo Regolamento adottato in tema di privacy (Regolamento UE 2016/679
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UE il 4 maggio 2016), nonché la legge
del 29 luglio 2015 n. 115 (Legge europea 2014).
Infine, sul piano della prassi giurisprudenziale più recente si
segnalano alcune pronunce emanate nei vari settori del diritto dell’Unione, sia in procedimenti volti all’uniforme interpretazione del
diritto europeo, sia quelli relativi ai ricorsi in annullamento degli
atti, che hanno rappresentato significativi elementi di novità.
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1. I profili istituzionali.
1.1. Il Regolamento (UE, Euratom) del 16.12.2015 n. 2422/2015: la
nuova struttura della Corte di Giustizia.
Il Regolamento (UE, Euratom) n. 2015/2422 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2015 reca importanti modifiche del Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di Giustizia
dell’Unione europea (CGUE) e condurrà alla modifica dell’architettura istituzionale della Corte di Giustizia prevendendo un significativo aumento del numero dei giudici attualmente in carica
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presso il Tribunale, nonché l’assorbimento del Tribunale della
Funzione Pubblica all’interno del Tribunale stesso.
Il Regolamento risponde all’esigenza di ridurre i tempi di durata dei procedimenti pendenti presso il Tribunale, costantemente aumentati sia a causa del progressivo ampliamento delle sue
competenze, sia per cause connesse, da un lato, all’intensificazione
e diversificazione degli atti giuridici delle istituzioni e degli organi e
organismi dell’Unione e, dall’altro, al volume della complessità
delle cause di cui il Tribunale è investito, soprattutto in materia di
concorrenza, di aiuti di Stato e proprietà intellettuale, come chiaramente indicato nei “considerando”.
Per ovviare alla situazione che nel tempo si è venuta a determinare, dato anche il mancato utilizzo della possibilità, prevista dall’articolo 257 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE), di istituire tribunali specializzati, il Regolamento già nei
suoi considerando afferma la necessità di adottare adeguate misure di natura organizzativa, strutturale e procedurale, incluso
un aumento del numero dei giudici, con conseguente riduzione,
in breve tempo, sia del volume delle cause pendenti sia dell’eccessiva durata.
In particolare, è previsto che l’aumento del numero dei giudici
del Tribunale avvenga in fasi successive per giungere al numero
di 56: il nuovo articolo 48 dello Statuto, infatti, dispone che il Tribunale sia composto di 40 giudici a decorrere dal 25 dicembre 2015,
di 47 giudici a decorrere dal 1° settembre 2016 e di due giudici per
Stato membro a decorrere dal 1° settembre 2019.
La nuova disciplina, dunque, prevede un raddoppio del numero
dei giudici del Tribunale da realizzare in tre tappe, la seconda delle
quali consiste nello scioglimento del Tribunale della funzione pubblica dell’Unione europea, con il contestuale assorbimento al Tribunale dei sette posti di giudice di cui è composto e della competenza a decidere in primo grado sulle controversie in materia di
funzione pubblica europea. La terza tappa si avrà, quindi, con il
completamento del raddoppio del numero dei giudici del Tribunale, il 1° settembre 2019.
Il 13 aprile 2016 sette nuovi giudici del Tribunale dell’Unione
europea, nominati in data 23 marzo 2016, hanno prestato giuramento ed hanno dunque assunto le proprie funzioni.
All’articolo 3 del Regolamento 2015/2422 è previsto che la
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Corte di Giustizia, entro il 26 dicembre 2020, con l’ausilio di un
consulente esterno elabori una relazione sul funzionamento del
Tribunale destinata al Parlamento europeo, al Consiglio ed alla
Commissione. La relazione si dovrà soffermare, in maniera particolare, sull’efficienza del Tribunale, sull’utilizzo delle risorse ad
esso destinate e sull’efficacia del raddoppio del numero dei giudici.
Infine, la relazione prenderà in considerazione l’eventuale istituzione di ulteriori sezioni specializzate o altre modifiche strutturali
che si rendano necessarie.
La Corte ha poi il compito di elaborare, questa volta entro il 26
dicembre 2017, un’ulteriore relazione, prevista sempre dall’articolo 3 e anch’essa destinata al Parlamento Europeo, Consiglio e
Commissione, su eventuali modifiche concernenti la ripartizione delle competenze in materia di pronunce pregiudiziali ex
articolo 267 TFUE.
Un ultimo aspetto del Regolamento degno di nota riguarda l’attenzione riposta dal legislatore dell’Unione sull’importanza dell’equilibrio di genere tra giudici uomini e donne in seno al
Tribunale, come indicato nel considerando n. 11. Tale necessità,
sentita espressamente come “fondamentale” comporterà una progressiva modifica del Sistema dei rinnovi parziali in modo da portare gradatamente gli Stati membri alla proposizione di due giudici:
uno uomo e l’altro donna.
1.2. La legislazione dell’Unione europea: l’accordo interistituzionale
“legiferare meglio” adottato dal Consiglio il 15 marzo 2016.
Il 19 maggio 2015 la Commissione europea aveva adottato
l’agenda “Legiferare meglio”. Successivamente, dopo il via libera
del Consiglio e della Commissione del 15 dicembre 2015, anche il
Parlamento Europeo, nel marzo 2016, aveva approvato il citato
accordo interistituzionale.
Il 13 aprile 2016 il Parlamento europeo, il Consiglio dell’Unione europea e la Commissione europea hanno firmato un
nuovo accordo interistituzionale “Legiferare meglio”, entrato in
vigore il giorno della sua firma e adottato sulla scorta di quanto
previsto dall’art. 295 TFUE, in virtù del quale “Il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione procedono a reciproche consultazioni e definiscono di comune accordo le modalità della cooperazione. A tale scopo, nel rispetto dei trattati, possono concludere
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accordi interistituzionali che possono assumere carattere vincolante.”.
L’accordo interistituizionale “Legiferare meglio” si sostanzia in
un insieme di misure di riforma dell’intero ciclo politico dell’Unione: dalla pianificazione, all’adozione e attuazione delle politiche, sino alla valutazione e, infine, alla revisione delle stesse. La
sua finalità è quella di assicurare l’apertura e la trasparenza del
processo decisionale dell’Unione europea, coinvolgendo nel processo decisionale le parti interessate in maniera tale da garantire la
migliore legislazione possibile per i cittadini e per le imprese.
L’Unione, tramite l’accordo interistituzionale in esame, mira a
realizzare gli obiettivi politici nella maniera più trasparente ed
aperta, valutando l’impatto previsto e quello effettivo delle politiche, prefiggendosi così di raggiungere una legislazione più
efficiente e più efficace.
L’accordo “Legiferare meglio” si apre, nei suoi “considerando”,
con le attestazioni di Commissione, Consiglio e Parlamento europeo sul reciproco riconoscimento di ruolo di co-legislatore dell’Unione sancita dai Trattati in grado di parità e con l’affermazione
di impegno ad una cooperazione leale e trasparente durante l’intero ciclo legislativo.
Le tre istituzioni espressamente riconoscono la propria comune
responsabilità rispetto alla possibilità di produrre una legislazione
di qualità elevata e capace di offrire il massimo valore aggiunto ai
cittadini dell’Unione, una legislazione che possa conseguire gli
obiettivi politici comuni in maniera efficiente, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità sanciti nel Trattato sull’Unione europea (TUE), riconoscendo altresì il ruolo e la responsabilità dei Parlamenti nazionali.
L’obiettivo delle tre istituzioni è, dunque, quello di produrre una
legislazione chiara e semplice, evitando gli oneri amministrativi
per cittadini, amministrazioni ed imprese, in particolare per le piccole e medie imprese, che sia concepita in maniera tale da facilitarne il recepimento e l’applicazione pratica e da rafforzare la competitività e la sostenibilità dell’economia dell’Unione.
Uno degli strumenti indicati nell’accordo interistituzionale volto
a realizzare l’impegno di “Legiferare meglio” riguarda la cosiddetta “valutazione di impatto”: Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, infatti, concordano nel riconoscere l’apporto posi-
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tivo delle valutazioni d’impatto per il miglioramento della qualità
della legislazione dell’Unione.
Le valutazioni d’impatto, secondo espressa definizione del paragrafo 12 dell’accordo in esame, sono “uno strumento inteso a fornire alle tre istituzioni un ausilio per prendere decisioni ben fondate e non sostituiscono le decisioni politiche nell’ambito del processo decisionale democratico. Le valutazioni d’impatto non devono condurre a indebiti ritardi nell’iter legislativo né
compromettere la capacità dei co-legislatori di proporre modifiche”. Le valutazioni d’impatto, prosegue la norma in commento,
dovrebbero riguardare l’esistenza, la portata e le conseguenze di un
problema e determinare se sia necessaria o meno l’azione dell’Unione. Esse sono finalizzate all’individuazione di soluzioni alternative nonché, laddove possibile, di costi e benefici potenziali, sia a
breve che a lungo termine, valutando gli impatti sotto il profilo
economico, ambientale e sociale in modo integrato ed equilibrato e
fondandosi su analisi qualitative e quantitative.
Viene sancita, inoltre, l’opportunità di rispettare rigorosamente i
principi di sussidiarietà e di proporzionalità, nonché i diritti fondamentali. Le valutazioni d’impatto dovrebbero anche considerare,
ove possibile, “il costo della non-Europa e l’impatto sulla competitività, nonché gli oneri amministrativi delle varie opzioni, con particolare attenzione alle PMI (“pensare anzitutto in piccolo”), agli
aspetti digitali e all’impatto territoriale. Le valutazioni d’impatto
dovrebbero basarsi su informazioni accurate, oggettive e complete
ed essere proporzionate quanto alla loro portata e alle tematiche su
cui si concentrano.”.
L’accordo interistituzionale prevede che la Commissione effettui “valutazioni d’impatto” sulle proprie iniziative legislative e
non legislative, sugli atti delegati e sulle misure d’esecuzione
che siano suscettibili di avere un impatto economico, ambientale o
sociale significativo. Nel condurre le valutazioni d’impatto è stabilito che la Commissione proceda a consultazioni quanto più ampie
possibili.
All’atto dell’esame delle proposte legislative della Commissione,
il Parlamento europeo e il Consiglio tengono pienamente conto
delle valutazioni d’impatto della Commissione, e se lo ritengono
opportuno e necessario per l’iter legislativo, effettuano a loro
volta valutazioni d’impatto in relazione alle modifiche sostanziali
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che hanno apportato alla proposta della Commissione. Si stabilisce
inoltre che il Parlamento europeo e il Consiglio di norma prendano
come punto di partenza la valutazione d’impatto della Commissione per i loro ulteriori lavori.
Ciascuna delle tre istituzioni stabilisce autonomamente come organizzare i propri lavori di valutazione d’impatto, ivi compresi le
risorse organizzative interne e il controllo della qualità. Esse comunque cooperano scambiandosi informazioni sulle migliori
prassi e metodologie relative alle valutazioni d’impatto, consentendo così a ciascuna istituzione di migliorare ulteriormente le proprie metodologie e procedure dell’attività di valutazione d’impatto
nel suo insieme.
Al paragrafo 18 l’accordo interistituzionale sancisce che la valutazione d’impatto iniziale della Commissione, e gli eventuali lavori supplementari in materia condotti dalle istituzioni nel corso
dell’iter legislativo, siano resi pubblici entro la fine dell’iter legislativo, e considerati complessivamente, possano essere utilizzati
come base di valutazione.
L’accordo interistituzionale contempla e disciplina anche le
“consultazioni del pubblico e dei portatori di interesse” e i cosiddetti “feedback”. Al paragrafo 19, infatti, viene espressamente
sancito che “La consultazione del pubblico e dei portatori di interesse è parte integrante di un processo decisionale ben informato e
del miglioramento della qualità di tale processo. Fatti salvi gli accordi specifici applicabili alle proposte della Commissione ai sensi
dell’articolo 155, paragrafo 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la Commissione, prima di adottare una proposta,
conduce consultazioni pubbliche in maniera aperta e trasparente,
facendo in modo che le modalità e le scadenze di dette consultazioni permettano una partecipazione quanto più ampia possibile.
In particolare la Commissione incoraggia la partecipazione diretta
alle consultazioni delle PMI e di altri utenti finali, anche tramite
internet. I risultati delle consultazioni del pubblico e dei portatori di
interesse sono comunicati senza indugio ai co-legislatori e resi
pubblici.”.
L’accordo in esame, inoltre, contempla specifiche disposizioni riguardanti la cosiddetta “valutazione ex post” della legislazione vigente. Con tali previsioni l’accordo mira a considerare
in termini di efficienza, efficacia, pertinenza, coerenza e valore
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aggiunto la legislazione e le politiche vigenti, in maniera tale che
possano servire da base per la valutazione d’impatto delle opzioni
per l’azione ulteriore.
L’accordo interistituzionale, infine, dedica specifici paragrafi agli
strumenti legislativi, agli atti delegati e agli atti di esecuzione, alla
trasparenza e coordinamento dell’iter legislativo, alla semplificazione, nonché all’attuazione e applicazione della legislazione dell’Unione all’interno degli Stati membri, offrendo così un insieme di
importanti strumenti in grado di attuare il proposito di “Legiferare
meglio” fatto proprio dalle tre istituzioni con la firma e l’entrata in
vigore del relativo accordo.
2. Le norme rilevanti.
2.1. Il Regolamento europeo sulla privacy (Regolamento UE 2016/
679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016). Finalità ed esigenze della nuova normativa.
Il 4 maggio 2016 è stato pubblicato sulla G.U. dell’Unione europea il nuovo Regolamento UE 2016/679 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali,
nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE.
Il nuovo Regolamento entra in vigore dal 25 maggio 2016, e come
sancito nel suo ultimo articolo (art. 99), si applica a decorrere dal
25 maggio 2018. A partire dalla medesima data la direttiva 95/
46/CE risulterà abrogata. Ciò significa che gli Stati membri hanno
due anni di tempo per provvedere alla perfetta armonizzazione
della propria disciplina con quella del nuovo testo sulla protezione
dei dati personali.
Il Regolamento 2016/679 rappresenta un testo complesso che si
compone di ben 173 “considerando” e 99 articoli.
La lettura dei considerando consente, già di per sé, di cogliere la
portata, anche innovativa, del nuovo strumento legislativo sorto
per esigenze di tutela dei dati personali all’interno di un economia
sempre più caratterizzata dallo sviluppo tecnologico e telematico e
dall’innumerevole scambio di dati sensibili dei soggetti. Il nuovo
Regolamento, infatti, si apre riconoscendo espressamente che
“La protezione delle persone fisiche con riguardo al tratta-
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mento dei dati di carattere personale è un diritto fondamentale. L’articolo 8, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea («Carta») e l’articolo 16, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea («TFUE») stabiliscono
che ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere
personale che la riguardano.”, ed aggiunge dunque che “I principi e
le norme a tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento
dei dati personali dovrebbero rispettarne i diritti e le libertà fondamentali, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali, a
prescindere dalla loro nazionalità o dalla loro residenza.”.
Riconoscendo l’importanza fondamentale della tutela dei dati di
carattere personale, il Regolamento afferma comunque che il diritto alla protezione di tali dati non è una prerogativa assoluta, ma
debba piuttosto essere considerato alla luce della sua funzione
sociale e contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. “Il presente Regolamento”
— recita il considerando n. 4 – “rispetta tutti i diritti fondamentali
e osserva le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta, sanciti
dai trattati, in particolare il rispetto della vita privata e familiare,
del domicilio e delle comunicazioni, la protezione dei dati personali, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di
espressione e d’informazione, la libertà d’impresa, il diritto a un
ricorso effettivo e a un giudice imparziale, nonché la diversità culturale, religiosa e linguistica.”.
L’esigenza dell’adozione del nuovo testo normativo viene indicata dallo stesso Regolamento nell’aumento significativo di
scambi di flussi transfrontalieri di dati personali, e quindi anche
dei dati personali scambiati, in tutta l’Unione, tra attori pubblici e
privati, comprese persone fisiche, associazioni e imprese, a seguito
anche dello sviluppo tecnologico e della globalizzazione che hanno
sensibilmente trasformato l’economia e le relazioni sociali. Una
simile evoluzione, secondo il legislatore europeo, richiede un quadro più solido e coerente in materia di protezione dei dati
nell’Unione, affiancato da efficaci misure di attuazione, data l’importanza di creare il clima di fiducia che consentirà lo sviluppo
dell’economia digitale in tutto il mercato interno.
Secondo quanto sancito dal considerando 7, infatti, è opportuno
che le persone fisiche abbiano il controllo dei dati personali che li
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riguardano e che la certezza giuridica e operativa sia rafforzata,
tanto per le persone fisiche quanto per gli operatori economici e le
autorità pubbliche, in maniera tale da facilitare ancora di più la
libera circolazione dei dati personali all’interno dell’Unione e il loro
trasferimento verso paesi terzi e organizzazioni internazionali, garantendo al tempo stesso un elevato livello di protezione dei dati
personali.
Sebbene nel nuovo testo normativo si affermi che i principi della
direttiva 95/46/CE sulla protezione dei dati personali, abrogata a
decorrere dal 25 maggio 2018, siano tutt’ora validi, si riconosce
come la stessa non abbia impedito la frammentazione dell’applicazione della protezione dei dati personali nel territorio dell’Unione, con conseguente compresenza di diversi livelli di protezione dei diritti e delle libertà delle persone fisiche, in particolare
del diritto alla protezione dei dati personali, all’interno degli Stati
membri. Tali differenze, secondo il legislatore europeo, possono
costituire un freno all’esercizio delle attività economiche su scala
dell’Unione, falsare la concorrenza e impedire alle autorità nazionali di adempiere agli obblighi loro derivanti dal diritto dell’Unione
stesso.
In considerazione di ciò, il nuovo testo afferma espressamente
che “Per assicurare un livello coerente di protezione delle persone fisiche in tutta l’Unione e prevenire disparità che possono
ostacolare la libera circolazione dei dati personali nel mercato interno, è necessario un regolamento che garantisca certezza del
diritto e trasparenza agli operatori economici, comprese le micro, piccole e medie imprese, offra alle persone fisiche in tutti gli
Stati membri il medesimo livello di diritti azionabili e di obblighi e responsabilità dei titolari del trattamento e dei responsabili del trattamento e assicuri un monitoraggio coerente del trattamento dei dati personali, sanzioni equivalenti in tutti gli Stati
membri e una cooperazione efficace tra le autorità di controllo
dei diversi Stati membri. Per il buon funzionamento del mercato
interno è necessario che la libera circolazione dei dati personali
all’interno dell’Unione non sia limitata né vietata per motivi attinenti alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali.”.
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2.2. Segue. Il Regolamento europeo sulla privacy (Regolamento UE
2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016).
La disciplina.
Sulla base dei principi e delle esigenze ora considerati, il Regolamento 2016/679 UE prevede un’articolata disciplina, finalizzata a
dare concreta risposta alle nuove e sentite necessità, che si sviluppa
in 11 Capi suddivisi in 99 articoli, di cui di seguito vengono esaminati gli aspetti maggiormente significativi.
Il testo normativo si apre, al suo Capo I dedicato alle disposizioni generali, con l’articolo inerente l’oggetto e le finalità perseguite dal Regolamento, ossia stabilire le norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento di dati personali, nonché norme relative alla libera circolazione di tali dati, e
prevede poi specifici articoli dedicati al suo ambito di applicazione,
sia materiale che territoriale.
Il Capo II è dedicato ai “Principi” osservati nel Regolamento e dal
medesimo sanciti nell’applicazione della disciplina del trattamento
dei dati personali. Vengono così previste specifiche disposizioni
riguardanti i principi applicabili, tra cui quello inerente il trattamento dei dati in modo lecito corretto e trasparente nei confronti
dell’interessato (principio di liceità, correttezza e trasparenza).
È stabilita la necessita della raccolta dei dati per finalità determinate, esplicite e legittime (principio della limitazione della finalità), nonché che i dati stesi siano adeguati, pertinenti e limitati a
quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati
(principio della minimizzazione dei dati), esatti e, se necessario, aggiornati (principio dell’esattezza). Si afferma, inoltre il
“principio della limitazione della conservazione”, cioè conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati
per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità
per le quali sono trattati, il “principio della integrità e riservatezza” e quello della “responsabilizzazione” del responsabile del
trattamento.
Sono, inoltre, contenute nel Capo II specifiche disposizioni riguardanti le modalità di rilascio del consenso ed il trattamento di
categorie particolari di dati personali.
Il Capo III viene dedicato alla disciplina dei “Diritti dell’interessato”. In esso un’apposita Sezione viene dedicata al “diritto di ret-
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tifica” (art. 16) ed a quello di cancellazione, il cosiddetto “diritto
all’oblio” (art. 17).
In particolare, per quanto attiene alla “rettifica” l’interessato
ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la rettifica dei
dati personali inesatti che lo riguardano senza ingiustificato ritardo. Tenuto conto delle finalità del trattamento, l’interessato ha il
diritto di ottenere l’integrazione dei dati personali incompleti, anche fornendo una dichiarazione integrativa.
In merito al cosiddetto “diritto all’oblio” o diritto alla cancellazione, il nuovo Regolamento prevede che l’interessato possa ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione di dati personali
che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e prevede, altresì, che
il titolare del trattamento abbia l’obbligo di procedere senza ingiustificato ritardo alla cancellazione se sussistono uno degli elementi
indicati dalla norma alle lettere dalla a) alla e). Tra le ipotesi di
obbligo di cancellazione si ricordano: il caso in cui i dati personali
non siano più necessari, il caso di revoca del consenso da parte
dell’interessato senza altro fondamento giuridico per il trattamento
e, ancora, l’ipotesi di trattamento illecito dei dati raccolti. La disciplina ora evidenziata non trova applicazione per il caso in cui il
trattamento dei dati sia necessario per specifici motivi di interesse
pubblico, specificatamente indicati, quali, tra gli altri, l’esercizio del
diritto alla libertà di espressione o informazione e l’accertamento,
esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.
In caso di esigenze legate alla necessità della salvaguardia della
sicurezza nazionale, della difesa, della sicurezza e di altre specifiche situazioni indicate dall’articolo 23 è previsto che il diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento possa limitare, mediante
misure legislative, la portata degli obblighi e dei diritti sopra richiamati.
Il Capo IV viene dedicato alla disciplina relativa al “Titolare
del trattamento e responsabile del trattamento”. Il “titolare del
trattamento”, secondo la definizione espresso contenuta nel Regolamento, è “la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il
servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri,
determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali;
quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal
diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o
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i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere
stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri”. Il “responsabile del trattamento” è, invece, la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali
per conto del titolare del trattamento.
Il Capo ora in esame prevede specifiche disposizioni riguardanti
gli obblighi di carattere generale gravanti su tali figure, la tenuta di
particolari registri delle attività di trattamento svolte sotto la responsabilità del titolare del trattamento, nonché una serie di articoli dedicati alla salvaguardia della sicurezza dei dati personali.
L’articolo 40 prevede l’adozione di veri e propri “codici di condotta” destinati a contribuire alla corretta applicazione del Regolamento in funzione delle specificità dei vari settori di trattamento
e delle specifiche esigenze delle micro, piccole e medie imprese. E’,
inoltre, previsto un monitoraggio di codici di condotta approvati e
l’istituzione di meccanismi di certificazione della protezione dei
dati, in maniera da assicurare un corretto funzionamento e corretta
applicazione del Regolamento.
Il Capo V riguarda i trasferimenti dei dati personali verso
Paesi terzi o organizzazioni internazionali. L’articolo 44, sul
punto, pone un “Principio generale per il trasferimento” in virtù
del quale il trasferimento risulta possibile solo qualora il titolare e il
responsabile del trattamento rispettano le condizioni previste nel
Capo in esame.
In via generale, è previsto che il trasferimento di dati verso un
Paese terzo o un’organizzazione internazionale sia ammesso senza
specifiche autorizzazioni qualora la Commissione abbia deciso che
il Paese in questione o l’organizzazione internazionale garantiscono un livello di protezione adeguato (art. 45).
L’“adeguatezza” viene valutata sulla base di una serie di elementi
stabiliti nel Regolamento tra cui figurano: lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e le norme
vigenti in materia di protezione dei dati. La Commissione, valutata
l’adeguatezza, può emanare atti di esecuzione volti a stabilire che
un Paese terzo, un territorio o un’organizzazione internazionale
garantiscono l’adeguato livello di protezione richiesto. In mancanza della decisione della Commissione in merito, il trasferimento
potrà avvenire solo se il titolare del trattamento, o il responsabile,
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hanno fornito garanzie adeguate e a condizione che gli interessati
dispongano di diritti azionabili e mezzi di ricorso effettivi (art. 46).
Il Capo VI del Regolamento prevede e disciplina le “Autorità di
controllo indipendenti” istituzionalmente preposte a sorvegliare
sulla corretta e coerente applicazione della nuova normativa europea. A tale scopo, le autorità di controllo cooperano tra di loro e con
la Commissione.
Il Regolamento prevede poi alcuni specifici articoli dedicati alle
competenze (art. 55), ai compiti (art. 57), ed ai poteri (art. 58) delle
autorità di controllo. In merito a tali ultimi il Regolamento prevede
espressamente che ciascuna autorità di controllo sia dotata di poteri, specificatamente individuati, suddivisi in: poteri di indagine,
poteri correttivi e, infine, poteri autorizzativi e consultivi.
Nel Capo VII il Regolamento 2016/679 UE pone regole volte alla
cooperazione tra l’autorità di controllo capofila, ossia l’autorità
di controllo dello stabilimento principale o dello stabilimento unico
del titolare e del trattamento o responsabile del trattamento, e le
altre autorità di controllo interessate che vanno dallo scambio di
informazioni, all’assistenza reciproca sino alla eventuale conduzione di operazioni congiunte.
Il nuovo testo normativo dispone l’istituzione di un vero e proprio “Comitato europeo per la protezione dei dati (“comitato”)”
che, come testualmente indicato dalla norma (art. 68) “è istituito
quale organismo dell’Unione ed è dotato di personalità giuridica.”.
Il Comitato ha il principale compito di garantire l’applicazione coerente del Regolamento, esso è rappresentato dal suo Presidente ed
è composto dalla figura di vertice di un’autorità di controllo per
ciascuno Stato membro e dal garante europeo della protezione dei
dati, o dai rispettivi rappresentati. E’ previsto, inoltre, che la Commissione abbia il diritto di partecipare alle attività del Comitato,
senza però il diritto di voto.
Il Capo VIII viene dedicato ai “Mezzi di ricorso, responsabilità
e sanzioni”.
L’articolo 77 prevede che l’interessato, il quale ritenga che il
trattamento che lo riguarda violi il Regolamento, può innanzitutto
proporre reclamo ad un’autorità di controllo dello Stato membro
in cui risiede o lavora, oppure quella del luogo in cui si è verificata
la presunta violazione. Fatto salvo ogni altro ricorso amministrativo
o extra giudiziale, ogni persona fisica o giuridica può proporre un
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ricorso giurisdizionale effettivo contro una decisione giuridicamente vincolante dell’autorità di controllo che lo riguarda. Il ricorso
può essere altresì proposto nel caso in cui l’autorità di controllo non
tratti un reclamo, oppure qualora non informi l’interessato, entro
tre mesi, dello stato e dell’esito del reclamo proposto.
L’articolo 79 stabilisce che, sempre fatta salva la possibilità di
ogni altro ricorso amministrativo, extragiudiziale o anche quella di
proporre il reclamo all’autorità di controllo, l’interessato possa
proporre ricorso giurisdizionale nei confronti del titolare del
trattamento o del responsabile del trattamento. Il ricorso può
essere proposto dinanzi alle medesime autorità giurisdizionali previste dall’articolo 77.
Infine, l’articolo 82 riconosce in capo a chiunque subisca un
danno, materiale o immateriale, causato da una violazione del Regolamento, il diritto di ottenere il risarcimento del danno dal
titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento.
In merito al profilo sanzionatorio il Regolamento, agli articoli 83
e 84, prevede specifiche disposizioni riguardanti le sanzioni amministrative pecuniarie e altre sanzioni quali conseguenze della
violazione delle norme sulla protezione dei dati. E’ previsto, in linea
generale, che le sanzioni amministrative pecuniarie e le altre
sanzioni, inflitte in relazione alle violazioni del Regolamento, siano
in ogni caso effettive, proporzionate e dissuasive.
Il successivo Capo IX del Regolamento 2016/679 dedica particolari disposizioni a specifiche situazioni di trattamento. Tra esse si
segnala l’articolo 85, dedicato al “Trattamento della libertà di
espressione e di informazione”, ove si stabilisce che “il diritto
degli Stati concilia la protezione dei dati personali ai sensi del
presente regolamento con il diritto alla libertà d’espressione e di
informazione, incluso il trattamento a scopi giornalistici o di
espressione accademica, artistica o letteraria.”. E’ previsto, altresì,
che gli Stati membri possano derogare o considerarsi esenti dall’applicazione di determinati disposizioni del regolamento, ove ciò
si renda necessario per conciliare il diritto alla protezione dei dati
personali e la libertà d’espressione e di informazione. In tal caso
ogni Stato membro notifica alla Commissione le disposizioni di
legge adottate e comunica senza ritardo ogni successiva modifica.
Sono poi contemplate puntuali disposizioni in relazione, tra le
altre, al trattamento ed accesso del pubblico ai documenti ufficiali
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
(art. 86), al trattamento dei dati nell’ambito dei rapporti di lavoro
(art. 88), nonché si prevede espressamente che le chiese, le associazioni o comunità religiose che adottano un proprio corpus di
norme a tutela del trattamento dei dati delle persone fisiche possano continuare ad applicarle, purché siano rese conformi al Regolamento (art. 91).
Infine, il Regolamento in esame, al suo Capo X dedicato agli “Atti
di delega e atti di esecuzione”, attribuisce alla Commissione il
potere di adottare atti delegati, secondo le condizioni stabilite nello
stesso articolo 92, e dispone che la Commissione sia assistita da un
“comitato” ai sensi del Regolamento (UE) n. 182/2011, ossia del
Regolamento che stabilisce le regole e i principi generali relativi
alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio
delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione (art.
93).
L’ultimo Capo, il Capo XI, è dedicato alle disposizioni finali In
esso, come già anticipato, è prevista l’abrogazione della direttiva
95/46/CE a decorrere dal 25 maggio 2018 e si sancisce, al suo ultimo
articolo (art. 99), l’entrata in vigore il ventesimo giorno successivo
alla pubblicazione sulla G.U. dell’Unione (pubblicazione avvenuta
il 4 maggio 2016) e l’applicazione a decorrere dal 25 maggio
2018.
2.3. La legge del 29 luglio 2015 n. 115 (Legge europea 2014).
Come noto, gli articoli 29 e 30 della legge 234/2012 prevedono,
ai fini dell’adeguamento del diritto interno al diritto dell’Unione,
che il Governo presenti ogni anno alle Camere, entro il 28 febbraio,
la cosiddetta “Legge di delegazione europea”, la quale contiene
solo deleghe legislative ed eventuali autorizzazioni a recepire in via
regolamentare le direttive medesime ove si tratti di materie di cui
all’articolo 117, secondo comma, della Costituzione, già disciplinate
con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge (art. 35 l.
234/2012).
Nel caso di ulteriori necessità di adempimento di direttive, un
secondo disegno di legge di delegazione europea può essere presentato entro il 31 luglio di ogni anno.
La “legge europea”, per espressa previsione dell’art. 30 della
legge 234/2012, ha per oggetto disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi deri-
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16
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
vanti dall’Unione europea, disposizioni modificative o abrogative
di norme interne oggetto di procedure di infrazione o di sentenze
della Corte di giustizia, disposizioni necessarie per dare attuazione
o per assicurare l’applicazione di altri atti dell’Unione europea,
disposizioni occorrenti per dare esecuzione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell’Unione europea e disposizioni emanate nell’ambito del potere sostituivo di cui
all’articolo 117, quinto comma, della Costituzione.
Nell’ambito di tale quadro normativo, dopo la pubblicazione della
Legge 29 luglio 2015, n. 114, ossia la Legge di delegazione europea 2014, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 176 del 31 luglio
2015, è stata dunque emanata la Legge del 29 luglio 2015 n. 115
cosiddetta Legge europea 2014. L’emananda “Legge europea
2015-2016”, invece, dopo l’approvazione del Senato nella seduta
del 10 maggio scorso, è attualmente ancora in fase di esame in
Commissione e prosegue il suo iter di formazione.
La Legge europea 2014 si compone di trenta articoli ove vengono inseriti provvedimenti volti all’adeguamento del diritto interno con quello dell’Unione, disponendo una serie di misure di
modifica o di abrogazione che mirano a risolvere le ipotesi di non
corretta recezione delle norme dell’Unione e ad evitare le relative
procedure per infrazione.
La legge in esame interviene in diversi settori regolati dal
diritto dell’Unione: dalla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, all’ambiente, alla disciplina della
fiscalità e dogane, agli aiuti di stato. Interviene poi in materia di
trasporti, di salute pubblica e sicurezza alimentare, di lavoro e
politica sociale.
In particolare, in tema di libera circolazione delle merci, la legge
in esame interviene in materia di importazione di prodotti petroliferi, importazione che non è più assoggettata all’autorizzazione del
Ministero dello sviluppo economico.
In ambito di libera circolazione delle persone, dei servizi e dei
capitali, l’articolo 7 della legge in esame, modificando il Codice
della proprietà industriale, in relazione alle domande di brevetto o
di marchio abolisce la necessità per il richiedente di indicare o
eleggere un domicilio in Italia. In materia di “viaggi tutto compreso”, la legge europea (art. 9) dispone che i contratti relativi al
turismo organizzato non siano più assistiti dal Fondo pubblico di
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
garanzia del turismo, ma da polizze di carattere privato o da garanzie bancarie. In materia sicurezza e giustizia (art. 10) il testo normativo è intervenuto nell’ambito della disciplina dell’immigrazione
e dei rimpatri, mentre in materia di trasporti (art. 11) la legge in
esame ha modificato i requisiti di rilascio delle patenti di guida ed i
requisiti imposti agli esaminatori.
Vengono poi previste specifiche disposizioni inerenti la materia
fiscale: con l’articolo 12 si interviene sulla disciplina dell’Iva all’importazione su merci di valore modesto e, con l’articolo 13, si
modifica la disciplina Iva relativa agli acquisti ed alle cessioni intracomunitari.
Nell’ambito della materia degli aiuti di Stato, al fine di garantire
il rispetto dei divieti di cumulo e la piena esecuzione delle disposizioni riguardanti la trasparenza e la pubblicità previsti dalla normativa nazionale ed europea sugli aiuti di Stato, l’articolo 14 dispone testualmente che “i soggetti pubblici o privati che concedono
ovvero gestiscono i predetti aiuti trasmettono le relative informazioni alla banca di dati istituita presso il Ministero dello sviluppo
economico ai sensi dell’articolo 14, comma 2, della legge 5 marzo
2001, n. 57, che assume la denominazione di “Registro nazionale
degli aiuti di Stato. Il Registro di cui al comma 1” – prosegue la
norma – “contiene, in particolare, le informazioni concernenti: a)
gli aiuti di Stato di cui all’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ivi compresi gli aiuti in esenzione dalla
notifica; b) gli aiuti de minimis come definiti dal regolamento (CE) n.
1998/2006 della Commissione, del 15 dicembre 2006, e dal regolamento (UE) n. 1407/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013,
nonché dalle disposizioni dell’Unione europea che saranno successivamente adottate nella medesima materia; c) gli aiuti concessi
a titolo di compensazione per i servizi di interesse economico generale, ivi compresi gli aiuti de minimis ai sensi del regolamento
(UE) n. 360/2012 della Commissione, del 25 aprile 2012; d) l’elenco
dei soggetti tenuti alla restituzione degli aiuti incompatibili dei
quali la Commissione europea abbia ordinato il recupero ai sensi
dell’articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del
22 marzo 1999.”.
In materia di salute pubblica e sicurezza alimentare, l’articolo
20, in attuazione delle misure transitorie previste dalla direttiva
2015/412/UE (direttiva dell’11 marzo 2015 che modifica la direttiva
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ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri
di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati, OGM, sul loro territorio), prevede che il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali possa limitare o vietare, con l’assenso
della Commissione europea, le coltivazioni OGM già autorizzate sul
territorio nazionale.
Infine si segnalano, tra gli altri, gli interventi apportati in materia
di ambiente ed energia e l’istituzione del “Fondo per il recepimento della normativa europea”. L’articolo 23, per quanto attiene l’ambiente, contiene alcune specifiche e puntuali modifiche
alla disciplina degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, mentre in
materia di energia, l’articolo 25 prevede l’obbligo per gli Stati dell’Unione di mantenere un minimo livello di scorte di petrolio greggio e /o di prodotti petroliferi imposto dalla direttiva 2009/72/UE
recepita dall’Italia con d.lgs. 249/2012.
Con l’articolo 28 della Legge europea 2014, al capo VI della legge
24 dicembre 2012 n. 234, è stato aggiunto l’articolo “41-bis”,
espressamente intitolato “Fondo per il recepimento della normativa europea”, ove si dispone che “Al fine di consentire il tempestivo
adeguamento dell’ordinamento interno agli obblighi imposti dalla
normativa europea, nei soli limiti occorrenti per l’adempimento degli obblighi medesimi e in quanto non sia possibile farvi fronte con
i fondi già assegnati alle competenti amministrazioni, è autorizzata
la spesa di 10 milioni di euro per l’anno 2015 e di 50 milioni di euro
annui a decorrere dall’anno 2016.” A tal fine il secondo comma prevede l’istituzione di un apposito fondo cui sono attribuite le citate
dotazioni finanziarie e destinato alle sole spese derivanti dagli
adempimenti degli obblighi di cui al medesimo primo comma dell’articolo in commento. In misura correlata alle sancite finalità, il Ministro dell’Economia e delle finanze viene autorizzato ad apportare,
con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
3. La giurisprudenza rilevante.
3.1. Il diritto al ricongiungimento familiare.
In materia di libera circolazione delle persone, segnatamente con
riguardo al diritto al “ricongiungimento familiare” la Corte di
Giustizia dell’Unione europea, con una recente sentenza del 21
aprile 2016, resa nel caso Khachab (causa C-558/14), ha stabilito
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
che, ai sensi della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), della direttiva medesima, deve
essere interpretato nel senso che consente alle autorità competenti
di uno Stato membro di fondare il rigetto di una domanda di
ricongiungimento familiare qualora valuti che il soggiornante,
in prospettiva e sulla base di una valutazione che tiene conto
dell’evoluzione dei redditi del soggetto nel corso dei sei mesi
antecedenti la data della domanda, potrebbe verosimilmente
non disporre di risorse stabili, regolari e sufficienti per mantenere se stesso e i propri familiari senza ricorrere al sistema di
assistenza sociale dello Stato membro nel corso dell’anno successivo alla presentazione della domanda.
Il caso esaminato dalla Corte prende avvio dalla richiesta avanzata alle autorità spagnole da parte del sig. Khachab, cittadino di un
Paese terzo residente in Spagna e titolare di un permesso di soggiorno di lunga durata in tale Stato, del permesso di soggiorno
temporaneo a titolo di ricongiungimento familiare a favore di sua
moglie, la Sig.ra Aghadar. Con decisione del 26 marzo 2012 la rappresentanza del governo spagnolo respingeva la domanda con la
motivazione che il Sig. Khachab non aveva dimostrato di disporre
di risorse economiche sufficienti per mantenere la sua famiglia
dopo il ricongiungimento.
Il Sig. Khachab avviava dunque un contenzioso amministrativo
con la rappresentanza del governo spagnolo che giungeva al grado
d’appello ove il caso veniva sottoposto, da parte del giudice adito,
all’esame in via pregiudiziale della Corte di giustizia. Con la sua
questione il giudice del rinvio chiedeva sostanzialmente alla
Corte di giustizia “se l’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2003/86/CE debba essere interpretato nel senso che consente alle competenti autorità di uno Stato membro di fondare il
rigetto di una domanda di ricongiungimento familiare su una valutazione in prospettiva della probabilità che il soggiornante mantenga oppure no le risorse stabili, regolari e sufficienti di cui deve
disporre per mantenere se stesso e i propri familiari senza ricorrere
al sistema di assistenza sociale di tale Stato membro nel corso
dell’anno successivo alla data di presentazione della domanda, valutazione questa che si basa sull’evoluzione dei redditi del soggior-
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20
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
nante nel corso dei sei mesi che hanno preceduto tale data.” (punto
22 della sentenza).
La Corte, nell’esaminare la disciplina del diritto dell’Unione,
ricorda come tra le condizioni menzionate nel Capo VII rubricato
appunto “Condizioni richieste per l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare” vi rientra quella prevista dall’art. 7,
paragrafo 1, lettera c), ai sensi del quale gli Stati membri possono
esigere la prova che il soggiornante disponga di risorse stabili e
regolari, sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari senza
ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato. Viene poi affermato che gli Stati membri valutano queste
risorse rispetto alla loro natura e regolarità e possono tener conto
della soglia minima delle retribuzioni e delle pensioni nazionali,
nonché del numero dei familiari. La Corte, inoltre, menzionando
altre sue precedenti pronunce, precisa di avere ha già dichiarato
che, essendo l’autorizzazione al ricongiungimento familiare la regola generale, la facoltà prevista all’articolo 7, paragrafo 1, lettera
c), della direttiva 2003/86 deve essere interpretata restrittivamente.
La Corte di Giustizia, in primo luogo, ritiene opportuno stabilire se la ora menzionata disposizione di cui all’articolo 7, debba
essere interpretata nel senso di consentire all’autorità competente
dello Stato membro di valutare il mantenimento della condizione
relativa alla stabilità, regolarità e sufficienza delle risorse del soggiornante, anche oltre la data di presentazione di tale domanda.
Sul punto l’organo giurisdizionale europeo ritiene che, benché la
disposizione in esame non preveda testualmente ed esplicitamente
tale facoltà, tuttavia un’interpretazione sistematica e letterale conducono ad affermare che la disposizione in commento debba interpretarsi nel senso di conferire agli Stati membri, allo scopo di garantire la stabilità e la permanenza del soggiornante sul loro territorio, la facoltà di fondarsi, nell’esame della domanda di ricongiungimento familiare, sulla probabilità che tale soggiornante
continuerà a soddisfare le condizioni suddette anche oltre la
data di presentazione della domanda di ricongiungimento.
Dunque, a parere della Corte “da quanto precede risulta che la
facoltà prevista all’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), della direttiva
2003/86 implica necessariamente che l’autorità competente dello
Stato membro interessato valuti in prospettiva il mantenimento di
risorse stabili, regolari e sufficienti in capo al soggiornante anche
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
oltre la data di presentazione della domanda di ricongiungimento”
(punto 40 della sentenza).
Per quanto attiene, invece, alla previsione di un periodo di sei
mesi anteriore alla presentazione della domanda sul quale può
essere basata la valutazione in prospettiva delle risorse del soggiornante, va constatato che la direttiva 2003/86 non contiene alcuna
precisazione. Comunque, un periodo siffatto non è idoneo a pregiudicare l’obiettivo della direttiva (punto 47 della sentenza)
Di conseguenza la Corte di giustizia ha dichiarato testualmente
che “dall’insieme delle considerazioni che precedono deriva
che l’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2003/86
deve essere interpretato nel senso che consente alle autorità
competenti di uno Stato membro di fondare il rigetto di una
domanda di ricongiungimento familiare su una valutazione in
prospettiva della probabilità che il soggiornante mantenga oppure no le risorse stabili, regolari e sufficienti di cui deve disporre per mantenere se stesso e i propri familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale di tale Stato membro nel
corso dell’anno successivo alla data di presentazione della domanda, valutazione questa che si basa sull’evoluzione dei redditi del soggiornante nel corso dei sei mesi che hanno preceduto tale data.”.
3.2. Il principio generale della non discriminazione in ragione dell’età. La disapplicazione da parte del Giudice di diritto interno delle
norme statali incompatibili con il diritto dell’Unione.
Con una sentenza del 19 aprile 2016, resa nel caso DI (causa
C-441/14) la Corte di giustizia dell’Unione europea affronta due
importanti questioni: da un lato la portata del principio di non
discriminazione in ragione dell’età e, dall’altro, il potere-dovere
del Giudice nazionale di disapplicare norme interne incompatibili con il diritto dell’Unione europea.
La decisione della Corte prendeva avvio dalla domanda pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione, da un lato,
dell’articolo 2, paragrafi 1 e 2, lettera a), nonché dell’articolo 6,
paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e,
dall’altro, del principio della non discriminazione in ragione
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ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
dell’età, nonché dei principi della certezza del diritto e della
tutela del legittimo affidamento. Tale domanda era stata sollevata nell’ambito di una controversia tra la Dansk Industri (DI), per
conto della Ajos A/S e gli aventi causa a titolo successorio del sig.
Rasmussen in merito al rifiuto opposto dalla Ajos di concedere al
sig. Rasmussen un’indennità di licenziamento.
Il sig. Rasmussen era stato licenziato il 25 maggio 2009 dalla Ajos,
suo datore di lavoro, all’età di 60 anni. Alcuni giorni dopo, egli aveva
presentato a tale impresa le sue dimissioni e aveva convenuto con
la stessa che avrebbe lasciato il lavoro alla fine del mese di giugno
2009. Il sig. Rasmussen era stato poi assunto da un’altra impresa. Il
Giudice del rinvio indicava che il sig. Rasmussen, aveva diritto, in
linea di principio, a un’indennità di licenziamento pari a tre mensilità di stipendio ai sensi della normativa danese (articolo 2a, paragrafo 1, della legge relativa ai lavoratori subordinati). Nonostante
ciò, dal momento che quando aveva lasciato il lavoro, egli aveva
raggiunto l’età di 60 anni e aveva diritto alla pensione di vecchiaia
da parte del datore di lavoro in applicazione di un regime al quale
aveva aderito prima del compimento del cinquantesimo anno di
età, la disposizione dell’articolo 2a, paragrafo 3, della legge danese,
come interpretata da una giurisprudenza nazionale costante, non
gli consentiva di esigere una siffatta indennità, sebbene egli fosse
rimasto nel mercato del lavoro dopo aver lasciato il precedente
datore di lavoro.
Dati tali fatti, il Giudice del rinvio sottoponeva alla Corte di
giustizia due questioni pregiudiziali. In merito alla prima domanda il giudice del rinvio chiedeva se il principio generale del
diritto dell’Unione del divieto delle discriminazioni in ragione dell’età fosse di ostacolo ad una normativa, come quella danese, in
base alla quale i lavoratori non hanno diritto a un’indennità di
licenziamento allorché possono beneficiare di una pensione di vecchiaia da parte del loro datore di lavoro nell’ambito di un regime
pensionistico al quale abbiano aderito prima del compimento del
cinquantesimo anno di età, indipendentemente dal fatto che scelgano di restare nel mercato del lavoro oppure di andare in pensione.
Con la seconda domanda veniva chiesto alla Corte se fosse compatibile con il diritto dell’Unione che un giudice danese, nell’ambito di una controversia tra un lavoratore e un datore di lavoro
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
privato riguardante il pagamento di un’indennità di licenziamento,
procedesse ad un bilanciamento del principio di non discriminazione in ragione dell’età e del suo effetto diretto con il principio
della certezza del diritto e il suo corollario, il principio della tutela
del legittimo affidamento, giungendo alla conclusione che il principio della certezza del diritto deve prevalere sul principio del divieto delle discriminazioni in ragione dell’età, in modo che il datore
di lavoro non è tenuto, ai sensi del diritto nazionale, a corrispondere un’indennità di licenziamento. Inoltre, veniva chiesto di chiarire se la circostanza che il lavoratore potesse, se del caso, domandare allo Stato danese un risarcimento danni per l’incompatibilità
della normativa nazionale con il diritto dell’Unione avesse ripercussioni sulla fattibilità di un tale bilanciamento (punto 20 della
sentenza).
Sulla prima questione la Corte precisa, innanzitutto, che il principio generale della non discriminazione in ragione dell’età,
che la direttiva 2000/78 esprime concretamente, trova la sua fonte,
come risulta dai considerando 1 e 4 di detta direttiva, in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri. Esso deve essere considerato un principio generale
del diritto dell’Unione (sentenze Mangold, C-144/04, EU:C:2005:709,
punto 75, e Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 21).
Va precisato poi, secondo la Corte, che “il legislatore dell’Unione
europea ha inteso, tramite l’adozione della citata direttiva, definire
un quadro più preciso, destinato a facilitare l’attuazione concreta
del principio della parità di trattamento e, in particolare, a determinare diverse possibilità di deroga allo stesso, delimitandole mediante una definizione più chiara del loro ambito di applicazione.”
(punto 23 della sentenza).
La Corte di giustizia ricorda come la stessa avesse già dichiarato
che gli articoli 2 e 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 dovevano
essere interpretati nel senso che essi sono di ostacolo a una normativa nazionale in forza della quale i lavoratori aventi titolo a una
pensione di vecchiaia da parte del proprio datore di lavoro nell’ambito di un regime previdenziale al quale abbiano aderito prima del
compimento del cinquantesimo anno di età non possono, in ragione di tale solo fatto, beneficiare di un’indennità speciale di licenziamento destinata a favorire il reinserimento professionale dei
lavoratori aventi un’anzianità di servizio superiore ai dodici anni
23
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ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
nell’impresa (sentenza Ingeniørforeningen i Danmark, C-499/08,
EU:C:2010:600, punto 49). Di conseguenza deve concludersi altrettanto riguardo al principio fondamentale della parità di trattamento, del quale il principio generale della non discriminazione in
ragione dell’età costituisce soltanto un’espressione particolare.
Sulla prima questione, dunque, la Corte di giustizia dell’Unione
europea dichiara testualmente che “Il principio generale della
non discriminazione in ragione dell’età, come espresso concretamente dalla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro,
deve essere interpretato nel senso che esso osta, anche in una
controversia tra privati, a una normativa nazionale, come
quella di cui trattasi nel procedimento principale, che priva un
lavoratore subordinato del diritto di beneficiare di un’indennità di licenziamento allorché ha titolo a una pensione di vecchiaia da parte del datore di lavoro nell’ambito di un regime
pensionistico al quale tale lavoratore subordinato abbia aderito prima del compimento del cinquantesimo anno di età, indipendentemente dal fatto che egli scelga di restare nel mercato del lavoro o di andare in pensione.”.
Con riferimento alla seconda questione pregiudiziale la Corte
procede ad esaminare se il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che esso consente a un giudice nazionale investito di una controversia tra privati, qualora risulti che la disposizione nazionale pertinente è contraria al principio generale della
non discriminazione in ragione dell’età, di bilanciare detto principio con i principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo
affidamento e di concludere che occorre far prevalere i secondi sul
primo.
In primo luogo, la Corte ricorda la costante giurisprudenza secondo la quale, quando sono chiamati a dirimere una controversia
tra privati nella quale la normativa nazionale di cui trattasi risulti
contraria al diritto dell’Unione, i giudici nazionali devono assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle disposizioni
del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia (sentenze
Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, EU:C:2004:584, punto 111).
Si legge nella sentenza in commento al punto 30, “Se è vero che
con riferimento a una controversia tra privati, la Corte ha dichia-
ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
rato in maniera costante che una direttiva non può di per sé creare
obblighi a carico di un privato e non può, quindi, essere fatta valere
in quanto tale nei suoi confronti (sentenze Marshall, 152/84,
EU:C:1986:84, punto 48; Faccini Dori, C-91/92, EU:C:1994:292,
punto 20 [....]), essa ha parimenti dichiarato a più riprese che l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire
il risultato previsto da quest’ultima così come il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire
l’adempimento di tale obbligo s’impongono a tutte le autorità degli
Stati membri, comprese, nell’ambito delle loro competenze, quelle
giurisdizionali”.
Di conseguenza nell’applicare il diritto interno, afferma la Corte,
i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a considerare l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri
ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo per
quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima.
L’esigenza di un’interpretazione conforme include l’obbligo, per i
giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza
consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva. Inoltre, qualora
ritenga di trovarsi nell’impossibilità di assicurare un’interpretazione conforme della disposizione nazionale di cui trattasi, il giudice del rinvio dovrà disapplicare tale disposizione.
In merito, dunque alla seconda questione pregiudiziale la Corte
di Giustizia dell’Unione europea giunge a dichiarare testualmente
che “Il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso
che un giudice nazionale, investito di una controversia tra privati rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva
2000/78 è tenuto, nel momento in cui attua le disposizioni del
suo diritto interno, a interpretarle in modo tale che esse possano ricevere un’applicazione conforme a tale direttiva ovvero,
qualora una siffatta interpretazione conforme fosse impossibile, a disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione di tale
diritto interno contraria al principio generale della non discriminazione in ragione dell’età. Né i principi della certezza del
diritto e della tutela del legittimo affidamento né la possibilità
per il privato che si ritenga leso dall’applicazione di una dispo-
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ADDENDA DI AGGIORNAMENTO 2016
sizione nazionale contraria al diritto dell’Unione di far valere
la responsabilità dello Stato membro interessato per violazione del diritto dell’Unione possono rimettere in discussione
tale obbligo.”.
3.3. La capacità della Commissione di rappresentanza dell’Unione
in procedimenti giurisdizionali internazionali. Il principio di leale
collaborazione interistituzionale.
Con una sentenza del 6 ottobre 2015 resa nella causa C-73/14
la Corte di Giustizia, nell’ambito di un ricorso di annullamento
proposto dal Consiglio dell’Unione europea che ha visto come convenuta principale la Commissione, ha avuto modo di affermare che
l’articolo 335 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea
(TFUE) riconosce alla Commissione la capacità di rappresentanza dell’Unione in procedimenti giurisdizionali internazionali e non solo negli Stati membri. Inoltre, la Corte ha affermato
che la partecipazione della Commissione nell’ambito di un procedimento innanzi al Tribunale internazionale del diritto del mare
(menzionato in sentenza con l’acronimo “ITLOS”) non possa considerarsi quale violazione del principio di leale collaborazione
tra le istituzioni, ove la Commissione abbia comunicato al Consiglio i principali elementi delle osservazioni che intende presentare
nell’ambito del procedimento a nome dell’Unione.
Con il ricorso di annullamento presentato dal Consiglio dell’Unione europea, quest’ultimo chiedeva alla Corte di annullare la
decisione della Commissione del 29 novembre 2013 di presentare
una «Dichiarazione scritta della Commissione europea per conto
dell’Unione europea» al Tribunale internazionale del diritto del
mare. Il Consiglio sosteneva che la decisione impugnata, che era
stata presentata dalla Commissione senza l’approvazione del Consiglio e contro la sua volontà, era illegittima in quanto violava principi fondamentali di diritto dell’Unione sanciti dai Trattati.
A sostegno di quanto richiesto il Consiglio dell’Unione europea
deduceva, con un primo motivo, che mediante l’adozione della
decisione impugnata la Commissione aveva violato il principio di
distribuzione delle attribuzioni sancito dall’articolo 13, paragrafo 2,
del Trattato dell’Unione europea (TUE), di conseguenza, il principio dell’equilibrio istituzionale. Il Consiglio evidenziava come il
Tribunale internazionale del diritto del mare fosse un organo isti-
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tuito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare che
adotta atti con efficacia legale e come, di conseguenza, la posizione
da esprimere per conto dell’Unione dinanzi al Tribunale internazionale del diritto del mare avrebbe dovuto essere stabilita dal
Consiglio ai sensi dell’articolo 218, paragrafo 9, TFUE. Inoltre, il
Consiglio sosteneva che, in ogni caso, la Commissione aveva violato
l’articolo 16, paragrafo 1, TUE, arrogandosi le funzioni decisionali
che, secondo le disposizioni del Trattato, spettano soltanto al Consiglio.
Con il secondo motivo, il Consiglio dell’Unione europea riteneva
che, intraprendendo le azioni che avevano portato all’adozione
della decisione impugnata, la Commissione aveva violato il principio di leale cooperazione previsto dall’articolo 13, paragrafo 2,
TUE.
Sul primo motivo la Corte afferma che l’articolo 335 TFUE, sebbene il suo disposto si limiti agli Stati membri, costituisce l’espressione di un principio generale in virtù del quale l’Unione possiede
la capacità giuridica e a tal fine è rappresentata dalla Commissione
(sentenza Reynolds Tobacco e a./Commissione, C-131/03 P,
EU:C:2006:541, punto 94). Ne consegue che l’articolo 335 TFUE
offriva alla Commissione una base per rappresentare l’Unione dinanzi all’ITLOS nel procedimento in questione.
Come però sottolineato dal Consiglio, l’applicabilità dell’articolo
335 TFUE nel caso di specie non risponde tuttavia interamente alla
questione, sollevata con il primo motivo, se il rispetto del principio
di attribuzione di competenze enunciato all’articolo 13, paragrafo 2,
TUE esigesse che il contenuto della dichiarazione scritta presentata all’ITLOS dalla Commissione, in nome dell’Unione, fosse previamente approvato dal Consiglio.
Afferma la Corte che, “ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, TUE,
ciascuna istituzione dell’Unione agisce nei limiti delle attribuzioni
che le sono conferite dai Trattati, secondo le procedure, condizioni
e finalità da essi previste. Tale disposizione traduce il principio
dell’equilibrio istituzionale, che caratterizza la struttura istituzionale dell’Unione, il quale implica che ogni istituzione eserciti le
proprie competenze nel rispetto di quelle delle altre istituzioni. Nel
caso di specie” — si legge ancora nella sentenza in commento –
“l’argomento del Consiglio consiste nel rilevare che, presentando
all’ITLOS, una dichiarazione scritta in nome dell’Unione il cui con-
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tenuto non era stato approvato dal Consiglio, la Commissione ha
ignorato le competenze attribuite al Consiglio dall’articolo 218, paragrafo 9, TFUE e, in ogni caso, dall’articolo 16, paragrafo 1, seconda frase, TUE.” (punti 61 e 62 della sentenza).
Il caso di specie, a giudizio della Corte, riguarda la definizione di
una posizione da esprimere a nome dell’Unione dinanzi a un organo giurisdizionale internazionale adito per ottenere un parere
consultivo la cui adozione rientra nella competenza e nella responsabilità dei soli membri di tale organo, i quali agiscono a tal fine in
modo completamente indipendente rispetto alle parti. Ne consegue che, senza che sia necessario esaminare se il parere consultivo
dell’ITLOS richiesto nel procedimento rientri nella nozione di «atto
che ha effetti giuridici», ai sensi dell’articolo 218, paragrafo 9,
TFUE, a parere della Corte di Giustizia tale disposizione non è
applicabile nel caso in esame.
Per quanto riguarda, poi, l’articolo 16, paragrafo 1, seconda frase,
TUE, la Corte afferma che si deve esaminare se da tale disposizione
possa discendere che il Consiglio avrebbe dovuto approvare il contenuto della dichiarazione scritta presentata all’ITLOS, a nome dell’Unione, prima che la stessa fosse inviata a tale giudice.
Ritiene la Corte che, dall’esame degli atti, la dichiarazione in
questione non ha avuto ad oggetto la definizione di una politica in
materia di pesca INN (pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata), ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1, seconda frase, TUE,
ma la presentazione all’ITLOS, in base a un’analisi delle disposizioni internazionali e della normativa dell’Unione pertinenti in
questa materia, di un insieme di osservazioni giuridiche volte a
consentire a tale giudice di rendere, se del caso, un parere consultivo, con cognizione di causa sulle questioni ad esso sottoposte.
Secondo la Corte di giustizia, dunque, la Commissione, inviando
all’ITLOS, nel procedimento in esame, in nome dell’Unione, la
dichiarazione scritta senza averne sottoposto il contenuto all’approvazione del Consiglio, non ha posto in essere una violazione di
tale disposizione. La Corte ha dunque disposto il rigetto del primo
motivo di ricorso.
In merito al secondo motivo di ricorso la Corte afferma che ai
sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, TUE, le istituzioni dell’Unione
attuano tra loro una leale cooperazione. Tale leale cooperazione è
tuttavia esercitata nel rispetto dei limiti dei poteri conferiti nei
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Trattati a ciascuna istituzione. L’obbligo risultante dall’articolo 13,
paragrafo 2, TUE non è quindi tale da modificare detti poteri.
“Ciò precisato” si afferma nella sentenza in commento, “il principio di leale cooperazione impone alla Commissione, quando quest’ultima intende esprimere posizioni in nome dell’Unione dinanzi
a un giudice internazionale, l’obbligo di consultare previamente il
Consiglio.” (punto 86 della sentenza)
Nel caso di specie, a giudizio della Corte, la Commissione si è
certamente conformata a tale obbligo. “Infatti, come risulta dagli
elementi descritti nei punti da 28 a 32 della presente sentenza, la
presentazione della dichiarazione scritta da parte della Commissione, in nome dell’Unione, all’ITLOS, nel procedimento n. 21, è
stata preceduta dalla comunicazione al Consiglio, da parte della
Commissione, del documento di lavoro del 22 ottobre 2013, modificato diverse volte sino al 26 novembre 2013 per tenere conto delle
osservazioni espresse in seno ai gruppi FISH e COMAR. Il Consiglio è quindi in errore nel sostenere che la Commissione non ha
dato prova di leale cooperazione nel contesto dell’elaborazione del
contenuto di tale dichiarazione scritta.” (punto 87 della sentenza).
In base a tali considerazioni la Corte di giustizia ha provveduto al
rigetto anche del secondo motivo di ricorso.
In ragione della sentenza esaminata, dunque, la Corte ha affermato la capacità della Commissione di rappresentanza dell’Unione, non solo all’interno dei singoli Stati membri, ma anche in procedimenti giurisdizionali internazionali. Inoltre, ha
escluso che potesse ritenersi violato il principio di leale collaborazione tra le istituzioni ove, come nel caso in questione, la
Commissione provveda a informare il Consiglio sugli aspetti
principali delle osservazioni che procede a presentare, a nome
dell’Unione, nell’ambito del procedimento.
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ISBN 978-88-14-21561-2
024196620
9 788814 215612