17/6/2016 - studio ducoli

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Venerdì, 17 giugno 2016
EDITORIALE
FISCO
Tutto è bene ciò che
finisce bene?
In Gazzetta Ufficiale la proroga dei versamenti
per gli studi di settore
/ Giancarlo ALLIONE
Un giorno i discepoli chiesero a Gesù
come fare per capire se quello che
stavano facendo era giusto o sbagliato. Gesù rispose loro di fare come si
fa con gli alberi. Se una pianta dà
buoni frutti, allora è una buona pianta, se dà cattivi frutti allora è una
pianta cattiva. Bisogna giudicare i risultati.
Cerchiamo quindi di [...]
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IL CASO DEL GIORNO
Sempre “erariale” il
danno alle società in
house
/ Maurizio MEOLI
Con riguardo alle azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e organi di controllo di società a
partecipazione pubblica, le Sezioni
Unite della Suprema Corte hanno riconosciuto una duplice giurisdizione.
Ordinaria, avente per [...]
Il DPCM pubblicato ieri conferma l’estensione della proroga anche a contribuenti
minimi e forfetari
/ Massimo NEGRO
Con la pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale n. 139 di ieri del DPCM 15
giugno 2016, è ufficiale la proroga
dei versamenti derivanti dalle dichiarazioni UNICO 2016 e IRAP 2016,
a favore dei contribuenti che esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli studi di settore e dichiarano ricavi o compensi
di ammontare non superiore al limite stabilito, per ciascuno studio, dal
relativo decreto ministeriale di approvazione (attualmente pari a
5.164.569 euro).
Il testo del DPCM conferma una proroga ad ampio raggio, analogamente allo scorso anno, che comprende
anche:
- i soggetti per i quali operano cause
di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore;
- i c.d. “contribuenti minimi” di cui
all’art. 27 del DL 98/2011;
- i contribuenti che applicano il nuovo regime forfetario introdotto dalla
L. 190/2014;
- i soggetti che devono dichiarare un
reddito imputato “per trasparenza”, ai
sensi degli artt. 5, 115 e 116 del TUIR,
da un soggetto che esercita un’attività per la quale sia stato approvato uno
studio di settore; sono quindi interessati anche i soci di società di persone,
i collaboratori di imprese familiari, i
coniugi che gestiscono aziende coniugali, i componenti di associazioni
di artisti o professionisti, nonché i soci di società di capitali “trasparenti”.
Anche i versamenti relativi a tali soggetti possono quindi essere effettuati:
- entro il 6 luglio 2016, senza alcuna
maggiorazione;
- oppure dal 7 luglio al 22 agosto 2016,
con la maggiorazione dello 0,4%.
La proroga si applica quindi anche ai
soggetti per i quali operano cause di:
- esclusione dagli studi di settore, diverse da quella rappresentata dalla dichiarazione di ricavi o compensi di
ammontare superiore al suddetto limite di 5.164.569 euro (es. inizio o cessazione attività, non normale svolgimento dell’attività, determinazione
forfetaria del [...]
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PAGINA 4
IN EVIDENZA
FISCO
Il commercialista non è tenuto a reperire la documentazione del
cliente
Assegnazioni di beni sempre soggette ad IVA
/ Emanuele GRECO
Responsabilità per danno “equitativo” solo con colpa grave
ALTRE NOTIZIE
Conferma
“costituzionale” per lo
split payment
/ DA PAGINA 9
La Corte Costituzionale, con sentenza
n. 145 di ieri 16 giugno 2016, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative alla
disciplina dello split [...]
PAGINA 6
ancora
EDITORIALE
STUDIO DUCOLI
Tutto è bene ciò che finisce bene?
/ Giancarlo ALLIONE
Un giorno i discepoli chiesero a Gesù come fare per capire se quello che stavano facendo era giusto o sbagliato. Gesù rispose loro di fare come si fa con gli alberi. Se
una pianta dà buoni frutti, allora è una buona pianta, se
dà cattivi frutti allora è una pianta cattiva. Bisogna
giudicare i risultati.
Cerchiamo quindi di mettere a fuoco i risultati dello
“psicodramma scadenze & proroghe”, come è stato definito. La vicenda ha mostrato ancora una volta la distanza siderale che c’è, almeno nel nostro mondo, fra
chi occupa posizioni apicali e la realtà. Il tema era e rimane la concentrazione di miriadi di adempimenti
con richiesta di migliaia di dati, sulle quali si abbatte
come un macigno la scadenza dei versamenti.
Lo dico senza polemiche, ma coloro che gestiscono il
Fisco farebbero davvero bene a rendersi conto di persona, dedicando per esempio un mezzo pomeriggio a
sperimentare cosa si prova nel compilare il quadro VI
della dichiarazione IVA, quadro dedicato all’elencazione delle dichiarazioni di intento ricevute che sono già
state tutte comunicate telematicamente all’Agenzia
nel corso dell’anno da chi le ha emesse. Secondo il modulo, al campo 1 va indicata la partita IVA (11 caratteri
numerici), al campo 2 va indicato il numero di protocollo (23 caratteri numerici) attribuito dall’Agenzia (!)
alla dichiarazione di intento trasmessa in via telematica (!!!) dall’esportatore abituale.
Non mi stancherò mai di ripetere che è suicida obbligare le imprese e i loro consulenti a destinare milioni
di ore di lavoro a riempire moduli e trasmettere file,
sottraendoli alla gestione del business, la cui esistenza e sviluppo sono peraltro prodromici a qualsiasi possibilità di tassazione. Chi vuole guidare una nazione
non può non tenerne conto.
Ma soprattutto lo psicodramma ha mostrato ancora
una volta che il rapporto trasparente e paritario tra Fisco e cittadino è molto di là da venire. Dopo un lungo
generale silenzio, abbiamo prima appreso che il ritardo della proroga sarebbe dipeso dalla mancanza di una
richiesta ufficiale da parte del Consiglio Nazionale, poi
siamo stati resi edotti del fatto che la lettera non serviva, e infatti non c’è stata, e la proroga c’è stata lo stesso anche senza lettera. Ma allora cosa mancava? Perché martedì 14 sì e martedì 7 no, qual è la differenza?
Il modello F24 dei soggetti IVA è obbligatoriamente telematico. Il contribuente può utilizzare il proprio remote banking, oppure, in alternativa, l’intermediario può
trasmettere il flusso tramite Entratel indicando la data
in cui deve avvenire il pagamento.
Le deleghe caricate da remote possono essere revocate fino all’ultimo giorno prima del pagamento, mentre i
flussi inviati con Entratel possono essere annullati fino alle 24 del penultimo giorno precedente alla data di
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
scadenza indicata nel flusso. Quindi, posto che la data
pagamento indicata per tutti i flussi già predisposti era
verosimilmente 16 giugno, la facoltà di annullamento
del flusso c’era fino alle 24 del 14 giugno. Il comunicato n. 107, che ha annunciato la proroga, è proprio del 14
giugno alle ore 16,45. Dunque solo 7 ore e 15 minuti per
revocare i flussi con data pagamento 16 giugno (quelli
con data 15 giugno erano già irrevocabili), delle quali
ore almeno 4 in fascia notturna.
Il ragionamento dell’astuto legislatore della proroga è
sempre lo stesso: “Aspetto fino all’ultimo, così molti
hanno già versato” e concedo la proroga al costo più
basso possibile.
Chi sono quindi i veri beneficiari della proroga? Ovviamente i nostri clienti. Di sicuro tutti quelli cui non inviamo il flusso di pagamento tramite Entratel (che probabilmente sono quelli di maggiori dimensioni), oppure quelli per i quali non siamo riusciti a caricarlo prima del 14. Per questi ultimi abbiamo potuto indicare la
nuova data di pagamento; gli altri, quelli che inviano
l’F24 a loro cura, potranno ora recarsi (virtualmente) a
pagare l’F24 costato notti di lacrime e preghiere con
tutta calma, beneficiando gratuitamente di una dilazione che noi abbiamo procurato loro.
Ecco quindi l’ennesimo bell’esempio di sindacalismo
conto terzi che abbiamo regalato alle imprese. In un
posto normale, già dall’inizio dell’anno avremmo dovuto dire ai clienti: “Dal momento che, se va come negli
anni precedenti, a causa del diluvio di adempimenti
che ci sarà io non sarò in grado di farvi fronte in condizioni normali, o mi paghi il doppio perché devo assumere il doppio delle persone, o vai a luglio con lo 0,4%
(che su base annua fa il 4,8%); se non ti garba, ricordatelo quando vai a votare, o almeno chiedine conto ai
parlamentari eletti nel tuo collegio, non a me”.
Comunque, al di là di ogni considerazione, mi piace lo
stesso pensare che, molto alla fine, la proroga l’abbiamo ottenuta un po’ tutti noi commercialisti, con una
specie di mobilitazione generale, anche per dare visibilità al nostro disagio e un piccolo sollievo a più di
qualcuno. L’alternativa era aspettare e sperare, continuando a tirare l’aratro in silenzio, inchinati contenti
al giogo come il pio bove di Carducci.
Tutto ciò anche se, nei fatti, il vero risultato finale è
una proroga che per noi ha il sapore dell’osso tirato al
cane per farlo smettere di abbaiare e per tutti rappresenta la conferma del fatto che sforzarsi di fare le cose
per tempo e soprattutto pagare anche con un minimissimo anticipo è da fessi.
Mancano 364 giorni al prossimo psicodramma, se noi
non ci facciamo di nuovo commissariare e il Governo
esamina le cose con un minimo di oggettività, un po’ di
tempo per gestire il tutto un po’ meglio ci sarebbe.
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ancora
IL CASO DEL GIORNO
STUDIO DUCOLI
Sempre “erariale” il danno alle società in house
Progressivamente ricostruita la giurisdizione per i danni cagionati da organi amministrativi e di
controllo di società a partecipazione pubblica e in house
/ Maurizio MEOLI
Con riguardo alle azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e organi di controllo di società a
partecipazione pubblica, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno riconosciuto una duplice giurisdizione.
Ordinaria, avente per oggetto l’accertamento e il risarcimento del danno subito dal patrimonio della società
(soggetto diverso dallo Stato o dalla P.A. che la controlla), salve specifiche eccezioni previste dalla legge.
Contabile, avente per oggetto l’accertamento e il risarcimento del danno erariale, consistente nel pregiudizio “direttamente” subito dallo Stato o dalla P.A. in conseguenza dell’illegittimo comportamento di soggetti
ad essi legati da un rapporto che, seppure non configurabile come un rapporto di servizio diretto, è idoneo a
dar luogo ad una informale investitura di un ruolo pubblico, in considerazione del perseguimento di finalità
pubbliche, con impiego di pubbliche risorse (cfr. innanzitutto Cass. SS.UU. n. 26806/2009 e, successivamente,
tra le altre, Cass. nn. 20940/2011 e 10299/2013).
Detti sistemi di giurisdizione sono reciprocamente indipendenti, nei loro profili istituzionali, anche quando
investono un medesimo fatto materiale.
Infatti, l’azione proposta dal Procuratore contabile non
si identifica con quella che la P.A. potrebbe autonomamente “promuovere”, nel contesto societario, nei confronti dei propri funzionari (e/o di quelli dell’ente esterno) autori del danno per farne valere la relativa responsabilità (anche solidale). Ciò in quanto il Procuratore contabile, nella promozione dei giudizi, agisce
nell’esercizio di una funzione obiettiva e neutrale, tesa
alla repressione dei danni erariali conseguenti ad illeciti amministrativi, rappresentando l’interesse generale al corretto esercizio, da parte dei pubblici dipendenti, delle funzioni amministrative e contabili.
Uno stesso fatto, pertanto, può dare luogo a distinte
pretese risarcitorie: da parte della società, da farsi valere avanti al giudice ordinario, in relazione al danno cagionato al proprio patrimonio; da parte della P.A. danneggiata, da farsi valere avanti alla Corte dei Conti, in
relazione, ad esempio, al danno all’immagine della P.A.
ovvero a quello procurato sul valore della partecipazione dall’inerzia nell’esercizio dei diritti di socio da parte
del rappresentante dell’ente partecipante o comunque
del titolare del potere di decidere (Cass. SS.UU. n.
26283/2013).
La decisione da ultimo citata ha anche precisato come
a tali principi generali non possa farsi ricorso nelle
particolari ipotesi in cui l’azione di responsabilità riguardi componenti di organi amministrativi e di controllo delle società a partecipazione pubblica che abEutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
biano natura di “società in house providing” ovvero di
quelle società che presentino le seguenti caratteristiche: natura esclusivamente pubblica dei soci; esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi;
sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello
esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici (c.d. controllo analogo).
Per poter parlare di società in house, inoltre, è necessario che detti requisiti sussistano tutti contemporaneamente e che tutti trovino il loro fondamento in precise
e non derogabili disposizioni dello statuto sociale.
Tutto ciò esclude che tali società possano essere considerate entità poste al di fuori dell’ente pubblico e, di
conseguenza, che per esse possono valere i limiti alla
giurisdizione del giudice contabile sopra evidenziati
(cfr., soprattutto, Cass. SS.UU. n. 26283/2013, e, successivamente, tra le altre, Cass. SS.UU. nn. 26936/2013,
5491/2014 e 7177/2014).
La sentenza delle Sezioni Unite n. 5848/2015, peraltro,
ha sottolineato come sarebbe anche possibile chiedersi se, nel caso di danni cagionati ad una società in
house, gli argomenti utilizzati a sostegno della giurisdizione della Corte dei Conti nelle azioni di responsabilità promosse nei confronti degli organi responsabili
di quei danni debbano portare, al tempo stesso, ad
escludere, sul piano logico, la possibilità di una (eventualmente concorrente) giurisdizione del giudice ordinario investito da un’azione sociale di responsabilità
per i medesimi fatti. La questione, tuttavia, non è stata
affrontata, non rilevando nel caso di specie.
Ad essa ha fornito risposta il Tribunale di Roma, nella
sentenza 12 giugno 2015 n. 12802. Si afferma, infatti,
che, dalle argomentazioni delle Sezioni Unite, deve desumersi una soluzione negativa, per due ragioni. Innanzitutto, gli organi delle società in house non possono essere considerati, a differenza di quanto accade
per quelli di altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un ruolo privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società; essendo preposti ad una struttura “corrispondente” ad un’articolazione interna alla P.A., deve ritenersi
che siano personalmente a questa legati da un vero e
proprio rapporto di servizio (al pari dei dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dagli enti pubblici).
In secondo luogo, poi, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico e la società in house, allora la distinzione tra il patrimonio
dell’ente pubblico e quello della società può certo porsi
in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità, con la conseguenza che il danno inferto resta pur sempre erariale.
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ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
In Gazzetta Ufficiale la proroga dei versamenti per gli
studi di settore
Il DPCM pubblicato ieri conferma l’estensione della proroga anche a contribuenti minimi e forfetari
/ Massimo NEGRO
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 139 di
ieri del DPCM 15 giugno 2016, è ufficiale la proroga dei
versamenti derivanti dalle dichiarazioni UNICO 2016 e
IRAP 2016, a favore dei contribuenti che esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli
studi di settore e dichiarano ricavi o compensi di ammontare non superiore al limite stabilito, per ciascuno
studio, dal relativo decreto ministeriale di approvazione (attualmente pari a 5.164.569 euro).
Il testo del DPCM conferma una proroga ad ampio raggio, analogamente allo scorso anno, che comprende
anche:
- i soggetti per i quali operano cause di esclusione o di
inapplicabilità degli studi di settore;
- i c.d. “contribuenti minimi” di cui all’art. 27 del DL
98/2011;
- i contribuenti che applicano il nuovo regime forfetario introdotto dalla L. 190/2014;
- i soggetti che devono dichiarare un reddito imputato
“per trasparenza”, ai sensi degli artt. 5, 115 e 116 del
TUIR, da un soggetto che esercita un’attività per la quale sia stato approvato uno studio di settore; sono quindi interessati anche i soci di società di persone, i collaboratori di imprese familiari, i coniugi che gestiscono
aziende coniugali, i componenti di associazioni di artisti o professionisti, nonché i soci di società di capitali
“trasparenti”.
Anche i versamenti relativi a tali soggetti possono
quindi essere effettuati:
- entro il 6 luglio 2016, senza alcuna maggiorazione;
- oppure dal 7 luglio al 22 agosto 2016, con la maggiorazione dello 0,4%.
La proroga si applica quindi anche ai soggetti per i
quali operano cause di:
- esclusione dagli studi di settore, diverse da quella
rappresentata dalla dichiarazione di ricavi o compensi
di ammontare superiore al suddetto limite di 5.164.569
euro (es. inizio o cessazione attività, non normale svolgimento dell’attività, determinazione forfetaria del
reddito, ecc.);
- inapplicabilità degli studi stessi (es. società cooperative, società consortili e consorzi che operano esclusivamente a favore delle imprese socie o associate, ecc.).
Più tempo anche per i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali che adottano il regime fiscale
agevolato dei c.d. “contribuenti minimi”, di cui all’art.
27 del DL 98/2011:
- se svolgono attività economiche per le quali sono
previsti gli studi di settore;
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
- ancorché essi siano esclusi per legge dalla relativa
applicazione (art. 1 comma 113 della L. 244/2007).
Analoga soluzione per i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali che applicano il nuovo regime
forfetario, disciplinato dall’art. 1, commi da 54 a 89 della L. 23 dicembre 2014 n. 190 (legge di stabilità 2015) e
successive modificazioni:
- se svolgono attività economiche per le quali sono
previsti gli studi di settore;
- ancorché siano anch’essi esclusi per legge dalla relativa applicazione (art. 1 comma 73 della L. 190/2014).
I c.d. “contribuenti minimi” o “forfetari” possono quindi
beneficiare dei termini prorogati in relazione al versamento:
- del saldo 2015 e dell’eventuale primo acconto 2016
dell’imposta sostitutiva dovuta sul reddito di lavoro autonomo o d’impresa (5% per i contribuenti minimi, 15%
o 5% per quelli forfetari);
- delle eventuali altre imposte derivanti dal modello
UNICO 2016 PF (es. saldo e primo acconto dell’IRPEF
relativa ad altri redditi, cedolare secca, ecc.);
- delle altre somme che rientrano nella proroga in esame (es. saldo e primo acconto dei contributi INPS dovuti da artigiani, commercianti e professionisti iscritti
alle relative Gestioni separate, diritto annuale di iscrizione nel Registro delle imprese).
Fuori dalla proroga chi supera i 5.164.569 euro di
ricavi o compensi
In assenza di uno specifico chiarimento ufficiale sul
punto, deve invece ritenersi che la proroga non sia applicabile in relazione ai contribuenti che dichiarano ricavi o compensi superiori al suddetto limite di
5.164.569 euro, ma fino a 7.500.000 euro. Tali contribuenti, infatti:
- sono tenuti a compilare il modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli
studi di settore, ma solo a fini statistici, allo scopo di
raccogliere informazioni da utilizzare per l’evoluzione
degli studi di settore;
- non sono soggetti all’attività di accertamento basata
sull’utilizzo degli studi di settore;
- non sono quindi soggetti al controllo di congruità, né
possono adeguarsi agli studi con effetto sulle imposte
da versare.
Per questi contribuenti, pertanto, i versamenti non effettuati ieri devono avvenire entro il prossimo 18 luglio, con la maggiorazione dello 0,4%.
/ 04
ancora
PROFESSIONI
STUDIO DUCOLI
Il commercialista non è tenuto a reperire la
documentazione del cliente
Il professionista redige le scritture contabili sulla base dei dati forniti dal cliente e l’assenza di
responsabilità è coerente con la natura del contratto
/ Michela SCHEPIS
Il commercialista è tenuto a redigere le scritture contabili sulla base dei dati forniti dal cliente, non essendo esigibile un’autonoma attivazione, da parte del professionista, finalizzata a reperire voci di spesa da annotare nelle scritture stesse. Tale principio è stato sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12463,
depositata ieri.
Nel caso di specie, il professionista, che aveva svolto
per diversi anni attività professionale quale incaricato
della rappresentanza contabile dell’attività di
un’azienda, veniva convenuto in giudizio dalla titolare
dell’azienda. In particolare, l’attrice domandava la condanna del commercialista al risarcimento del danno
subito a causa di una serie di irregolarità contabili che
riteneva a lui imputabili (tra cui l’irregolare predisposizione dell’inventario, l’errata detrazione dei costi, l’annotazione parziale dei consumi Enel ecc.).
Il commercialista, dall’altra parte, chiedeva il rigetto
della domanda attrice e, in via riconvenzionale, la condanna della stessa al pagamento delle prestazioni professionali non saldate. I giudici del merito accoglievano parzialmente la domanda avanzata dalla titolare
dell’azienda, ritenendo che la stessa non avesse provato la responsabilità del professionista per la maggior
parte degli addebiti; veniva, inoltre, condannata al pagamento di una somma dovuta per le prestazioni professionali non corrisposte.
Il caso giunge dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale si pronuncia con la sentenza in commento.
I giudici di legittimità, nell’affermare il principio di diritto secondo il quale il commercialista non è tenuto a
recuperare le voci di spesa da annotare nelle scritture
contabili (più precisamente, si trattava di alcune fatture Enel che non erano state registrate), si soffermano
sulla natura del contratto esistente tra il professionista e il cliente.
È opportuno ricordare che il contratto concluso con un
professionista è:
- un contratto che ha per oggetto una prestazione
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
d’opera intellettuale, la cui disciplina è contenuta
all’artt. 2229 ss. c.c.;
- un contratto che si fonda sulla natura fiduciaria del
rapporto ed è caratterizzato dall’intuitus personae.
Nel caso di specie, la Cassazione evidenzia che la dottrina civilistica è pacifica nel ritenere che il rapporto
esistente tra il commercialista e il cliente si concretizza nel negozio con il quale il primo si obbliga, dietro
corrispettivo, a fornire la sua prestazione al secondo,
che è, però, tenuto, a sua volta, a fornirgli i dati relativi
alla propria situazione finanziaria, al fine di consentirgli di eseguire correttamente l’incarico.
Si precisa, inoltre, che la disciplina del contratto di prestazione d’opera intellettuale non prevede alcun obbligo, in capo al professionista, volto al reperimento della
documentazione del cliente.
Se il professionista non viene messo nelle condizioni
ideali per espletare il proprio incarico, è arduo ritenere
che possa ravvisarsi una responsabilità a suo carico.
Inoltre, i giudici di legittimità hanno ritenuto che, anche volendo presumere la colpa professionale del
commercialista, la cliente avrebbe dovuto provare il
danno che lamentava (danno che derivava da un accertamento tributario di evasione di imposte). Tale
prova non è, invece, stata raggiunta dall’attrice.
Nesso causale tra la condotta del commercialista e il
danno da provare
Infatti, nella responsabilità contrattuale, spetta al danneggiato fornire la prova sia dell’esistenza del danno
lamentato sia della sua riconducibilità al fatto (ossia
all’inadempimento) del debitore.
Ai fini del risarcimento del danno, pertanto, l’attrice
avrebbe dovuto provare il nesso causale tra la condotta del commercialista e il danno lamentato (posto, comunque, che “non sono danni che derivano dall’inadempimento del professionista quelli che il suo adempimento non avrebbe potuto evitare”).
/ 05
ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Conferma “costituzionale” per lo split payment
Respinta l’eccezione posta dalla Regione Veneto “danneggiata” dalle conseguenze del nuovo sistema
impositivo
/ Emanuele GRECO
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 145 di ieri 16
giugno 2016, ha dichiarato inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale relative alla disciplina dello split payment formulate dalla Regione Veneto, confermando l’efficacia delle speciali misure previste dal
legislatore nazionale per l’assolvimento dell’IVA.
In questo modo, lo split payment, trova una nuova
conferma, dopo aver ottenuto il necessario “via libera”
comunitario (decisione n. 1401 del Consiglio Ue del 14
luglio 2015), nonché una prima convalida giurisprudenziale da parte del TAR del Lazio (sentenza n. 121 del
7 gennaio 2016).
L’eccezione principale posta dalla Regione Veneto in
merito alle disposizioni di cui all’art. 1 commi 629 lett.
b), 632 e 633 della legge di stabilità 2015 (L. 190/2014) riguardava la compatibilità delle stesse rispetto all’art.
117 comma 1 della Costituzione, concernente il rispetto del legislatore nazionale dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
Il mancato ossequio delle norme comunitarie discenderebbe dalla prescritta applicabilità delle norme di cui
trattasi a partire dal 1° gennaio 2015, senza attendere la
previa autorizzazione del Consiglio Ue, secondo quanto richiesto dalla direttiva 2006/112/CE (direttiva IVA).
A seguito dell’avvenuto rilascio della predetta autorizzazione, la censura regionale muove sotto ulteriori due
profili:
- le disposizioni contenute nella legge di stabilità 2015
non prevedono un limite temporale all’efficacia della
speciale disciplina in materia di IVA (efficacia temporale che si esaurirà al 31 dicembre 2017, secondo quanto stabilito dalla decisione del Consiglio Ue);
- l’inapplicabilità della disciplina, sotto il profilo “oggettivo”, anche alle operazioni tra Pubbliche Amministrazioni, che non risulterebbero ricomprese nella misura
di deroga alla direttiva 2006/112/CE rilasciata dal Consiglio Ue.
Le questioni poste dalla Regione Veneto, relative alla
supposta violazione degli obblighi comunitari da parte
del legislatore, determinerebbero quindi una indiretta
lesione dell’autonomia amministrativa e finanziaria
regionale, sancite rispettivamente dagli artt. 118 e 119
della Costituzione.
In particolare, secondo la Regione, l’introduzione del
meccanismo di split payment avrebbe comportato:
- l’impossibilità, per l’ente, di compensare l’IVA sugli
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
acquisti con quella sulle operazioni attive, dovendo
chiedere a rimborso l’eccedenza di credito detraibile,
sostenendone il relativo onere; detta situazione si verificherebbe in tutti i casi in cui la Regione è tenuta ad
applicare l’IVA nei confronti di altri enti pubblici;
- l’introduzione di un ingiustificato onere amministrativo derivante dall’adeguamento dei sistemi informativi gestionali e contabili per adempiere ai nuovi obblighi di assolvimento dell’IVA, anche qualora la speciale
misura non avesse ottenuto il benestare da parte del
Consiglio Ue.
La Corte Costituzionale dichiara inammissibile la questione di legittimità presentata dalla Regione Veneto,
in ragione del fatto che le norme costituzionali sollevate (in primis, l’art. 117 comma 1) non attengono al riparto delle competenze tra Stato e Regioni.
Per cui, vertendosi su una questione di legittimità sollevata da una Regione non riguardante il riparto delle
competenze statali e regionali, devono essere soddisfatti ulteriori requisiti che – in sintesi – riguardano
l’individuazione degli ambiti di competenza regionale
suscettibili di essere lesi dalla disciplina statale.
Quest’ultimo requisito, per poter eccepire la legittimità
costituzionale dello split payment, non risulta però
soddisfatto.
La disciplina è di esclusiva competenza statale
Come sottolinea la Corte, nella sentenza depositata ieri, la disciplina della “scissione dei pagamenti” è di
esclusiva competenza statale, per espressa previsione
dell’art. 117 comma 2 lett. e) della Costituzione, attenendo alla materia del “sistema tributario e contabile”.
L’assenza di potestà legislativa e amministrativa delle
Regioni risulta, tra l’altro, avvalorata dall’emanazione
del decreto attuativo della disciplina (decreto Ministero dell’Economia e delle finanze del 23 gennaio 2015) e
dalla pubblicazione delle circolari interpretative
dell’Agenzia nn. 1 e 15 del 2015.
Rileva, da ultimo la Corte, che l’impossibilità di “compensare” l’IVA a credito con l’IVA a debito è una condizione che riguarda tanto le Amministrazioni Pubbliche quanto i soggetti privati che operano con la P.A.,
ma non per questo la legislazione statale è suscettibile
di “violare” alcun ambito costituzionalmente riservato
alle Regioni.
/ 06
ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Assegnazioni di beni sempre soggette ad IVA
Per la Corte di Giustizia non sono applicabili i limiti temporali previsti per la rettifica della detrazione
/ Simonetta LA GRUTTA
La Corte di Giustizia Ue, con la sentenza di ieri, nella
causa C-229/15 Mateusiak, si è pronunciata sull’assoggettabilità a IVA dei beni che entrano nella sfera privata di un soggetto passivo, a seguito della cessazione
dell’attività economica svolta da una persona fisica,
sancendo che non vi sono limiti temporali per l’applicazione dell’imposta. La sentenza è di particolare attualità, in questo periodo, in considerazione delle disposizioni dell’art. 1 comma 115 e seguenti della L.
208/2015, che agevolano le assegnazioni e le cessioni
di beni ai soci e le estromissioni dell’immobile strumentale dell’imprenditore individuale.
La questione pregiudiziale è relativa ad un immobile
che un soggetto passivo d’imposta ha fatto costruire
per adibirlo parzialmente ad uso abitativo e parzialmente allo svolgimento di un’attività rilevante ai fini
IVA. Al tempo, il soggetto passivo aveva detratto l’imposta assolta a monte sull’acquisto di materiali edili,
sulle spese di manodopera e sulle altre spese, solo per
la quota attribuibile alla parte del fabbricato destinato
allo svolgimento dell’attività – uno studio notarile –
che dà luogo ad operazioni imponibili. Tale parte
dell’immobile è stata iscritta nell’inventario dei beni
durevoli.
Nel 2013, il soggetto passivo ha presentato domanda di
parere in materia fiscale all’amministrazione polacca
competente, per conoscere se nell’inventario di liquidazione, da predisporre in occasione della cessazione
e liquidazione della propria attività economica, fosse
necessario includere anche il valore dell’immobile in
questione e, in caso affermativo, con quale valore. È
opinione del soggetto passivo che il bene non dovesse
essere assoggettato ad IVA in considerazione del fatto
che la cessazione dell’attività è avvenuta quando il periodo di tutela fiscale – pari a dieci anni per gli immobili – previsto per la rettifica della detrazione era già
interamente trascorso.
Di diverso avviso l’Amministrazione finanziaria polacca, che ha ritenuto non lesivo del principio di neutralità dell’imposta l’assoggettamento ad IVA dei beni in
ragione della cessazione dell’attività. Ciò proprio in
considerazione del fatto che detto tributo, quale imposta sul consumo, deve essere applicato per controbilanciare l’imposta detratta a monte, ogniqualvolta il
bene venga distolto dalla sfera commerciale per giungere alla sfera dell’utilizzo privato, ossia, per giungere
al consumo.
Interpellata sulla questione, la Corte di Giustizia richiama il principio generale per cui la detrazione dell’imposta a monte è collegata alla riscossione della stessa
a valle. Da ciò ne segue che quando i beni e servizi acquistati da un soggetto passivo sono impiegati per porEutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
re in essere operazioni esenti o fuori dal campo di applicazione del tributo, non potendovi essere tassazione a valle, non potrà esservi detrazione a monte. È in
questo contesto che deve valutarsi la portata dall’art.
18, lett. c) della direttiva 2006/112/CE, il quale prevede
la facoltà per gli Stati membri di assimilare ad una cessione di beni a titolo oneroso il possesso di beni da
parte di un soggetto passivo a seguito della cessazione della propria attività economica (imponibile), qualora per detti beni sia stato esercitato il diritto alla detrazione.
Occorre però tenere presente che il principio di tassazione sopra ricordato, previsto dalla legislazione polacca come da quella italiana (art. 2, comma 2 n. 5) del
DPR 633/72), non deve confondersi con il meccanismo
di rettifica della detrazione. Come chiaramente evidenziato dall’Avvocato Generale nelle conclusioni del
3 marzo 2016, i due istituti perseguono i rispettivi
obiettivi – tra loro equiparabili in quanto volti a garantire la neutralità dell’imposta – con modalità diverse.
Le norme sulla tassazione dei beni di cui trattasi mirano da una parte a garantire parità di trattamento tra
un soggetto passivo che prelevi un bene dalla propria
attività per esigenze private e un consumatore finale
che acquisti un bene dello stesso tipo (art. 16 della direttiva 2006/112/CE) e dall’altra ad evitare che il bene
prelevato giunga al consumo detassato, essendo stato
esercitato il diritto alla detrazione (art. 18 lett. c) della
direttiva 2006/112/CE).
Il meccanismo della rettifica è un adeguamento a posteriori che mira, a sua volta, ad aumentare la precisione delle detrazioni effettuate, cosicché il diritto sia
esercitato solo nel limite in cui beni e servizi siano effettivamente impiegati per operazioni tassate a valle.
Conseguentemente, ben si comprende perché la rettifica alla detrazione assuma a base un valore storico,
mentre l’imposizione dell’uso privato faccia riferimento ad un importo che tenga conto anche dell’evoluzione del valore verificatosi tra acquisto del bene ed inizio dell’impiego privato.
Osserva la Corte che l’equiparabilità degli obiettivi dei
due istituti, come sopra argomentata, non implica che
il periodo previsto per la rettifica della detrazione possa valere anche come limite massimo, superato il quale l’assoggettamento ad IVA di un bene prelevato per
esigenze private non sia più possibile. Pertanto, il possesso di beni da parte di un soggetto passivo IVA, a seguito della cessazione della propria attività economica imponibile, qualora sia stata detratta l’imposta a
monte, è assimilato ad una cessione di beni effettuata
a titolo oneroso, senza che vi siano limiti temporali per
l’assoggettamento ad imposta.
/ 07
ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Responsabilità per danno “equitativo” solo con colpa
grave
La Cassazione, invece, conferma che non è necessaria la domanda di parte, né la quantificazione del
danno
/ Alfio CISSELLO
La Cassazione, con la sentenza n. 12413 depositata ieri,
conferma un orientamento, recepito dall’Agenzia delle
Entrate nella circolare n. 38/2015, che, sotto il profilo
dell’elemento soggettivo, tende ad equiparare le due
responsabilità previste dal primo e dal terzo comma
dell’art. 96 del codice di procedura civile.
Trattasi di istituti pacificamente applicabili in ambito
fiscale, stante l’espresso rinvio dell’art. 15 del DLgs.
546/92.
Nel caso di specie, si trattava di individuare la responsabilità processuale scaturente da un fermo indebitamente disposto ai sensi dell’art. 86 del DPR 602/73, per
crediti non tributari.
Sebbene i crediti tutelati non siano fiscali, i principi
enunciati dalla Cassazione sono comunque interessanti, anche se gran parte della sentenza riguarda il
secondo comma dell’art. 96 richiamato, che sembra
non operare nel contenzioso tributario (l’art. 15 del
DLgs. 546/92, infatti, richiama i soli primo e terzo comma dell’art. 96).
Si ricorda che, da un lato, il primo comma dell’art. 96 in
oggetto stabilisce: “se risulta che la parte soccombente
ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa
grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che
liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”.
Invece, il terzo comma recita testualmente: “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo
91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la
parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
I giudici affermano che la locuzione “in ogni caso” sta a
significare che la condanna non presuppone l’istanza
di parte, né la quantificazione del danno.
Però, come evidenziato in sentenze precedenti, è sempre necessario l’elemento soggettivo, che, ex primo
comma, deve rinvenirsi o nella mala fede o nella colpa
grave, vuoi perché si tratta di un istituto pur sempre disciplinato nell’ambito della responsabilità processuale,
vuoi perché “agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rim-
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
proverabile”.
Con riferimento alla possibilità di condanna nel grado
di appello, la Cassazione asserisce che ciò è possibile
quando la parte abbia coltivato il giudizio sulla base di
tesi giuridiche manifestamente errate già reputate infondate in primo grado.
Orientamento recepito dalle Entrate
Riteniamo il menzionato orientamento censurabile,
siccome in contrasto con la volontà del legislatore,
che, mediante la locuzione “in ogni caso”, ha inteso
non solo sganciare la responsabilità in oggetto dalla
domanda di parte e dal susseguente onere di quantificazione del danno, ma pure dall’elemento soggettivo. O
meglio, dall’elemento soggettivo così come inteso dal
legislatore in merito alla vera e propria responsabilità
processuale aggravata, che postula necessariamente o
il dolo o la colpa grave.
Ove si intenda, anche in un’ottica di rispetto dei principi costituzionali sottesi al diritto di difesa, porre una
strumentalità fra condanna a una somma determinata secondo equità ed elemento soggettivo, la Cassazione avrebbe potuto richiamare il comune concetto di
colpa, magari rafforzato da un rigoroso obbligo motivazionale ad opera del giudice, ma “scomodare” la colpa
grave e la mala fede significa andare contro il dato
normativo.
In sostanza, adottando la tesi menzionata, l’unica differenza tra il primo e il terzo comma consiste nella
possibilità di azionare la condanna d’ufficio e nella
non necessarietà della quantificazione del danno.
Per fare un esempio, il ricorso contro un diniego di
rimborso basato su documentazione falsa o manifestamente proposto oltre il termine decadenziale rientra
nel primo comma (mala fede o colpa grave), ma la medesima domanda, se contraria a un orientamento giurisprudenziale pure consolidato, sembra possa rientrare nel terzo comma, visto che non c’è lo stare decisis
nel nostro sistema, e, se si vuole, può essere sintomatico di colpa, non però di colpa grave.
/ 08
ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Possibile rilevanza penale delle fatture anche se la
partita IVA è cessata
Per il reato di cui all’art. 8 del DLgs. 74/2000 conta che siano stati soddisfatti i requisiti di contenuto e
forma per la formazione delle fatture
/ Maria Francesca ARTUSI
Le fatture emesse utilizzando una partita IVA cessata
non escludono la configurabilità del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti di cui all’art. 8
del DLgs. 74/2000.
Tale norma prevede la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni per chi, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto,
emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
In un caso affrontato dalla Corte di Cassazione con
sentenza n. 25033, depositata ieri, è stata confermata
la penale responsabilità dell’imputato in ordine alla
condotta di emissione di fatture allo scopo di consentire ai destinatari di evadere le imposte sui redditi e sul
valore aggiunto.
Dal punto di vista probatorio, le circostanze di fatto accertate dai giudici di merito evidenziavano, da un lato,
l’apertura e chiusura nello stesso giorno della partita
IVA dell’imputato, dall’altro, l’omessa presentazione di
qualsiasi dichiarazione fiscale, l’assenza di dipendenti,
gli importi rilevanti delle prestazioni indicate nelle fatture emesse a nome dell’imputato a fronte della mancanza di ogni mezzo per esercitare l’attività di impresa.
Inoltre, le indagini svolte dalla Guardia di Finanza avevano consentito di accertare la riconducibilità delle
fatture all’imputato.
La Cassazione richiama un’altra pronuncia di legittimità (Cass. n. 50628/2014) per precisare che la sussistenza, nelle fatture, di tutti i requisiti formali richiesti
dall’art. 21 comma 2 del DPR 633/1972 è condizione necessaria – ma anche sufficiente – per l’integrazione
della fattispecie in esame.
In particolare, si fa riferimento alla data di emissione,
al numero progressivo, alla denominazione dell’emittente e del destinatario, al numero di partita IVA di entrambi questi soggetti, alla descrizione dei beni o dei
servizi oggetto dell’operazione, ai corrispettivi e all’aliquota.
La giurisprudenza ha, inoltre, individuato come la condotta commissiva del reato di cui all’art. 8 del DLgs.
74/2000 possa riguardare, in primo luogo, il documento fattura, qualificato dall’art. 21 del DPR 633/1972, non-
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
ché gli “altri documenti”, per cui vale la definizione di
cui all’art. 1 lett. a) del DLgs. 74/2000, ai sensi del quale
per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi
rilievo probatorio analogo “in base alle norme tributarie”.
La documentazione in questione, quindi, deve essere
fiscalmente tipica e idonea a far prova nei confronti
dell’Amministrazione finanziaria circa l’effettuazione
di cessioni di beni o prestazioni di servizi. Secondo tale orientamento rilevano tutti i documenti idonei a
supportare l’esposizione fittizia di elementi passivi e
che – avendo valore probatorio in ambito tributario –
consentano di variare l’imponibile e di perpetrare
un’evasione a fronte di un’operazione inesistente, ossia non realmente accaduta.
Si tratta, dunque, di un’interpretazione anche finalistica del supporto documentale, legata alla possibilità di
un concreto utilizzo a fini illeciti.
Alla luce di tali considerazioni, laddove siano comunque stati soddisfatti i requisiti di contenuto e forma
prescritti dall’art. 21 del DPR 633/72 per la formazione
delle fatture, non ha rilievo il fatto che la partita IVA
fosse effettivamente cessata.
Hanno rilievo gli effetti dell’utilizzazione in concreto
della partita IVA
Infatti, i documenti emessi potevano ugualmente (come poi avvenuto nel caso di specie) essere utilizzati
per dedurre costi inesistenti. Ciò comporta che l’eventuale irregolarità dal punto di vista formale – se non
incide sui requisiti essenziali del documento stesso –
non esclude il fatto materiale della sua emissione e del
suo successivo utilizzo al fine di evadere le imposte.
In altre parole, indipendentemente dall’utilizzo di una
partita IVA di cui era stata comunicata la cessazione
anteriormente all’emissione delle fatture e che quindi
non avrebbe potuto essere utilizzata, se la sua utilizzazione in concreto ha comportato la formazione di documenti formalmente completi e dunque idonei a realizzare il fine fraudolento, si può affermare la sussistenza della fattispecie di cui al citato art. 8.
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ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Pronte le regole per inviare chiarimenti da controllo
formale sui 730/2014
CAF-dipendenti e professionisti abilitati devono trasmettere la documentazione in via telematica
entro 30 giorni dalla richiesta dell’Agenzia
/ REDAZIONE
Con il provvedimento n. 85528 datato 1° giugno, ma
pubblicato solo ieri, l’Agenzia delle Entrate indica le
modalità per le richieste di documenti e chiarimenti
per il controllo formale, ex art. 36-ter del DPR 600/73,
delle dichiarazioni relative al periodo d’imposta 2013
trasmesse tramite l’assistenza fiscale dei CAF-dipendenti e dei professionisti abilitati.
In merito, si ricorda che l’art. 1, comma 617 della L.
147/2013 (legge di stabilità 2014), modificando l’art. 26,
comma 3-bis del DM 164/99 e demandando a un successivo provvedimento direttoriale la definizione delle modalità attuative, ha ridisciplinato la procedura di
richieste di documenti e chiarimenti, relativi ai modelli 730, da parte dell’Agenzia delle Entrate, stabilendo
che esse siano trasmesse:
- al responsabile dell’assistenza fiscale del CAF o al
professionista abilitato che ha rilasciato il visto di conformità;
- in via telematica;
- almeno 60 giorni prima della comunicazione al contribuente.
Il responsabile o il professionista deve inviare
all’Agenzia la documentazione e i chiarimenti entro 30
giorni dalla richiesta.
Con il provv. pubblicato ieri, quindi, l’Amministrazione
finanziaria dispone che il controllo formale delle dichiarazioni modello “730/2014”, presentate per il periodo d’imposta 2013 dalle persone fisiche che si sono avvalse dell’assistenza fiscale prestata dai CAF-dipendenti e dai professionisti abilitati, sia eseguito riguardo anche alla verifica della correttezza del visto di
conformità rilasciato dai responsabili dei CAF e dai
professionisti abilitati.
Le richieste di documenti e di chiarimenti relative alle
dichiarazioni con visto di conformità sono trasmesse
in via telematica ai CAF-dipendenti e ai professionisti
di competenza. I responsabili dell’assistenza fiscale ri-
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
cevono l’elenco di tutte le dichiarazioni per le quali le
richieste di documenti e di chiarimenti sono state
inoltrate ai CAF-dipendenti.
I CAF-dipendenti e i professionisti abilitati devono poi
trasmettere all’Agenzia in via telematica, tramite il canale CIVIS, entro 30 giorni, i documenti e i chiarimenti
richiesti.
Queste disposizioni si applicano ai soggetti obbligati
alla conservazione delle dichiarazioni e della relativa
documentazione a base del visto di conformità.
Il provvedimento ricorda infatti che l’art. 16 comma 1
lett. d-bis) del DM 164/99 obbliga i CAF-dipendenti a
“conservare copia delle dichiarazioni e dei relativi prospetti di liquidazione nonché della documentazione a
base del visto di conformità”. Le richieste di documenti e chiarimenti sono pertanto trasmesse in via telematica ai CAF-dipendenti. I rappresentanti dell’assistenza fiscale ricevono l’elenco delle richieste di documenti e chiarimenti contestualmente alle ordinarie
comunicazioni informative dell’avvio del controllo effettuate dalle Direzioni Regionali ai sensi dell’art. 26
comma 3 del DM.
Modalità valevoli per l’assistenza fiscale prestata fino
al 31 dicembre 2014
Le richieste di documenti e chiarimenti su elementi
soggettivi della dichiarazione che non costituiscono
materia di visto di conformità, per le quali i CAF-dipendenti non possono fornire diretto riscontro, per celerità dell’azione amministrativa, sono invece inviate
direttamente ai contribuenti interessati.
L’Agenzia sottolinea infine che le modalità contenute
nel provvedimento si applicano per l’assistenza fiscale prestata fino al 31 dicembre 2014, poiché l’art. 6 comma 2 del DLgs. 175/2014 ha modificato il citato art. 26 a
decorrere dall’assistenza fiscale prestata nel 2015.
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ancora
IMPRESA
STUDIO DUCOLI
Contemperamento di interessi nell’esercizio
provvisorio dell’impresa
Tale istituto non deve riguardare necessariamente l’attività aziendale nel complesso ma può limitarsi
anche solo a specifici rami di azienda
/ Roberta VITALE
Il CNDCEC ha pubblicato ieri il documento “L’esercizio
provvisorio dell’impresa nel fallimento (art. 104 L.F.)”,
nel quale viene analizzata la disciplina prevista per tale istituto, alla luce delle prassi operative dei Tribunali.
Lo strumento dell’esercizio provvisorio dell’impresa –
come evidenzia lo stesso CNDCEC – rappresenta in alcuni Tribunali una valida alternativa al concordato
preventivo.
Si ricorda che la finalità dell’esercizio provvisorio
dell’impresa, disciplinato all’art. 104 L. fall. (RD 267/42),
è quella di conservare, se possibile, la ricchezza
dell’impresa in quanto impresa attiva o, se cessata,
riattivabile per il proprio ed ancora sussistente valore
organizzativo.
In tal senso, dunque, l’interesse a cui tende la norma è,
innanzitutto, quello della tutela dell’attività in quanto
tale, separata dal “destino” dell’imprenditore. In questo
ambito, vi sono, ad esempio, gli interessi dei lavoratori
subordinati, dei consumatori e degli utenti per la prosecuzione dell’attività d’impresa sul mercato.
In secondo luogo, la funzione di conservazione
dell’azienda, quale complesso organizzato di beni e
persone, è contemperata con il soddisfacimento e la
tutela del ceto creditorio, i cui interessi sono volti alla
continuazione dell’attività d’impresa per la massimizzazione dei valori di realizzo nell’ambito della procedura concorsuale.
Tutela anche del ceto creditorio
L’esercizio provvisorio dell’impresa può essere disposto dal tribunale con la sentenza dichiarativa di fallimento (art. 104, comma 1 L. fall.) o può essere richiesto
dal curatore successivamente alla dichiarazione di fal-
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limento con autorizzazione, mediante decreto motivato, del giudice delegato, previo parere favorevole del
comitato dei creditori (art. 104, comma 2 L. fall.).
Nel primo caso, l’utilizzo di tale strumento è volto ad
evitare la continuità con la precedente gestione
dell’imprenditore in bonis che ha determinato il fallimento; il secondo caso risponde, invece, all’esigenza di
applicare tale istituto anche nelle fasi che seguono la
dichiarazione di fallimento. Infatti – come sottolineato dal CNDCEC nel documento in commento – il legislatore ha dissociato l’esercizio provvisorio da un profilo temporale, consentendo così l’intervento del giudice delegato, svincolato da date o eventi specifici, in
qualsiasi momento della procedura fallimentare.
In entrambe le ipotesi, l’esercizio provvisorio non deve
riguardare necessariamente l’attività aziendale nel
complesso, potendo limitarsi anche solo a specifici rami di azienda.
Quanto agli effetti dell’esercizio provvisorio dell’impresa, si fa presente che si verifica la sostituzione del curatore al fallito nella gestione dell’impresa, senza però
il trasferimento dell’azienda.
In altre parole, l’azienda rimane del fallito e il curatore,
che si sostituisce allo stesso, gestisce tutto il suo patrimonio al fine di provvedere al soddisfacimento dei
creditori, assumendo i diritti e gli obblighi ricadenti
sull’imprenditore fallito a seguito della declaratoria di
fallimento.
Con riguardo, poi, alle modalità di utilizzo di tale strumento, il CNDCEC sottolinea la possibilità per il curatore di ricorrere all’esercizio provvisorio in forma mista:
gestione dell’impresa, quindi, in capo al curatore con
esternalizzazione di alcune fasi del ciclo produttivo a
società terza.
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LAVORO & PREVIDENZA
STUDIO DUCOLI
Utilizzo dei voucher “diversificato” per il settore
agricolo
Il decreto che integra e corregge le disposizioni in materia di lavoro accessorio tiene conto delle
specificità dell’attività
/ Elisa TOMBARI
Lo schema di decreto legislativo recante disposizioni
integrative e correttive dei DLgs. nn. 81, 148, 149, 150 e
151 del 2015 – che dopo l’approvazione in via preliminare nel CdM del 10 giugno scorso sarà trasmesso a
Camera e Senato per i dovuti pareri – all’art. 1 interviene sugli artt. 48 e 49 del DLgs. 81/2015 in materia di
prestazioni di lavoro accessorio, introducendo due
modifiche di rilievo, volte rispettivamente a precisare
l’ambito applicativo della disciplina ed a favorire la
tracciabilità dei voucher.
Le modifiche riguardanti l’art. 48 sono finalizzate ad
escludere il settore agricolo dall’applicazione della regola per cui, se i committenti sono imprenditori o professionisti, il prestatore di lavoro accessorio può percepire da ciascuno di essi compensi nel limite annuo di
2.000 euro, nel rispetto del limite complessivo generale di 7.000 euro. Con l’espressa esclusione del settore
agricolo dall’applicazione di tale limite, peraltro, il legislatore recepisce un consolidato orientamento di prassi, già espresso dal Ministero del Lavoro con la circolare 18 gennaio 2013 n. 4. La ratio risiede nella circostanza che l’utilizzo del lavoro accessorio in agricoltura è
già soggetto – oltre al divieto, per i prestatori, di percepire compensi superiori al limite complessivo di 7.000
euro – anche ai limiti di utilizzabilità nell’ambito delle
attività stagionali di pensionati e giovani studenti con
meno di 25 anni.
Relativamente all’art. 49 del DLgs. 81/2015, invece, l’intervento vuole garantire la piena tracciabilità dei voucher, estendendo al lavoro accessorio la comunicazione preventiva già esistente per il lavoro intermittente.
In particolare, i committenti professionisti o imprenditori non agricoli sono tenuti a comunicare almeno 60
minuti prima dell’inizio della prestazione alla sede
dell’Ispettorato nazionale del lavoro territorialmente
competente, tramite sms o email, i dati anagrafici del
lavoratore, nonché il luogo e la durata della prestazione.
Entro lo stesso termine e con le stesse modalità, i committenti imprenditori agricoli fruitori di prestazioni di
lavoro accessorio dovranno comunicare, invece, i dati
anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, il luogo e la
durata della prestazione con riferimento ad un arco
temporale non superiore a sette giorni. Tale diversificazione risiede nella difficoltà, per questi ultimi, di pre-
Eutekne.Info / Venerdì, 17 giugno 2016
vedere in anticipo la durata e il numero esatto di lavoratori da utilizzare nell’attività agricola, il cui andamento è soggetto a fattori metereologici di carattere
stagionale.
La mancata comunicazione di inizio attività almeno
60 minuti prima dell’inizio della prestazione di lavoro
accessorio è punita con una sanzione compresa tra
400 e 2.400 euro, non sanabile a posteriori.
Voucher esenti da imposizione fiscale
Dallo schema del decreto correttivo si evince l’intento
del legislatore di prevenire un presunto abuso del lavoro accessorio, che era stato introdotto nel nostro ordinamento allo scopo di garantire un compenso, nonché
una minima tutela assicurativa e previdenziale (pari,
rispettivamente, al 7% e al 13% del valore nominale del
voucher), per quelle prestazioni lavorative con carattere saltuario e marginale che non siano riconducibili ad
alcuna tipologia contrattuale di lavoro subordinato o
autonomo. Proprio per la peculiarità dell’istituto, la disciplina prevede tassativamente i limiti di carattere
quantitativo sopra indicati, nonché la specifica modalità di pagamento tramite buoni lavoro, esenti da imposizione fiscale e irrilevanti per lo status di disoccupazione o inoccupazione.
Dopo che il DLgs. 81/2015, rispetto alla precedente normativa (artt. 70-73 del DLgs. 276/2003), aveva innalzato a 7.000 euro l’importo massimo complessivo dei
compensi per lavoro accessorio percepibili in un anno
(1°gennaio-31 dicembre) da ciascun prestatore, ferma
la soglia dei compensi che il lavoratore può percepire
da ciascun committente imprenditore o professionista,
di 2.000 euro l’anno, si era verificato un notevole aumento delle prestazioni di lavoro accessorio. Il timore
era che questo fenomeno coprisse anche casi di lavoro irregolare, in cui il lavoratore impiegato per l’intera
giornata lavorativa ricevesse un voucher orario per
giustificare la sua presenza in caso di ispezione, per
essere retribuito in nero per la restante parte dell’attività lavorativa. Con la comunicazione preventiva dei
dati del lavoratore, del luogo e della durata della prestazione questa forma di abuso dovrebbe essere eliminata.
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LETTERE
STUDIO DUCOLI
Non vogliamo proroghe dell’ultima ora, ma un
calendario fiscale adeguato
Gentile Redazione,
alla fine la proroga è arrivata!
In perfetto stile italiano: quest’anno non c’è, forse sì,
“No perché nessuno l’ha chiesta”, “Ma sì che l’hanno
chiesta ma non avevamo capito”, allora che proroga
sia, anche se concessa a ridosso del termine.
In febbraio – non 10 giorni fa – avevo avvisato i miei
collaboratori: GE.RI.CO. è pronto, quindi quest’anno
niente proroga dei termini di pagamento per i soggetti
con gli studi di settore, preparatevi per tempo.
Pronta risposta dei ragazzi di trincea: peccato, la verità è che non riusciamo a chiudere i bilanci, calcolare
l’IMU e la TASI, fare i 730 e predisporre i versamenti
delle imposte per il 16 giugno tutti insieme, dottore faremo il possibile ma non siamo sicuri di farcela.
Quindi sotto, testa bassa e pedalare, certo che qualche
cliente ha brontolato per il fatto che gli abbiamo dato
l’importo da versare con solo qualche giorno di anticipo (anziché con le solite settimane di anticipo), ma ce
la stavamo facendo.
Ovvio che di studi di settore neanche a parlare, la compilazione e l’adeguamento per chi vorrà sarà per luglio.
Anche noi abbiamo provato rabbia e frustrazione per il
tax day, ma stasera il versamento di bile ha raggiunto
livelli inauditi perché abbiamo capito che domani ci
aspetta il duro lavoro di telefonare ai clienti e dire: fermi tutti, abbiamo scherzato, ritirate le deleghe dall’ho-
me banking (quelle che abbiamo già inviato noi via Entratel sono andate, non si possono annullare, sono un
“premio” ai troppo tempestivi), dobbiamo ricalcolare
tutte le rateizzazioni, importi e scadenze.
Eh no, è ora di finirla con questo teatrino in cui anche
noi commercialisti siamo protagonisti!
Il ritardo di GE.RI.CO. è sempre stato un alibi che ci ha
fatto comodo invocare.
La verità è che anche con GE.RI.CO. puntuale non ce la
facciamo, non nascondiamoci dietro a un dito.
Quindi dobbiamo dirlo con forza, in tutte le sedi, istituzionali e non: non vogliamo proroghe dell’ultima ora,
vogliamo un calendario adeguato, senza distinzioni
per la rateizzazione dei soggetti con e senza la partita
IVA, vogliamo che il più grande pasticcio della fiscalità immobiliare italiana (IMU/TASI) sia risolto una volta per tutte, chiamando l’imposta patrimoniale con il
suo nome e soprattutto che venga liquidata dai soggetti attivi (Comuni), come avviene per la TARI, e che noi
possiamo dedicarci anima e corpo alla determinazione delle imposte sul reddito.
In sostanza chiediamo in tre parole: FATECI LAVORARE DIGNITOSAMENTE.
Fabio Carbone
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Udine
Direttore Editoriale: Michela DAMASCO
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