L`uomochevolevamettere le divise ai partigiani

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I TA L I A
PROVE DI RESISTENZA/1
APRILE
ARCHIVIO DELL’ISTITUTO PIEMONTESE PER LA STORIA DELLA RESISTENZA
Da un documento
inedito, la storia
di un capo delle
Brigate Garibaldi
che ebbe un’idea:
vestire i suoi
uomini come
combattenti
organizzati,
con i tessuti
sottratti ai fascisti.
Si chiamava
Eugenio Fassino.
Era il padre
del segretario ds
L’uomochevolevamettere
le divise ai partigiani
di Alberto Custodero
T
ORINO. C’è stato un partigiano che voleva mettere la divisa
alla Resistenza. Una divisa grigioverde, di panno, buona per l’inverno e che non costasse troppo:
1300 lire, un affare. Era il novembre del 1944: Eugenio Fassino, vent’anni, a capo della trentunesima
Brigata Garibaldi di stanza in Val
Sangone, alle porte di Torino, ordinò 240 di quelle divise per i suoi
uomini. Quegli abiti, però, non
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arrivarono mai a destinazione.
La storia inedita di quelle divise,
di chi le ordinò e di chi tentò invano di recapitarle ai partigiani, emerge ora da un documento del febbraio del 1945, scovato da Repubblica
in un cunicolo polveroso e tappezzato di ragnatele dell’archivio sotterraneo dell’ex Accademia militare
di Torino. Il documento è la sentenza di condanna di un uomo, Vitale Allasia, che fu catturato dalla
Guardia nazionale della Repubblica
di Salò mentre stava consegnando
le divise «ai ribelli del capobanda
Eugenio Fassino». Il tribunale militare di Torino, il 27 febbraio del
XXII anno dell’era fascista, aveva
dichiarato «Allasia Vitale fu Francesco colpevole del delitto a lui addebitato». E lo aveva condannato
«alla pena della reclusione per la
durata di anni sei e mesi sei».
Quando Piero Fassino, dietro la scrivania del suo studio romano di via Nazionale, s’è ritrovato fra le mani questa
sentenza che non aveva mai visto prima, e nella quale suo padre è defini-
IMAGOECONOMICA
Val Sangone (provincia di Torino) Maggio 1944 : formazioni partigiane in corvée, alla ricerca di viveri
to «capobanda dei ribelli», per un attimo s’è commosso: «La mia passione
politica è nata proprio nei racconti di
mio padre partigiano, e dall’aria della
Resistenza che mi ha fatto respirare
fin da bambino, quando mi portava a
tutte le commemorazioni».
In quella sentenza – venti fogli ingialliti dal tempo con il solo frontespizio
battuto a macchina e le altre pagine
scritte a mano – è narrato un aneddoto
del Fassino-partigiano sconosciuto anche al segretario diessino. Perché se il
segretario dei Ds sapeva, ovviamente, di essere figlio del comandante
dei «ribelli» della trentunesima Brigata Garibaldi – alpini e fanti che
avevano visto i disastri delle campagne di Russia e di Grecia – non sapeva, invece, che un uomo, Vitale Allasia, era arrestato dalla Guardia nazionale repubblicana, processato e condannato dal tribunale militare della
Rsi per avere tentato di procurare
l'abbigliamento militare ai partigiani su richiesta di suo padre.
Accadde a Torino
la notte del 10 novembre del 1944. A
un posto di blocco
«della barriera di Francia», i soldati della
Guardia repubblicana
fermarono un carro
trainato da un cavallo
Generazioni
«con il carico di sette
a confronto
casse e due colli» conEugenio
Fassino durante dotto dal carrettiere
la guerra
Giovanni Vasi. Su
partigiana
quel carro c’era pure
in Piemonte.
Allasia, che tentò di
Nella foto
giustificarsi spaccianpiccola, Piero
dosi per dipendente di
Fassino
una ditta di Rivoli, la
società anonima Fast. Allasia disse
che le centoventi divise di panno grigioverde contenute nelle casse dovevano essere distribuite allo spaccio
aziendale agli operai di fatica per �
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ITALIA
� PROVE DI RESISTENZA/1
APRILE
La Monterosa La brigata voluta da Mussolini durante la Repubblica sociale.
Le divise dei partigiani sarebbero state fatte con gli scampoli delle loro divise
in gioventù dal padre. Ed è lui, ora, a
raccontarle, rivelando del padre «capobanda» altri particolari inediti. Per
esempio, il fatto che la 31ª Brigata
garibaldina era stata ribattezzata
«banda Geni», dal nome del capo.
«“Geni” era mio padre. Lo stemma
della brigata era un rombo tricolore
con all’interno il cappello degli alpini
e il motto Dio in cielo, Geni in terra e
noi in ogni luogo». La banda Geni intervenne un giorno alla Sacra di San
Michele, dove i tedeschi avevano sequestrato dei novizi, fra cui il monsignor Riboldi, futuro vescovo di Acerra, per farsi dire dove erano stati nascosti degli ebrei. «I partigiani di mio
padre liberarono quei prigionieri, e
Salvato
dai «banditi»
GRAZIA NERI
l’inverno. Al posto di
blocco non gli credettero,
chiesero l’intervento dell’ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblichina.
Allasia fu torturato in via
Asti, sede della polizia di
Salò. Poi confessò: le divise erano destinate ai ribelli della 31ª Brigata garibaldina, le stava trasportando a Buttigliera
Alta per consegnarle «al
capobanda Eugenio Fassino». Proprio il padre del
segretario dei Ds – si apprende dalla sentenza –
aveva incaricato Allasia di
trovare il modo di fargli
confezionare divise di
panno per i suoi uomini.
Fassino, per la precisione, aveva
commissionato 240 capi pattuendo un
prezzo di 1300 lire l’uno e pagando un
acconto di 100 mila lire. Non era certo
facile, in piena guerra, riuscire a concludere quell’affare. Ma Allasia – che era
in collegamento costante con i partigiani e ne sosteneva l’azione – ebbe
un’idea geniale: aveva saputo che una
ditta, la Puci Gaetano e figli, aveva
avuto in subappalto da un’altra ditta,
la Robutti, la fornitura di duemila divise destinate ai volontari della divisione Monterosa, voluta da Mussolini (in
qualità di capo della Repubblica sociale italiana), per continuare a combattere, dopo l’Armistizio, al fianco dei
tedeschi. Dopo aver mandato una lettera minatoria alla Puci (firmandola
«volante rossa»), Allasia convinse il
piccolo imprenditore a confezionare,
con i ritagli di stoffa degli abiti della
Monterosa, anche le divise per i «ribelli» del «capobanda Fassino». Ottenute le divise, partì per andare incontro ai partigiani, ma – come s’è detto –
non riuscì a raggiungerli.
Man mano che scorre le pagine di
quella sentenza ingiallita del tribunale militare di Torino, Piero Fassino
rievoca le storie partigiane ascoltate
Monsignor
Antonio Riboldi,
vescovo
di Acerra.
Sequestrato,
con altri novizi,
dai tedeschi,
fu liberato
dalla brigata
guidata da
Eugenio Fassino
gli ebrei, nascosti nelle arche delle
tombe dei Savoia, furono salvi».
Ancora Fassino: «Mio padre fu catturato
due volte. La prima, gravemente ferito a
una gamba, fu scambiato con cinquanta
prigionieri tedeschi. La seconda, nel
marzo del ’45, fu condannato a morte
insieme ad altri compagni. Lo salvò,
incredibilmente, il comandante delle
Ss di Torino, il capitano Alois
Schmidt. «La guerra è finita e per noi è
persa» gli disse il nazista, «ma noi siamo soldati e dobbiamo fare fino in fondo il nostro dovere: fucilarvi. Il furgone
che vi porterà al poligono del Martinetto, però, avrà una porta aperta».
Il padre «capobanda», i partigiani,
l’occupazione tedesca: a cinque giorni dal 25 aprile, il pensiero di Piero
Fassino va alle migliaia di vittime della Resistenza. «Il revisionismo storico» dice «è da respingere, perché la
storia, con i limiti dovuti al fatto che
è sempre scritta dai vincitori, è solo
una. Verso tutti i morti bisogna avere
pietà, ma le ragioni per cui ciascuno è
morto non sono uguali. Oggi siamo
un Paese libero perché hanno vinto i
partigiani. Ma che cosa sarebbe successo se avessero avuto la meglio la
Rsi e i nazisti?».
Alberto Custodero
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