Ideologie economiche, vincoli giuridici, effettiva giustiziabilità

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Ideologie economiche, vincoli giuridici, effettiva giustiziabilità: il tema del debito*
CAMILLA BUZZACCHI**
SOMMARIO: 1. Vincoli giuridici: alcune osservazioni su discrezionalità, sulle decisioni di
spesa, sull’intervento pubblico nell’economia. – 2. La categoria costituzionale del debito e
la questione della sua sostenibilità. – 3. L’impiego dei nuovi parametri in sede di controllo
di costituzionalità. – 4. Le prospettive per politica fiscale e di bilancio.
1. Vincoli giuridici: alcune osservazioni su discrezionalità, sulle decisioni di
spesa, sull’intervento pubblico nell’economia.
Il titolo del seminario mi è risultato molto stimolante e pertanto ho cercato di rispondere alle tre tematiche che sono state indicate da un punto di vista che reputo di particolare crucialità e criticità: quello dell’ingresso della categoria del debito nel quadro costituzionale, affrontato sia in qualità di ideologia economica, che per i vincoli giuridici, sia infine
con attenzione all’effettiva giustiziabilità dei nuovi parametri costituzionali.
Comincerei affrontando il piano dei vincoli giuridici, interrogandomi sulla loro natura:
la domanda è quali siano i vincoli giuridici che stanno costringendo la finanza pubblica entro regole condivise tra livello europeo e livello interno, e a quale funzione rispondano.
Senza entrare troppo nel dettaglio di un quadro normativo noto, si tratta di una serie
di regole che in parte sono appunto europee, e che si possono far risalire alla fine del
2011: mi riferisco al blocco di norme del Six Pack europeo, poi recepito nel trattato intergovernativo del 2012 noto come Fiscal Compact, con l’aggiunta successiva del c.d. Two
Pack. Questo è il complesso di norme che fa da riferimento, benché poi ci sia tutto il percorso normativo precedente che risale fino al 1997 con il Patto di Stabilità e Crescita
(Brancasi, 1997). Invece il livello interno dei vincoli giuridici è costituito dalla revisione costituzionale del 2012 e dalla legge rinforzata attuativa della medesima (Brancasi, 2012, a,
b, c, d; De Ioanna, 2013, a; De Ioanna, 2015; Boggero, 2014; C. Bergonzini, 2014, a, b;
Buzzacchi, 2014; Buzzacchi, 2015).
Per dare una lettura del senso che ha avuto questo massiccio intervento normativo,
si può dire che esso ha inteso fornire dei vincoli ormai quantitativi, dei parametri di tipo
numerico, per cercare soprattutto di ridurre la discrezionalità nell’esercizio della vigilanza
sulle finanze pubbliche nazionali. Quindi l’idea è stata quelle di oggettivizzare i vincoli della
finanza pubblica, di ancorarli a dei parametri quantitativi che impedissero il ricorso alla discrezionalità, proprio perché quasi dieci anni prima questa valutazione discrezionale sui
bilanci pubblici era risultata molto palese. Mi richiamo alla sentenza della Corte di Giustizia
del 2004 (Rivosecchi, 2004), che aveva avuto ad oggetto una decisione del Consiglio dei
Ministri nella quale era risultato del tutto evidente che la determinazione di questo organo
era meramente politica e altamente discrezionale. Con l’aggiungersi della crisi economicofinanziaria successiva si è ritenuto che fosse ormai necessario eliminare la discrezionalità
da questo tipo di decisione e vi è forse stata l’utopia del ritenere che questo fosse possibile agganciando la vigilanza a formule matematiche, fra l’altro scelte piuttosto arbitrariamente. Questo limite l’avevano evidenziato gli economisti fin dagli anni Novanta: in fondo
la scelta di determinati parametri, invece che di altri, era poco giustificabile anche sul piano della scienza economica fino dall’avvio dell’unificazione monetaria (M. Degni, P. De
Ioanna, 2015).
La seconda osservazione è che, adottata questa linea, in realtà quelle stesse regole
sono state contornate da deroghe, che hanno molto allentato la rigidità dei vincoli. Nello
*
Relazione al seminario interdisciplinare “Ragionando sull’equilibrio di bilancio- La riforma costituzionale del 2012 tra
ideologie economiche, vincoli giuridici ed effettiva giustiziabilità”, organizzato dall’Università di Ferrara – Dipartimento
di Giurisprudenza e svoltosi a Ferrara, il 1 febbraio 2016.
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stesso Fiscal Compact, in fondo, si individuano tutta una serie di fattori, in presenza dei
quali la valutazione della Commissione – che è l’organo deputato a valutare la presenza
del disavanzo ed eventualmente ad avviare la procedura a carico di uno Stato – può non
applicare i parametri numerici, o comunque valutarli in collegamento con il contesto economico di ogni singolo Paese: ad esempio quanto il Paese investa in infrastrutture, quanto
vengano utilizzati gli investimenti pubblici, quanto sia sana la finanza privata, quanto lo
Stato investa in politiche che aiutino la crescita economica, quanto esso sia impegnato in
riduzione della spesa, soprattutto sul lato pensionistico; infine l’apprezzamento riguarda
se, ed eventualmente quanto, un Paese si stia avvalendo di strumenti di assistenza finanziaria da parte di istituzioni internazionali. Dall’insieme di questi apprezzamenti può discendere una decisione della Commissione UE che in sostanza non applica i parametri
numerici del Fiscal Compact e degli altri atti normativi.
Quindi la prima valutazione è che in effetti i vincoli giuridici sono stati posti, ma che
da quando ciò è avvenuto essi non sono praticamente quasi stati applicati: perché immediatamente la stessa Commissione ha fatto uso di questi altri fattori per stabilire che, anche nei casi in cui tali vincoli non venivano rispettati, non ci fosse da avviare la procedura
di infrazione.
In più, ed è cronaca di questi mesi, subito si è innescata la richiesta da parte di alcuni Stati di quella che viene chiamata “flessibilità”, ovvero che le regole possano essere
applicate con forte elasticità: c’è appunto una comunicazione della Commissione dell’inizio
del 2015 intitolata proprio alla flessibilità – Sfruttare al meglio la flessibilità consentita dalle
norme vigenti del Patto di stabilità e crescita, COM (2015) 12 – ed è attuale il dibattito fra
la Commissione e il nostro Governo su chi abbia avuto il merito di aver portato a questa
decisione.
Ciò che pare meritevole di essere indagato è il senso e la portata di questa flessibilità di cui tanto ora si parla. È un termine per ora ambiguo, perché occorrerebbe capire se
si tratta di un recupero di quella discrezionalità che si voleva eliminare o se si tratti di altra
cosa. Il dubbio è che si sia ancora nel campo di una scelta che rimane fortemente politica,
essendo affidata al Consiglio dei ministri dell’Unione: ma per flessibilità potrebbe intendersi altro, e francamente è difficile stabilirlo dagli atti europei, e anche dalle decisioni che la
Commissione sta prendendo in questi ultimi mesi. Mi è sembrato utile un contributo pubblicato il 31 gennaio 2016 sul quotidiano Corriere della Sera a firma del politologo Maurizio
Ferrera che, commentando i passi del nostro Governo, cercava di dare contenuto alla nozione della flessibilità, che comunque dovrebbe essere qualcosa di regolato – quindi ancora una volta non lasciato alla discrezionalità – e comunque funzionale esclusivamente ad
una prospettiva di crescita. Ciò significherebbe che per ottenere flessibilità dei vincoli giuridici non dovrebbe bastare chiedere semplicemente che non si applichino i parametri numerici, ma occorrerebbe dimostrare che la non applicazione sia funzionale a permettere
ad un Paese di innescare processi virtuosi e, soprattutto, il punto dovrebbe essere che gli
Stati che volessero avvalersi di questa flessibilità ormai dovrebbero cercare di dimostrare
che essa ha un ritorno in una logica comune dell’Unione, non in una dimensione puramente nazionale. Evidentemente questa definizione non esaurisce la riflessione su tale nuova
dialettica della flessibilità: ho solo voluto riportare un minimo contributo alla costruzione
della nozione, che risulterà definita in realtà soprattutto nel gioco dei rapporti di forza tra gli
Stati, e soprattutto tra essi e le istituzioni europee. Il nodo che resta da capire è se ciò di
cui si sta parlando sia di nuovo la “vecchia” discrezionalità o se vi sia qualcosa di diverso:
qualcosa che comunque conferma nuovamente che l’applicazione dei vincoli giuridici europei non sta avendo luogo con le modalità con cui era stata pensata.
Vero è, però, che la loro introduzione ha avuto una conseguenza importante, sia sul
livello europeo che su quello interno. Sul livello europeo perché ha introdotto una qualche
forma di controllo giurisdizionale su questi vincoli, che prima era assente. Il precedente è
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la sentenza del 2004 della Corte di giustizia, ma quella decisione è stata solo il frutto di un
controllo sulla procedura per l’applicazione; mentre, invece, ormai l’art. 8 del Fiscal Compact prevede che le parti contraenti (cioè gli Stati) si appellino alla Corte di giustizia se ritengono che un altro Stato sia manchevole nel recepire costituzionalmente i vincoli; oppure si appellino quando già sia intervenuta una sentenza della Corte di giustizia di condanna dello Stato, e lo Stato non si sia ancora conformato, e in tal caso una delle parti contraenti potrebbe addirittura richiedere sanzioni alla Corte di giustizia. Non è una differenza
da poco rispetto a prima, soprattutto sul piano delle relazioni intergovernative: un controllo
giurisdizionale a livello europeo è ormai ufficialmente riconosciuto, anche se è poco immaginabile il suo impiego.
E il controllo è anche riconosciuto a livello interno, perché dal 2012 si inizia a parlare di giustiziabilità delle regole contenute nell’art. 81 Cost. Passando quindi con l’analisi a
tale livello, penso che il nuovo art. 81 sia una delle riforme costituzionali più incisive che
siano mai state approvate – e il giudizio non è tanto di apprezzamento, quanto nel senso
di evidenziare la portata epocale della svolta, adeguata o inappropriata che sia, nel quadro
delle revisioni che si sono finora succedute – perché l’idea di regolare la finanza pubblica
non più sotto il profilo procedurale, come risultava dalla disciplina del vecchio art. 81, ma
ormai sotto il profilo dei contenuti, determina un cambio di passo incredibile, che si avvertirà quando sarà effettivamente applicato.
Grazie al nuovo art. 81 entrano in Costituzione due nozioni che prima non erano
espressamente previste: quella dell’equilibrio e quella del debito pubblico. Due concetti
prettamente economici acquistano riconoscimento dalla fonte giuridica di massimo rango e
diventano così potenzialmente giustiziabili.
Mi soffermerò maggiormente sull’aspetto del debito pubblico, e tuttavia prima vorrei
però esprimere qualche considerazione sulle novità di questa disposizione, che secondo
me contiene qualcosa di davvero nuovo e profondamente diverso rispetto alla sua formulazione precedente, perché indica ormai un obbligo di risultato, che è appunto l’equilibrio
tra le entrate e le uscite, da cui consegue anche la decisione sul ricorso all’indebitamento.
Questo obbligo di risultato, insieme al fatto che si vada a perdere la distinzione tra leggi di
spesa e leggi di bilancio – che sembrano ormai sullo stesso piano – rappresentano novità
rilevanti, che ancora non si possono valutare perché ancora non si sta dando applicazione
alla norma. La legge di bilancio continua ad essere approvata secondo la vecchia formulazione, e si tratta quindi tuttora di una legge che dovrebbe essere volta a garantire una procedura, un’autorizzazione che segnala un preciso rapporto tra organi: Parlamento e Governo. La sua applicazione può essere stata ed essere ancora oggi diversa, come la dottrina ha ben approfondito (Bergonzini, 2014), soprattutto a partire dal d. l. 112/2008 che
per la prima volta ha sostitutivo la manovra economica, ma con un percorso di avvicinamento precedente di poca fedeltà al dettato costituzionale. Quello che non poteva essere,
alla luce della vecchia versione, era che il bilancio fosse una legge con un contenuto normativo che riguardasse dei fini, e i fini sono i bisogni della collettività: materia che, secondo il vecchio art. 81, doveva rimanere compito e ambito lasciato alle leggi di spesa. Leggi
di spesa come fonti deputate a dare risposta ai bisogni della collettività, quindi incaricate di
scegliere i fini e di normarli, disciplinando la risposta da dare a questi fini; legge di bilancio
come decisione relativa al documento contabile che fornisce garanzie procedurali sulla
scelta dei mezzi.
Questo era il quadro nella precedente prospettiva costituzionale, che nel nuovo impianto sembra destinato ad assoluta discontinuità: la legge di bilancio è ormai soggetta
anch’essa all’obbligo di copertura finanziaria, è capace di introdurre nuovi tributi e nuove
spese e diventa quindi una legge con un contenuto normativo che non ha mai avuto. Su
questo si verificherà nei prossimi anni quali saranno le ricadute.
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Alcuni problemi ed evoluzioni si possono già intravedere, e qui propongo una lettura
un po’ provocatoria. A me sembra che con questo art. 81 si potrà spostare quel nucleo di
disposizioni che formava la base della formula, che tanto si è utilizzata per anni, della c.d.
‘costituzione economica’. Sono conscia del fatto che si tratti di una formula molto criticata
e che va usata con precauzione ma, per intenderci, si è sempre individuato negli artt. 41,
42 e 43 le disposizioni su cui in sostanza si basa l’intervento dello Stato per indirizzare le
attività economiche pubbliche e private verso fini sociali.
Oggi ormai sembra che sia l’art. 81 la norma con cui lo Stato assumerà decisioni
politiche che incidono sulla sfera economica, che indirizzano le attività produttive, che indirizzano il sistema dei rapporti economici e sociali. Ritengo che questa possibile novità
qualche preoccupazione la possa dare: anzitutto perché la nuova formulazione dell’art. 81
sembra mettere al centro l’interesse finanziario, nel senso che la preoccupazione per dei
saldi (perché i vincoli numerici sono soprattutto dei saldi, che non dicono al decisore politico come deve essere la spesa pubblica, come deve essere l’insieme delle entrate: gli impongono preminentemente di rispettare dei saldi numerici) conduce a focalizzare
l’attenzione del decisore politico su un interesse che è più finanziario che economico. Inoltre, se il nuovo art. 81 è la nuova norma cardine della Costituzione economica italiana, va
tenuto presente che essa contiene un obbligo di risultato (equilibrio o pareggio, si usi
l’espressione che si preferisce) recepito dall’esterno, perché imposto da un trattato intergovernativo che ne ha chiesto il recepimento da parte degli Stati; e non è indifferente che
le decisioni dell’indirizzo politico-economico e dell’indirizzo politico-finanziario (Rivosecchi,
2007) siano soggette a questo vincolo di risultato che prima (anche se tanti hanno interpretato l’art. 81 come una norma che già dava questo vincolo) oggettivamente e testualmente non c’era. Io sento di allinearmi con chi sostiene che prima non si poteva leggere
l’art. 81 secondo questa visuale – quella di un imperativo ad approvare il bilancio in equilibrio o pareggio – e tra coloro che reputano che con questa nuova formulazione l’obiettivo
preteso sarà proprio quello richiamato.
2. La categoria costituzionale del debito e la questione della sua sostenibilità.
Passando alla seconda formula del titolo del seminario – le ideologie economiche –
rivolgerei l’attenzione alla grandezza del debito, che fa il suo ingresso ufficiale in Costituzione: nell’art. 81 per effetto delle regole sul ricorso all’indebitamento e nell’art. 97, in cui si
chiede a tutte le pubbliche amministrazioni di garantire la sostenibilità del debito. Ciò manifesta una novità non da poco.
Ho ritenuto di trattare il debito in relazione alle ideologie economiche, perché in
questo momento la categoria del debito non gode di grande apprezzamento e ha ormai
un’accezione quasi negativa; viene demonizzato, addirittura incriminato come lo strumento
che in questo momento sta minando i sistemi economici europei. Perciò mi sono sforzata
di proporvi alcune riflessioni per capire se questa sorta di demonizzazione del debito sia
fondata o meno, e come si possa collocare la categoria del debito nel nostro contesto costituzionale.
Richiamo appena alcune nozioni storiche. Il debito (Crismani, 2012; Pesce, 2015)
come lo concepiamo noi, come debito ‘pubblico’, è qualcosa che gli Stati usano da circa
due secoli. Ciò non significa che prima chi era al potere non lo utilizzasse, ma il suo impiego non aveva una rilevanza pubblicistica: il debito era concepito come uno strumento
che il sovrano utilizzava personalmente, privatamente, in casi di calamità e soprattutto di
eventi bellici; il sovrano si indebitava a titolo personale.
Dopo la rivoluzione francese, con la nascita dello stato di diritto, gli Stati cominciarono sistematicamente a finanziare la spesa in deficit attraverso lo strumento del debito,
benché all’inizio esso venisse considerato con molta precauzione, con molta cautela. Lo
Stato italiano nel 1861 introdusse il c.d. Gran libro del debito pubblico del Regno d’Italia,
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con cui si accollò tutti i debiti pubblici degli Stati appena annessi, e da quel momento in
avanti il Parlamento approvava, per ogni decisione di indebitamento, una legge, ma con
una discussione parlamentare attenta, perché ci si rendeva conto della delicatezza di questo strumento. Nel Novecento si arriverà, nel periodo tra le due guerre mondiali, a una
svolta culturale nei confronti di questa categoria, perché la scienza economica, con le teorie keynesiane, presenterà il debito come uno strumento totalmente positivo, con cui si
può fare una politica economica di tipo espansivo: quindi creare occupazione e permettere
la crescita economica. Si potrebbe dire che il debito abbia avuto un cammino di riabilitazione, e addirittura con le teorie keynesiane sia diventato una fondamentale leva per lo
Stato, per aumentare la crescita economica e sociale della collettività.
Porto anche qualche dato, per capire come sia stato utilizzato da noi in Italia. Nei
primi decenni del periodo repubblicano si presenta la seguente situazione: dagli anni ‘70 in
poi lo Stato comincia ad usare fortemente la leva del debito pubblico, in un periodo in cui
c’era ancora un basso livello di tassazione. In generale, qualsiasi Stato ha due strumenti
da utilizzare per finanziare la sua spesa: la leva del debito e la leva tributaria. La leva del
debito in realtà è anche abbastanza gradita sia ai cittadini che alle istituzioni – più gradita
della leva tributaria – perché in fondo il fatto che il privato presti soldi allo Stato è un sacrificio che presenta il vantaggio di produrre un ritorno economico in termini di interessi, mentre il prelievo fiscale è un sacrificio senza guadagni. Perciò, nel Novecento è stato facile,
anche da un punto di vista politico, utilizzare la leva del debito pubblico, perché comunque
risultava uno strumento più gradito ai governati. E in Italia c’è questo fenomeno per cui
dagli anni Settanta in avanti, in presenza di una bassa tassazione, lo Stato espande la
spesa pubblica con un crescente utilizzo del debito, fino a quando si arriverà all’inizio degli
anni Novanta, in cui c’è l’adozione della decisione di partecipare alla moneta unica, e viene chiesto al nostro Paese di mettere in moto un processo di convergenza che porti a ridurre il nostro disavanzo e il nostro debito. Nel 1995 era appena iniziato tale processo di
convergenza e l’Italia aveva un debito pari al 124.3% del Pil; è riuscita a rientrare nel giro
di un decennio, cioè nel 2007 a farlo diminuire di quasi 20 punti percentuali, portandolo al
104%. Ma tutti gli altri Paesi, i più avanzati, si aggiravano nello stesso momento intorno a
valori del 50, massimo 60%. Ciò impone di domandarsi che cosa fosse successo in Italia
nel periodo antecedente. C’era stata un’impressionante crescita del debito in presenza di
una distribuzione dei redditi molto abbondante, nel senso che la bassa tassazione che si
era applicata e la forte spesa pubblica realizzata dagli anni Settanta in avanti, specialmente la spesa pensionistica, avevano determinato un innalzamento del reddito degli italiani.
Quindi negli anni Novanta ci si trova con un Paese con forte ricchezza privata e alto livello
di debito pubblico, legato evidentemente ad un elevato livello di spesa. L’Italia sarà costretta ad avviare un percorso di rientro, con tutta una serie di interventi – alienazione di
beni, privatizzazione di enti pubblici, anche il ricorso ad una tassazione ormai molto più
massiccia – riuscendo appunto ad abbassare il debito, ma senza riuscire mai a scendere
sotto il livello di 100 in rapporto al Pil.
Ma quanto cambia, oltre a questi dati numerici, è il modo di concepire il debito, perché nel frattempo il sistema economico si era aperto agli altri mercati. Se prima
dell’unificazione monetaria per lo Stato era più agevole emettere debito, che veniva sottoscritto con facilità (perché in un’economia di tipo chiuso uno Stato riesce a decidere in
maniera abbastanza indipendente la remunerazione dei suoi titoli e quindi allora si riusciva
facilmente ad invogliare gli investitori), nel momento in cui le economie europee si aprono
reciprocamente questa logica del debito cambia. Lo Stato non è più così capace di governare i tassi di interesse perché anche investitori che vengono da contesti economici diversi cominciano ad investire nel debito pubblico del singolo Stato, evidentemente non solo dell’Italia: ormai i debiti pubblici degli Stati sono in mano ad investitori stranieri, fondi di
investimento, assicurazioni; in buona parte i prestiti derivano anche da istituzioni finanzia5
rie internazionali oppure da altri Stati. Questo fa sì che lo Stato perda la sua sovranità sul
rendimento del debito e cresca quel fenomeno (uno di quelli che ha portato a queste regole europee) per cui diventa fondamentale la reputazione, la credibilità nei confronti degli
investitori, che devono essere sicuri che lo Stato sia in grado di restituire il debito che ha
contratto (Pitruzzella, 2012). Da qui scaturisce tutta la vicenda del c.d. ‘spread’, ovvero
del valutare uno Stato in merito alla sua reputazione, alla sua capacità di restituire il debito. Però ciò significa che il debito è qualcosa che comincia a sfuggire alla sovranità dello
Stato, diventa una categoria meno controllabile.
Ma il discorso che qui interessa è che ormai il debito è una categoria del testo costituzionale. Nell’art. 81 si parla del “ricorso all’indebitamento”: non sto ad entrare nei dettagli
tecnici, che la migliore dottrina ha già studiato con pregio (Brancasi, 2012, a, b) andando
ad indagare che cosa si possa intendere per ricorso all’indebitamento – se solo le operazioni di rinnovo dei titoli o se accensione di debito nuovo – ma secondo me non è questo il
punto centrale in questo contesto di riflessione. Il nodo è che il debito viene visto fondamentalmente dal nuovo art. 81 come qualcosa da evitare – e da queste premesse io l’ho
catalogato quasi in chiave negativa nella nuova prospettiva costituzionale – e come uno
strumento che ordinariamente non deve essere utilizzato dallo Stato. Le condizioni costituzionali per ricorrervi sono il contrasto al ciclo economico negativo o il governo di eventi
eccezionali, e in ogni caso la puntuale disciplina del suo impiego è stata poi affidata alla
legge rinforzata attuativa, che è rappresentata dalla legge n. 243/2012. E di fatto la legge
n. 243 ha introdotto anche deroghe più ampie, prevedendo formule piuttosto elastiche, che
fanno immaginare che in fondo potremmo continuare a indebitarci abbastanza frequentemente, che la pratica del ricorso ai mercati finanziari non dovrebbe trovare ostacoli giuridici impegnativi. Le regole di tale disciplina sono tali per cui fintanto che ci troviamo in una
situazione di difficoltà economica – se non proprio di recessione, comunque di un certo
grado di rallentamento – non dovrebbe esserci alcun vero ostacolo giuridico a continuare a
ricorrere all’indebitamento.
Forse più problematico appare l’art. 97 Cost., nel quale è stato anteposto alle disposizioni già esistenti un primo comma che sembra essere quasi portatore di valenza
prioritaria rispetto agli altri. Cioè sembra che le pubbliche amministrazioni in prima battuta
debbano preoccuparsi di garantire la sostenibilità del debito pubblico, oltre che l’equilibrio.
E se qui riflettiamo su come oggi è costituito il debito pubblico, in mano a chi è il debito
pubblico di uno Stato, pensare che per le pubbliche amministrazioni diventi preminente garantirne la restituzione all’investitore, qualunque esso sia, piuttosto che perseguire le finalità di pubblico interesse della comunità italiana, suscita sconcerto: mi sembra che il fatto
che questo sia diventato il valore primo che devono rispettare le pubbliche amministrazioni
qualche preoccupazione la possa dare.
Aggiungo una considerazione ulteriore di diritto costituzionale: altra, secondo me, è
la disposizione alla quale occorre ancorare il debito pubblico ormai definitivamente introdotto in Costituzione dagli artt. 81 e 97. Benché si tratti di una disposizione di cui poco si
parla, limitatamente commentata e meditata – l’art. 47 – io ritengo che laddove tale norma
parla delle due grandezze del risparmio (Cerrina Feroni, 2011; Guizzi, 2005) e del credito
(oltre che della moneta, che non governiamo più direttamente) essa rappresenti il riferimento più coerente per ragionare in tema di debito pubblico. I Costituenti non potevano
certo immaginare che leve sarebbero diventate risparmio e credito in un sistema economico dai tratti così finanziari e tanto vincolato al debito, ma se ragioniamo oggi in termini di
debito pubblico sarebbe davvero necessario non dico riscrivere, ma almeno assegnare
una nuova lettura a questo art. 47, che veda il risparmio, oltre che come forma di proprietà
privata (che in fondo è già tutelata dall’art. 42), anche nella sua valenza pubblicistica: perché il risparmio dei soggetti privati può diventare il sostegno del debito pubblico. Così come lo è il credito, e questa osservazione rimanda alla vicenda di questi giorni, in cui emer6
ge chiaramente il quadro nostrano di una massiccia esposizione di varie banche, in situazione di sofferenza, che hanno in mano titoli del debito pubblico italiano. Questa circostanza innegabile conduce ad allargare la visuale: se è verissimo che il credito sia ovviamente
un’attività economica dei privati, oggi non si può altresì ignorare quanto la medesima attività sia fortemente coinvolta nel sostenere l’indebitamento dello Stato. Andrebbe riletta e valorizzata la disposizione su cui si basa questo strumento così importante. Se si riflette, ad
esempio, sulla direttiva europea che prevede il c.d. bail in – la direttiva 2014/59/UE che
istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento – appena entrata in applicazione, si percepisce una filosofia nuova delle istituzioni europee. Allorché il governatore della banca centrale italiana ha segnalato, a inizio
2016, la necessità e l’opportunità che questa disciplina comunitaria possa essere rivista, la
Commissione ha risposto precisando i valori perseguiti dalla direttiva: più precisamente,
l’organo esecutivo europeo ha chiarito che la scelta di fondo della normativa è che delle
due figure, quella dell’investitore e quella del contribuente, ormai da tutelare è prevalentemente quella del contribuente, mentre l’investitore può venire chiamato a pagare per i salvataggi bancari. Anche qui, da un’attenta lettura dell’art. 47, ci si potrebbe chiedere se
l’investitore è invece un soggetto che siamo tenuti a tutelare e a proteggere: perché in
fondo la sua prima caratterizzazione è quella connessa al suo guadagno privato, ma potremmo vederlo anche come un soggetto che può essere fondamentale in un’ottica pubblicistica.
Ancora un’osservazione in tema di art. 47 Cost., per ribadire ulteriormente questa
convinzione della necessità di uno studio più attento di tale disposizione. Se si parte da
uno dei commenti più autorevoli che l’hanno riguardata, quello di Fabio Merusi sul Commentario Branca, è interessante l’impostazione proposta: il collegamento che l’autore individua tra risparmio, moneta e credito è all’equilibrio, ma qualificato in termini di “equilibrio
economico”, e non finanziario: e lo studioso illustre sostiene che per raggiungere questo
equilibrio il primo fattore debba essere l’occupazione. A questo mi riferivo quando parlavo
di una rilettura dell’art. 47: occorre secondo me una lettura nuova di questi beni costituzionali, di queste categorie oggi così centrali nel sistema e nella dinamica economica, come
valori comunque sempre da subordinare all’obiettivo della piena occupazione, che è
l’unico che tiene in equilibrio un’economia.
Insomma, la riflessione fin qui proposta è volta ad ampliare l’analisi che pare necessaria per comprendere l’ingresso in Costituzione della nozione di debito pubblico, che
a quanto pare è suscettibile di coinvolgere altre disposizioni oltre agli artt. 81 e 97, su cui
occorre ragionare e che vanno interpretate sistematicamente.
Passando alla prospettiva dell’ammissibilità del ricorso al debito – non sul piano
procedurale, ma in relazione al suo utilizzo – e della sua sostenibilità – che è ormai un bene costituzionale – la prima indicazione a cui occorre misurarsi è quella della teoria economica, secondo la quale, in sostanza, il debito è ammissibile se c’è coincidenza temporale tra oneri da sostenere e benefici da percepire. Quindi una generazione non dovrebbe
poter avere solo i benefici e un’altra solo gli oneri.
Se si passa alla decisione politica, il discorso economico viene tradotto nel senso
che un ricorso sano al debito pubblico è quello che va a finanziare spese di investimento:
ma ciò rinvia alla valutazione politica nella definizione di qual è la spesa per investimenti.
Spesa per investimenti dovrebbe essere quella che determina crescita nel sistema non solo di carattere economico: crescita che genera anche una stabilità che non può essere valutata solo in termini economico-finanziari. È stabile quel sistema dove tanti altri aspetti
vengono tutelati. Si potrebbe addirittura sostenere che lo stesso pagamento degli interessi
potrebbe essere letto come spesa di investimento, quando invece questo dato viene normalmente scorporato: ciò dimostra quanto sia sfuggente la definizione di spesa di investimento, e quanto risponda a valutazioni complesse. È difficile stabilire qual è la spesa cor7
rente, quella per consumi, e quale sia invece quella capace di generare benefici duraturi,
che quindi merita di essere sostenuta con l’indebitamento. La regola tradizionale vorrebbe
che la spesa per consumi che esauriscono le loro ricadute contestualmente all’erogazione
venga sostenuta con entrate correnti, e non con il debito, ammissibile invece se i vantaggi
si ripercuotono in un orizzonte temporale più lungo.
Ma passando invece a ragionare sulla qualificazione della spesa (De Ioanna, 2013,
b), ovvero su quale sia la spesa ‘buona’ e ‘sana’, l’osservazione che sorge è quella di dubitare della qualità della spesa che c’è stata in questi ultimi anni e decenni. Attualmente in
Italia ci si attesta su un valore che va oltre il 130% di debito, e benché anche da parte degli economisti si dica che non sono sani solo quei Paesi che hanno un livello di debito
pubblico basso, perché potrebbe trattarsi in realtà di economie stagnanti, tuttavia qualche
perplessità intorno al livello che ci caratterizza è legittima, a mio parere. Non è la grandezza del debito in assoluto che dà la misura del sistema sano o poco virtuoso; sistemi sani,
se sono in crescita, giustamente hanno un livello più alto di indebitamento. Ma il criterio
per stabilire la produttività di tale indebitamento non può, appunto, che essere la capacità
di crescita effettiva di un sistema economico e sociale nel suo complesso (Ciolli, 2012).
Se si cala il discorso sull’Italia, viene appunto da chiedersi: un livello di debito come
quello che abbiamo è compatibile e coerente con una crescita così deludente? Solo da tale valutazione, a mio avviso, può derivare un giudizio negativo sul debito. Un elemento significativo è che in questi ultimi anni la nuova impennata del debito pubblico è stata in larga parte determinata anche dalla nostra partecipazione ai fondi di salvataggio internazionali, cui abbiamo concorso non per generosità o perché volessimo salvare le economie
greca, irlandese o portoghese, ma perché eravamo i loro creditori: quindi non conveniva
farli fallire. Conveniva di più andare a sottoscrivere prima l’EFSF, poi l’EMS per permettere
a quelle economie di non andare in default. In più i sistemi economici sono talmente collegati tra loro che effettivamente le ripercussioni degli andamenti economico-finanziari sono
generalizzate: se c’è il default di un singolo Stato, c’è poi una diffusione degli effetti negativi nei confronti di tutti, e questo aspetto va considerato.
Certo, un alto livello di debito determina poi la questione della sostenibilità finanziaria del medesimo, che indubbiamente dovrebbe essere centrale come valore costituzionale, nonostante le osservazioni appena compiute su come questo valore abbia fatto il suo
ingresso nell’art. 97 Cost. E la centralità di tale valore riguarda la prospettiva futura, perché se può essere condivisibile che non esistono dei veri e propri diritti delle generazioni
future – tanto dibattuti nella dottrina costituzionalistica – è però evidente che ci deve essere una visione di lungo periodo, e quindi la generazione presente non ha diritto a consumare tutte le risorse, lasciandone prive quelle che seguiranno. Quello che si può concludere, in tema di debito, è dunque che le decisioni che lo riguardano siano altamente politiche, oltre che tecniche; che non sia così facile determinare cosa può essere coperto finanziariamente con esso e cosa invece no; e che la sua contrazione non può andare disgiunta da un’attenta considerazione della sua sostenibilità nel tempo.
3. L’impiego dei nuovi parametri in sede di controllo di costituzionalità.
Sull’ultimo aspetto del seminario, quello della giustiziabilità, propongo qualche osservazione non tanto sulla giurisprudenza su cui si è più ragionato in questo ultimo anno
2015 (cioè le sentenze con cui si è fatto il bilanciamento tra l’art. 81 e altri valori costituzionali: la 10, la 70 e la 178), perché mi è sembrato più significativo riflettere in merito alle
decisioni che hanno interessato le Regioni speciali (F. Guella, 2015).
Non entro nel merito dei problemi che riguardano l’autonomia finanziaria. Mi ha interessato piuttosto come in questa giurisprudenza gli argomenti che la Corte costituzionale
sta continuamente invocando siano spesso gli artt. 81 e 97 Cost., a fronte di doglianze che
concernono la violazione degli statuti differenziati. Questa giurisprudenza nasce dalla con8
testazione regionale di molteplici disposizioni statali che vanno a creare il c.d. ‘concorso’
delle autonomie speciali agli obiettivi di finanza pubblica e della sostenibilità del debito. C’è
tutta una serie di ricorsi delle Regioni speciali, che lamentano il fatto che i tributi erariali
che spetterebbero loro per statuto rimangono nella loro titolarità ma vengono utilizzati dallo
Stato per andare a sanare il proprio debito pubblico. Ed è curioso che questa richiesta
venga definita con la formula della ‘solidarietà finanziaria’, categoria che può presentare
ambiguità laddove utilizzata per prescrivere alle autonomie una sorta di ‘soccorso’ alla
massiccia esposizione debitoria dello Stato. Il concetto andrebbe chiarito, nella misura in
cui si distingue tra una vera solidarietà tra territori – che ovviamente è un fondamentale
valore costituzionale – e la pretesa che le Regioni debbano rinunciare a risorse loro spettanti, per sostenere il debito pubblico dello Stato contratto per utilità che non necessariamente impongono una logica perequativa. Da qui nascono le sentenze della Corte che si
sono accumulate soprattutto nel 2015, e l’aspetto particolare è che il giudice in sostanza
usa quasi sempre come argomento il ‘coordinamento finanziario’ e dà una lettura dello
stesso sempre in termini di strumento che “garantisce la salute della finanza pubblica” e
che serve a “preservare l’equilibrio economico-finanziario del complesso delle amministrazioni pubbliche”, “garantire l’unità economica della Repubblica”: letto con questa valenza, il
coordinamento finanziario (Rivosecchi, 2012) è visto come funzionale a garantire i valori
contenuti negli artt. 81 e 97, ed in forza di questa interpretazione è agevole per la Corte
avallare decisioni unilaterali dello Stato nei confronti delle autonomie speciali. Essa si dice
consapevole che esiste tutta una normativa che garantisce il metodo pattizio (Padula,
2015): l’art. 27 della legge delega 42/2009 è la norma di riferimento, ma la Corte sostiene
che non si possa utilizzarla, perché reputa preminenti i valori perseguiti dal coordinamento
finanziario, cioè quelli degli artt. 81 e 97.
La Corte arriva ad utilizzare formule ed espressioni che ormai non si rifanno neanche più a parametri costituzionali. Questa negazione del principio pattizio e della via negoziale fra lo Stato e le Regioni speciali viene giustificata dall’emergenza finanziaria, dalla
“tempestività degli adempimenti nazionali rispetto alle cadenze temporali tipiche del sistema europeo di coordinamento delle politiche economiche degli stati membri”. Il giudice
delle leggi usa ormai dei parametri che non sono nemmeno quantificabili ed oggettivi: cosa
va considerato in termini obiettivi per obbligo di “tempestività”, che impedisce allo Stato di
andare a concordare con una Regione in che misura la Regione rinuncia alle risorse che
le spettano, per lasciarle utilizzare allo Stato?
Se questo non è esattamente il tema della giustiziabilità, perché qui è in gioco un altro tipo di utilizzo dell’art. 81, mi sembra però interessante aggiungere alla riflessione di
tanti, relativa alla difficile giustiziabilità dell’equilibrio tra entrate e spese, questo ulteriore
elemento, ovvero la facilità con la quale la Corte utilizza tale parametro non sulla base di
ricorsi su esso fondati, bensì per andare a comprimere un’autonomia finanziaria particolare quale è quella delle Regioni speciali. Un’osservazione di chiusura riguarda una recente
sentenza in materia emanata a inizio del 2016, la n. 3, che non si richiama neanche agli
artt. 81 e 97 nel dirimere doglianze regionali, ma invoca direttamente l’art. 4 del Fiscal
Compact. Ormai il parametro sembra essere direttamente il trattato intergovernativo, la cui
mediazione attraverso il testo costituzionale è irrilevante per comprimere l’autonomia finanziaria degli enti.
Se poi ci si domanda se questo modello sia compatibile con l’autonomia, mi sembra
che la chiave di lettura sia lo specifico rapporto tra la decisione di bilancio e la rappresentanza: un riferimento rilevante è la sentenza della Corte costituzionale n. 165/1963, secondo cui il compito principale delle assemblee elettive è la decisione di bilancio, in ragione della quale esse sono nate. Se è vero che occorre una decisione politica dei rappresentanti per stabilire il livello di spesa e il livello di entrate, il vigente rapporto fra Stato e
Regione, per come è configurata l’autonomia finanziaria in questo momento – per cui non
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esiste tuttora il vero tributo ‘proprio’ delle autonomie – pare segnalare che ci sia un grave
vuoto a livello regionale: a chi rispondono i Consigli regionali della tassazione che non deliberano? Se ormai si accetta che a livello regionale non ci sia alcuna responsabilità delle
assemblee elettive sulle decisioni di entrata (mentre sulle decisioni di spesa si può dire
che ancora ci sia), allora un sistema di questo tipo, che esclude l’imposizione propria degli
enti, è compatibile. Lo Stato può intervenire sulla finanza regionale perché è lui l’unico titolato a deciderne: e ciò è vero in larga misura per la finanza di entrata, ma ormai anche per
la finanza di spesa, perché i limiti di spesa sono ormai pervasivi. La giurisprudenza del
2015 ha ampiamente ritenuto che tali limiti siano costituzionali, fintantoché fissino un limite
complessivo: si può poi discutere sulla natura di tale ‘complessività’ del limite, perché è
noto che le leggi statali impugnate dalle Regioni prevedono nel dettaglio tutta una serie di
spese che non possono essere effettuate. Nella misura in cui ci sono delle relazioni finanziarie di questo tipo, è evidente che anche un meccanismo di utilizzo dell’equilibrio di bilancio nei rapporti Stato/Regioni di questa natura finisca per essere ammissibile e coerente, ma francamente non si può non evidenziare il basso rispetto del principio autonomistico.
4. Le prospettive per politica fiscale e di bilancio.
Concludo con una posizione già sostenuta: nella prospettiva dell’integrazione europea ritengo che l’elemento di ‘mostruosità’ continui ad essere la separazione fra politica fiscale e politica di bilancio: che ormai non possono più andare disgiunte. Se mai le si sposterà a livello europeo, andrà evidentemente ritoccata l’architettura della rappresentanza,
perché non è pensabile una decisione di bilancio europea che non coinvolga i meccanismi
della rappresentanza, che adesso sono praticamente assenti. Attualmente rimane a livello
nazionale una decisione politica, mentre la vigilanza è affidata al livello europeo perché la
moneta è governata da quelle istituzioni. Ritengo che se non si avrà il coraggio di superare
questo guado e di portare l’integrazione europea alle suo coerenti conclusioni – si potrà
poi chiamare il risultato ‘federazione europea’ o diversamente – il contesto di governo europeo rimarrà inefficiente ed iniquo: si tratta di due politiche che separate non possono
stare. Quindi o le si riporta entrambe, in una prospettiva anti-europeista, a livello nazionale, e si abbandona il disegno europeo: e allora ogni Stato ritorna pienamente sovrano sia
della sua moneta che della sua decisione di bilancio, nonché delle politiche fiscali vere e
proprie, quelle dedicate al prelievo. Oppure le si assegna complessivamente all’istanza
europea, ma rivedendo necessariamente i meccanismi rappresentativi ed i processi decisionali.
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** Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi Milano Bicocca.
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