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estratto alle ore 10:04 La voce di Mina tra le piramidi della Stazione Centrale di Napoli

Il brusio di piazza Garibaldi continua a fluire, scivolando alle mie spalle (link alla tappa precedente). Imbocco Corso Novara, camminando sul marciapiede alberato che costeggia il fabbricato viaggiatori in vetro e acciaio della Stazione Centrale. La luce del primo pomeriggio screzia il pavé, passando attraverso gli spiragli lasciati dalle foglie fitte e ormai verdi, germinate seguendo il codice dei cicli stagionali. La superficie dei tre grattacieli degli uffici delle FS è scintillante come uno specchio sul quale le onde sonore disegnano figure progressivamente concentriche. La disposizione dei tre edifici, uniti in una sorta di stella a tre punte, evoca un simbolismo ritmico, evidentemente riferito all’ondata di architettura razionalista che investì Napoli dagli anni ’30.

Proprio in quel periodo vennero costruiti, tra gli altri, il Palazzo delle Poste, in piazza Matteotti, il Palazzo dell’Intendenza di Finanza, in via Diaz, il Mercato Ittico, in piazza Duca degli Abruzzi. Gli alti palazzi di vetro furono inaugurati nel 1966, come ultimo atto dell’ambizioso piano di riqualificazione della vecchia stazione, edificata nel 1866 in stile neorinascimentale e liberty, gravemente danneggiata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e definitivamente smantellata per far posto a quella attuale, aggiornata ai modi dell’architettura occidentale del secondo dopoguerra. Il progetto definitivo fu approvato, in seguito a un concorso nazionale, nel 1954 e ibridava le proposte avanzate da due gruppi di architetti. Pierluigi Nervi, Bruno Zevi e Luigi Piccinato, i nomi più in voga in quelle decadi, facevano parte dei diversi schieramenti ma, insieme, i tre avevano fondato, nel 1945, l’Associazione per l’Architettura Organica.

Oggi, il complesso della Stazione Centrale, pur con i rimaneggiamenti degli ultimi anni, esprime ancora il fascino retrofuturista di un’ipotesi mai arrivata a compimento. In ogni sezione della sua struttura allungata e squadrata, si moltiplicano le forme triangolari, dalla distesa di piramidi del tetto – che in linea con i dettami dell’Architettura Organica dovevano rimandare agli steli d’erba agitati dal vento – ai pilastri a tre braccia. Una simile tripartizione degli elementi slancia la costruzione con un’eleganza instabile, tutti gli elementi sembrano adattarsi a una condizione biologica di movimento, seguendo traiettorie oblique e incrociandosi in determinati punti dello spazio, traducendo, nella solidità dell’acciaio e del cemento, gli attraversamenti evanescenti della varia umanità che la popola. Tra queste poderose spinte strutturali, si agitano ancora alcuni residui di quella volontà, oggi dimenticata, di immaginare il futuro con la fiducia di poterlo concretamente influenzare, « il futuro non è più quello di una volta», scriveva sardonicamente Arthur C. Clarke, l’autore di 2001: odissea nella spazio e Le fontane del paradiso. E proprio tra queste architetture enigmatiche, ancora irrisolte, è ambientata la clip di Se telefonando, scritta nel 1966 da Maurizio Costanzo e musicata da Ennio Morricone, in cui Mina, vestita di cavi neri, si affaccia su piazza Garibaldi, sulle vetrate del corpo centrale della Stazione, sulla distesa metallica della linea ferroviaria, sul cantiere della pensilina degli autobus che, in quegli anni, era ancora in costruzione. I potenti gesti espressivi della grande cantante si accordano armonicamente alle strutture, l’impostazione è vagamente fantastica, onirica e non è un caso, perché il video fu girato da Piero Gherardi, architetto e scenografo, stretto collaboratore di Federico Fellini e vincitore di due premi Oscar per i costumi di La dolce vita e 8½.

Il tratto di Corso Novara fino all’incrocio con Corso Meridionale, l’ultima svolta verso la mia meta, è breve ma questi pochi metri segnano un drastico passaggio di atmosfera, si estendono come un’escrescenza brutalmente solida, innestata su un corpo gassoso per qualche imprecisione chimica. L’aggregazione sfaccettata di colori, odori e linguaggi che caratterizza piazza Garibaldi vira verso un tono ferroso, reso uniforme dal grigio che si è depositato sui moderni materiali da costruzione. Alcuni uomini, seduti sulle panchine all’ombra, guardano distrattamente il loro riflesso sulle carrozzerie delle automobili incolonnate nel traffico. Hanno capelli corti, la pelle del volto è spessa sotto la barba ispida. Altri stanno disponendo con cura, su lenzuoli logori e stesi direttamente sul marciapiede, plastiche e lamiere trovate agli angoli delle strade, metri e metri di cavi strappati dalla corrente elettrica, frammenti contorti che si trascinano boccheggiando verso una nuova, insperata utilità. Un lato di Corso Meridionale è quasi interamente occupato da un prefabbricato a tre piani destinato agli uffici della Stazione. Tre ordini di decine di finestre cadenzano una prospettiva allungata, la cui monotona severità è accentuata dal lento movimento dei rotori di alcuni condizionatori. L’altro lato è intasato di negozi di elettrodomestici, pasticcerie, bar, una famosa gioielleria, hotel. Sul segmento di marciapiede occupato una ricevitoria di scommesse dal nome altisonante, una massa di scontrini pieni di fitti caratteri neri si agita grottescamente, accompagnando lo spostamento d’aria delle automobili. I ritmi delle relazioni sono diversi da quelli della Piazza, qui è tutto molto silenzioso e si esaurisce in alcuni sguardi, in parole precise e gesti rapidi. Si cammina più velocemente e si guarda di sfuggita, per caso.

In fondo, si intravedono gli alti palazzi del Centro Direzionale che, per un inganno ottico, sembrano oscillare nel vuoto.

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