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PRIMO PIANO
Venerdì 22 Aprile 2016
I tedeschi di Italcementi disertano l’incontro col governo per discutere di 400 tagli
Capitali stranieri con le zanne
I francesi di Parmalat mettono sul pack gli allevatori
DI
SERGIO LUCIANO
«E
in questo momento penso anche alle
tante crisi aziendali italiane. Penso a Meridiana, penso a Italcementi», ha detto il presidente
del Consiglio Matteo Renzi,
parlando dopo la sua vittoria
personale sul referendum.
E fa bene a pensare all’Italcementi, non solo perché i 400
tagli annunciati dal gruppo tedesco Heidelberg Cement sono
una mazzata per l’occupazione,
ma anche perché sono un segnale del rischio che un paese
corre quando confonde gli investimenti stranieri virtuosi
(quelli, ben vengano, che creano occupazione e ricchezza) con
le aggregazioni subalterne.
Lo stile dei tedeschi, nella
vicenda Italcementi, ricorda
quello dei francesi di Lactalis
nel caso Parmalat: invasioni
barbariche. Probabilmente non
c’è nulla da fare. Ma almeno,
analizzando i fenomeni, si può
capirli meglio e prevenirne il
ripetersi.
Dunque, il 5 aprile scorso, i capi della Heidelberg
avrebbero dovuto incontrare
il viceministro dello Sviluppo
economico Teresa Bellanova
per discutere al massimo livel-
Bernd Scheifele, ceo di Heidelberg Cement
lo delle necessità organizzative
che individuavano in Italia, ma
se ne sono fregati altamente,
disertando l’incontro e annunciando unilateralmente,
con un comunicato, i tagli a
Bergamo.
In politica, sarebbe uno sfregio da protesta formale del
ministero degli Esteri. L’economia, si sa, è il regno delle nonregole, ma lo sfregio rimane: «A
chi ha pensato di veicolare un
messaggio a mezzo stampa, diciamo che in questo paese con
le istituzioni ci si confronta»,
ha detto la Bellanova.
Auguri. E intanto a Genova,
la Parmalat «francesizzata» ha,
da un giorno all’altro, smesso
di ritirare 60 quintali al giorno di latte dai produttori della
cooperativa Val Polcevera e da
alcuni altri, ai quali non ha
rinnovato il contratto scaduto
il 31 marzo, offrendogli 25 centesimi al litro contro i 36 che
costa. E di fronte al rifiuto dei
produttori genovesi, che vendendo sottocosto soccomberebbero, i francesi hanno reagito
voltando le spalle alla Liguria,
e stanno trasferendo i loro acquisti in altri mercati europei
dove il latte costa meno ma
vale meno, rinunciando quindi
alla tracciabilità e alla qualità
del prodotto italiano.
Ora, se c’è un caso nella
storia industriale italiana in
cui una proprietà nazionale - la
famiglia Tanzi - si è rivelata
indegna del suo ruolo è quello
della Parmalat, ma l’alternativa manifestatasi sul mercato
si è rivelata a sua volta inadeguata al merito del marchio e
alla sua tradizione. La cordata
italiana che Banca Intesa sperava di suscitare attorno alla
più piccola ma dinamica Granarolo nel 2011 non raccolse
adesioni. Alla fine, l’unica offerta concreta in campo rimase
quella della Lactalis.
Ma dal primo giorno dopo
aver preso possesso del gruppo
italiano, la famiglia Besnier
che controlla Lactalis ha cominciato a fare l’opposto delle
promesse. Aveva prospettato
la creazione a Collecchio di un
centro di produzione e distribuzione del latte fresco in Europa, e non l’ha mai fatto.
Nel mentre si sono susseguite operazioni e scelte controverse con tanto di risvolti
giudiziari per la scelta di far
comprare dalla controllata ita-
liana, che aveva in cassa circa
1,5 miliardi di euro arrivati
dagli indennizzi delle banche
complici nel crac Tanzi, la propria controllata americana
Lag: insomma, i proprietari
francesi si sono «ristorati» della
spesa sostenuta per comprare
Parmalat svuotandone le casse
con un espediente, e oltretutto
fissando un prezzo abnormemente alto per l’azienda americana, e non a caso poi ridotto
dal tribunale.
Ma quel che più conta
è che dall’acquisizione del
gruppo Parmalat da parte della Lactalis in poi, cioè in cinque
anni, in Italia hanno chiuso
bottega 4 mila stalle.
E da quando il governo, alla
fine del settembre scorso, ha
deciso di proibire la produzione
di formaggi senza il latte fresco, che garantisce il primato
di produzione lattiero casearia
all’Italia (utilizzando invece
quello in polvere, come fa abitualmente Lactalis), la linea
degli industriali transalpini è
diventata ancora più ostile.
Ben vengano gli investimenti stranieri in Italia, come il governo predica. Purché portino
ricchezza, aggiungano valore
al nostro sistema produttivo:
e non ne sottraggano.
IlSussidiario.net
PUNTURE DI SPILLO
DI
GIULIANO CAZZOLA
Matteo Renzi al Senato: «il
giustizialismo è una barbarie».
Chapeau.
***
Il kombinat mediatico-giudiziario
ha riscritto, in via di fatto, il comma
2 dell’articolo 27 della Costituzione.
Ora si interpreta così: «L’imputato
non è considerato innocente sino
all’assoluzione definitiva».
***
«Se le persone coinvolte in base a
prove e indizi che dovrebbero indurre
la politica e le istituzioni a rimuoverle in base a un giudizio non penale,
ma morale o di opportunità, vengono
lasciate o ricandidate o rinominate, è
inevitabile che i processi abbiano effetti politici». Sono parole di Piercamillo Davigo, neo presidente della
Anm, secondo il quale «la presunzione
di innocenza è un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti
sociali e politici». Proviamo a rendere
operativa questa (singolare?) filosofia
del diritto. Una personalità politica
viene indagata (ovviamente per un
fatto di rilievo penale); tocca al suo
partito o alle istituzioni decidere se
deve dimettersi (sulla base di una
valutazione morale o di opportunità).
Bene. Il partito sceglie la linea della
rimozione. Alla fine, nel processo penale, i fatti contestati risultano insussistenti. Quale è il risultato? Peggio
per il malcapitato: la presunzione di
innocenza è «un fatto interno al processo». La «vera» colpevolezza è già
stata accertata, dunque, al momento
dell’avviso di garanzia e della pubblicazione delle intercettazioni? Che cosa
c’è di più certo di qualche frase smozzicata detta al telefono ed inserita, negli
atti giudiziari, a conferma di un’ampia
ricostruzione «stile teorema»?
***
Prendiamo il caso dell’infermiera
di Livorno (ne omettiamo il nome che
è già stato fatto tante volte a sproposito) arrestata con l’accusa di aver ucciso ben 13 pazienti. Il Tribunale del
riesame ne ha deciso la scarcerazione
dopo una ventina di giorni di detenzione (e di massacro mass-mediatico).
La direzione dell’Ospedale è autorizzata a prendere in considerazione
«l’opportunità» di un licenziamento
perché sulla dipendente rimane l’ombra di un sospetto che potrebbe creare problemi al buon funzionamento
della struttura?
***
Matteo Renzi ha affermato, in Senato, che «negli ultimi venticinque
anni si è aperta una pagina di autentica barbarie legata al giustizialismo». Siamo nel 2016. Se andiamo
indietro di un quarto di secolo arriviamo di arriva a coprire anche gli
anni di Tangentopoli. Le parole del
premier non possono ripristinare la
giustizia violata in tanti casi, ma almeno tentano di ristabilire un po’ di
verità storica.
***
Lo si potrebbe chiamare «desiderio
di flessibilità» annoverandolo nella
ricca casistica del «cupio dissolvi»
(perché solo un impazzimento collettivo potrebbe indurre il Governo ed
il Parlamento a smontare la Riforma
delle pensioni made by Fornero sotto gli occhi vigili dell’Unione europea
e, soprattutto, dei mercati). Eppure,
quando il ministro Pier Carlo Padoan (Schioppan?), in un incontro con
la Commissione Lavoro della Camera
(la sede avita degli ‘‘sfasciacarrozze»
della previdenza) si è lasciato scappare una frase sarchiaponesca che
combinava insieme alcune parole
senza dare loro un senso compiuto,
gli insonni talk show, la sera stessa, e
i quotidiani, l’indomani, hanno aperto
su questa (non)notizia, annunciando
segnali nuovi sul terreno dell’agognata flessibilità-tà-tà in uscita. Ciò, nonostante che il sottosegretario Tommaso Nannicini si fosse precipitato
a ricordare che un’operazione siffatta
costerebbe dai 5 ai 7 miliardi all’anno
a seconda del requisiti previsti per
accedervi.
***
Il bello è che Padoan non ha rinunciato a dare un colpo al cerchio dopo
averne inferto uno, robusto, alla botte.
Il titolare del Mef si è messo a dissertare sulle grandi virtù della riforma
Fornero, per quanto riguarda la stabilità non solo del sistema pensionistico,
ma anche dei conti pubblici. Ma se si
andasse a manipolare quell’impianto
sul versante dell’età pensionabile resuscitando (in verità non è mai morto ma è tuttora sopravvissuto vivo e
vegeto) il pensionamento anticipato/
anzianità, che cosa resterebbe di quelle conclamate virtù?
***
Di rincalzo, nel giorno della follia
pensionistica, poteva stare in silenzio
il presidente tuttofare (e tutto dire)
dell’Inps, Tito Boeri? Il nostro ha
preso la palla al balzo fantasticando
di un futuro assai triste dei giovani
nati negli anni ’80, costretti a lavorare (chissà perché?) fino a 75 anni.
Boeri ha ribadito, poi, l’urgenza di
misure di flessibilità-tà-tà per gli
anziani, nello stesso momento in cui
ha affermato che è ora di tutelare i
giovani. Il fatto è che non ci sono risorse sufficienti per «pensare» ad un
sistema in grado di provvedere alla
condizione lavorativa e contributiva
dei giovani e, nello stesso tempo, di
consentire agli anziani di andare in
quiescenza quando potrebbero ancora lavorare. Facendone, poi, pagare
il conto salato di nuovo ai giovani.
Occorre scegliere. E sinceramente ci
siamo rotti le scatole di darà priorità
ad anziani che di vantaggi ne hanno
avuti già tanti.
***
A pag. 31 di un recente documento
dell’Inps, nella parte in cui vengono
sintetizzate le più importanti modifiche normative sulle pensioni leggiamo sotto il titolo Decreto legge 6
dicembre 2011 n.201 («Salva Italia»,
«Riforma Fornero»): «Fascia flessibile
di pensionamento per i lavoratori con
riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1.1.1996 (ovvero i soggetti a
cui si applica il calcolo contributivo,
ndr): 63-70 anni». E allora? Quando
si smette di dar la caccia alle farfalle
sotto l’Arco di Tito?
Formiche.net