Zerocalcare - La Repubblica.it

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ROMA
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cia di paradiso stretta tra la
Tiburtina e la Nomentana,
terra di mammuth, tute
acetate, corpi reclusi e cuori grandi. Qui ci manca tutto, non ci serve niente”, così recita il murales che ti accoglie quando esci dalla stazione della metropolitana. Siamo nel regno di Zerocalcare, quartiere un tempo noto solo per il carcere e che le
storie di Michele Rech, trentadue anni, hanno fatto conoscere in tutta
Italia (e oltre). “Hic habitat felicitas” ribadisce pochi metri più in là la
scritta su una grande casa gialla un po’ scrostata, dopo il parchetto
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per bambini, davanti a una stazione di benzina Ip. «Per fortuna non ci
fanno il tour come a Garbatella col bar dei Cesaroni», minimizza Zerocalcare che da poco si è spostato in una nuova casa, a cento metri dalla
vecchia. Lo stile è lo stesso: poster di band hardcore alle pareti, memorabilia di (VFSSF4UFMMBSJ e la famosa riproduzione di una macchina da
bar per videogame degli anni Ottanta. C’è solo un po’ più ordine. Lui
quasi si scusa: «No, è solo che domani viene gente a cena. Caffé? Va bene nel bicchiere? Non ho tazze». Questione estetica o politica? «No, è
solo che io sono TUSBJHIUFEHF: nessun tipo di droga, neanche caffè. Lo
tengo solo per quando qualcuno mi viene a trovare».
Perché “Kobane Calling”?
«Il titolo riprende una canzone dei Clash, -POEPO$BMMJOH, ma al
tempo stesso fa riferimento a un richiamo che sentivamo dentro e che
ci chiedeva di ritornare a Kobane, la città che i curdi hanno ripreso
all’Is con un grande tributo di sangue.
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per dare una
mano ma anche per cercare di capire davvero quello
che sta succedendo lì».
E cosa avete capito?
«È stata una cosa molto intensa. Questa costituzione
che loro chiamano “Carta dell’autogoverno” enuncia principi bellissimi, addirittura più avanzati di quelli che abbiamo in Occidente rispetto alla liberazione femminile, alla redistribuzione del reddito, alla difesa dei diritti, a un rapporto ecologico con la natura: sia chiaro non è il
paradiso ma almeno è un tentativo...».
E adesso, tornare a casa come è stato?
«Vabbé, io sto sempre bene quando torno a casa però adesso sto in
fissa: vorrei trasmettere con chiarezza quello che abbiamo visto. Anche perché, quando una cosa la vedi da vicino poi ti rendi conto di coUESTA VOLTA PERÒ VOLEVAMO RITORNARE
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me viene raccontata male, con superficialità, in un modo che non si capisce. È vero che a molti sembra che non freghi niente di queste cose,
ma forse non interessano anche perché vengono raccontate male».
Beh, tu in “Kobane calling” le racconti molto bene...
«Davvero? 5FQBSFDIFQPBOOË? Io sono convinto che verrò preso
ampiamente per il culo, ma non mi importa».
C’è una domanda che ti fai dall’inizio alla fine del libro.
«Vabbé, mi hanno messo in bocca una cosa che non ho mai detto tipo “io ci andrei a vivere a Kobane“».
A cui tu rispondi...
«Col cazzo».
Però...
«Il mio posto è questo e non lo cambierei per nulla al mondo, però là
mi è tornata la voglia di provare a mettere in discussione il modo in
cui viviamo noi qui, i nostri modelli di relazione».
Torniamo a Roma. Sei riuscito a evitarti almeno gli “accolli” peg-
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giori, tema del tuo precedente graphic novel?
«Sto imparando a dire subito “no”. Mi ci vorranno altri dieci anni
ma ci riuscirò. Ora devo fare centoventi pagine entro giugno».
Però ti pagano...
«Solo per quaranta. È la mia filosofia: per ogni lavoro pagato ne faccio due gratis, ovviamente per cose che ritengo giuste».
“Lo chiamavano Jeeg Robot”: l’hai visto? Ti è piaciuto?
«Sarà che a me a dodici anni dopo +VSBTTJD1BSL hanno tolto la
ghiandola dell’entusiasmo: mi sembra pure un buon film ma non quel
capolavoro che dicono. È che i critici non sono più critici. /POFTTFSF
DBUUJWP è un bel film infatti non è un successo di massa».
A proposito di cinema, come sta andando il film che dovrebbero fare dal tuo libro, “La profezia dell’armadillo”?
«Io la mia parte, scrivere la sceneggiatura con Mastandrea e altri,
l’ho fatta, poi vediamo che succederà, se succederà...».
Come mai nei fumetti ti rappresenti sempre con la maglietta con il
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teschio de “Il Punitore” che nei fumetti Marvel è un giustiziere psicopatico nazistoide che tortura e ammazza i criminali?
«In realtà ci assomiglia ma non è quella: io indosso quasi sempre
magliette nere con teschi perché è il simbolo di molti gruppi punk che
ascolto. Comunque le storie de *M1VOJUPSF mi piacciono molto anche
se il personaggio in sé lo considero orrendo».
Sai che tra un po’ uscirà il film di “Civil War”, una delle saghe che
cambia completamente le carte in tavola: i supereroi devono registrarsi altrimenti vengono dichiarati fuori legge ed è il mito stesso
a guidare la rivolta, Capitan America. Che diventa un terrorista...
«Letta diversamente però la richiesta di identificare i supereroi è
come quella che vorrebbe identificare i poliziotti: per evitare possibili
abusi io devo avere la possibilità di sapere chi sono».
Quindi stavi con Iron Man?
«Ero combattuto».
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ARADISO, QUESTO? Sbarcati alle Cayman, un
paio d’anni fa, Paolo Woods e Gabriele Galimberti si guardarono disperati. Il progetto sembrava fallire davanti ai loro occhi ancor prima
di cominciare. «Turismo di basso livello, povertà, edilizia anonima. Soprattutto, nulla da
fotografare». Del resto, già lo sapevano. 'PM
MPXUIFNPOFZ? Sì, è una parola. Il denaro non
si lascia seguire. Quando ascende all’empireo
dei paradisi fiscali evapora, scompare. Come
nuvola nel cielo tropicale, non lascia tracce.
La povertà, la miseria sono fotogenici, la ricchezza estrema invece è invisibile. Puoi fotografare la sua conseguenza,
cioè il lusso, quello sì: ma lo fanno anche le foto patinate nella rivista che
trovi nella tasca del sedile d’aereo. Eppure, se vogliamo JNNBHJOBSF il
grande gioco del denaro che espatria, abbiamo bisogno di JNNBHJOJ, nonostante tutto. E i due fotografi non hanno rinunciato a cercarle. Chiunque può giudicare se abbiano vinto la sfida: 5IF)FBWFOT, i paradisi, è il titolo di un libro e di una mostra (ne offriamo un assaggio in queste pagine) che hanno debuttato al festival di fotografia di Arles qualche mese fa
e che da domenica prossima saranno proposti a Parigi (poi in Italia, a Cortona OnTheMove), in coincidenza non troppo casuale con l’esplosione
dello scandalo dei Panama Papers.
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Partì tutto da una banale battuta. Woods, italo-olandese-canadese, vive ad Haiti, «il posto più povero delle Americhe», dai tempi del terremoto, avendo deciso di restare anche dopo che i riflettori dei media si erano
spenti, per raccontare come un’isola disperata cerca di recuperare un’ipotesi di comunità. Lì un giorno lo raggiunse da Firenze l’amico e collega
Galimberti, fresco di stangata da denuncia dei redditi: «Bisognerebbe
proprio portare i soldi alle Cayman…». Be’, andiamo a vedere, non è poi
lontano. Così fanno i fotografi, vanno e vedono. Ma cosa? «Se sei un fotografo ecologista», dice Paolo, «ti basta una foca ammazzata sul pack, con
le macchie rosse sul ghiaccio hai già tutto, causa, effetto, indignazione.
Ma qui le tracce di sangue non ci sono».
Una sfida paradossale: far vedere quello che non si vede là dove tutto è
alla luce del sole. «Quella dei paradisi fiscali è un’industria che non si nasconde, enorme, ramificata, si presenta come un’attività di servizi, legale, che comunica, si fa perfino pubblicità. Fotografare le sedi delle società
offshore non è impossibile». Alle Cayman ad esempio un palazzo modesto ospita le sedi legali di diciannovemila società, è quello di cui Obama
disse: «O è l’edificio più grande del mondo, o è la più grande beffa fiscale
del mondo». Nessun problema a trovarlo, «ma che senso aveva fotografare un anonimo palazzo bianco?». In un museo locale, però, a quel palazzo
che ha fatto la fortuna di un’isola altrimenti dimenticata era dedicato in
bella mostra un dipinto.
Illuminazione: per WFEFSF un’immagine troppo banale per dire qualcosa, bisogna TPQSBWWFEFSMB. Filtrarla attraverso un criterio, uno stile. Quello più scontato era l’immaginario da Graham Greene, «gangster con valigie piene di dollari che sbucano dalle fessure, tipi loschi che fumano avana in occhiali scuri e abiti di lino bianco, nel controluce di una finestra…».
Sarebbe stato un fumetto. Woods e Galimberti hanno fatto l’opposto. Fotocamera di grande formato, quindi cavalletto, quindi tempi lunghi, posa, nessuna retorica noir, da “foto rubata”. «Abbiamo scelto di parlare lo
stesso linguaggio di quel mondo, quello delle fotografie dei dépliant dei
grandi alberghi, delle brochure delle banche svizzere, patinato, luminoso, colorato e ben definito come nelle foto del /BUJPOBM(FPHSBQIJD. Avvicinarci a quel mondo con il linguaggio che quel mondo conosce. È un cliché anche quello, ma puoi torcergli il collo. Far intuire che dietro un poster con le palme curve sul mare color smeraldo c’è altro».
Per tre anni hanno girato il mondo, dall’Angola a Guersney, dal Lussemburgo alle Virgin, scendendo nei sotterranei delle banche di Singapore, aggirandosi fra le caselle postali senza ufficio postale di Grand Cayman, intrufolandosi nei grandi alberghi pacchiani di Panama. Per farsi
aprire le porte, avevano in tasca qualche lettera di presentazione di riviste qualificate. «Certo non dicevamo che il nostro era un reportage sui paradisi fiscali, ma non abbiamo neppure mentito: siamo qui per documentare l’industria dell’offshore, dicevamo, una definizione che a loro piace,
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non tutte le porte si aprivano, ma alcune sì». Per mostrare cosa? Se le sedi
dei colossi della consulenza fiscale, nelle metropoli del denaro, sembrano
arredate dagli scenografi di Gotham City, quelle negli IFBWFOT veri e propri sono spesso uffici modesti, con poco personale e nessun glamour. Tanto, nessun riccone ci va davvero. E neppure i loro soldi, fisicamente. Le
paure dei primi grandi esportatori di capitali, «ma se Castro vi invade, il
mio denaro che fine fa?» ricevevano già allora sorrisi di compatimento. Figuriamoci oggi, che un milione di dollari è un veloce tic-tac su una tastiera. I soldi non stanno sepolti in qualche mitico caveau nascosto fra le palme, i soldi si muovono, o meglio si muove il loro spettro fatto di byte, continuamente, da un server all’altro, da un angolo all’altro del pianeta, un
gioco dei quattro cantoni che ha anche un nome, MBEEFSJOH. La vera merce che l’industria dell’offshore produce non è il segreto della grotta di Alì
Baba: al cliente che cerca un posto dove i denari aggirino i loro doveri non
viene offerto un nascondiglio, ma un labirinto. Un intrico di strade dove
GPMMPXJOHUIFNPOFZ, pedinare i soldi, diventi impossibile.
Come si fotografa un labirinto? Come Teseo. Entrandoci. A metà del lavoro, Woods e Galimberti hanno deciso di fondare la loro società offshore. «Nulla di più facile, se vai nel Delaware». Il posto nel mezzo del nulla
dove gli oligarchi del denaro registrano a condizioni legali favorevoli le loro matrioske societarie. Anche lì, hanno trovato banalità da assicuratori
di provincia. «Un ufficio grigio, in un centro vuoto, la segretaria sovrappeso annoiata che non ci chiede neanche i documenti personali, verifica solo che il nome della nostra nuova società, ovviamente )FBWFOT, non fosse
già registrato. “No, c’è solo un The Heavens of Burger, potete farla”. Seicento dollari, e in mezz’ora la nostra scatola magica era lì, incorporata,
pronta a fare da trampolino per il grande gioco dei soldi».
Il libro si presenta appunto come l’BOOVBMSFQPSU aziendale della 5IF
)FBWFOT-MD, con tanto di tabelle e grafici. «Non abbiamo fatto un libro sulla criminalità. L’offshore, il saggio di Nicholas Shaxson nel libro lo spiega
bene, è un sistema che sfrutta le fessure fra legislazioni nazionali per una
finanza globale “senza patria”». Un sistema raffinatissimo, secondo le polizie fiscali di mezzo mondo, ma anche, nella sua essenza, semplicissimo.
«L’ex governatore delle Cayman ci spiegò: “Quello che facciamo qui è legale, anche se può essere considerato immorale”. Non avremmo saputo
dirlo meglio».
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ROMA
ILLIAM KENTRIDGE È ACCANTO alla sua opera sulla riva
destra del lungotevere: «Tutto questo sparirà», dice.
Spariranno dai muraglioni di travertino che corrono
da Ponte Sisto a Ponte Mazzini i cesari, i soldati romani e i loro prigionieri, Mastroianni e la Ekberg.
5SJVNQITBOE-BNFOUT, l’opera che il grande artista sudafricano vede finalmente realizzata davanti
ai suoi occhi, è un fregio di cinquecentocinquanta
metri, un’ottantina di figure che sintetizzano millenni di storia. Si inaugura ufficialmente il 21 aprile, ma
è pronta già. I turisti fotografano, i CJLFS la costeggiano. «Bravo!», grida uno. L’artista risponde sorridente, spalancando gli occhi blu sotto il panama. «Nulla è stato aggiunto alle mura del Tevere. Tutto è stato realizzato pulendo selettivamente lo sporco del tempo». Dal contrasto tra il nero e il
bianco emergono le immagini concepite da Kentridge, alte anche dieci metri. «In tre o quattro
anni, batteri, vegetazione e inquinamento prevarranno di nuovo. E le immagini sprofonderanno lentamente nell’oscurità. Va bene così. Fa parte del significato di quest’opera. Ha a che fare
con la perdita della memoria. Con il senso della storia che cambia. Il presente ogni volta influenza il passato. Io ho messo insieme dei frammenti». Solitamente le opere d’arte sopravvivono a chi le concepisce. «Questa è troppo grande per restare», precisa Kentridge. «Sarebbe
una dichiarazione troppo definitiva di quello che la storia è. E invece una componente importante del progetto è proprio il suo aspetto provvisorio».
Tutto inizia nel 2002. «La curatrice Kristin Jones me ne parlò quindici anni fa. Ma il progetto vero e proprio è partito cinque anni fa. Ce ne sono voluti quattro per ottenere i permessi.
Una volta ricevuto l’ok, ho impiegato un anno e mezzo per realizzare i disegni preparatori». La
più importante opera d’arte pubblica che Roma conosca dall’inizio del XXI secolo è stata finanziata con contributi privati, a partire dalla vendita dei bozzetti. Nell’opera di Kentridge la
TUSFFUBSU incontra l’imponenza di una bottega rinascimentale. Qualcuno ha parlato di una Sistina a cielo aperto. «Ma io ho un’opinione diversa», puntualizza l’artista. «È giusto che la Sistina stia lì da cinquecento anni e che il mio lavoro ne duri al massimo cinque». Il “film” di Kentrid-
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ge che si srotola sulle mura
del lungotevere non è in ordine cronologico. Pasolini, la Lupa e Romolo e Remo sono vicini. «Personaggi lontani nel
tempo sono come in conversazione tra loro e con chi li guarda. La mia è stata una scelta
selettiva personalissima. È la
mia idea della storia. Molte
persone mi hanno suggerito
quali figure dovessero esserci. Mi hanno dato consigli, poi
ho scelto. Ho studiato i rilievi
della Colonna Traiana. Per
me sono stati fondamentali. Per la contemporaneità non ho potuto lasciare fuori Aldo Moro. Ricordo le sue fotografie pubblicate sui
giornali sudafricani del tempo. Mi è stata raccontata la storia di Giorgiana Masi (la studentessa uccisa da un agente in borghese durante una manifestazione nel 1977, OES) e ho voluto inserirla. Di Giordano Bruno volevo trovare un’immagine che non fosse quella di
Campo de’ fiori. Ho cercato l’equilibrio tra figure facilmente riconoscibili e altre che dessero il ritmo giusto alla sequenza. La scena
chiave della %PMDF7JUB non è ambientata nella Fontana di Trevi, ma in una vasca da bagno. L’immagine più recente di tutte è quella
delle vedove di Lampedusa, le mogli degli uomini morti in mare. Il risultato di 5SJVNQIT
BOE-BNFOUT è abbastanza vicino a ciò che
avevo immaginato. Vederlo dal lato opposto
del lungotevere è stata una sorpresa». Kentridge suggerisce un doppio percorso per
guardare l’opera: «Si può partire da Ponte Sisto a Ponte Mazzini, costeggiando le figure. È
una passeggiata piacevole di un quarto d’ora
circa. Poi si può fare il giro inverso dalla riva
opposta. E guardare tutto come un film».
L’artista si muove ormai con una certa sicurezza tra i vicoli di Trastevere. Il Ponte Sisto è
diventato il suo set. «La prima volta che venni a Roma, avevo sei anni. Era il 1961. Ricordo l’entusiasmo mio e dei miei genitori. Si era
nel pieno della dolce vita. Avevo visto il film
7BDBO[F3PNBOF e tutto mi pareva rispecchiarlo. Sì, Roma oggi è cambiata, ha molti
problemi, lo so. Però mi piace perché non è un
museo all’aperto ma un luogo vivo, uno spazio della contemporaneità non solo per turisti. In tutte queste fontane vedo la generosità di un antico senso civico, di un design urbano pensato per i cittadini che dovrebbe essere ancora da esempio». All’American Academy, sul Gianicolo, dove è ospite per tutto il
mese, Kentridge ha occupato una stanza interamente bianca che utilizza come studio. Alle
pareti ci sono i disegni di ieri, sul tavolo quelli
che sta facendo ora. Vegetali, fiori, astrolabi
su fogli gialli e marroni. «Ho trovato dell’ottimo inchiostro. Un giorno mi piacerebbe lavorare con il colore. Ma ogni volta non mi riesce.
Forse sarà per un’altra vita».
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Lucca sussurra», ha detto William
Friedkin ricevendo il premio alla carriera del
Lucca Film Festival. Ma con il suo fregio sul Tevere William Kentridge riesce a far sussurrare
anche Roma. Città che per vanteria o per destino si autoproclama “eterna”, incline alla declamazione (ma anche
al mediocre TUPSZUFMMJOH), Roma è però da sempre patria dell’effimero. Nulla di più effimero dell’antica pittura trionfale, enormi pannelli portati in processione per mostrare alla folla i luoghi e le imprese
di ogni guerra appena conclusa. In quelli per il trionfo di Vespasiano
e Tito sui Giudei (71 d. C.) “vedevi regioni prospere ridotte a desolazione, enormi mura abbattute, i nemici in un lago di sangue, prigionieri imploranti pietà: scene eseguite con tanta abilità da trascinare
chi le guardava sui luoghi stessi della guerra” (Flavio Giuseppe).
Esposti in pubblico, questi dipinti si deterioravano rapidamente, e
OMA GRIDA,
altri ne prendevano il posto, a celebrare altre guerre. C’è dunque
qualcosa di antico nel fatto che la tecnica del fregio di Kentridge lo
condanna a una vita assai breve. Vi riconosciamo scene dalla Colonna Traiana, da quella di Marco Aurelio, da altre opere di arte antica
(fino a Bernini), ma nella loro potente evocazione non c’è nulla di retorico. La labilità della tecnica riduce l’urlo della storia al sussurro
dell’esperienza individuale, costringe a riflettere non solo sui trionfi
ma sulle sconfitte (5SJVNQITBOE-BNFOUT, dice il titolo), non solo
sulla memoria dei marmi e dei libri ma su “Quello che non ricordo”
(così è scritto sul muro).
Kentridge è l’artista d’oggi che con più forza immaginativa ha rinnovato tecnica e funzione del disegno. I pieni e i vuoti delle sue figure presuppongono una tradizione plurisecolare di ombreggiature,
ma la sormontano traducendola con sprezzatura in un linguaggio
quasi scultoreo, che nella monumentalità dei muraglioni (-*"116/5".&/5*
sul Tevere trova il suo teatro %0."/*8*--*".,&/53*%(&4"3®
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passato troppo ricco, troppo lungo. Imperatori e papi, Cicerone e
Mussolini, Anita Garibaldi e l’Anna Magnani di Roma città aperta,
migranti a Lampedusa e partigiani fucilati si schierano l’uno accanto all’altro, in una dolorosa fraternità che fa di Roma lo scenario del
mondo. Con geniale simmetria e raro talento compositivo, a portare
le insegne del trionfo Kentridge convoca figure dall’arco di Tito (il
trionfo sui Giudei), ma anche da Mantegna. A metà fregio, condensa in un solo viluppo di corpi il cadavere di Aldo Moro, barbari in battaglia dal grande sarcofago Ludovisi e la Santa Teresa di Bernini.
Composizione sconcertante e convincente, dove l’estasi della Santa, in quella compagnia, si trasfigura in intenso pianto funebre.
È bello che, dopo lunga anticamera di inspiegabili resistenze burocratiche, grazie all’associazione Tevereterno con il seme gettato
da Kristin Jones, al Comune di Roma e al ministro Franceschini, Roma abbia in dono il più importante progetto di arte urbana oggi in
Europa. Lungo il Tevere forse ancor più che sulle scene del Metropolitan (dove in novembre ha messo in scena -VMV di Alban Berg), Kentridge ha trovato una pagina congeniale al suo disegnare meditativo e talvolta ironico (ne fa le spese Vittorio Emanuele II issato su un
cavalluccio di legno), ma sempre capace di assorbire la tradizione artistica fino a frantumarla, eppure rendendone riconoscibili fin le briciole, ingredienti di un presente (di lamenti più che di trionfi) che è
il nostro. Nelle sue 4JYESBXJOHMFTTPOT (2014), Kentridge parla di
una «cacofonia di informazione che ricomincia di continuo», ma
quel che vediamo oggi sul Tevere non ha nulla di cacofonico. Come
un direttore d’orchestra, l’artista assegna a ciascun personaggio la
sua parte, e li fa suonare tutti insieme secondo spartito; ci dimostra
che l’arte figurativa può ancora farsi strumento, materia, gesto di
conoscenza.
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la via dei gitani. Scontro
inevitabile. Un militare
innamorato di una ballerina di flamenco. #PEBTEF
TBOHSF? Non proprio, ma
neanche rose e fiori. Succede negli anni Sessanta
a Cadice, in quella lingua
di Andalusia che penzola
sopra l’Africa, dove i carnevali e le quaresime sono le feste più lunghe e suggestive dell’anno. La signora
è bella, bionda, inequivocabilmente QBZB, come i gitani
chiamano tutti quelli che non lo sono. Ha una passione indomabile per il CBJMF, finirà col gestire una rinomata scuola di danza frequentata anche dalle figlie di Camarón de
la Isla, l’imperatore del GMBNFODPOVFWP, lui sì gitano
doc. «Ho avuto la fortuna di avere il flamenco in casa»,
racconta Sara Baras, quarantaquattro anni, l’artista che
è diventata l’ambasciatrice del CBJMF nel mondo, richiamata per dodici stagioni di seguito al Théâtre des
Champs-Élysées di Parigi, acclamata come l’erede di Carmen Amaya e Cristina Hoyos a Londra, New York, Spoleto Festival (ad applaudirla al Teatro Romano l’anno scorso c’era anche Baryshnikov), ora impegnata in un mese
di repliche con7PDFT al Tívoli di Barcellona (dove l’abbiamo incontrata dopo Spoleto e Roma), a maggio attesa
nel nuovissimo Zorlu Center di Istanbul che ha l’ambizione di diventare il Radio City Music Hall d’Europa. «Mamma è stata la mia maestra, mi ha trasmesso la passione
per l’arte. A cinque anni ero già preda del flamenco». Ma
a casa bisognava anche fare
i conti col babbo. «Avrebbe
voluto per me una scuola, l’università, magari il conservatorio, il fatto che il flamenco fosse un’arte spontanea
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lo terrorizzava» .
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sul palcoscenico. Li avrei se6/"#"/%*&3"
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Parigi, Tokyo, New York. Ma
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papà fu irremovibile e a nulla valse l’insistenza di mia
madre. Essere nata a Cadice mi ha dato la possibilità di
conoscere i più grandi. Sono cresciuta all’epoca di Camarón de la Isla. Frequentavo la scuola con i figli degli altri
ufficiali, le mie amiche non avevano niente a che fare con
il mondo del flamenco. È stato un contrasto che mi ha arricchito, da una parte la vita bohémienne degli artisti,
dall’altra la disciplina militare».
Ha il viso dolce, la voce suadente, lo sguardo tenero.
Fuori scena non ha il temperamento di Lola Flores, che
ha sdoganato il flamenco come arte pop e per tutta la vita si è crucciata di non avere sangue gitano al cento per
cento. Eppure è proprio lei la diva che ha spogliato il CBJMF
da qualsiasi retorica, come in musica avevano già fatto
Camarón e Paco de Lucia. Era con Paco al Teatro Real di
Madrid quella sera del 2010 in cui l’arte esaltata e celebrata da Federico García Lorca fu ufficialmente dichiarata dall’Unesco patrimonio immateriale dell’umanità.
«$BOUFCBJMFUPRVF: sono i tre elementi inscindibili del
flamenco», dice perentoria. È con questa formula che i
suoi spettacoli travolgono il pubblico: ballo, canto e musica in un frenetico crescendo. Sul palcoscenico la Baras è
una lingua di fuoco anche senza la CBUBEFDPMB (il costume tradizionale) e la QFJOFUB. E quando per pochi istanti
indossa sul palco il NBOUØOEF.BOJMB (prezioso scialle
così chiamato perché anticamente ricamato a mano nelle Filippine, allora colonia spagnola) diventa la musa di
un rito selvaggio, raffinato e primitivo, euforico e disperato, tenero e sensuale, morboso e appassionato che la
CBJMBPSB è chiamata a esprimere con tutto il corpo, dalla
punta dei piedi alle ultime falangi delle dita e alla mimica facciale.
Sara Baras è nell’età perfetta per esprimere tanta intensità. Il viso appena accarezzato dal tempo, mai drammatico come quello di Carmen Amaya eppure straordinariamente comunicativo, conferisce maggiore contemporaneità a un’arte che raramente accarezza, graffia
piuttosto, come le voci dei magnifici campioni di DBOUFZ
EFUPRVF che l’accompagnano in scena, loro sì gitani doc,
o l’irruenza del primo ballerino/coreografo José Serrano,
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suo marito. «È vero, per decenni si è detto che solo i gitani riuscivano a esprimere il flamenco autentico,
quello dei QBZPT era considerato “straniero”», ammette ripensando alla prima infanzia quando, durante il franchismo, la televisione spagnola intossicava
il pubblico con ore e ore di DBOUF (purgato da qualsiasi contenuto eversivo, s’intende) che sfiniva anche i
più devoti. «Chi ha cambiato questo pensiero è stato
Paco de Lucía, anche lui di Cadice, anche lui QBZP. La
sua esplosiva collaborazione con Camarón de la Isla
ha completamente ribaltato la prospettiva. Paco è la
nostra bandiera, esattamente come Camarón, un
idolo per QBZPT e HJUBOPT» .
Ha ancora negli occhi le immagini di quel 3 luglio
1992. Aveva ventun anni. Caldo infernale a San Fernando, che i gitani chiamano La Isla. Una folla enorme partecipa ai funerali di Camarón, morto di cancro
a poco più di quarant’anni. La bara del rivoluzionario
del DBOUFKPOEP ondeggia sulle spalle di Tomatito e
Paco de Lucía, i suoi due chitarristi, uno gitano l’altro
QBZP, madidi di sudore, devastati da quella separazione spietatamente architettata dal destino. Insieme avevano resuscitato un’arte che sembrava confinata nel folclore andaluso dei UBCMBP — turismo di
gruppo cena inclusa. «Paco lo disse a chiare lettere: il
flamenco si parla con dieci parole quando in realtà si
potrebbe parlare con diecimila», mormora la Baras.
«È un’arte ricca — musica, ritmo, danza, melodia, varietà — che riesce a rinnovarsi e miracolosamente
mantenere l’autenticità delle radici. Esprime valori
universali attraverso la tecnica, difficilissima, e il sentimento. Ci vogliono anni per penetrare i segreti del
CBJMF e del UPRVF, per preparare il corpo a questa specie di possessione. Anticamente era una danza spontanea, che si tramandava di padre in figlio, di famiglia in famiglia. Le mie
antenate non facevano
esercizi alla sbarra come
noi, che oggi usiamo elementi di classica e contemporanea; in primo
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devi volare in alto e lontano, ma ovunque tu vada
non dimenticare mai da dove vieni”. Non facevano
che ripeterlo lui e Camarón nei lunghi viaggi tra Cadice e Madrid: “La città non deve cambiare la nostra
anima. Vogliono che li stupiamo con la tecnica? Li
stordiremo col nostro sentire”. In altri tipi di danza,
musica, scenografia, costumi, tutto è separato. Nel
flamenco sono una cosa sola».
Paco de Luca è uno degli ispiratori di 7PDFT, lo spettacolo che la Baras ha pensato come un omaggio ai
suoi idoli. «Li ho conosciuto tutti, tranne Carmen
Amaya (morta nel 1963; al funerale della ballerina
QBZBche aveva stregato anche Hollywood partecipò
commossa tutta la comunità gitana), che infatti nello spettacolo non ha voce. Camarón, Antonio Gades,
Moraito, Enrique Morente, il poeta della nostra generazione. Diceva: “Nel flamenco non ci sono maestri,
solo discepoli”. Gades lo conobbi in Giappone, lui era
in tour nei grandi teatri, io in una sala minuscola.
Avevo diciotto anni, tremavo alla sua presenza. Mi
permetteva di assistere alle prove, e io lì muta, in
estasi. La trilogia del flamenco del regista Carlos Saura, di cui era protagonista, mi ha cambiato la vita.
Ammiravo il modo in cui presentava gli spettacoli, il
sacrificio, la fatica, la serietà, il rispetto, l’onestà; artista al cento per cento, un semidio ai miei occhi. Questo volevo avere: la primitiva spontaneità di Carmen
Amaya e la disciplina di Antonio Gades» .
Adesso che Carmen è leggenda, Antonio tra gli immortali, Camarón nell’Olimpo degli zingari e Paco
nel paradiso dei QBZPT, è lei, Sara, la regina dell’FN
CSVKP, il sortilegio che fa parte dell’eredità culturale
dei gitani d’Andalusia. «È un’arte che richiede dedizione totale, non si può fare a mezzo servizio», sospira senza staccare gli occhi dalla foto del figlioletto di
quattro anni che la tata le ha appena inviato su whatsApp. «5JFOFTRVFCBJMBSZCBJMBSZCBJMBS, anche se
non lo fai tecnicamente in modo perfetto non importa. &TDVDIBMPUPEP! 4JFOUFMP!» .
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A CENA CHE NON TI ASPETTI. IL RISTORANTE ELEGANTE, dagli arredi sapienti e misurati,
i piatti con tutti i sapori al loro posto, serviti con attenzione, valorizzati da una carta dei vini di tutto rispetto. Oppure il locale fantasmagorico, dal design razzente,
dove il menù è un percorso immaginifico e i gusti si inseguono senza limiti di creatività. O ancora il vecchio magazzino ristrutturato in modo minimalista, dove ogni
pietra racconta una storia e la cucina si richiama alla tradizione locale, rivisitata
con rigore calvinista ma goloso. Non si è mai mangiato così bene, nell’Europa del
Terzo millennio. La guida .JDIFMJO, che ogni anno dedica un’edizione speciale alla
ristorazione nelle più importanti città del Vecchio continente, ha appena certificato per il 2016 l’eccellenza di quasi cinquecento ristoranti variamente stellati e di
oltre cinquanta Bib Gourmand, i gioiellini della ristorazione a basso prezzo.
Un tempo, mettere il naso fuori dai nostri confini con intenzioni gourmand portava irrevocabilmente in direzione Francia, dove dimorava una cucina maestosa,
codificata, sostenuta e glorificata da uno stato capace di spendere i suoi cuochi migliori in ogni angolo del pianeta (con tanto di funzionario governativo monodedicato). Lontano dalle tavole sontuose di Parigi e Lione, le uniche destinazioni all’altezza erano quelle dei grandi ristoranti etnici delle capitali: India e Italia, Giappone e Thailandia esaltate nei piatti dei loro migliori interpreti, felicemente emigrati a Monaco, Londra e Bruxelles. La garanzia di un pasto eccellente a patto di non
mangiare locale. Poi alla fine degli anni Novanta è apparso l’astro di Ferran Adrià,
un po’ Leo Messi e un po’ Leonardo da Vinci, che ha cambiato per sempre la storia
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della cucina, stravolgendo i canoni dell’alta gastronomia, ma solo dopo aver mandato a memoria — nella testa e ai fornelli — l’intera tradizione culinaria spagnola.
Da lì in poi, la nuova generazione di cuochi ai primi passi sulla passerella della
ristorazione d’autore ha capito che nulla era impossibile in cucina, nemmeno dare
dignità al maltrattato cibo di casa propria, dall’Irlanda alla Grecia, in Olanda e in
Polonia. Tentativi incerti all’inizio, molto copiare e poco inventare. Ma, per dirla
con Adrià, «anche Picasso da giovane ha rifatto mille volte Monna Lisa per capire
come voleva disegnare le donne».
Così, le cucine d’Europa hanno dismesso i panni modesti del cibo necessario, andando incontro a un destino culinario luminoso. L’inglese Heston Blumenthal, e il
danese-macedone René Redzepi, entrambi cresciuti dietro i grembiuli di Adrià,
hanno fatto il miracolo, aprendo alle porte di Londra (Bray) e nel cuore di Copenaghen due ristoranti diventati rapidamente il simbolo della nuova gastronomia locale, entrambi premiati con le tre stelle Michelin. Nella loro scia, decine di locali,
piccoli e grandi, dove l’afflato internazionale supporta e non copre ingredienti e saperi locali, e l’alleanza con i piccoli produttori, il rispetto dell’ambiente, la consapevolezza etica sono considerati ingredienti basilari quanto le ostriche o il pane di
farro. Tralasciando le grandi capitali dei grandi paesi, regalatevi una gita in una
nazione dell’ex periferia culinaria e godetevi il miglior CPSTDI (alleggerito) che abbiate mai mangiato. Per la cena della vita a Parigi c’è sempre tempo.
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poiché il mio ristorante è
“pieds-dans-l’eau”, tra il
molo e la spiaggia di
Senigallia, d’inverno mi
ritaglio una lunga pausa di meditazione.
E vado a provare i ristoranti degli altri.
Più che il grande indirizzo, cerco la
verità e l’autenticità dei piatti.
Per esempio. Mi hanno portato in un
bar musicale di Caracas, il “Greenwich”.
È così dal 1950. Lì ho respirato qualcosa
di diverso. Tra l’altro in Venezuela fanno
dei formaggi che non hanno niente da
invidiare ai nostri, carni arrosto,
“arepas”: ho mangiato in modo divino.
Sono impazzito per il mercato del
pesce di Tokyo, colazione alle quattro di
mattina, mangiando “yakitori”,
“ramen”, sushi, gomito a gomito con
uno che puzza di pesce perchè lì ci
lavora.
A Hong Kong ho mangiato nel
quartiere di Wuan Chai, in un locale
piccolissimo, tre persone in cucina:
ravioli, zuppe, pelle dell’anatra.
Magnifico. A Cuba, nelle case di
pescatori puoi gustare delle aragoste
pazzesche. In Armenia c’è
un’interessante fusion libanese, turca,
marocchina, kazaka: al “Dolmama” di
Yerevan, la capitale, ho mangiato un
menù di dieci portate, una cucina, come
posso dire, ancestrale, fatta di sapori
originari, anche forti, ma veri.
Rispetto a trent’anni fa il
cambiamento è stato enorme, allora la
grande cucina era quella italiana,
francese, in parte spagnola, più quella
asiatica, magnifica e lontana. Fino agli
anni Ottanta, i cuochi ripetevano quello
che avevano imparato, avevano sotto
mano un protocollo già pronto. E poi, sì,
è arrivato Ferran Adrià e ha liberato
fantasia e originalità. Grandi cuochi
come Redzepi e Blumenthal sono partiti
da lì e chi non aveva quella forza ha
semplicemente replicato.
Redzepi, che è cresciuto in
Danimarca, dove non c’era nulla, oggi
guida un movimento di grande
ristorazione che si basa sui prodotti
locali. E lo Stato lo supporta. L’anno
scorso ha chiuso per due mesi il suo
ristorante, il “Noma”, e l’ha portato a
Tokyo. Due cuochi erano partiti un anno
prima per cercare i prodotti e capire
come adattarli alla cucina di casa. Poi si
sono imbarcati in quaranta. Un
investimento poderoso, ma
lungimirante: centoventi pasti al
giorno, cinquantamila prenotazioni in
stand by, novecento euro a testa per
mangiare e dormire, un successo
incredibile non solo per il ristorante, ma
per la Danimarca tutta. Chissà se ci
arriveremo anche noi.
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“Uliassi Cucina di Mare”, EVFTUFMMF
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Per uno che fa teatro (e cinema) essere cresciuto nei Quartieri Spagnoli forse qualcosa ha voluto dire: “Di quei vicoli di camorra a me
bambino arrivava soltanto il lato bello, l’avventura, il gioco, le processioni, le comari, le madonne parlanti, i femminielli, i racconti del
‘43, quando il popolo decise di prendersi la libertà senza aspettare
gli americani”. Ma questo non vuol dire adagiarsi “nell’alveo della
pappardella della napoletanità”. Cioè: “Ci ho messo anni a togliermi
di dosso l’etichetta di erede di no intrappolati o nella cecità o nei troppi sogni: la Signora e i bambinielli di
1JÒDFOPJSF, il testo che nell’83 vinse il Premio Riccione e rivelò Moscato fino ad
allora insegnante di storia e filosofia, la Nanà di-VQBSFMMBmagnificamente inEduardo. Io le mie radici le vedo terpretata
da Isa Danieli, o Ines e le altre figure di $PNQMFBOOP. «Quei personaggi sono la mia Napoli. Tempo fa ho rivisto -BTGJEB, il primo film di Rosi, con
ville del Seicento sgangherate, quei personaggi urlanti, quella gente vein Genet, in Artaud. È un tradi- quelle
stita alla TBOGBTÛO ma con una verità dentro... Io li ho visti davvero, ho visto
quelle automobili che andavano ai santuari di Montevergine o di Pompei, tutte
di fiori. Mio padre di mestiere faceva l’autista delle donne devote
mento? Tradimento e tradizione addobbate
dei Quartieri, donne che tra la primavera e l’estate andavano appunto nei luoghi di culto. Le caricava sulla sua lunga e vecchia Balilla e partivano. Non era un
semplice tenere a bada quelle vivacissime signore, di cui mia madre
hanno la stessa radice: chi conti- mestiere
era pure gelosa. Di tanto in tanto lei prendeva tutti noi sette figli e insieme lo
raggiungevamo per quando si fermavano al ristorante, sempre lo stesso “Lo
Schiavone” di San Giorgio a Cremano. Nel nostro vicolo c’era un solo telefono,
nua deve anche negare”
quello di mia zia: mio padre la chiamava, lei ci avvisava e allora noi prendevano
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NAPOLI
teatro, naturalmente, il
Teatro Nuovo, nel cuore dei Quartieri Spagnoli, dove un tempo
hanno recitato Totò e la Magnani e dove dagli anni Settanta è passata la nuova generazione di artisti e produttori teatrali partenopei, da Toni Servillo a Antonio Latella. «Per me è rimasto il Cinema Nuovo della mia infanzia, perché sono nato due vicoli più su, a vico Primo
Portapiccola a Montecalvario, dove le strade si chiamano vico Primo, vico Secondo, vico Terzo, senza sprecare troppa fantasia». Enzo Moscato si siede con
una pigra grazia in una delle poltrone di prima fila e tiene il cappotto nero addosso, sul corpo minuto e forte, il viso elegante da ex giovane di un certo fascino. «Passavo qui i pomeriggi interi», continua seguendo il filo dei ricordi, «vedevo i film hollywoodiani e quelli del neorealismo, perché il cinema mi
è sempre piaciuto e mi piace ancora. L’ho anche fatto, da attore,
.PSUFEJVONBUFNBUJDPOBQPMFUBOP, -JCFSBdi Pappi Corsicato, il
2VJKPUFdi Mimmo Palladino, fino a *MHJPWBOFGBWPMPTPdi Mario
Martone».
Ma senza nulla togliere al suo ingegno vorace, che va dal teatro al
cinema e dalla regia alla recitazione, Enzo Moscato è innanzitutto
uno scrittore straordinario, l’autore teatrale napoletano più venerato di oggi, il capofila della drammaturgia posteduardiana che
annovera anche Annibale Ruccello, Fortunato Calvino, Mimmo
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OME LUOGO DELL’INCONTRO HA SCELTO un
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Borrelli, e che è stata uno dei fenomeni culturali di questi anni. I suoi testi (più di cinquanta, in buona parte pubblicati da
Ubulibri) spesso li interpreta e li dirige e sono tutti intimamente legati a Napoli, la ribalta da cui raccontare l’uomo: dal dolente 4DBOOBTVSJ
DF di trentaquattro anni fa, che quest’anno è andato in scena per la regia di Carlo Cerciello con Imma Villa, a 3BTPJ che nel ’91 interpretò Toni Servillo, via via fino ai racconti di 0DDIJHFUUBUJ. Storie multiformi e
«spezzacuore», in una «lingua dell’invenzione» ricca e conturbante, il napoletano «naturale e vegetativo» come lo chiama Moscato, amalgamato
a slang e neologismi, con echi di Viviani e Eduardo e umori di Genet e Pasolini, attraversate da personaggi desolanti, pasticciati, ansiogeni, incessantemente parlanti mentre fuggono o seguono il loro dramma: commarelle, prostitute, maniaci, femminielli, guappi, indigenti, nullafacenti, generosi e autodistruttivi, che anelano gesti d’amore ma resta-
il tram e ce ne andavamo a mangiare».
La sua infanzia animata Moscato l’ha raccontata in una biografia ricca e colorata, (MJBOOJQJDDPMJ(Guida), dove il ritratto personale confluisce con la Napoli
popolare del Dopoguerra che ancora respirava un po’ dello spirito del ’43
«quando i napoletani avevano deciso di darsi la libertà senza aspettare gli americani», a lungo anno cruciale nella memoria dei vicoli che Moscato, nato nel
’48, ascoltava dai racconti. «I Quartieri sono stati e in parte sono il cardine delle
famiglie della camorra ma a me, bambino dei vicoli, mi arrivava soltanto il lato
bello e avventuroso, le processioni, i giochi, le comari, le madonne parlanti, la
libertà e comunque pure la sicurezza. Perché a Palazzo Scampagnato, il palazzone malandato del Settecento in cui abitavamo, con quel suo grande cortile interno, c’era un senso di appartenenza forte e ogni vicino considerava il bambino degli altri parte della sua stessa famiglia… E poi era la Napoli laurina che,
piaccia o no, all’inizio aveva dato delle speranze. Gli unici scontri di cui ho memoria nei Quartieri erano quelli in stile Peppone e Don Camillo tra i monarchici
e i comunisti. Napoli è sempre stata dalla parte dei re».
Col senno di poi si capisce che vivere e crescere in RVFMMB città è stata una marcia in più. «Pensa ai tanti grandi che nonostante le difficoltà sono andati avanti.
Io stesso ho potuto studiare e non era affatto una cosa normale in casa mia. I
miei avevano la sesta, qualche mio fratello è arrivato fino alla prima media. Per
me avevano invece deciso che dovevo andare a scuola. All’inizio mi sentii forzato a non fare più la vita dei vicoli, specie quando qualche anno dopo mio padre
ci deportò a Fuorigrotta. Quel trasferimento significò l’ingresso in un ordine
borghese, non potevo più scendere in strada, e così mi rassegnai al ruolo di studente. Alla fine mi piacque pure. Cominciai a leggere, a girare per le bancarelle
di via Costantinopoli. Mi sono innamorato della Ortese, di Di Giacomo, padri genetici. Quando ho iniziato a scrivere ho sentito che dovevo andare avanti, ecco
perché l’invenzione di una lingua che risulta straniante, che è napoletano e che
non lo è».
Combattente, non si è mai adagiato «nell’alveo della pappardella napoleta-
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na» come dice lui, invece l’ha trasformata: «Di Annibale Ruccello, di me, dissero che eravamo gli eredi di Eduardo, un’etichetta che ho impiegato anni a scardinare. Io le mie radici le vedo in Jean Genet, in Artaud, i maestri con cui mi sono confrontato erano Leo De Berardinis, Carmelo Bene. Eduardo lo considero un grande da un punto di vista scenico, una figura artaudiana, ma
da un punto di vista drammaturgico non lo trovo così interessante, mi
pare un Pirandello minore, accanto a Strindberg o Ibsen resta una
drammaturgia molto naturalistica. Non è un tradimento se dico questo. Tradimento e tradizione hanno la stessa radice. Chi continua deve anche negare. E io credo di aver recuperato il mio debito a Eduardo in un mio testo, 5ËLËJUË, raccontandolo in una dimensione intima e inedita».
Diverso il discorso del “tradimento” di Napoli. Napoli oggi è per
Moscato il senso della perdita cantato in 5PMFEPTVJUF, il bellissimo spettacolo recentemente ripreso, o il sentimento dell’«epilogante-teatrino-night club anni Sessanta coi tratti del racconto
plebeo-picaresco», che è il nuovissimo(SBOE&TUBUFche sta portando in giro e ancora oggi è proprio qui al Teatro Nuovo di Napoli, realizzato con la Casa del Contemporaneo e un bel gruppo di amici e parenti da Cristina Donadio per il disegno delle luci a Massimo Andrei co-interpete. «Dopo la Seconda guerra mondiale i mondi si sono avvicinati e nessuna società è rimasta uguale a se stessa. Il vitalismo attuale di
Napoli lo vedo truccato, ed è dura per un napoletano restare dentro la propria appartenenza. Se io ci resto è perché sento di avere in me Eduardo, Viviani, ma anche Vico, Filangeri, Croce, l’elemento ventrale che
ti fa cantare e essere vitale e quello razionale che ti fa essere critico,
analitico, distaccato, come quando passando per San Biagio dei Librai vedo la casa di Giambattista Vico che è una stamberga e mi dico: è
il segno di come le cose in questa città possono essere grandi e terribili
insieme».
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