Obama e il vicolo cieco della guerra dei droni

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Transcript Obama e il vicolo cieco della guerra dei droni

N°39 – FEBBRAIO 2016
Obama e il vicolo cieco
della guerra dei droni
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BloGlobal Research Paper
Osservatorio di Politica Internazionale (OPI)
© BloGlobal – Lo sguardo sul mondo
Milano, febbraio 2016
ISSN: 2284-0362
Autore
Alessandro Tinti
OPI Adjunct Fellow. Dottore in Relazioni Internazionali presso l’Universita di Firenze discutendo una tesi dal titolo “L’egemonia fragile: la grande strategia della potenza americana al tempo di Obama”, in precedenza ha conseguito con lode presso lo stesso ateneo la laurea di primo livello in Studi Politici, occupandosi al compimento del
percorso universitario di teoria e pratica della nonviolenza. Ha inoltre frequentato il corso intensivo avanzato
“Nuove Relazioni Transatlantiche: le organizzazioni Internazionali e le sfide della sicurezza”, organizzato da Consules in partenariato con il Comitato Atlantico Italiano. Oltre alla passione per lo studio della politica e della conflittualita internazionale, il suo interesse professionale ricade nell’ambito delle emergenze di carattere umanitario. Ha svolto periodi di tirocinio presso l’ufficio del Garante dei Detenuti del Comune di Firenze ed in un centro
SPRAR di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. Attualmente e dottorando in Political Science, European Politics and International Relations presso la Scuola Superiore Sant’Anna e le Universita di Siena, Firenze e Pisa.
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A. Tinti, Obama e il vicolo cieco della guerra dei droni, Osservatorio di Politica Internazionale, Milano, 2016,
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I porti di Chabahar e Gwadar al centro dei “grandi giochi” tra Asia Centrale e Oceano Indiano, Osservatorio di Politica Internazionale (Bloglobal – Lo sguardo sul mondo), Milano 2014, www.bloglobal.n
INTRODUZIONE
Nei due mandati della presidenza Obama l’accresciuto e sistematico impiego di droni da combattimento è stato lo strumento privilegiato e il codice operativo della
campagna militare contro le reti del terrorismo internazionale. La Casa Bianca ha
giustificato le controverse uccisioni mirate sulla base del diritto acquisito a colpire
preventivamente, anche al di fuori dei confini nazionali e di un conflitto armato, i
cartelli terroristici di matrice islamista. Tuttavia, tanto il concetto di difesa preventiva, quanto il ricorso ai droni quali mezzi di morte sono divenuti oggetto di aspre critiche che hanno rimarcato le gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e
delle norme poste a tutela dei diritti fondamentali della persona.
Nonostante il tentativo di dissociarsi formalmente dalla tagliente e deleteria retorica
di George W. Bush, l’amministrazione Obama non ha rinunciato ai droni Predator e
Reaper per bombardare i “santuari” di al-Qaeda e di altre organizzazioni jihadiste,
così pareggiandone l’opacità e la flessibilità tattica. Il rilievo assunto da questo metodo di repressione indiretta testimonia però l’ingresso degli Stati Uniti in uno stato
di guerra permanente dall’obiettivo politico quanto mai sfuocato, che ridimensiona
l’efficacia complessiva della strategia americana.
In questo Research Paper si ripercorre l’evoluzione (mancata) della politica di antiterrorismo condotta dagli Stati Uniti in Pakistan, alleato equivoco che dal 2004 ad
oggi è stato il primo bersaglio dei droni armati. Se la centralità di Islamabad nella
lettura strategica di Washington induce a pensare che i droni non abbandoneranno
presto i cieli del Pakistan, una pluralità di argomentazioni contestano la sostenibilità
delle operazioni classificate su cui sono di fatto imperniate le ondivaghe relazioni bilaterali e aprono perciò a una più ampia discussione sulle contraddizioni lasciate in
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eredità dalla “guerra globale al terrorismo”.
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Research Paper, N°39 – febbraio 2016
SUDDIVISIONE TERRITORIALE DEL PAKISTAN – FONTE: US CONGRESSIONAL RESEARCH SERVICE
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PARTE I
LE INSIDIE DI UN’ALLEANZA BIFRONTE
Gli eventi dell’11 settembre 2001 ribaltarono completamente la posizione degli Stati
Uniti nei riguardi del Pakistan. A lungo ostracizzato e sanzionato per lo sviluppo del
programma atomico e le dispute con l’India, il Paese divenne beneficiario di generose sovvenzioni in cambio di una piena iscrizione alla lotta contro l’estremismo islamista. Tra il 2002 e il 2015 il Congresso americano ha autorizzato un esborso superiore a 18 miliardi di dollari in assistenza economica, umanitaria e militare. Il Pakistan ha inoltre ricevuto 13 miliardi aggiuntivi dal Fondo di sostegno di coalizione a
titolo del contributo principalmente logistico offerto all’intervento statunitense in Afghanistan [1]. Per avere un’immediata percezione del peso assegnato alle relazioni
bilaterali, nel 2010 il Pakistan è stato il secondo maggiore destinatario degli aiuti
erogati all’estero dalla superpotenza, dietro l’Afghanistan e prima di Israele [2].
In seguito all’avvio dell’operazione Enduring Freedom numerosi militanti di al-Qaeda
e dei vari gruppi Talebani trovarono riparo in Pakistan, in particolare nelle inaccessibili aree tribali alla frontiera afghana che diventarono (e sono tuttora) terreno di
addestramento e base operativa delle sigle estremiste. Dato il potenziale ruolo di
mediatore, gli Stati Uniti cercarono dunque la convergenza con il governo di Islamabad per stabilizzare il vicino Afghanistan ed estirpare i covi dei terroristi nelle gole montuose del Waziristan. Nel 2004 un accordo segreto sottoscritto dal Presidente
pachistano Pervez Musharraf concesse agli Stati Uniti la facoltà di condurre attacchi
mirati nelle Aree Tribali di Amministrazione Federale (FATA nell’acronimo inglese),
mettendo a disposizione le basi aeree di Shamsi nel Balochistan e di Shahbaz nel
Sindh per far decollare i droni armati. Da allora, se Washington ha mantenuto un
vincolo di segretezza sul programma classificato senza smentirne la sussistenza,
Islamabad ha pubblicamente condannato l’ingerenza statunitense cavalcando
l’acceso anti-americanismo dell’opinione pubblica, pur tacitamente accordando la
propria collaborazione per la continuazione delle missioni.
patto fiduciario già minato dalla parziale dissonanza delle agende politiche. I rapporti hanno raggiunto un punto di minimo nel 2011, quando il servizio d’intelligence
americano apprese che Osama bin Laden si nascondeva da anni nel complesso di
Abbottabad, dunque sollevando la questione dell’eventuale conoscenza o complicità
delle autorità pachistane. Inoltre, la dirigenza statunitense ha più volte condannato
Islamabad di duplicità nei riguardi di alcuni gruppi estremisti, tollerati o financo appoggiati per ragioni di convenienza – è il caso della rete Haqqani e del gruppo Lashkar-e-Taiba, entrambe designate organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti e il secondo responsabile di numerosi attentati in India. A sfilacciare ulteriormente i tesi
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L’importante investitura di Washington, tuttavia, non ha evitato l’inasprimento di un
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rapporti bilaterali contribuì nel novembre 2011 la schermaglia di confine in cui persero la vita ventiquattro soldati pachistani sotto i colpi delle forze NATO; l’incidente
di Salala portò all’evacuazione del personale statunitense dalla base di Shamsi e alla chiusura provvisoria delle linee di rifornimento terrestri della NATO.
Nel giugno 2014 l’esercito pachistano lanciò una prolungata offensiva nel Waziristan
del Nord allo scopo di dimostrare un rinnovato impegno contro la minaccia estremista. L’operazione (denominata Zarb-e-Azb) era stata pianificata dal nuovo vertice
delle Forze Armate pachistane, il Generale Raheel Sharif, in risposta a una lunga
scia di violenza culminata nell’attacco contro l’aeroporto internazionale di Jinnah a
Karachi, ma al contempo intendeva mostrare alla controparte statunitense un segno
di discontinuità [3]. Infatti, i dubbi emersi sull’ambigua selettività di Islamabad
avevano sollecitato il riesame delle misure di assistenza disposte verso l’alleato
asiatico, al termine della quale il Congresso ha infine deliberato di condizionare
l’erogazione di fondi alla doppia certificazione del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Difesa sulla conformità dell’azione del governo pachistano agli interessi statunitensi. Questo vincolo è stato chiamato in causa nell’agosto 2015, quando il Pentagono ha valutato che l’operazione Zarb-e-Azb non avesse “adeguatamente danneggiato” la rete Haqqani e conseguentemente ha congelato una quota dei
fondi stanziati per le forze di sicurezza pachistane.
Tuttavia, l’amministrazione Obama ha bilanciato queste dimostrazioni di rigidità con
l’apertura nel gennaio 2015 di una sessione negoziale per l’ampliamento della cooperazione e con l’invito alla Casa Bianca in ottobre del Primo Ministro Nawaz Sharif
nell’ottobre dello stesso anno [4]. Già nel novembre 2014, per la prima volta dopo
quattro anni, la leadership militare pachistana era stata accolta calorosamente a
Washington, segnalando dunque un ammorbidimento della contrapposizione. Del
resto, le incertezze sull’interminabile esposizione in Afghanistan fanno del Pakistan
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una pedina indispensabile per la politica statunitense nella regione.
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PARTE II
LA GUERRA DEI DRONI
In quella che il portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby ha fugacemente ritratto come una “relazione complessa”, l’utilizzo dei droni militari è stato spesso
l’ago della bilancia. Secondo le stime del Bureau of Investigative Journalism, sarebbero almeno 422 i raid statunitensi compiuti in territorio pachistano dall’avvio del
programma di uccisioni mirate [5]. La grande maggioranza (371) ricade sotto la responsabilità decisionale dell’attuale presidenza Obama. Nel novembre 2004 il primo
attacco uccise Nek Muhammad Wazir, un miliziano talebano di etnia pashtun, insieme ai due figli e altre quattro persone. Dal 2008 l’intensità delle incursioni è cresciuta con decisione, raggiungendo un picco (128) nel 2010 e poi scendendo costantemente negli anni più recenti, tanto che per il 2015 sono riportati tredici attacchi complessivi. La stessa fonte attesta che tra un minimo di 2.494 e un massimo di
3.994 individui abbiano perso la vita a causa dei bombardamenti selettivi.
I DRONI IN AZIONE IN PAKISTAN – RIELABORAZIONE GRAFICA: THE ECONOMIST
L’elevata quota di vittime civili (423-965) ha attirato sull’intervento statunitense le
mente macchiato l’immagine di Obama. Secondo un’indagine del Pew Research
Center, l’utilizzo di droni per eliminare i militanti estremisti è largamente condannato in trentanove dei quarantaquattro Paesi esaminati [6]. Se la disapprovazione è
massima in tutta la regione mediorientale, anche l’opinione pubblica degli alleati
NATO manifesta una netta opposizione. Come già accennato, la posizione ufficiale
degli Stati Uniti fa leva sulla continuazione di un conflitto armato contro al-Qaeda e
i suoi alleati per comprovare l’utilizzo della forza. Forte di un’accezione estensiva di
legittima difesa, invero non sostenuta dalle condizioni stabilite dal diritto internazionale per il suo esercizio, la dirigenza americana ha così intrapreso operazioni milita-
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contestazioni della comunità internazionale e un vento d’impopolarità che ha certa-
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ri classificate in territorio estero (in Yemen, Somalia e Filippine, oltre al Pakistan),
talvolta senza il previo consenso dello Stato bersaglio. Il primo drone strike messo
a segno al di fuori di una zona di guerra avvenne in Yemen nel novembre 2002,
quando la Central Intelligence Agency (CIA) individuò e abbatté nei pressi della capitale Sana’a Qaed al-Harethi, membro di al-Qaeda coinvolto due anni prima
nell’attacco contro il cacciatorpediniere USS Cole [7].
Tuttavia, la legittimità dei bombardamenti “chirurgici” è messa in dubbio da una serie di considerazioni e non da ultimo dalle evidenze di un danno sproporzionato a
carico della popolazione civile [8]. Prima del principio di proporzionalità, l’impiego di
droni armati viola lo stesso principio di distinzione tra combattenti e non combattenti fissato dal diritto internazionale umanitario. In particolare, autorevoli organizzazioni internazionali quali Human Rights Watch e Amnesty International hanno denunciato l’affidamento crescente ai cosiddetti “signature strikes”, che al contrario
dei “personality strikes” procedono all’eliminazione di un bersaglio senza conoscere
preventivamente né l’identità dell’individuo colpito, né la sua eventuale affiliazione a
un gruppo terroristico, ma esclusivamente sulla base di un comportamento ritenuto
sospetto dalle ricognizioni aeree [9]. Altrettanto controversa è la distinzione tra attacchi pianificati, fondati su rapporti d’intelligence e una stima affidabile dei danni
collaterali, e attacchi “dinamici”, ossia decisi in tempo reale e che quindi comportano un ampio margine di errore laddove i guerriglieri talebani si confondono nel tessuto urbano delle comunità tribali. A questo riguardo Amnesty International ha documento secondi attacchi contro chi era sopraggiunto a soccorrere le vittime di un
primo bombardamento, scagliati dietro l’ipotesi di una supposta complicità dei soccorritori con i miliziani (o presunti tali) già colpiti [10].
A incrinare ulteriormente il profilo di legittimità delle operazioni di anti-terrorismo
che si avvalgono di droni armati è la coltre di segretezza che avvolge il programma
di esecuzioni mirate. Quest’ultimo ricade sotto le disposizioni del Titolo 50 della legge federale statunitense, che attribuisce alla CIA l’autorità di condurre operazioni
segrete in territorio estero «per influenzare condizioni politiche, economiche o militari» senza alcun requisito di trasparenza [11]. Per questa ragione, contrariamente
a quanto avvenuto per l’utilizzo di droni militari in zone di combattimento (Afghanimando per le Operazioni Speciali Congiunte, JSOC) non prevedono alcun meccanismo d’indagine e di compensazione delle vittime civili. Del resto, il metodo di conteggio adottato dall’amministrazione Obama considera combattenti tutti gli uomini
in età militare presenti nella zona interessata dallo strike, purché un rapporto postumo non attesti la loro innocenza – ipotesi peraltro remota data l’impraticabilità
delle FATA.
Indubbiamente questi rilievi sui fragili presupposti legali dell’intervento in Pakistan,
come pure le aree grigie che ne contraddistinguono l’esecuzione, incidono sulla re-
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stan, Iraq, Libia), le operazioni gestite dalla CIA in Pakistan (in accordo con il Co-
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cezione internazionale della lunga campagna di anti-terrorismo combattuta dagli
Stati Uniti e sfibrano quel richiamo a una rinnovata leadership morale della superpotenza che Barack Obama aveva prefissato nella sua proposta politica. Tuttavia, è
parimenti necessario interrogarsi sulla concreta efficacia dei droni militari nel soste-
AREE TRIBALI DI AMMINISTRAZIONE FEDERALE (FATA) E PROVINCIA DEL KHYBER PAKHTUNKHWA
FONTE: US CONGRESSIONAL RESEARCH SERVICE
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nere gli interessi strategici di Washington.
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PARTE III
“COLPIRNE UNO PER RECLUTARNE CENTO”?
Nel 2009 l’allora Direttore della CIA e poi Segretario della Difesa Leon Panetta descrisse i droni come l’unica opzione disponibile per sradicare la rete di al-Qaeda in
regioni altrimenti inaccessibili [12]. La letalità di uno strumento di repressione a pilotaggio remoto in grado di colpire a grande distanza e con precisione assoluta ha
incoraggiato l’amministrazione Obama ad avvalorare una tipologia d’intervento dai
rischi politici e militari contenuti. Per una presidenza che si proponeva anzitutto di
uscire dal “pantano” delle due fallimentari iniziative belliche intraprese in Afghanistan e Iraq dal precedente esecutivo Bush, l’affidabilità dei drone strikes è perciò
sembrata una soluzione ammissibile e non appariscente per recidere i gangli
dell’estremismo islamista. Secondo gli ufficiali statunitensi i bombardamenti mirati
hanno degradato la capacità operativa dei gruppi terroristici localizzati sulle montagne occidentali del Pakistan, costringendoli ad abbandonare i campi di addestramento e i luoghi di aggregazione in spazi aperti, come anche a ridurre drasticamente le comunicazioni sotto il pericolo onnipresente di fornire le coordinate per un attacco. Inoltre, le incursioni dei droni da combattimento hanno di volta in volta
sfrondato i livelli di comando delle formazioni jihadiste. Tra gli scalpi eccellenti della
caccia statunitense, basti ricordare l’uccisione nel novembre 2009 di Baitullah
Mehsud, comandante del Tehrik-i-Taliban Pakistan e mandante dell’assassinio del
Primo Ministro pachistano Benazir Bhutto, e nell’agosto 2011 di Atiyah Abd alRahman, divenuto braccio destro di Aymann al-Zawahiri nell’organigramma di alQaeda dopo la morte di Osama bin Laden. Portando all’estremo del cinismo le motivazioni pragmatiche a sostegno del loro impiego, la politica dei droni sembra aver
risolto a favore del primo termine la questione dell’“uccidere o catturare” i responsabili di atti di terrorismo – una questione che la sempre rimandata chiusura del
centro detentivo di Guantanamo e il biasimo della comunità internazionale per il
trattamento inumano riservato ai terroristi imprigionati hanno reso pressante e divisiva all’interno della cerchia dei più vicini consiglieri del Presidente.
all’uso dei droni sono invece sovrastati dalle avverse conseguenze strategiche [13]
– una tesi sostenuta anche da David Kilcullen, ufficiale australiano esperto di contro-insorgenza che affiancò il Generale David Petraeus in Iraq nel biennio 20072008 e che in una nota audizione al Congresso americano raffigurò come controproducente il programma di esecuzioni mirate [14]. Se nel dicembre 2011 Obama
aveva puntualizzato che ventidue dei trenta esponenti apicali di al-Qaeda fossero
caduti sotto i missili di precisione lanciati da droni [15], l’effettiva decapitazione dei
vertici dell’organizzazione islamista e di altri gruppi militanti è stata frequentemente
contestata. Bergen e Tiedemann, ad esempio, hanno riportato che alla fine del 2010
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Tuttavia, numerosi analisti hanno osservato che i vantaggi tattici acquisiti grazie
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solo 36 (appena il 2%) dei 1.260 miliziani uccisi ricoprissero incarichi di alto rango
[16]. Secondo il National Counterterrorism Center i bombardamenti non hanno inibito l’intensità del conflitto tribale nelle FATA, né l’attività delle formazioni eversive
che vi hanno stabilito le proprie roccaforti [17].
DIMENSIONE SPAZIALE DEGLI ATTACCHI TERRORISTICI E DEGLI STRIKES DEI DRONI USA (2004-2014)
FONTE: THE ECONOMIST
quei semi dell’odio e del risentimento che alimentano e rinsaldano le fila
dell’estremismo. Lo stato di paura e di pressione psicologica cui è sottoposta la popolazione locale volge infatti lo sguardo delle nuove generazioni verso l’attrazione
dell’ideologia jihadista, complice anche la distruzione della struttura sociale tribale a
causa di decenni di rastrellamenti e vessazioni dell’esercito pachistano, nonché di
faide tra i signori della guerra [18]. Il sentimento anti-americano incitato dalla
pioggia di missili nelle aree tribali ha avuto risonanza nazionale, promuovendo manifestazioni di protesta trasversali a tutti i partiti politici e offrendo alla causa islamista un convincente argomento di propaganda. Non a caso, alcuni studi rilevano
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Per contro, gli attacchi spesso indiscriminati condotti mediante droni hanno gettato
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che l’impatto dei bombardamenti sia di corto respiro a fronte dell’intatta abilità di
al-Qaeda e dei gruppi Talebani di attingere a un inesauribile bacino di reclute e ordire offensive tanto in Pakistan, quanto in Afghanistan [19].
Peraltro, il fuoco americano ha indotto le formazioni talebane a lasciare gradualmente le FATA e ramificare la presenza in tutto il Paese, al riparo dagli occhi dei
droni. Un’irradiazione che ha contribuito ad alzare la tensione e la frequenza degli
attentati. L’assalto di un commando talebano all’Università di Bacha Khan a Charsadda lo scorso 20 gennaio è l’ultimo atto di un’ondata di violenza che le forze di sicurezza pachistane, malgrado gli annunci inneggianti il successo dell’operazione
Zarb-e-Azb, non sembrano in grado di arginare. Da questo punto di vista, non deve
essere sottovalutato l’effetto destabilizzante dei drone strikes sullo stesso governo
pachistano, assistito nel contrasto al terrorismo eppure delegittimato nell’esercizio
delle funzioni sovrane dalla violazione dello spazio aereo e dell’integrità territoriale
da parte della potenza occidentale. Oltre a lanciare un messaggio di debolezza subito intercettato dalle istanze estremiste, ciò scuote anche il delicato equilibrio tra le
autorità civili e i preponderanti apparati militari. L’immagine di un governo privo di
potere reale, ha annotato a questo proposito Boyle [20], è un elemento corrosivo di
particolare pericolosità in un contesto in cui l’opinione pubblica esibisce una crescente disaffezione verso le istituzioni centrali e in cui l’esercito – lo insegnano
quattro colpi di Stato, l’ultimo nel 1999 – controlla una fetta importante della burocrazia e dell’economia.
Se dunque le battute di caccia dei droni al confine afghano-pachistano sono da ritenersi controproducenti perché illegali e inefficaci nel lungo periodo, esiste tuttavia
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un’alternativa credibile e diversa dall’inazione?
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PARTE IV
QUALE ALTERNATIVA?
Nel maggio 2013 Obama stabilì che con la riduzione delle cellule terroristiche attive
in Pakistan, anche l’utilizzo dei droni sarebbe parallelamente diminuito [21]. Dopo
anni di campagna i voli si sono fatti più rarefatti, ma senza che il sacrificio di vite –
come si è visto anche civili – abbia degradato permanentemente il contagio jihadista, che si è dimostrato invece resistente contro il martello della tecnologia militare
americana conquistando i cuori e le menti di una popolazione che per buona parte
vive in condizioni di estrema povertà. Come accaduto in diversi scenari, gli Stati
Uniti hanno combattuto le manifestazioni del terrorismo senza affrontarne le cause
strutturali, trasfigurando un metodo coercitivo in una visione strategica.
Questa riflessione esorta a considerare due ordini di problemi tra loro intersecati. Il
primo riguarda la rimodulazione della cooperazione intrattenuta con il governo di
Islamabad. Dal suo rientro alla guida del Paese, il Primo Ministro Nawaz Sharif si è
pronunciato ripetutamente contro le operazioni di anti-terrorismo condotte dagli
Stati Uniti chiedendone l’immediata cessazione, una richiesta formalizzata da numerose risoluzioni dei parlamenti provinciali e di quello federale. È indubbio, tuttavia, che le missioni statunitensi avvengano con l’attiva collaborazione dei servizi segreti pachistani, che svolgono un ruolo fondamentale nella raccolta delle informazioni sensibili che portano all’identificazione dei bersagli.
Possono presentarsi due possibili chiavi di lettura di questa contraddizione. Da un
lato, le pubbliche esternazioni di condanna delle autorità civili pachistane sarebbero
funzionali a ottenere dalla controparte americana una gestione paritaria nella conduzione dei bombardamenti, laddove un’aperta ammissione di complicità con la potenza straniera eroderebbe invece buona parte del consenso politico. Da un altro lato, sono però le autorità militari a detenere il controllo sui termini e sull’applicazione
dell’accordo stipulato con Washington. Secondo dei rapporti diplomatici del Dipartimento di Stato americano rilasciati da Wikileaks, nel febbraio 2008 il Generale
Parvez
Kayani,
ex
vertice
delle
Forze
Armate
pachistane,
chiese
all’Ammiraglio William Fallon, allora comandante del U.S. Central Command, di incrementare il ritmo delle ricognizioni dei droni Predator sul Waziristan [22].
L’episodio non è isolato, tanto che alcuni analisti addebitano alle gerarchie militari la
volontà di far deragliare i negoziati con i gruppi Talebani [23]. Si ritiene, ad esempio, che l’uccisione nel maggio 2013 di Wali-ur-Rehman, comandante dei Tehreek-eTaliban-e-Pakistan, sia stata commissionata alla CIA dagli apparati di sicurezza pachistani per affossare l’apertura delle trattative. Membro dell’influente tribù Mehsud,
Rehman aveva lasciato nel 2008 la rete Haqqani per prendere la guida dei Tehreek-
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Ashfaq
11
e-Taliban-e-Pakistan, divenendo in seguito uno dei dirigenti più propensi a percorrere un confronto con le istituzioni di Islamabad. Del resto, la morte di Rehman arrivò
a due settimane dalla vittoria elettorale di Nawaz Sharif, quando il neo eletto Primo
Ministro già aveva lasciato intendere di voler terminare l’insurrezione talebana attraverso l’avvio dei colloqui di pace. La via negoziale è stata effettivamente sperimentata nel febbraio 2014 e gli Stati Uniti acconsentirono a sospendere gli attacchi
mirati
contro
i
miliziani.
L’aggressione
talebana
all’aeroporto
di
Karachi
e
l’imponente offensiva dell’esercito nel Waziristan del Nord (150.000 i soldati coinvolti), lanciata a una settimana di distanza dall’attentato e poi estesa anche alle
agenzie tribali di Kybher e Kurram, raffigurano emblematicamente l’insuccesso
dell’iniziativa. Tuttavia, diversi aspetti indicano che le autorità militari pachistane
abbiano remato contro, se non propriamente disatteso, le determinazioni politiche
dell’esecutivo Sharif. Ripresi gli scontri, anche i Predator statunitensi sono tornati in
quota. La più incalzante repressione dei soldati pachistani nelle FATA ha alzato il livello di un conflitto disgregante, al prezzo di aggravare quelle ragioni economiche e
socio-politiche cui attingono le rivendicazioni estremiste. Gli stessi tribunali militari
istituiti nel 2015 per giudicare i sospettati di terrorismo sono stati fortemente criticati per la restrizione delle libertà civili e il mancato rispetto del principio di giusto
processo – con oltre 6mila prigionieri in attesa dell’esecuzione capitale.
Ciò introduce il secondo elemento che appare cruciale nella discussione della condotta degli Stati Uniti in Pakistan, ossia lo status giuridico delle FATA. Non è per sole
ragioni morfologiche che i gruppi Talebani e al-Qaeda hanno eretto i propri baluardi
nelle impervie aree tribali. Queste sono sottoposte a una legislazione speciale che
mantiene in essere la legge coloniale britannica del 1872, parzialmente ritoccata nel
1901. La Costituzione pachistana rimuove le FATA dalla giurisdizione del Parlamento
e della Corte Federale; solo il governo federale può esercitarvi un controllo indiretto
e spesso solo nominale tramite agenti politici che tengono le relazioni tra i leader
(maliks), i consigli (jirgas) e le milizie (khasadars) tribali. In altri termini, il governo
centrale non contribuisce né all’erogazione di servizi sociali né al mantenimento
dell’ordine e all’amministrazione della giustizia, stante la mancanza di tribunali e
corpi di polizia. Queste condizioni anacronistiche sono state travolte dalla crescente
violenza tribale e dall’esplosione della propaganda jihadista, che ha gradualmente
tanto che l’ingresso nelle FATA è interdetto ai cittadini pachistani che non vi sono
residenti e che non hanno familiari nelle agenzie tribali [24]. Pertanto, i comandanti
talebani hanno avuto buon gioco nell’estromettere i maliks quali punti di riferimento. La popolazione locale ha subito il dazio non solo dell’estremismo, ma anche
quello inferto dall’esercito pachistano, le cui regolari irruzioni si sono accompagnate
a sistematici e impuniti abusi. Per questi motivi un rapporto dell’International Crisis
Group giunge alla conclusione che l’applicazione dello stato di diritto e il riconoscimento di pari dignità alle tribù pashtun costituiscono l’unico antidoto per contrastare efficacemente la minaccia terroristica [25].
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fagocitato comunità depresse economicamente e staccate dal corpo nazionale –
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Questa coppia di considerazioni dovrebbe indurre la dirigenza statunitense a rivedere il modello di cooperazione stretto con il Pakistan, andando oltre la sterilità del
programma classificato di esecuzioni mirate condotto con i droni armati e
l’immotivata centralità operativa della CIA. Dopo il massacro alla scuola pubblica
militare di Peshawar del dicembre 2014 – in cui persero la vita 145 persone, in gran
maggioranza studenti e insegnanti – le parti politiche pachistane hanno sottoscritto
un piano di azione nazionale che ha affidato alla pericolosa discrezionalità
dell’esercito l’applicazione di misure punitive, che esasperano lo stato di emergenza. Tuttavia, i venti punti programmatici stilati dal governo Sharif riconoscono anche la necessità di condurre riforme amministrative nelle FATA e di proteggere le
minoranze etniche.
Washington ha dunque la possibilità di spendere il proprio capitale politico per incidere sugli equilibri interni, da un lato accreditando gli sforzi negoziali cercati dal governo civile contro l’ombra delle gerarchie militari, dall’altro destinando una quota
maggiore dell’assistenza economica e umanitaria verso le FATA e al tempo stesso
premendo Islamabad per il superamento di un sistema di governance particolarmente iniquo nei riguardi delle comunità pashtun. Tra il 2001 e il 2007 solo il 6%
degli aiuti erogati a favore del Paese ha coperto progetti di sviluppo economico nelle
aree tribali, il cui successo è stato peraltro inficiato dalla corruzione endemica e
dall’instabilità sul fronte della sicurezza. Il dato esorta a una diversa destinazione
dei fondi [26]. Ancor più significativa è la ripresa dei colloqui di pace con i gruppi
Talebani, che sono attesi a Kabul per la fine del mese di febbraio [27]. In questo
senso la crisi pachistana e quella afghana naturalmente s’incrociano nello stesso
complesso quadro strategico. La presenza di Stati Uniti e Cina nel gruppo di coordinamento che con Pakistan e Afghanistan sta preparando il difficile processo diplomatico indica la gravità degli interessi in gioco. È a questo crocevia, infine, che
l’amministrazione Obama dovrà decidere se misurarsi con un cambio di paradigma
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nella lotta contro il terrorismo.
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NOTE ↴
[1] K. A. Kronstadt, Pakistan-U.S. Relations: Issues for the 114th Congress, Congressional
Research Service, p. 13, 2015.
[2] S. Epstein, K. A. Kronstadt, Pakistan: U.S. Foreign Assistance, Congressional Research
Service, p. 10, 2013.
[3] S. Nazar, The False Savior of Pakistan, Foreign Policy, December 18, 2015.
[4] Joint Statement By President Barack Obama And Prime Minister Nawaz Sharif, White
House, October 22, 2015.
[5] Pakistan 2004-2016 CIA Drone Strikes, The Bureau of Investigative Journalism.
[6] Global opposition to US Surveillance and drones, but limited harms to America’s image,
Report, Pew Research Center, July 14, 2014; Public continues to back US drone attacks, Report, Pew Research Center, May 28, 2015.
[7] J. Kaag, S. Kreps, Drone warfare, John Wiley & Sons, p. 21, 2014.
[8] Ibidem; S. Kreps, J. Kaag, The use of unmanned aerial vehicles in contemporary conflict:
A legal and ethical analysis, in “Polity”, vol. 44, n. 1, 2012; S. Barela, Legitimacy and
drones: Investigating the legality, morality and efficacy, Ashgate, 2015; G. Kennedy,
Drones: Legitimacy and Anti-Americanism, in “Parameters”, vol. 42, n. 4, 2013; T. McCrisken, Obama’s Drone War, in “Survival”, vol. 55, n. 2, 2011.
[9] G. Cohen, Public Opinion & Drones: The Formation of American Public Opinion Regarding
the Use of Drones as a US Foreign Policy Tool, pp. 8-9, 2014.
[10] “Will I be Next?" U.S. Drone Strikes in Pakistan, Amnesty International, p. 28, 2013.
[11] J. Kaag, S. Kreps, op. cit., pp. 53-54, 2014.
[12] L. Panetta, Director's Remarks at the Pacific Council on International Policy, Central Intelligence Agency, May 18, 2009.
p. 3, 2013.
[14] M. Bentley, J. Holland, Obama's Foreign Policy: Ending the War on Terror, Routledge, p.
32, 2013.
[15] M. Zenko, S. Kreps, Limiting armed drone proliferation, Center for Preventive Action,
69, Council on Foreign Relations, p. 9, June 2014.
Research Paper, N°39 – febbraio 2016
[13] M. J. Boyle, The costs and consequences of drone warfare, International Affairs, 89(1),
14
[16] P. Bergen, K. Tiedemann, The year of the drone: An analysis of US drone strikes in Pakistan, 2004-2010, Counterterrorism Strategy Initiative Policy Paper, New America Foundation, February 24, 2010.
[17] Ibidem.
[18] L. U. Drones, Death, Injury and Trauma to Civilians from US Drone Practices in Pakistan, International Human Rights and Conflict Resolution Clinic, Stanford University & NYU,
September 2012.
[19] P. Johnston, & A. Sarbahi, The Impact of US Drone Strikes on Terrorism in Pakistan and
Afghanistan, RAND Corporation, April 21, 2015.
[20] M. J. Boyle, op. cit., p. 15, 2013.
[21] B. Obama, Remarks by the President at the National Defense University, White House,
May 23, 2013.
[22] Cables show US special operations in Pakistan, al-Jazeera, May 21, 2011.
[23] C. C. Fair, S. J. Watson (Eds.), Pakistan's Enduring Challenges, University of Pennsylvania Press, 2015.
[24] C. C. Fair, K. Kaltenthaler & W. J. Miller, Pakistani opposition to American drone strikes,
Political Science Quarterly, 129 (1), p. 7, 2014.
[25] Drones: Myths and Reality in Pakistan, Asia Report n. 147, International Crisis Group,
May 21, 2013.
[26] S. Epstein, K. A. Kronstadt, op. cit., p. 12.
[27] Kabul Peace Talks with Taliban Expected This Month, Agence France-Presse, February 7,
A cura di
OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
Ente di ricerca di
“BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO”
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