Andrea Canevaro Infanzie e genocidio

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Andrea  Canevaro  Infanzie  e  genocidio  

L’uccisione dei bambini, anche neonati, in un genocidio è un aspetto particolarmente tragico. Può farci capire che, nella logica di un genocidio, l’infanzia ha un significato particolare. Un neonato richiede attenzioni, cure, deve essere pulito, cambiato, riscaldato, nutrito. È esigente. Esige altruismo. Proprio quello che il genocidio vuole e deve cancellare … E vuole cancellare anche chi si impegna nelle ricerche per chi cresce ed ha bisogno di aiuto. Ma questa è una storia che meriterebbe uno studio specifico. Una storia di esodi, di silenzi forzati, di violenze. E anche di passaggi, e di sopravvivenze, dai campi della morte. Noi parliamo dell’uccisione dei bambini a partire dalla contabilità dei morti, cioè dalla conclusione. Proviamo invece a smontare questa tragica storia per tentare la difficile comprensione di alcuni dei pezzi che la compongono.

1.

La categorizzazione degli stereotipi.

“Quando indicate un intero gruppo di persone con un unico termine, come per esempio musulmani, agite come se voleste sbarazzarvene: non sapete più distinguere i singoli individui. Il nome, la parola vi avrà così impedito di comportarvi come un essere umano in relazione con altri esseri umani.

Krisnhnamurti (1960)

”. [in M. RAHNEMA (2005; 2003),

Quando la povertà diventa miseria

, Torino, Einaudi, p. 85]. 2.

L’attribuzione di colpe.

Vite indegne di essere vissute. “[…] perfino i libri di matematica riportavano problemi del tipo: quante case popolari si potrebbero costruire risparmiando le spese per trecentomila malati mentali, epilettici, ecc., che sono custoditi negli istituti tedeschi a un costo medio di quattro marchi al giorno?” [in P. GHEZZI ( 2014),

La Rosa Bianca non vi darà pace

, Trento, Il Margine, p. 105]. 3.

Le doppie verità e le doppie morali.

Il nemico viene combattuto in modi spettacolari. Col nemico si fanno affari di nascosto. 4.

Le parole che nascondono banalizzando, burocratizzando.

Afferma Zygmunt Bauman: «A seconda delle circostanze si parlò di “eliminazione”, “soppressione”, “evacuazione” o “riduzione” (si legga “sterminio”). In seguito all’ordine impartito da Hitler il 1 Settembre 1939 a Brandeburgo, Hadamar, Sonnestein ed Eichberg erano stati creati dei centri che si mascheravano dietro una duplice menzogna: nelle conversazioni sommesse tra iniziati essi si chiamavano “istituti per l’eutanasia”, mentre per il pubblico più vasto assumevano l’appellativo ancora più ingannevole e fuorviante di fondazioni caritatevoli per l’“assistenza istituzionale” o il “trasporto dei malati”, o addirittura l’insignificante nome in 1

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codice “T4” (dall’indirizzo Tiergartenstrasse 4, a Berlino, dove si trovava l’ufficio che coordinava l’intera operazione di sterminio)».

1 Riferisce Arno Joseph Mayer: «Boulher e Brandt [incaricati da Hitler] non incontrarono difficoltà nel radunare un gruppo di medici che praticassero l’eutanasia, alcuni dei quali però, insieme con altri funzionari operanti nello stesso programma, scelsero di lavorare sotto pseudonimo. Era loro compito eliminare, negli che erano stati ricoverati per cinque anni o più».

Heilanstalten

2 o sanatori tedeschi, il 20 per cento degli handicappati fisici e mentali, circa 70.000 malati cronici L’indicazione T4 – sigla ermetica e burocratica – era il sinonimo di una purificazione ritenuta necessaria, che aveva anche qualche forma di pubblicità cauta ma efficace. Ad esempio, venivano rappresentati due soggetti, uno con una postura abbandonata, seduto, visibilmente incapace di pensare, come si doveva dedurre dallo sguardo perso, dalla muscolatura flaccida, dall’abbandono, dalla mancanza di energia; l’altro stava accanto, in piedi, energico, pronto, muscoloso. E il commento all’immagine era: «Può essere sacrificata una vita utile per una vita inutile?», o parole che andavano in quel senso. Si propagandava l’idea che alcune vite non avessero nessun valore, anzi fossero parassitarie, e potessero essere utilmente eliminate perché la loro stessa sopravvivenza significava sottrazione agli altri – quelli che hanno un valore – di energie, di risorse, di cibo. Erano vite inutili e dannose. Chi ha una disabilità dovuta a un trauma, e quindi insorta nell’arco di una vita che non aveva disabilità, vive la fragilità dell’ora incerta in modo particolarmente intenso. Teme anche la sola parola «disabile», illudendosi di avere una condizione transitoria, di essere malato e poter guarire. Teme di incontrare un altro con disabilità, con il terrore di rispecchiarsi. 5.

La disumanizzazione

: superumani sottoumani “Il processo di disumanizzazione, secondo i piani del sistema concentrazionario, dovrebbe in teoria iniziarsi nel momento stesso in cui le deportate entrano in campo. 1 Z.

B AUMAN ,

Modernità e Olocausto

, il Mulino, Bologna 2 1992, 102-103. 2 A.J.

M AYER ,

Soluzione finale. Lo sterminio degli Ebrei nella storia europea

, Mondadori, Milano 2 1990, 395. 2

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Private di tutti gli effetti personali, offese dallo spettacolo della nudità propria e altrui, obbligate a soddisfare in pubblico i bisogni fisiologici, a leccare il cibo, ad attendere per ore uno spruzzo d’acqua, a vivere in una promiscuità ossessionante, affamate, assetate, esse dovrebbero fin dal primo giorno abbattersi, lasciarsi andare, rinunciare a ogni tentativo di lotta e di resistenza”. L. BECCARIA ROLFI, in, L. BECCARIA ROLFI, A. M. BUZZONE (1978),

Le donne di Ravensbruck

, Torino, Einaudi, p. 34. 6.

La rappresentazione falsante.

La rappresentazione (l’apparenza) della realtà utilizzata per diffondere la non conoscenza della stessa realtà. “Avendo capito che la conquista delle terre e degli uomini passa attraverso quella dell’informazione e della comunicazione, le tirannie del XX secolo hanno sistematizzato la manomissione della memoria e tentato di controllarla fin nei suoi angoli più riposti” T. TODOROV (2001(2000),

Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico

, Milano, Garzanti, p. 139. 7.

L’organizzazione complessa, che fa credere che nessuno sia colpevole (lapidazione postmoderna).

La negazione delle responsabilità e la delega (a un capo?) della propria

competenza morale

: ritenersi così

incompetenti morali

. Neghiamo la responsabilità ai nostri atti quando attribuiamo la loro causa a: delle forze impersonali e vaghe: “ho pulito la mia camera perché era obbligatorio”. del nostro stato di salute, o diagnostico, oppure i nostri antecedenti individuali o psicologici: “bevo perché sono alcolizzato”. degli atti degli altri: “ho picchiato mio figlio perché correva sulla strada”. del diktat di un’autorità: “ho mentito al cliente perché il capo me l’ha chiesto”. della pressione sociale: “ho cominciato a fumare perché nel gruppo gli amici fumavano”. di una politica istituzionale, dei regolamenti, delle leggi: “devo sospenderti per quello che hai fatto perché è la politica della scuola”. della funzione attribuita a un sesso, a un gruppo sociale o all’età: “detesto questo lavoro, ma lo faccio perché sono padre di famiglia”. di pulsioni incontrollabili: “ho mangiato un dolce perché era più forte di me”. Cfr. M. B. ROSEMBERG (1999),

Les mots sont des fenêtres (ou bien ce sont des murs)

, Paris, Syros. 8.

Essere solo un numero tatuato

. Universalismo / categorizzazione. Inconciliabilità e contraddizione. 9.

La riduzione impossibile.

La vita umana non può essere ridotta ai soli bisogni materiali. È più complessa. La simpatia e le reti sociali. 3

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10.

I conti con il passato e la memoria.

Il Sud Africa di Mandela è l’esempio più alto che conosciamo. Il passato non viene né cancellato né dimenticato. E’, al contrario, rivisitato ma per guardare ad un progetto politico che non esclude chi era dalla parte sbagliata. E’ un progetto di tutti. E in questo può esserci anche la parola “perdono”, con l’implicazione connessa alla dimensione etica propria del disegno politico che viene avanti. La nostra speranza, nella parte del mondo in cui ci è dato vivere, è l’Europa. E allora quella politica che storicamente ha preso forma nella Grecia antica può darci il senso di radici profonde, alimentate da quel senso della religiosità che paradossalmente si sposa benissimo con la laicità che raccoglie credenti e non credenti, e che vuole superare clericalismi e laicismi. Se le parole hanno un significato che può essere esplorato, religiosità ha una parentela piuttosto stretta con ri-legare, tenere insieme elementi che diversamente si sparpaglierebbero, volerebbero via da tutte le parti. C’è un senso di religiosità laica nella politica. Ed in questa il perdono può avere un senso e spezzare l’inganno. Bisogna imparare ogni giorno a pensare politicamente.“La riconciliazione deve […] per definizione spingersi oltre il ghetto angusto di un singolo credo, di una cultura o ideologia. Deve poter essere raggiunta da ogni persona, sia come concetto sia come realtà sostanziale. Per molto tempo è stata ritenuta un concetto essenzialmente religioso, ma ora, perché possa diventare realmente universale, deve acquisire anche un significato laico. […] La riconciliazione si sottrae a ogni preciso sistema di regole. In effetti essa è più di una teoria: non ci sono istruzioni per l’uso. Essa comprende intuizione,creatività, ma anche rischio e voglia di esplorare e di ‘ricominciare da capo’. Implica una specie di stato di grazia. E’ una festa dello spirito umano. La riconciliazione ha a che fare con l’idea di rendere possibile l’impossibile” [C. VILLA-VICENCIO, in A. BENDANA, C. VILLA VICENCIO (2002),

La riconciliazione difficile. Dalla guerra a una pace sostenibile,

Torino, EGA, p. 49]. ***

L'Aktion T4: il progetto di eutanasia nazista 6.

La macchina della morte si mette in moto: Tiergartenstrasse 4.

Subito dopo l'emanazione dell'ordine di Hitler Phillip Bouhler e Karl Brandt iniziarono ad organizzare la struttura che avrebbe dovuto condurre l'operazione di eliminazione. In primo luogo venne stabilita la sede dell'organizzazione. A Berlino, al centro dell'elegante quartiere residenziale 4

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di Charlottenburg, venne espropriato un villino di proprietà di un ebreo. Lo stabile si trovava al civico numero 4 della Tiergartenstrasse. Proprio da questo indirizzo fu ricavato il nome in codice per l'operazione di eutanasia: "Aktion T4". Mentre Phillip Bouhler si disinteressò presto dell'operazione, Karl_Brandt (probabilmente in quanto medico) si impegnò a fondo nella "Aktion T4". Per mettere in piedi la struttura Brandi si appoggiò al suo vice Viktor Brack che, assunto lo pseudonimo di "Yennerwein", iniziò il reclutamento del personale. Brack e il suo collaboratore Werner Blackenburg scelsero personalmente tutti gli uomini e le donne che avrebbero dovuto far parte della Aktion T4. L'intero processo di reclutamento venne sviluppato in un'atmosfera di estrema segretezza. Franz Stanai, che successivamente sarà comandante dei campi di Sobibor e Treblinka, ricorda così il suo reclutamento: "Mi presentai alla Tiergartenstrasse 4, alI'SS Oberfùhrer Brack, mi pare che mi spiegò quali sarebbero stati i miei compiti di polizia. Io dissi che avrei preferito rimanere in Austria, dove sarei stato più vicino alla mia famiglia (...) Mi diede il nome di un villaggio non molto lontano da Linz e un numero di telefono; ricordo che era: Alkoven 913 (...) Dovevo recarmi in una locanda alla periferia di Linz la Gasthaus Drei Kronen, sulla Landstrasse e telefonare a quel numero e avrei avuto istruzioni. Feci come mi era stato detto, andai alla Drei Kronen e chiamai Alkoven 913. Rispose una voce maschile, dissi il mio nome e lui disse: "Vengo a prenderla". Circa un'ora dopo una specie di furgone si fermò davanti alla locanda. L'autista era in borghese, portava un abito grigio. Quando gli domandai dove andavamo, non me lo disse, si limitò a dire "in direzione di Everding". Dopo un'ora arrivammo al Castello di Hartheim". Viktor Brack decise di creare una Direzione della "Aktion T4": il "Comitato dei Periti". Questo Comitato era, di fatto, il vertice della operazione ed era costituito da tre persone: il professor Werner Heydje, il professor Paul Nitsche e il professor Maximilian de Crinis. I tre tutti psichiatri e nazisti affidabili crearono la struttura amministrativa ed idearono tutti i passaggi esecutivi per lo sterminio dei disabili fisici e psichici. Per mantenere strettamente segreto l'intero progetto vennero create tre strutture fittizie: la

Fondazione Generale degli Istituti di Cura

che si curava della gestione del personale della "Aktion T4"; la

Associazione dei Lavoratori degli Istituti di Assistenza e cura del Reich

preparare e spedire i questionar! destinati a censire i malati ricoverati negli istituti psichiatrici; la

Società di Pubblica Utilità per il trasporto degli ammalati,

che doveva che doveva trasferire i pazienti destinati alla eliminazione dagli Istituti alle cliniche della morte.

SOLUZIONE FINALE.

A.

J. MAYER (1990; 1988),

Soluzione finale. Lo sterminio degli Ebrei nella storia europea

, Milano, Mondatori,pp. 395-401. “La teoria e la prassi naziste dell'«eutanasia» furono un simbolico anticipo di questi centri di morte, rendendoli concepibili, plausibili e fattibili. Non si vuole con ciò affermare che la possibilità di utilizzare la logica, il personale e le tecniche del preesistente programma di eutanasia abbiano 5

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influito sul ricorso allo sterminio con i gas, che ebbe inizio a Chelmno. Si è tentati di interpretare il programma di eutanasia del regime nazista come un precursore del genocidio, non da ultimo perché è ben documentato: l'ordine di praticare l'eutanasia, firmato da Hitler, ci è pervenuto; il progetto venne diretto dalla Cancelleria del Führer e conosciamo l'identità dei suoi principali ideatori ed esecutori. Ma qualunque sia il legame tra il programma di eutanasia e l'ebreicidio, esso non è l'anello mancante, sempre elusivo, nella catena della sola e diretta responsabilità di Hitler per la persecuzione degli ebrei. Esso però incarna certamente alcuni degli stimoli sotterranei e delle circostanze non precisate della «soluzione finale». Lo stesso Hitler nel 1938 aveva dato istruzione a Philipp Bouhler, capo della Cancelleria e uno dei

Reichsleiter

del Partito nazista, e al dottor Karl Brandi, suo medico personale, di preparare un piano per P«eutanasia» destinato innanzi tutto ai bambini incurabilmente malati e deformi e quindi agli adulti handicappati mentalmente e fisicamente. Ma fin dall'inizio, consapevole delle reazioni contrarie all'estero e in patria, aveva sottolineato la necessità di conservare al riguardo la più assoluta segretezza. Bouhler era un incallito nazista e tale era anche il suo primo assistente, il colonnello delle SS Viktor Brack, che era a capo della nuova unità operativa e che ben presto divenne il supervisore del programma di eutanasia. Tutti naturalmente erano mossi allo stesso modo da speciosi principi di igiene della razza. Ma nel loro schema vi era anche un aspetto pratico: infatti, liberando la Germania dalle

Rechtsstaat Ballastexistenzen,

cioè dalla zavorra umana, intendevano lasciare liberi letti d'ospedale, medici e infermiere per le imminenti guerre del regime. Bouhler, Brandt e Brack invitarono importanti medici del servizio sanitario pubblico a unirsi al loro gruppo di lavoro, che incontrava difficoltà a formulare un testo in cui riportare per iscritto le istruzioni verbali di Hitler. In realtà si accordarono per una laconica comunicazione firmata dal Führer nell'ottobre 1939: «Il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt hanno ricevuto l'incarico di allargare l'autorità dei medici, che dovranno essere designati nominalmente e autorizzati a garantire l'eutanasia ai malati incurabili, in base a una valutazione critica ed esaustiva, di carattere umanamente discrezionale, delle loro condizioni mediche». Battuto a macchina su carta intestata della Cancelleria con impresso in rilievo l'emblema del partito, questo mandato segreto non fu un decreto governativo ma espressione della volontà personale di Hitler. Bisogna inoltre sottolineare che il testo era tanto vago da invitare a un'arbitraria discrezionalità nell'ambito di un regime che da tempo aveva cessato di essere un [stato di diritto o costituzionale]. Ma il dato ancor più impressionante è che Hitler retrodatò l'ordine al primo settembre 1939, giorno dell'invasione della Polonia e dell'inizio della guerra. Ritenne probabilmente che l'eccitazione e i pericoli della guerra avrebbero soffocato le possibili critiche, distratto l'attenzione e reso meno sacrosanta la vita degli handicappati incurabili in Germania e altrove. Bouhler e Brandt non incontrarono difficoltà nel radunare un gruppo di medici che praticassero l'eutanasia, alcuni dei quali però, insieme con altri funzionari operanti nello stesso programma, scelsero di lavorare sotto pseudonimo. Era loro compito eliminare, negli ossia all'indirizzo della Cancelleria.

Heilanstalten o

sanatori tedeschi, il 20 per cento degli handicappati fisici e mentali, circa 70.000 malati cronici che erano stati ricoverati per cinque anni o più. L'operazione ebbe il nome in codice di 74, in quanto l'ufficio di coordinamento aveva la sua sede al numero 4 della Tiergartenstrasse di Berlino - Charlottenburg, In differenti parti della Germania, si cominciò a «sottoporre a trattamento» i malati di mente in sei istituzioni, ciascuna con un suo raggio di attività: Grafeneck nel Wùrttemberg, Hadamar in Assia, Brandenburg e Bernburg nella Prussia centrale, Sonnenstein in Slesia e Hartheim presso Linz. In effetti il gruppo di Grafeneck fu poi mandato a Hadamar e quello di Brandenburg fu trasferito a Bernburg. Tra il gennaio 1940 e l'agosto 1941 gli operatori di queste istituzioni mandarono a morte circa 70.000 malati mediante il gas, e si calcola che ne abbiano uccisi altri 20.000 mediante iniezioni letali e dosi eccessive di farmaci. I cadaveri venivano cremati. Ai parenti stretti o ai custodi veniva data notizia del trapasso dei loro congiunti o pazienti con spiegazioni inventate e d'ufficio sulle cause del decesso. Ma queste notificazioni suscitarono sospetti. Verso la metà del 1940, parenti, funzionari e 6

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soprattutto sacerdoti cattolici e protestanti cominciarono ad avanzare proteste, dapprima attraverso canali privati, poi in pubblico. Tra coloro che espressero le prime rimostranze vi furono gli arcivescovi di Friburgo, Breslavia, Monaco e Berlino. Quantunque la protesta del conte Clemens August von Galen, arcivescovo di Munster, non sia stata affatto la prima, tuttavia può essere considerata significativa, tanto più che sotto altri aspetti von Galen era tutt'altro che critico del regime nazista. Il trasferimento di malati mentali da un manicomio a Marienthal, presso Mùnster, lo spinse a presentare un'interrogazione formale alle locali autorità giudiziarie e di polizia. Il 3 agosto 1941, dato che la sua interrogazione era stata ignorata per tutta una settimana, von Galen affrontò il problema durante il sermone che tenne nella chiesa di S. Lamberto a Miinster. Diede inizio all'omelia citando una lettera pastorale che era stata letta il 7 luglio nelle chiese cattoliche e dove si dichiarava che «mai, in nessuna circostanza, era consentito a un essere umano di mettere a morte un innocente, tranne che in guerra o per legittima difesa». Vale la pena di notare che questa prima critica ali'«eutanasia» coincise con la non imposta e non riluttante consacrazione da parte della Chiesa von Galen compreso della crociata contro la Russia sovietica e il «giudeobolscevismo». Comunque, il vescovo insistette che subito dopo la diffusione della sua lettera pastorale egli aveva espresso «il sospetto se non la certezza» che la morte di molti malati di mente, dei quali si era detto che erano morti di morte naturale, di fatto fosse stata «deliberatamente provocata». Avendo messo così al corrente la sua congregazione, von Galen denunciò la morte dei malati di mente come uno sterminio e proclamò che «coloro che praticavano l'eutanasia» erano degli assassini. Uno dei suoi argomenti principali fu che la logica dell'eliminazione dei malati di mente avrebbe potuto essere poi applicata anche ad altre categorie di membri improduttivi della società. Avete voi, ho io il diritto di vivere soltanto finché siamo produttivi, fino a che [qualche funzionario o qualche commissione] attesta che siamo produttivi? Una volta stabilito e applicato questo principio secondo cui gli esseri umani «improduttivi» possono essere uccisi, allora guai a tutti quelli di noi che invecchiano e si ammalano! Se permettete che degli individui vengano uccisi perché sono improduttivi, guai allora a tutti gli invalidi che hanno usato, sacrificato e logorato le loro energie e la loro salute nel processo di produzione! Se permettete che vengano eliminati con brutalità i vostri simili che sono improduttivi, allora guai a quei nostri valorosi soldati che torneranno in patria gravemente feriti, mutilati o disabili. In fondo, consentire ai comuni mortali il diritto di uccidere gli esseri umani «improduttivi» - anche se per il momento sono presi di mira soltanto gli sfortunati e indifesi malati di mente - significa dare licenza di uccidere tutti gli individui improduttivi: gli invalidi del lavoro e della guerra e tutti noi che, vecchi e malati, diventeremo improduttivi. Il sermone di von Galen venne diffuso oralmente e attraverso scritti e volantini lanciati dalla Royal Air Porce britannica, incoraggiando eminenti vescovi di altre città a pronunziarsi contro l'eutanasia. Parecchi illustri pastori protestanti e laici si espressero allo stesso modo: il segreto ormai non era più tale. Il 24 agosto 1941, Hitler revocò completamente il programma di eutanasia. Non poteva rischiare di veder minato il morale della Wehrmacht da dubbi sulla sorte degli eroi di guerra feriti, né voleva fornire materiale alla propaganda nemica; inoltre non era possibile ridurre al silenzio von Galen e altri sacerdoti senza creare dei martiri popolari. Ma troncare la vasta operazione di morte all'interno del Reich non significò porre del tutto fine a

1^.

Il programma di eutanasia in Germania continuò su scala ridotta. L'operazione 14 f 13, la sua più significativa diramazione, si trasferì dai manicomi per malati di mente e dagli ospizi per handicappati ai campi di concentramento. Himmler indusse Bouhler a distaccare alcuni dei medici che praticavano l'eutanasia affinché facessero una cernita di tutti gli internati dei campi fisicamente e psicologicamente disabili. La selezione ebbe inizio più o meno verso la metà del 1941. I medici di Bouhler si spostarono nei differenti campi per compiere esami che erano ancor più approssimativi di quel che erano stati in precedenza. Ben presto essi furono incaricati di liquidare gli internati inabili al lavoro e firmarono migliaia di ordini di morte, anche se il numero esatto non è noto. Tra la metà del 1941 e quella del 7

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1943, circa 4500 internati furono portati ad Hartheim da Mauthausen, Gusen e Dachau per essere uccisi col gas. La stessa sorte subirono a Sonnenstein circa 830 detenuti di Buchenwald. Prima della fine della guerra, i dottori del 14 f 13 selezionarono un numero ancor maggiore di detenuti da questi e altri campi, la maggior parte dei quali venne uccisa ad Hartheim. Ma nel frattempo il programma di eutanasia si era diffuso oltre i confini della Germania, principalmente nella Polonia e nella Russia occupata. Come le SS, i cosiddetti «praticanti dell'eutanasia» fecero dei territori orientali conquistati il loro principale campo d'operazioni. Subito dopo la conquista della Polonia, assunsero la direzione del più grande manicomio nel distretto di Poznari, nella Warthegau, sostituendo il personale polacco con il proprio. L'obiettivo era di sgomberare tali istituzioni da tutti i malati mentali polacchi ed ebrei. Mentre i dottori del T4 operavano la selezione, le SS uccidevano, e per poter assolvere questo compito ricevettero dall'RSHA una squadra speciale a loro disposizione. Sotto il comando del capitano delle SS Herbert Lange, si calcola che nel maggio e giugno 1940 questo Sonderkommando abbia sterminato col gas circa 7000 persone dentro autocarri adattati a questa funzione. Benché tra coloro che vennero uccisi vi fossero anche cittadini tedeschi, in grande maggioranza i morti furono polacchi cristiani più un piccolo numero di ebrei. È probabile che l'operazione più vasta in questo senso abbia riguardato circa 1500 malati di mente, che furono portati a un campo di transito a Dzialdowo (Soldau) prima di essere messi a morte. Il personale del T4 si trasferì anche in Unione Sovietica, dove operò in collegamento con o accanto agli Einsatzgruppen. Non è certo casuale il fatto che nel riferire sulle loro imprese certi distaccamenti delle SS includessero nello stesso elenco l'uccisione di malati di mente e quella di ebrei e zingari, oltre a quadri, partigiani e sabotatori bolscevichi. Per fare spazio ai soldati tedeschi feriti nell'estate del 1941, le forze di sicurezza fucilarono i ricoverati di ospedali psichiatrici della Lettonia, soprattutto a Jelgava, Riga e Dvinsk. Per lo stesso motivo, e con l'approvazione delle autorità militari locali, malati di mente incurabili furono giustiziati a Poltava in settembre, a Minsk, Mogilev e Kiev in ottobre e a Dnepropetrovsk in dicembre. Anche la Russia occupata, dunque, divenne un banco di prova di più efficaci metodi di sterminio in massa. Nel settembre 1941, i medici dell'eutanasia collaborarono con le SS in un esperimento nel corso del quale un gruppo di malati mentali di Minsk furono uccisi mediante una carica di dinamite; ma i risultati apparvero insoddisfacenti. Inoltre il personale del T4 fu coinvolto in un altro esperimento destinato a verifi-care la validità di una uccisione di massa con i gas in un manicomio di Mogilev. In tale occasione, un gruppo di malati di mente sovietici vennero asfissiati con vapori di monossido di carbonio in una stanza ermeticamente sigillata e messa in comunicazione con i gas di scarico di un autocarro. Quali che potessero essere gli svantaggi, questo sembrò un metodo più efficiente e praticabile delle fucilazioni in massa o delle cariche di dinamite. Inoltre, tale metodo poteva essere attuato introducendo vapori di monossido di carbonio in strutture fisse oppure mobili. Sembra che il primo autocarro appositamente adattato a questo scopo sia stato provato con successo nel tardo autunno del 1941 a Sachsen-hausen: servirono da cavie domestiche un gruppo di prigionieri sovietici. Ma a quel tempo il comando era passato dal personale del T4 agli uomini di Himmler. Come poi risultò, Hitler si era sbagliato soltanto in parte nel ritenere che le tensioni e gli entusiasmi della guerra avrebbero contribuito a far passare sotto silenzio l'eutanasia. Senza dubbio, in Germania si sentì obbligato a ridurre la selezione e l'uccisione in massa di gentili, ma lo fece sotto la pressione di persone che obiettavano solo a questa scelta ma che erano del tutto consenzienti sulle altre questioni, soprattutto sulla politica estera e la guerra contro l'Unione Sovietica e il bolscevismo. In tali circostanze, non dovette avere rimorsi nel continuare lo sterminio selettivo nei territori orientali conquistati e occupati: confidava che non vi sarebbe stata opposizione ai maltrattamenti e allo sterminio di polacchi e russi, fossero gentili o ebrei e sapeva che nessuno avrebbe protestato contro la persecuzione degli ultimi ebrei rimasti in Germania, in particolare ora che venivano deportati all'est per essere liquidati in quanto facenti parte del «comune nemico» del Reich. 8

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Come abbiamo visto, vi furono certamente ebrei tra le vittime delle operazioni di eutanasia in Germania, Polonia e Unione Sovietica. È anche probabile che essi siano stati tra i soggetti adoperati per gli esperimenti di sterminio in massa con il gas, nei quali i membri del T4 ebbero un ruolo attivo ma non direttivo. Tuttavia né le operazioni di eutanasia in Polonia e in Russia né gli esperimenti che ne derivarono furono diretti solamente o in primo luogo contro gli ebrei. Non si può comunque negare che vi siano stati legami tra l'apparato del programma di eutanasia, compresa la sua estensione e sperimentazione oltre i confini orientali della Germania, e l'ebreicidio che ebbe il suo centro in Polonia. Alla fine del 1941, il Sonderkommando del capitano delle SS Herbert Lange venne dislocato a Chelmno, dove intorno ali'8 dicembre 1941 avrebbe avuto luogo il primo massacro col gas negli autocarri di recente destinati a questo scopo. Circa nello stesso periodo, un primo gruppo di membri del T4 arrivò a Lublino, seguito all'inizio del 1942 da un secondo gruppo. Furono destinati a lavorare con il brigadiere generale delle SS Odilo Globocnik, capo di tutte le forze di sicurezza e di polizia nel distretto di Lublino che come vedremo avrebbe diretto l'Operazione Reinhard contro gli ebrei della Polonia orientale. Il più noto tra questi operatori designati per l'eutanasia era Christian Wirth: capitano di polizia, prima di essere trasferito a Lublino aveva diretto tre dei sei istituti per l'eutanasia. Globocnik lo destinò poi a Belzec, che cominciò la sua attività alla metà di marzo del 1942. Ai primi di agosto Wirth divenne ispettore capo di Belzec, Sobibór e Treblinka, con uffici a Lublino, e ciò gli guadagnò la promozione a maggiore di polizia. Nello stesso tempo Franz Stangl era diventato comandante di Sobibór. Semplice poliziotto, era stato aiutante di Wirth al quale successe poi a Hartheim. Ben presto fu mandato a sostituire il dottor Irmfried Eberl, primo comandante di Treblinka. Medico delle SS, questi era stato in precedenza direttore degli istituti di eutanasia di Brandenburg e Bernburg. Sembra che Viktor Brack abbia distaccato novantadue membri del T4 per lavorare all'Operazione Reinhard. Ma pochi di questi operatori erano programmati o qualificati per posti direttivi: per la maggior parte erano guidatori di camion, guardiani, addetti ai crematori e impiegati. Quantunque indossassero la divisa da campo delle Waffen-SS, non erano sul loro foglio paga ed erano per lo più sottufficiali, non ufficiali. In un regime di uomini nuovi e inverosimili, i membri del T4 erano soltanto degli zeri. Perfino Wirth e Stangl al massimo furono delle rotelle nell'ingranaggio di una formidabile macchina di coercizione le cui radici erano saldamente piantate nella società civile e politica del Terzo Reich. Per di più, i membri del T4 e i loro aiutanti erano pochi di numero e sparpagliati qua e là. Perciò se si presta loro troppa attenzione si rischia di mettere in ombra le condizioni che resero possibili le loro azioni, e di discolpare sia i capi che li diressero sia le élites che li accettarono. Rifiuti di questo genere allignano in qualsiasi società, ma è raro che trovino classi dirigenti che diano loro libertà d'azione e se ne servano. Certamente Bouhler e Brack erano notevolmente importanti perché erano molto vicini alle alte sfere del governo. Poiché occupavano nella Cancelleria posti importanti, entrambi (ma soprattutto Bouhler) avevano accesso diretto al Führer, e ciò accrebbe la loro aura di potere. Fatto altrettanto importante, Brack aveva stretti rapporti di lavoro con Himmler, soprattutto connessi all'Operazione Reinhard. Come avvenne per Hitler e per Himmler, sia Bouhler sia Brack non ascesero al vertice per virtù propria ma vi furono collocati dalle élites tedesche. Tuttavia non furono soltanto i capi nazisti ma anche le circostanze storiche a definire i tempi, i luoghi e la forma della radicalizzazione ultima dell'ebreicidio. Nel momento in cui l'Operazione Barbarossa cominciò a vacillare, in patria l'attività di eutanasia si fece discontinua, e ciò significò che gli uomini e le procedure del T4 erano ora disponibili per una guerra sempre più barbara contro i sovietici e contro gli ebrei. Nel progetto nazista, questo genere di trasferimenti non era un fatto fuori dell'ordinario. Giustamente il vescovo von Galen aveva ammonito che con tutta probabilità la selezione in base al criterio dell'utilità o della produttività umana avrebbe portato all'abuso dell'eutanasia. Qualunque fosse la miscela di idee e motivi che stavano alla base della decisione di sterminare in massa gli ebrei, essa fu giustificata e applicata proprio in termini di utilità. O, piuttosto, i fautori dello sterminio si appellarono di continuo alla disutilità della maggior parte degli ebrei, all'onere che essi rappresentavano nella lotta per

Sein oder Nichtsein.

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Questo calcolo di morte è indicato in buona parte dei rari documenti che riguardano la gestazione del massacro degli ebrei. Esso venne in luce già alla metà di luglio del 1941 nel resoconto di una discussione avvenuta a Poznari tra alti funzionari delle SS e della polizia di questa provincia sulla «soluzione del problema ebraico» nella Warthegau. Secondo il maggiore delle SS Rolf-Heinz Hòppner che scrisse in proposito al colonnello delle SS Adolf Eichmann, venne suggerito che «tutti gli ebrei della Warthegau venissero raccolti in un campo per 300.000 persone», da istituire «il più vicino possibile al bacino carbonifero», insieme con le relative fabbriche. Se necessario, «gli ebrei abili al lavoro possono essere raggruppati in squadre da impiegare fuori di questo campo». Questa loro concentrazione in una singola località avrebbe significato la possibilità di risparmiare sulle guardie di sorveglianza e di ridurre il pericolo di epidemie che da Lódz e da altri ghetti potevano diffondersi tra le popolazioni circostanti. Inoltre «vi è la probabilità di non essere più in grado di nutrire tutti gli ebrei nel prossimo inverno». In tali circostanze, «bisognerebbe prendere seriamente in considerazione se la soluzione più umana non sarebbe quella di eliminare tutti gli ebrei inabili al lavoro, mediante una procedura rapida». Un simile procedimento senza dubbio «sarebbe stato per essi più gradevole che morire di fame». Contemporaneamente, il campo progettato avrebbe facilitato anche «la sterilizzazione delle donne ebree in età feconda, al fine di chiudere una volta per sempre il problema ebraico con questa generazione». Non c'è modo di sapere se gli agenti dell'eutanasia che operavano in Polonia abbiano influenzato queste decisioni di Poznaii. Idee analoghe erano state prese in considerazione al ministero del Reich per i Territori orientali occupati, che aveva

a

capo Alfred Rosenberg. Il 25 ottobre 1941 il dottor Erhard Wetzel, suo consigliere per gli affari ebraici, gli sottopose l'abbozzo di una lettera diretta al gauleiter Heinrich Lohse, commissario del Reich per la regione orientale. Come risulta dall'abbozzo, Viktor Brack della Cancelleria del Fiihrer aveva «segnalato la sua disponibilità ad accelerare la costruzione di baracche e attrezzature per l'uso dei gas». Poiché sarebbe stato più facile reperire l'equipaggiamento sul posto anziché in Germania, Brack si offriva di inviare alcuni dei suoi uomini, compreso un chimico, il dottor Helmut Kallmeyer, a Riga, dove avrebbe potuto anche aiutare a soprintendere alle procedure di sicurezza. Lohse fu dunque sollecitato a prendere contatto con Brack attraverso Himmler. L'abbozzo di lettera lo informava inoltre che Eichmann, incaricato degli affari ebraici nell'RSHA, era d'accordo su tutto il progetto. Questi avrebbe anche proposto di istituire campi per ebrei a Riga e Minsk per inviarvi quelli del vecchio Reich. Proprio allora essi venivano «evacuati [dalla Germania] a Lódz e ad altri campi, e quelli abili al lavoro avrebbero potuto essere assegnati ai battaglioni di lavoro a est». A questo punto, il memorandum di Wetzel mise sul tappeto il principio della improduttività: Data la situazione, non c'è da provare rimorso per la liquidazione di ebrei inabili al lavoro ricorrendo al rimedio di Brack. D'altra parte, gli ebrei abili continueranno a essere inviati all'est al lavoro forzato. Naturalmente tra gli abili bisognerà tenere separati uomini e donne. H.SCHNEIDER (1998),

Il piccolo Adolf non aveva le ciglia

, Milano, Rizzoli, pp. 225-232.

“ NOTA DELL ' AUTRICE .

Ancor prima del 1939, al Ministero degli Interni del Terzo Rei-ch venne considerata la possibilità di ridurre drasticamente ai pazienti degli ospedali psichiatrici le quote alimentari in caso di guerra, favorendo così la loro morte per inedia. La soppressione dei pazienti con problemi psichici cominciò subito dopo la capitolazione delle truppe polacche a cui sarebbe seguita la divisione della Polonia tra il Reich e l'Unione Sovietica. Il primo luogo in cui si instaurò un programma di eutanasia fu una clinica presso Bromberg che, in poco più di un mese, avrebbe registrato 2342 vittime. Altri 1350 degenti furono uccisi da uomini delle SS a Schwetz, sempre nella provincia di Bromberg. La pratica dell'eutanasia iniziò quindi nella Polonia occupata, prima ancora che Hitler firmasse alcuna autorizzazione. Già all'inizio di ottobre del 1939 un'ordinanza emessa dal Ministero degli Interni del Wùrttemberg 10

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aveva decretato la confisca del castello di Grafeneck in cui una fondazione di Samaritani gestiva un ricovero per inabili psichici. Fu ordinato di liberare l'istituto da pazienti e personale entro il 14 ottobre. Scopo dell'esproprio era il progetto di trasformare Grafeneck in una struttura di sterminio per "liberare la Germania dai pesi morti della nazione". Contemporaneamente iniziò presso l'ospedale di Owinska la soppressione di oltre mille malati di mente. Nello stesso periodo lo Sturmbannfùhrer Kurt Eimann, di stanza a Danzica, ricevette l'ordine di prelevare in una stazione della Prussia occidentale Neustadt un gruppo di pazienti con problemi psichici, giunti da diversi istituti della Pomerania, per caricarli su un camion e farli uccidere in un "luogo idoneo". Eimann optò per un sito all'interno del bosco di Piasznicz nel distretto di Neustadt. Ingaggiò quindi un comando speciale delle SS, mentre alcuni prigionieri polacchi del campo di concentramento Stutthof avevano il compito di scavare le fosse comuni. Giunti col camion nel bosco, i malati venivano fatti scendere. Due SS li conducevano uno alla volta sul bordo della fossa seguiti da un altro militare munito di pistola calibro 8. A quel punto le vittime ricevevano un colpo alla nuca e cadevano una sull'altra. Una volta riempite le buche, i prigionieri polacchi dovevano ricoprirle con il terriccio del bosco. Ma sarebbero morti a loro volta per non divenire pericolosi testimoni. Nel frattempo Hitler aveva autorizzato il programma di eutanasia, senza tuttavia dotarlo di un fondamento legale. Ai complici era garantita l'assoluta impunità. Il coordinamento del programma era stato affidato all'ufficio principale della Cancelleria del Führer. Avviato il programma, la mole di lavoro crebbe così vertiginosamente che si dovette provvedere ad affittare nuovi uffici nella Columbiahaus sulla Potsdamer Platz. L'unico ministero coinvolto nel programma di eutanasia fu la IV sezione del Ministero degli Interni del Reich, il cui capo era il segretario di Stato, dottor Leonardo Conti. In origine fu Conti l'uomo incaricato da Hitler del programma di eutanasia, ma sorsero ben presto gelosie e rivalità, per cui venne estromesso. Dell'eutanasia, sia infantile sia adulta, si sarebbero occupati i medici Bouhler e Brandt. Furono loro a fare zelante proselitismo, reclutando per la causa medici, specialisti, infermieri e personale ospedaliero di vario genere disposti a rendersi complici. Una delle giustificazioni ricorrenti era che il Führer aveva preteso molti nuovi ospedali militari. La guerra con la Polonia forniva infine un'ottima motivazione per "l'evacuazione" di migliaia e migliaia di pazienti con problemi psichici. Con i parenti furono addotte come spiegazione le disposizioni di urgente trasferimento per motivi bellici. Questa formula garantiva che, in un primo tempo, non si insospettissero. Molti consideravano la preventiva evacuazione del proprio congiunto una sorta di premura da parte dello Stato. Cominciò così lo smantellamento in blocco degli istituti psichiatrici, sistematico al punto che intere regioni vennero dichiarate "disinfestate da ogni residuo di soggetti con problemi psichici". Mentre nella struttura di Brandeburgo si facevano prove di gas-azione col Zyklon B, nella Polonia occupata continuava la soppressione delle esistenze "indegne di vivere". Dall'istituto Tiegenhof vennero "evacuati" quasi 500 pazienti per essere "disinfestati". Nel gennaio 1940, 534 malati di mente dell'istituto Kosten presso Poznari furono eliminati in camere a gas mobili. A Chelm-Lubelski, dopo aver fatto allontanare il personale, un comando speciale delle SS fece irruzione nel reparto dei pazienti gravi o incurabili cacciandoli a forza dai letti e dalle sale e ricevendoli sulla soglia con un colpo di mitra. I cadaveri furono gettati in una fossa comune, fatta scavare in precedenza. Nel febbraio 1940 cominciarono le uccisioni sistematiche nella struttura di Brandeburgo. In maggio iniziò Hartheim. In giugno Sonnenstein. Una statistica dell'epoca mostra che, durante i primi sei mesi successivi all'autorizzazione di Hitler, furono eliminate col gas 8765 persone. Ma nel successivo luglio ne morirono altre 5356. Nell'agosto il numero delle vittime raggiunse l'apice: in un solo mese le quattro strutture di sterminio Grafeneck, Brandeburgo, Hartheim e Sonnenstein soppressero 5791 persone. Intanto la categoria delle vittime da "disinfestare" si era ampliata. Ora ne facevano parte: schizofrenici ed epilettici, fanciulli ritardati e vagabondi senza fissa dimora, paralitici e subnormali di ogni genere, psicopatici e dementi senili, post-encefalitici e maniaco-depressivi, pazienti venerei 11

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e paranoici, alcolisti e morfinomani, ciechi e sordomuti, "asociali" e tubercolotici, malati di cancro terminali e soldati resi inabili al fronte, i vecchi delle case di riposo, gli ospiti di ospizi per i poveri e tutti i neonati malformati o colpiti da malattie genetiche. Nell'aprile del 1940 la Centrale per l'eutanasia berlinese venne allargata organizzativamente e logisticamente. Gran parte dell'amministrazione fu spostata in una villa a Berlin-Charlottenburg nella Tiergartenstrasse 4, e da quel momento il programma di eutanasia nazista fu chiamato in codice "T4". Tuttavia la progettazione e l'esecuzione della "T4" rimase prerogativa dell'Ufficio Centrale sezione II della Cancelleria del Fùhrer. La pratica dell'eutanasia infantile iniziò alla fine dell'ottobre del 1939 in un reparto pediatrico dell'istituto Gòrden-Brandeburgo presso Berlino. Nell'ambito dell'"evacuazione" di interi complessi pediatrici i bambini finirono in numero altissimo nelle camere a gas, se prima non erano già stati eliminati tramite terapie a base di farmaci tossici ad alto dosaggio, come avvenne a Gòrden. La nascita di un bambino malformato o affetto da malattia genetica doveva essere segnalata, dal medico o dalla levatrice, agli organismi competenti che avrebbero provveduto a convincere i genitori a far ricoverare il neonato in una "struttura specializzata", dove sarebbe stato sottoposto a "cure risolutive d'avanguardia". Le vittime venivano poi uccise mediante farmaci letali o dopo il trasferimento in una delle strutture di sterminio. Con una circolare si raccomandava che la soppressione dei neonati avvenisse nel tempo più breve possibile, evitando ogni contatto con le madri. I genitori di neonati malformati o colpiti da malattie genetiche venivano metodicamente ingannati sulla vera fine dei loro figli. Si arrivava a raccontare ai genitori ignari che esistevano moderne terapie in grado di curare malattie come il mongolismo, l'idrocefalia, la microcefalia o le affezioni spastiche. Molti genitori si aggrappavano a quelle speranze. Durante il processo contro un medico resosi colpevole di aver provocato la morte di almeno mille persone, una teste raccontò il proprio calvario per ritrovare la figlia affidata a una clinica che avrebbe dovuto guarirla dal mongolismo. «La bambina nacque con una malattia che dicevano si chiamasse mongolismo», esordì la donna, « e mi consigliarono di farla curare in una clinica specializzata, dove sarebbe guarita. Io mi fidavo e firmai per il ricovero. Ma quando un giorno andai a trovarla, un medico molto sgarbato mi disse che mia figlia era stata trasferita in un altro istituto. Domandai in quale. In un ospedale in Polonia, risposero. Mi dissero anche che era meglio che io mi rivolgessi ai medici per via epistolare.» L'accusa domandò se l'avesse fatto. La donna esitò, aggrottò la fronte, manifestò un attimo di imbarazzo e infine rispose: «Io non so scrivere e perciò mi toccò andare al paese da Joseph Pfalzhausen per dettargli la lettera. Volle un coniglio. Da noi si usava così. Un coniglio per farsi scrivere una lettera. Due conigli per scrivere al Fuhrer, perché il Führer era più importante di un ospedale». Ma aveva spedito la lettera? «Sì.» E ne aveva ricevuto risposta? «Sì. Scrissero che nel frattempo la bambina era stata nuovamente trasferita e questa volta a Gòrden presso Brandeburgo. Ma avrei dovuto aspettare il permesso scritto per poterla andare a trovare, perché in quel posto era scoppiata un'epidemia contagiosa. Dissero anche che avrebbero scritto loro a Gòrden e che mi avrebbero comunicato la risposta.» «Lo fecero?» «No. Aspettai quasi quattro settimane e poi mi arrabbiai. Così tornai da Pfalzhausen per farmi scrivere una lettera al Führer e lui volle due conigli.» Il Führer aveva risposto? «No. Ma arrivò una lettera da Gòrden. Una lettera e un pacco.» Cosa diceva la lettera? «Mi comunicava la morte di mia figlia per una malattia improvvisa e grave. Per ordine d'ufficio... sì, quello per la Salute pubblica, avevano dovuto mettere il cadavere nel forno.» 12

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«Intende nel forno crematorio?» «Sì, quello.» «E nel pacco cosa c'era?» «Lo feci aprire dal becchino che era mio cugino. Era la persona giusta. Dentro il pacco trovammo un'urna insieme alla foto di un bambino maschio, una catenina d'argento che non avevo mai visto e una ciocca di capelli scuri mentre mia figlia era bionda.» Molte persone a quel tempo vagavano da un istituto all'altro alla disperata ricerca di un congiunto, ricevendo ogni volta la notizia che il familiare era stato trasferito, per necessità belliche, in un altro luogo, spesso lontanissimo dal precedente. Così si rivolgevano a ispettori e medici, a direttori di cliniche e istituti, ad assessori, a preti e ministri regionali, a Gauleiter e funzionari di partito, arrivando a scrivere perfino ai ministeri o al Fuhrer. Si rivolgevano alla polizia e agli uffici di Sanità pubblica, piangevano e minacciavano, insistevano e imploravano, si umiliavano. Madri che avevano visto i figli ritornare dal fronte e venire decorati con la croce di ferro perché invalidi di guerra, non riuscivano a capire né a rassegnarsi al fatto che questi stessi figli fossero assoggettati al programma di eutanasia. Il popolo cominciò a mormorare, si diffusero voci allarmistiche, finché la verità non percorse tutto il Paese: il Terzo Reich stava attuando un barbaro programma di eutanasia nei confronti di una serie di persone che non servivano più. Nei pressi della struttura di sterminio di Hadamar, a Limberg, gli abitanti cominciarono a protestare contro gli strati di fuliggine nera che si depositavano sui davanzali delle finestre, sulla frutta e sugli ortaggi, causando gravissimi danni alle colture. Dovunque sorgessero strutture con camere a gas e forni crematori la popolazione circostante protestava (anche se mai in modo eclatante) contro quella polvere sinistra e il denso fumo che gravava l'aria, temendo tuttavia arresti e punizioni poiché era rigorosamente vietato criticare leggi, decreti e disposizioni governative. Ogni protesta era considerata un atto di "disfattismo", un reato severamente punito. Ma il disagio e il malessere crescevano anche fra i medici e i direttori di quegli istituti costretti a fornire le liste per il trasferimento dei propri pazienti in strutture di morte. Molti medici sollecitavano almeno ufficializzazione del programma di eutanasia, ma Hitler non era disposto a concederla. E lentamente la "Geheime Reichssache" diventava sempre meno segreta. Ne parlava la BBC e, nonostante fosse severamente proibito, molti tedeschi ascoltavano radio Londra. Ne erano comunque informati i rari rappresentanti della stampa estera residenti in Germania che dovevano sottostare a una severa censura da parte di Gòbbels, e perfino il Papa aveva preso posizione in merito, sia pur molto blandamente. L'unica cosa che venne ottenuta fu che il 30 gennaio 1941 i due medici responsabili del programma, Bouhler e Brandt, emanassero una circolare in cui si stabilivano nuove direttive per la selezione delle vittime. Si suggeriva cautela con gli ex combattenti, e dovevano essere risparmiati i soldati decorati, i bambini al di sotto dei quattordici anni, e i vecchi in buona salute. Ma la protesta cresceva, sia pur sotterranea. Anche la Chiesa, grazie al coraggio di singoli ecclesiastici, cominciava a prendere posizione. Nel luglio e nell'agosto del 1941 il vescovo di Miinster, Clement von Galen, rivolse una serie di durissime critiche al regime nazista sfidando prevedibili conseguenze. Le prediche suscitarono una vasta eco. Durante la seconda predica, pronunciata nella Liebfrauenkirche di Munster, von Galen espresse la radicale opposizione dell'episcopato al governo di Hitler, elencando le minacce e le aggressioni subite dalla sua diocesi a opera di funzionali del governo in seguito al suo primo sermone. La settimana successiva l'ecclesiastico denunciò pubblicamente nella chiesa di San Lamberto il programma di eutanasia nazista, dichiarando che esso rappresentava un'aperta violazione del quinto comandamento. La denuncia ebbe un'enorme risonanza e passò, eliocopiata in migliaia di esemplari, di mano in mano. Venne perfino lanciata, tramite volantini, dai caccia della RAF. Il vertice nazista entrò in fibrillazione. Walter Tiessler, direttore nazionale per la Volkssaufklarung, l'educazione dell'opinione pubblica, propose a Martin Bormann l'impiccagione di von Galen, ma questi scrisse, quasi rassegnato: "La pena di morte sarebbe l'equa risposta a Galen, ma in considerazione della delicata situazione della guerra, il Führer difficilmente darà disposizioni in 13

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merito". Il vertice si convinse che ogni rappresaglia contro von Galen avrebbe suscitato un vespaio di polemiche scatenando reazioni devastanti. Non era opportuno perché si doveva ancora far digerire al popolo tedesco l'invasione dell'Unione Sovietica. Nel frattempo la struttura di sterminio di Hadamar era arrivata a cremare la diecimillesima vittima. Ci furono festeggiamenti con musica e robuste bevute. Il 24 agosto del 1941, preoccupato dell'opinione pubblica, Hitler si vide costretto a fermare ufficialmente il programma di eutanasia, anche se l'iniziativa si rivelò solo una mossa propagandistica. Di fatto la "T4" continuò imperterrita, seppure con maggiore prudenza. Zelanti e acquiescenti commissioni di medici "fidati" perseverarono nel visitare istituti psichiatrici, reparti di psichiatria infantile, nonché cliniche ostetriche e neonatali per selezionare i candidati alla camera a gas. E doveva ancora cominciare il capitolo più agghiacciante della storia umana, l'Olocausto, la Shoà del popolo ebraico. Dopo il propagandistico arresto del programma di eutanasia nazista del Führer, delle quattro strutture di sterminio in funzione nell'estate del 1941, solo quella di Hadamar cessò l'attività. Nelle altre, Bernberg, Hartheim e Sonnenstein, si continuò a uccidere. Si uccise con ogni mezzo: metodica sottrazione di cibo, iperdosaggio di farmaci tossici, camere a gas mobili e fisse. Il programma di eutanasia costò la vita a più di settantamila persone del Terzo Reich. Anziché proteggere i più deboli, il governo di Hitler perpetuò il loro sistematico sterminio. Al contrario, la Germania nazista promulgò una severa legge contro la vivisezione e l'uccisione delle specie animali protette. Chi uccideva un gufo o una lontra finiva in campo di concentramento; per chi abbatteva un'aquila c'era la pena di morte. L'ultimo bambino vittima del programma di eutanasia nazista venne ucciso il 29 maggio del 1945, malgrado le truppe americane stazionassero ormai da trentatré giorni su quel territorio.

Perseverare autem diabolicum.

” 14

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S. MILGRAM (1975; 1974), Obbedienza all’autorità. Il celebre esperimento di Yale sul conflitto tra disciplina e coscienza,Milano, Bompiani, pp. 15-27.

IL DILEMMA DELL'OBBEDIENZA.

“L'obbedienza è uno degli elementi fondamentali della struttura della vita sociale. Ogni forma di vita collettiva si basa su un sistema di autorità: solo chi vive in isolamento completo non è costretto a sottomettersi o a ribellarsi a ordini esterni. Il problema dell'obbedienza, in quanto fattore decisivo nella genesi del comportamento, è emerso in modo drammatico in epoca recente. È risaputo che fra il 1933 e il 1945 milioni di innocenti vennero sistematicamente trucidati da persone che eseguivano degli ordini. Ispirati agli stessi criteri di rendimento di una qualsiasi azienda di elettrodomestici, furono edificati campi di sterminio, messe in funzione camere a gas, prodotti quantitativi giornalieri di cadaveri. Anche ammettendo che tali aberranti progetti fossero generati da un solo cervello, la loro realizzazione su così larga scala non avrebbe potuto avvenire senza l'obbedienza di un gran nu mero di persone. L'obbedienza è il meccanismo psicologico che lega azione individuale e fini politici. È il meccanismo psicologico che unisce uomini e sistemi di autorità. L'analisi della storia recente e le osservazioni del comportamento quotidiano ci fanno giungere alla stessa conclusione: l'obbedienza è una tendenza profondamente radicata nel comportamento di molti, un impulso prepotente che supera di gran lunga ogni precetto morale, ogni senso etico, ogni forma di solidarietà. C.P. Snow sottolinea l'importanza di questo fattore quando, nel 1961, scrive: Riflettendo sulla triste storia dell'umanità, si deve concludere che il numero di crimini atroci commessi nel nome dell'obbedienza supera di gran lunga quello dei crimini commessi in nome della ribellione. Chi avesse dei dubbi in proposito dovrebbe leggere la del mondo aveva visto compiersi su così larga scala.

"Storia del Terzo Reich",

di William Shirer. Gli ufficiali dell'esercito tedesco erano stati educati con un rigorosissimo codice di disciplina in nome dell'obbedienza si resero complici ed esecutori di efferatezze che mai la storia Lo sterminio degli ebrei europei compiuto dai nazisti è solo il più clamoroso e abominevole dell'innumerevole serie di atti immorali perpetrati da migliaia di individui in nome dell'obbedienza. Tutti i giorni ci è dato di assistere, sia pure su scala ridotta, allo spettacolo di comportamenti analoghi: cittadini qualsiasi distruggono i loro simili per conformarsi agli ordini cui considerano 15

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loro dovere obbedire. Dobbiamo allora concludere che l'obbedienza all'autorità, celebrata da tempo immemorabile come virtù, si trasforma in colpa quando viene messa al servizio di una causa sbagliata? Se si debbano eseguire anche gli ordini che entrano in conflitto con la propria coscienza, è questione morale già dibattuta da Platone, presentata in forma drammatica nell’

Antigone,

ripresa nelle analisi filosofiche di ogni epoca. I filosofi conservatori asseriscono che la disobbedienza minaccia l'esistenza dell'edificio sociale, e che quindi è preferibile eseguire un ordine moralmente inaccettabile piuttosto che distruggere le fondamenta stesse dell'autorità. Hobbes giunge ad affermare che la responsabilità di un'azione compiuta in tali circostanze non ricade sulla persona che la compie, ma sull'autorità che la prescrive. Gli umanisti, invece, proclamando la supremazia della coscienza individuale, sostengono che, in caso di conflitto fra autorità e giudizio morale dell'individuo, deve prevalere quest’'ultimo. Senza negare l'enorme importanza del dibattito sugli aspetti giuridici e filosofici dell'obbedienza, è compito del ricercatore empirico passare dalla discussione astratta alla osservazione sistematica di casi concreti. Per poter osservare da vicino il meccanismo dell'obbedienza, organizzai un semplice esperimento all'Università di Yale. Questa ricerca, che avrebbe visto la partecipazione di più di mille soggetti e che sarebbe stata ripresa da diverse altre università, si basava su un'idea di partenza molto semplice. In un laboratorio di psicologia una persona veniva invitata a compiere una serie di azioni che si scontravano sempre più evidentemente con la sua coscienza. Si trattava di vedere fino a che punto i partecipanti avrebbero accettato di eseguire gli ordini di uno sperimentatore e a che punto avrebbero deciso di interrompere l'esperimento. Ma è necessario fornire al lettore maggiori particolari sullo svolgimento dell'esperimento: due persone venivano invitate al laboratorio di psicologia col pretesto di prender parte a uno studio su "la memoria e l'apprendimento". A una veniva assegnato il ruolo di "insegnante", all'altra quello di " allievo ". Lo sperimentatore che dirigeva la prova spiegava che si trattava di uno studio sugli effetti della punizione nell'apprendimento. L'allievo veniva condotto in una stanza dove, fattolo sedere, gli venivano legate le mani per non lasciargli troppa libertà di movimento e gli veniva fissato un elettrodo al polso. Il suo compito consisteva nell’imparare a memoria una lista di associazioni verbali: ad ogni sbaglio gli veniva somministrata una scossa elettrica di intensità crescente. Il vero soggetto dell'esperimento era però l'insegnante. Dopo aver osservato l'allievo legato al suo posto, veniva condotto in un'altra stanza e fatto sedere di fronte a un imponente generatore di corrente su cui spiccavano trenta interruttori in fila, graduati dai 15 ai 450 volt, con scatti continui di 15 volt. I pulsanti erano anche corredati di scritte che andavano da SCOSSA LEGGERA a SCOSSA PERICOLOSA .

Il compito dell'insegnante era quello di sottoporre al test di apprendimento l'individuo dell'altra stanza. Quando l'allievo rispondeva correttamente, l'insegnante doveva procedere con le domande successive; quando sbagliava, doveva somministrare una scossa elettrica iniziando dalla soglia più bassa (15 volt) e aumentando via coi pulsanti successivi (30, 45 eccetera) L'insegnante era un soggetto ignaro, convinto di partecipare davvero a un esperimento sull'apprendimento, mentre l'allievo era un "attore che non riceveva nessuna scossa. L'esperimento consisteva nell'osservare, in condizioni di laboratorio, fino a che punto il soggetto accettava l'ordine di infliggere un dolore sempre più intenso a una vittima che voleva sottrarvisi. Si trattava di vedere, insomma, a che punto il soggetto si sarebbe ribellato all'istruttore. Il conflitto insorgeva quando la persona che riceveva la scossa cominciava a dar segni di malessere. A 75 volt "l'allievo" emetteva i primi lamenti; a 120 il lamento si trasformava in protesta verbale; a 150 egli cominciava a chiedere che l'esperimento venisse interrotto. Le sue proteste assumevano toni sempre più veementi e commoventi, finché, raggiunti i 285 volt, non si udiva altro che un rantolo straziante. Tutti coloro che hanno assistito all'esperimento sono concordi nell’affermare che è difficile rendere conto a parole dell'intensità delle emozioni provate dal soggetto: per lui non si trattava di una messa in scena e il suo conflitto diveniva presto palese. Da un lato, la chiara percezione della sofferenza inflitta all'allievo lo spingeva a interrompere. Dall'altro, il soggetto si sentiva quasi obbligato nei 16

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confronti del ricercatore, un'autorità legittima che gli ingiungeva di continuare a premere il pulsante ogni volta che egli esitava. Per liberarsi da questa situazione il soggetto doveva ribellarsi decisamente all'autorità. Lo scopo della ricerca era, appunto, quello di stabilire il momento e le circostanze che avrebbero prodotto la rivolta del soggetto nei confronti dell'autorità in favore di un preciso imperativo morale. C'è indubbiamente una gran differenza fra l'obbedienza ai comandi di un ufficiale in tempo di guerra e l'eseguire gli ordini di uno sperimentatore in laboratorio, ma l'essenza di certi rapporti non cambia. Il problema può, ,, infatti, essere posto nei seguenti termini generali: come si comporta una persona quando un'autorità legittima le im-pone di compiere atti di violenza nei confronti di un altro essere umano? Ci si potrebbe semmai aspettare che uno sperimentatore, il quale non può imporre i suoi ordini per mezzo della forza, abbia più difficoltà di un generale a farsi obbedire e che, in un laboratorio, manchino il senso di urgenza e le circostanze che motivano un soldato sul campo di battaglia. Nonostante questi limiti, ho deciso che valeva la pena di intraprendere una serie di osservazioni sistematiche per cercare di gettare un po' di luce sulla questione dell'obbedienza, con la speranza di giungere a delle conclusioni valide anche in contesti diversi. Il lettore potrebbe domandarsi come mai qualcuno in possesso delle sue facoltà mentali abbia potuto essere disposto a premere anche solo il primo pulsante. Sarebbe legittimo supporre che la gran maggioranza abbandonasse il laboratorio ancor prima di incominciare l'esperimento. Ma le cose si sono svolte in tutt'altro modo. I soggetti venivano in laboratorio già decisi a collaborare e erano, quindi, pronti a iniziare l'esperimento. Il che non è poi tanto sorprendente se si pensa che la persona che avrebbe ricevuto le scosse, pur mostrando qualche apprensione, sembrava anche lei bendisposta a cooperare. Ciò che invece deve meravigliare è il limite che individui normali sotto ogni punto di vista hanno raggiunto nell'eseguire gli ordini ricevuti. I risultati di questo esperimento lasciano sorpresi e sbigottiti. Nonostante i soggetti mostrassero chiari sintomi di tensione e protestassero energicamente con l'istruttore, hanno tuttavia continuato, in percentuale considerevole, a premere fino all'ultimo pulsante. I lamenti di chi riceveva le scariche, il fatto che queste sembrassero autentiche e dolorose, le implorazioni della vittima, non bastavano a far desistere quanti partecipavano all'esperimento dall'eseguire gli ordini dello sperimentatore. Questa circostanza si è continuamente ripetuta, tanto nei «ostri test che in quelli condotti presso altre università. La volontà esasperata, da parte di persone adulte, di giungere fino all'estremo grado di obbedienza all'autorità, costituisce la scoperta principale del nostro studio ed è un fenomeno che richiede un'immediata spiegazione. La spiegazione più facile sarebbe quella di considerare quei soggetti che somministravano la scossa più violenta come dei mostri, degli individui sadici, ai margini della società. Ma è un argomento ben tenue se si pensa che quasi due terzi dei partecipanti rientrano nella categoria dei soggetti "obbedienti" e provengono da un campione di gente normale, rappresentativa di diverse classi sociali: salariati, professionisti, dirigenti. Questa circostanza ci fa ; tornare in mente la polemica sorta a proposito del libro di Hannah Arendt,

Eichmann in Jerusalem,

pubblicato nel 1963. La Arendt affermava che l'accusa sbagliava completamente nel dipingere Eichmann come un mostro assetato di sangue. A suo avviso, ci si trovava invece di fronte a un burocrate di scarsa immaginazione occupato a svolgere tranquillamente il suo lavoro dietro a una scrivania. Queste affermazioni costarono alla Arendt accuse e persine calunnie. L'opinione pubblica, infatti, voleva vedere negli atroci atti compiuti da Eichmann l'espressione di un carattere brutale, sadico

e

perverso, l'incarnazione stessa del male. Ebbene, al termine di questo esperimento, in cui ho potuto osservare centinaia di persone normali sottomettersi docilmente all'autorità, sono giunto alla conclusione che ciò che la Arendt definisce

banalità del male,

è una realtà assai più diffusa di quanto si vorrebbe credere. La maggior parte delle persone somministrava le scosse per un senso di obbligo nei confronti dell'istruttore, non a causa di tendenze aggressive verso la vittima. L'insegnamento principale che si può trarre dal mio studio è forse il seguente: gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e che non è motivata da nessuna particolare aggressività, può, da un 17

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momento all'altro, rendersi complice di un processo di distruzione. Ancora più grave è il fatto che la maggior parte di loro non ha le risorse necessarie per opporsi all'autorità, anche quando si accorge di compiere atti malvagi, in contrasto con le più elementari norme morali. Entra in gioco tutta una gamma di inibizioni che impediscono la rivolta e provocano la sottomissione all'autorità. È facile assumere dall'esterno un atteggiamento critico nei confronti di tali soggetti obbedienti, ma questo giudizio sarebbe solo il risultato della nostra capacità di formulare in astratto norme morali. Che questa non sia una opinione valida si dimostra col fatto che molti soggetti sono d'accordo nel giudicare che sia immorale fare del male a una vittima innocente. Anch'essi, in termini generali, sanno quello che devono fare e sono in grado di affermare i loro valori quando se ne presenta l'occasione. Ma questo ha poco o nulla a che vedere con il loro comportamento sotto la pressione di circostanze reali. Quando si chiede al soggetto di esprimere un giudizio morale sul come ci si dovrebbe comportare in una circostanza simile, tutti indicano la disobbedienza come il comportamento giusto. Ma, nella dinamica della situazione reale, i valori non sono le sole forze operanti. Essi costituiscono solamente un filo nel fascio di fattori che determinano il comportamento di una persona. Molte persone si sono mostrate incapaci di tradurre i loro valori in comportamenti adeguati e hanno continuato a partecipare all'esperimento pur trovandosi in conflitto con le proprie azioni. In una persona, in realtà, il potere del senso morale agisce assai più debolmente di quanto la mitologia sociale vorrebbe dare a intendere. Un precetto come "Non ammazzare" occupa certamente un posto di primo piano nella gerarchia delle norme morali, ma non ha altrettanto rilievo nella psiche umana. Qualche titolo di giornale, un richiamo dal distretto militare, ordini provenienti da un superiore gallonato, sono sufficienti per indurre degli esseri umani a uccidere in tutta tranquillità. Persine i fattori presenti in una situazione di laboratorio possono avere una grande .portata nel rimuovere i controlli morali di un individuo. Norme morali possono essere eliminate senza troppa difficoltà attraverso una ristrutturazione calcolata del campo dell'informazione e dei rapporti sociali. Quali sono, allora, i fattori che provocano la sottomissione del soggetto allo sperimentatore? Esistono, innanzitutto, una serie di "fattori vincolanti" che tendono a eliminare la libertà d'azione del soggetto. Questi fattori comprendono atteggiamenti quali la buona educazione, l'impegno a mantenere la promessa data di collaborare con lo sperimentatore, la vergogna del tirarsi indietro. In secondo luogo, nella mente del soggetto hanno luogo tutta una serie di meccanismi di adattamento, i quali riducono le sue intenzioni di ribellarsi all'autorità. Per mezzo di tali adattamenti, il soggetto riesce a mantenere il rapporto con lo sperimentatore e a ridurre contemporaneamente l'ansia prodotta dal conflitto sorto durante l'esperimento. Tali processi fanno tipicamente parte dell'attività mentale di quel genere di persone che tendono a sottomettersi facilmente quando l'autorità ordina di fare del male a persone indifese. Uno di questi meccanismi è la tendenza degli individui | i a concentrarsi tanto sugli aspetti tecnici della loro attività, cui si è sottomesso. 1 da perdere di vista le sue conseguenze finali. Il film

II Dottar Stranamore

compie una brillante satira della gran minuzia tecnica con cui l'equipaggio di un bombardiere si prepara a lanciare" ordigni nucleari su un paese abitato. Anche nel nostro esperimento i soggetti tendono a concentrarsi sui piccoli particolari tecnici: leggono le associazioni verbali articolando bene, premono i pulsanti giusti, e, mentre cercano di eseguire le diverse operazioni con molta diligenza, l'orizzonte delle loro preoccupazioni morali tende a restringersi. Il soggetto delega il compito di occuparsi degli scopi finali e di stabilire norme morali all'autorità dello sperimentatore, Il meccanismo di adattamento psichico più ' comunemente impiegato dai soggetti obbedienti è quello di considerarsi non responsabili delle loro azioni. Essi si spogliano di ogni responsabilità attribuendo l'iniziativa all'autorità legittimata dello sperimentatore; vedono se stessi non come individui moralmente responsabili, ma come a-genti esecutori dei voleri di un'autorità esterna. Al termine di ogni esperimento, nell'intervista in cui viene chiesto al soggetto che cosa l'abbia indotto a proseguire, la risposta tipica suona così: "Per conto .mio non l'avrei fatto. Mi limitavo a eseguire 18

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quanto mi era stato detto." Poiché erano incapaci di sfidare l'autorità dello sperimentatore, scaricavano su di lui tutte le responsabilità. È la vecchia storia del "fare soltanto il proprio dovere", ripetuta fino alla noia dai banchi degli imputati al processo di Norimberga. Sarebbe tuttavia errato considerarlo un alibi tirato fuori per la circostanza. È piuttosto un meccanismo mentale ricorrente in moltissimi individui collocati in posizione subordinata all'interno di una struttura di potere. La sparizione di ogni senso di responsabilità è la estrema conseguenza della sottomissione all'autorità. Non bisogna, tuttavia, concludere che coloro i quali, eseguendo gli ordini dell'autorità, violano le norme di coscienza più elementari, abbiano perso ogni senso morale. Si tratta, invece, dell'acquisizione di una prospettiva nuova e radicalmente diversa: invece di preoccuparsi del contenuto delle loro azioni, il loro criterio etico diventa la dirigenza con cui, eseguendo i compiti assegnati dalla autorità, si conformano alle sue aspettative. In tempo di termine le azioni I che gli sono state ordinate. consistente nel!'attribuire a oggetti e a

\

guerra, un soldato non si domanda se sia bene o male bombardare un villaggio; non prova colpa o vergogna per la distruzione di un paese: egli prova, invece, orgoglio o vergogna per il modo in cui ha portato a Un altro fattore psicologico entra in gioco in questa situazione: esso può essere definito "controantropomorfismo". Per decenni gli psicologi hanno discusso la tendenza umana primitiva forze inanimate le caratteristiche degli esseri umani; ma esiste anche la tendenza opposta, che fa, cioè, attribuire qualità impersonali a forze prettamente umane. Alcuni trattano i sistemi di origine umana come se essi avessero una i esistenza propria, indipendente dal volere e dai desideri degli uomini, negando dunque ogni elemento umano dietro 'Opere e istituzioni sociali. Avviene così che, quando lo sperimentatore dice: "L'esperimento

esige

che lei continui", il soggetto ha la sensazione di trovarsi di fronte a un imperativo trascendente ogni comando puramente umano. Egli non pone la domanda, apparentemente banale: "Quale esperimento? Per quale motivo l'ideatore deve trarne vantaggio, mentre la vittima soffre?" I desideri di un uomo, l'ideatore dell'esperimento, sono diventati parte di uno schema che esercita sulla mente del soggetto una forza che va oltre i rapporti interpersonali. aveva assunto una forza d'inerzia autonoma.

"Bisogna

andare avanti.

Bisogna

andare avanti," continuava a ripetere un soggetto. Egli non riusciva a rendersi conto che colui che voleva che si andasse avanti era un uomo come lui l'elemento umano era svanito e "l'esperimento" Nessuna azione ha, di per sé, delle caratteristiche psicologiche univoche: il suo significato può cambiare a seconda dei contesti in cui si colloca. Un giornale americano citava recentemente le dichiarazioni di un pilota il quale giustificava il fatto che gli Stati Uniti bombardassero quotidianamente donne, uomini, bambini vietnamiti, perché si trattava, a suo avviso, di una "nobile causa". In modo analogo, la maggior parte dei partecipanti a questo esperimento giudicano il loro comportamento nel contesto più vasto di un'opera benefica e utile alla società: la ricerca della verità scientifica. Il laboratorio di psicologia ha una apparenza molto legittima e ispira fiducia e sicurezza in I quanti partecipano all'esperimento. Un atto come quello di somministrare una scossa elettrica a una vittima, che isolatamente appare condannabile, acquista un significato totalmente diverso quando si verifica in questo ambiente. Ma permettere che un'azione venga dominata dal suo contesto, senza più curarsi delle sue conseguenze umane, può divenire tragicamente pericoloso. Nella nostra ricerca era assente uno degli elementi fondamentali delle persecuzioni naziste: in Germania, la persecuzione delle vittime era preceduta da un'intensa opera di denigrazione. Oltre un decennio di violenta propaganda contro gli ebrei aveva preparato il popolo tedesco a accettare la loro distruzione. Agli ebrei venne progressivamente negata la qualità di cittadino, di appartenente alla nazione, e, da ultimo, persino quella di essere umano. Il sistematico avvilimento delle vittime come meccanismo psicologico per giustificare i trattamenti brutali a cui esse sono sottoposte, è sempre stato presente nel corso di massacri, progroms e guerre. Molto probabilmente i nostri soggetti sarebbero stati ancor più a loro agio nel somministrare le scosse alla vittima se quest'ultima fosse stata presentata come un criminale abbietto o un pervertito. È tuttavia interessante notare che molti soggetti manifestarono la tendenza a biasimare duramente la vittima proprio

in conseguenza

del loro comportamento nei suoi confronti. Capitava spesso di udire 19

Andrea  Canevaro  Infanzie  e  genocidio  

simili commenti:"Era talmente stupido e ostinato che meritava proprio di ricevere la scossa." Una volta che avevano fatto del male alla vittima questi soggetti non potevano evitare di considerarla una persona spregevole, che meritava la punizione a causa della poca intelligenza e della mancanza di carattere dimostrate. Molte persone osservate nel corso dell'esperimento erano in qualche modo contrarie al proprio modo di comportarsi nei confronti dell'allievo e molti soggetti, benché obbedienti, protestavano. Ma per passare dai pensieri e dai discorsi alla ribellione contro un'autorità perversa, occorre la presenza di un altro elemento: la capacità di tradurre opinioni e valori in azioni. Alcuni soggetti erano assolutamente convinti di commettere qualcosa di sbagliato, ma non trovavano la forza necessaria per opporsi decisamente all'autorità. Alcuni provavano soddisfazione al pensiero di trovarsi, almeno nel loro intimo, dalla parte del giusto. Non si rendevano conto, però, che i sentimenti personali, finché non vengono tradotti in azione, ben poco servono a risolvere i dilemmi morali. Il controllo politico viene esercitato tramite l'azione. Le convinzioni intime delle guardie di un campo di concentramento non hanno nessuna conseguenza finché esse si limitano ad assistere passivamente al massacro degli innocenti che ha luogo davanti ai loro occhi. In modo analogo, la cosiddetta "resistenza intellettuale" con cui nell'Europa occupata alcune persone opponevano all'invasore le armi della loro profonda indignazione, serviva, tutt'al più, come meccanismo psicologico di consolazione. Le tirannie sopravvivono grazie a quegli individui diffidenti che non hanno il coraggio di agire in coerenza coi propri ideali. I partecipanti al nostro esperimento si sono ripetutamente rimproverati le loro azioni, ma non erano in grado di mettere insieme le risorse inferiori per trasformare in azione i loro valori. Una variante dell'esperimento di base mostra un dilemma più comune di quello descritto sopra: al soggetto non veniva richiesto di premere il pulsante della scossa, ma soltanto di compiere un atto sussidiario, cioè di leggere le coppie di associazioni verbali, mentre un altro soggetto

azionava

il generatore. In questa prova, sui 40 adulti provenienti dalla zona di New Haven, 37 hanno proseguito finché il soggetto aveva ricevuto tutte le scosse del generatore. Come ci sì poteva aspettare, questi soggetti hanno giustificato il loro comportamento scaricando la responsabilità sulla persona che compiva l'atto materiale di premere il pulsante. Questo può illustrare una situazione pericolosamente tipica in una società complessa: quando si è soltanto un anello di una catena, è facile, dal punto di vista psicologico, giustificare il proprio operato, allorché si è lontani dalle sue conseguenze ultime. Anche Eichmann avvertiva malessere ispezionando i campi di concentramento, ma 'la sua partecipazione ai massacri collettivi si limitava a maneggiare incartamenti dietro una scrivania. Nel medesimo istante, l'uomo che, lontano da lì, immetteva il Cyclon B nelle camere gas, poteva trovare una giustificazione alla sua azione nel fatto di stare semplicemente eseguendo degli ordini che venivano dall'alto. L'azione collettiva viene in tal modo a frantumarsi: l'atto infame non è compiuto da un singolo individuo che deve affrontarne le conseguenze; il responsabile è svanito nel nulla. È questa, forse, la caratteristica più comune al male organizzato su scala sociale nella società moderna. II problema dell'obbedienza non è, perciò, di natura I puramente psicologica, ma è strettamente legato al modo i di sviluppo e all'organizzazione della società. Forse in epoca remota gli uomini erano capaci di dare una risposta che esprimeva pienamente la loro individualità, in ogni situazione, in quanto vi si trovavano coinvolti con l'insieme del loro essere; ma con l'estendersi della divisione del lavoro le cose sono cambiate. Il frammentarsi dell'attività umana in compiti limitati e altamente specializzati ha avuto come risultato il deterioramento della qualità del lavoro e dell'esistenza degli uomini. L'individuo che è incapace di giudicare le situazioni nel loro insieme, poiché ne scorge solo una piccola parte, non può agire senza una qualche direttiva esterna. È obbligato a sottomettersi all'autorità, in quel medesimo momento, diventa estraneo alle sue ; i stesse azioni. George Orwell ha colto l'essenza di tale situazione quando ha scritto: Mentre sto scrivendo, esseri umani altamente civilizzati volano sopra di me, cercando di uccidermi. Essi non provano nessuna ostilità particolare nei miei confronti, come non la provo io nei loro, compiono soltanto il loro dovere, come si suoi dire. Non ho alcun dubbio che la maggior parte di 20

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loro siano persone gentili, rispettose della legge, che mai si sognerebbero, nella loro vita privata, di compiere un omicidio. D'altra parte, se uno di loro riesce a farmi saltare in aria con una bomba ben diretta, non soffrirà mai di insonnia per questo.” Vedi anche Ph. ZIMBARDO (2008;2007),

L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?

, Milano, R. Cortina. Philip Zimbardo (2008; 2007) fece uno studio, diversi anni fa, attraverso una simulazione – va sottolineato che a tutti i partecipanti era noto che era una vicenda simulata, in un contesto simulato – in un ambiente penitenziario. Lo fece come sanno farlo gli statunitensi che hanno grandi fondi a disposizione: costruì all’interno di una università un ambiente carcerario talmente realistico che poteva essere scambiato per un carcere vero. Coinvolse quindi delle persone tranquille, che non avevano assolutamente nessuna storia precedente che le potesse segnalare come in qualche modo disturbate e formò, casualmente, due gruppi, uno di persone che entravano nella parte di detenuti e l’altro di persone che entravano nella parte di guardie carcerarie. Dopo qualche tempo, sospese l’esperimento, accorgendosi che la situazione degenerava e i detenuti subivano angherie, ingiustizie, crudeltà inaudite da parte di quelli che erano entrati nella parte di guardie carcerarie. Il tutto era finto e tutti sapevano che era finto, ma erano tutti talmente calati nella parte da ritenere utile, per l’esperimento e per la parte che interpretavano, assumerne tali caratteristiche. Zimbardo sospese l’esperimento e non diede seguito alla pubblicazione dei risultati, anche perché ne era rimasto colpito e spaventato. Ma passati diversi anni si accorse che era utile riordinare i materiali e pubblicare quella ricerca, perché il mondo viveva le degenerazioni di guerre in cui persone miti e tranquille, per il solo fatto di indossare una divisa, in contesti simulati e a maggior ragione in situazioni belliche, assumevano condotte e comportamenti di una crudeltà impensabile. Abbiamo saputo tutto attraverso documentazioni “ingenue”, fotografie e riprese con telefonini fatte per gli amici e finite a giornali. Erano soldati – uomini, donne – di leva, che vivevano abitualmente una vita civile molto comune ed erano capitati in un contesto di guerra per uno stipendio maggiorato e non certo per scelte bellicistiche e bellicose. Il libro di Zimbardo è stato tradotto in italiano nel 2008, un anno dopo l’edizione statunitense. Nella presentazione italiana della ricerca di Philip Zimbardo, Roberto Escobar cita Zygmunt Bauman (2004, p. 46). “Si potrebbe dire che tutto ciò dipende dalla particella ‘no’, presente in tutte le lingue che gli uomini […] dopotutto e forse

prima di tutto

la moralità riguarda la Zimbardo, 2008, p. XXI).

scelta

“ Saper dire no, saper disobbedire, e sapere quando obbedire e quando no, conservare, o far crescere, “eroicamente questa capacità, l’unica che ci consenta di decidere e scegliere: questo ci serve per sfuggire all’effetto Lucifero” (R. Escobar, in Ph. 21