I demoni della realtà Personaggi

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶25 agosto 2014¶N. 35
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Cultura e Spettacoli
Montagna al cinema
Anche quest’anno il Festival
di Diablerets ha presentato opere
degne di nota e apprezzate
Ma quanto si legge?
Sotto l’attenta lente di Valerio Spinazzola,
curatore dell’annuario «Tirature»
quest’anno vi sono anche i giochi,
elettronici
Gli amici di J.J. Cale
Un doveroso omaggio
al cantautore J.J. Cale
a un anno dalla scomparsa
Un festival, due anime
Alcune considerazioni
sul Festival di Locarno
e sui possibili scenari futuri
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pagina 35
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pagina 37
I demoni
della realtà
Personaggi Le vicissitudini di Truman
Capote nel 30mo anniversario della morte
Daniele Bernardi
Il Cinema Olympia si trovava a New
York, nella parte alta di Broadway. Lì,
negli anni ’30, per un certo periodo, tra
le poltrone dell’ultima fila pare ebbe
luogo la «ben misera iniziazione ai misteri del sesso» del giovanissimo Truman Capote (New Orleans, 1924 – Los
Angeles, 1984). All’epoca il ragazzo era
iscritto alla Trinity School, una scuola
episcopale privata della «Chiesa alta»
considerata una delle migliori di tutta la città. Si trattava di un istituto esigente, dove lo studio era cadenzato da
preghiere e inginocchiamenti. Uno dei
suoi insegnanti prese la regolare abitudine di accompagnare il piccolo Truman a casa a piedi. Fu durante queste
passeggiate che cominciarono le soste
all’Olympia – dove, nella penombra,
Capote venne ripetutamente molestato
dal professore.
Il futuro scrittore era nato dall’infelice unione tra Arch Persons (il
cognome Capote lo prese, successivamente, dal secondo marito di sua
madre) e Lillie Mae Faulk, una giovane
dell’Alabama che ambiva, più di ogni
cosa, ad elevare il proprio status sociale. Il loro matrimonio cominciò ben
presto ad andare a rotoli (Arch era un
cialtrone che prometteva mari e monti
senza mai concludere nulla) e quando
Lillie si rese conto di essere incinta questo le parve «una condanna alla prigione, qualcosa che avrebbe reso permanente e irrevocabile l’errore che aveva
fatto». Ma il marito non ne volle sapere
della sua intenzione di abortire – e un
martedì di settembre, nel pomeriggio,
la ragazza mise al mondo l’indesiderato
Truman Streckfus Persons.
Capote si sentì, fin da subito, di
troppo e non voluto. Il rapporto con
sua madre (che, tra l’altro, morì suicida
dopo essersi risposata con Joseph Garcia Capote, aver cambiato nome ed aver
ottenuto il tanto agognato riscatto a cui
aspirava) fu una morbosa commistione
di attaccamento e vergogna: «È stata
la persona che mi ha fatto più male in
tutta la vita» affermò lapidariamente
in un’occasione. Un precoce desiderio
di plasmare e mutare il proprio destino
di figlio sgradito gli si mostrò allora con
estrema chiarezza.
«Per qualche ragione (…) cominciai a leggere e scoprii che mi piaceva
(…), quando avevo nove o dieci anni,
mentre camminavo lungo la strada
prendendo a calci dei sassi mi sono
reso conto che volevo diventare scrittore, artista. Com’è successo? È quello
che mi chiedo. I miei parenti non erano
nessuno, erano poveri agricoltori. Non
credo nell’invasamento, ma qualcosa
dentro di me prese il sopravvento». E
fu con una feroce determinazione che
egli cominciò la propria scalata al successo (Capote ambiva ardentemente
al riconoscimento pubblico) e si mise
all’opera facendosi largo nei salotti e
nella scena letteraria statunitense – si
pensi, ad esempio, che la rivista «Life»,
nel 1947, gli dedicò la foto di copertina
ancora prima che uscisse il suo romanzo d’esordio, Altre voci, altre stanze
(1948).
A questo libro, opera di un ventenne definita dall’amico George Davis,
con un misto di stima e irriverenza,
«l’Huckleberry Finn dei finocchi», seguirono Un albero di notte (1949), Colore locale (1950), L’arpa d’erba (1951),
Si sentono le muse (1956) e il celebre Colazione da Tiffany (1958). Truman Capote aveva dato il via al suo meticoloso
progetto di scrittura, e di questo dava
l’impressione di conoscere ogni risvolto: «Un giorno Truman ci tracciò il suo
programma letterario per i vent’anni
seguenti,» racconta Paul Bowles «era
tanto dettagliato che naturalmente lo
presi per una fantasia. (…) Eppure le
opere che aveva descritto nel 1949 comparvero tutte, una dietro l’altra, negli
anni seguenti».
Ma in tutte le epopee artistiche ciò
che più conta è quanto non si è previsto,
il punto in cui un insieme di tracce che
ha definito la costruzione di un discorso si snoda in modo inconsueto, dando
corpo, nella realtà, ad un incontro con
qualcosa a cui si è predestinati e di cui
si ignora il significato profondo – ma
è questo qualcosa che, spesso, getta
una nuova luce (o una nuova ombra)
sull’ampiezza del disegno generale, ridefinendone i contorni. Se, ad esempio,
per Ezra Pound questo evento inaspettato furono i Canti Pisani (1948), nel
caso di Capote si trattò della stesura di
quello che oggi viene ricordato come il
suo maggiore romanzo, A sangue freddo (1966).
Quello che avvenne quando, la
mattina del 16 novembre 1959, lo scrit-
Truman Capote in un ritratto realizzato da Giona Bernardi. (Giona Bernardi)
tore aprì il «New York Times» a pagina
39 e lesse la notizia del massacro della famiglia Clutter nel Kansas, è oggi
noto a molti – specialmente da quando,
nel 2005, la pellicola di Bennett Miller
(tratta dalla biografia di Gerald Clarke)
riportò al pubblico di oggi gli esiti della
vicenda legata all’ideazione del libroindagine di Capote.
Il rapporto tra lo scrittore, Dick
Hickock e Perry Smith (i due assassini
con cui egli ebbe un intimo legame nel
corso del processo che, infine, li condannò a morte mediante impiccagione) è stato spesso fonte di disquisizioni
sulla condotta morale dell’artista e
permette di meditare sui rapporti intricati tra l’opera di un autore e la sua
biografia. Capote, a quanto si dice e per
quanto è dato immaginare, non avreb-
be potuto fare nulla per salvare i due
uomini dalla forca. Ma il punto su cui,
morbosamente, l’attenzione di molti si
sofferma è un altro: egli, a un dato momento, non volle più fare niente e non
rispose alle loro richieste perché, altrimenti, il suo libro non avrebbe visto la
luce (va anche detto che egli li incontrò
un’ora prima dell’esecuzione, alla quale
assistette personalmente).
Ciò che seguì è altrettanto noto.
Dopo la pubblicazione del suo bellissimo romanzo, nonostante il grande
successo e la crescente fama, Capote non riuscì più a terminare un libro
(eccetto la raccolta di novelle Musica
per camaleonti, del 1980) e consumò
sconsideratamente la propria esistenza
tra innamoramenti patologici, alcool e
stupefacenti – fino a quando, dopo sva-
riati ricoveri e disintossicazioni fallite,
la morte lo colse all’età di sessant’anni.
Parlando dell’opera di Jack Kerouac, William S. Burroughs ha detto «un torero che combatte contro un
toro è diverso da uno smerda-tori che
fa mosse senza nessun toro. Lo scrittore è stato là o non potrebbe scriverne.
E andando là rischia di rimanere incornato». Le vicissitudini faustiane di
Capote potrebbero volerci dire questo:
egli, allontanando i carnefici, consegnò il suo capolavoro e compromise
forse una parte di sé, spingendosi in
una zona pericolosa dell’esistenza dove
venne travolto dai demoni della realtà
(e non dell’immaginario) – demoni
che lo esposero alle fiamme di quella
perdita dell’innocenza che aveva già
permeato la sua letteratura.