AVVENTURA ROMANA

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Transcript AVVENTURA ROMANA

AVVENTURA ROMANA
Quarta B & Quarta C
Anno scolastico 1997/1998
Scuola elementare statale "Italo Calvino"
Cologno Monzese
(Milano)
1
Autori
quarta B
quarta C
Ammoune Lubna
Bevilacqua Lucia
Aprile Angelo
Borrelli Enrico
Armetta Marco
Camerino Elisa
Astolfi Luca
Capodici Dario
Bressanin Eleonora
Caputo Cristina
Calvitto Alessandro
Cosenza Simone
D'Errico Costanzo
Espinosa Sanchez Marcos
Debernardis Ilaria
La Gamba Stefano
Di Luca Martina
La Salvia Ilaria
Di Stefano Jacopo
Lucerna Antonio
Ferrazzano Federica
Maiorana Lorella
Mirabella Marta
Martucci Sara
Oliva Angela
Palumbo Roberta
Pettoni Dario
Pasini Valeria
Russo Alessandro
Putignano Laura
Russo Daniela
Russo Clara
Russo Mauro
Savino Leonardo
Valentino Stefania
Simone Daniele
Squadrito Veronica
Tocco Sara
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PREFAZIONE
Ci siamo appassionati molto alla storia di Roma e volevamo scoprire nei minimi dettagli
la vita quotidiana: privata e sociale.
Come gli storici abbiamo approfondito l’argomento basandoci sui documenti e sulle
fonti in più libri che abbiamo trovato soprattutto nella biblioteca civica di Cologno
Monzese e nelle piccole biblioteche familiari. Abbiamo scelto vari argomenti e, in base
alle nostre preferenze, ad ogni gruppo è stato assegnato un tema.
Per svolgere questo lavoro ognuno ha dovuto dare il meglio di sé: in alcuni testi il
linguaggio storico era di difficile comprensione, molte relazioni sono state ampliate o
addirittura rifatte e durante la revisione del lavoro ci siamo accorti che alcuni argomenti
importanti erano stati dimenticati.
I gruppi hanno cercato di sviluppare al meglio gli argomenti:
la famiglia; l’educazione dei ragazzi; i giochi; la casa; l’alimentazione; l’abbigliamento;
i riti nuziali; la medicina e i funerali per quanto riguarda la vita privata;
il foro; l’organizzazione sociale e politica; le leggi; l’esercito; le strade; gli acquedotti; il
commercio; la flotta mercantile; l’arte; gli spettacoli; le terme; la religione; la misura del
tempo e la lingua per quanto riguarda la vita sociale.
Abbiamo scritto i testi sui computer e scansionato le figure, poi abbiamo impaginato e
stampato il nostro libro.
Entriamo nel mondo di Roma antica, inseriamoci nel foro e scopriamo la vita quotidiana
dei suoi cittadini.
Allora volete viaggiare con noi?!
Se sì prendete zaino, macchina fotografica e block notes.
PARTIAMO!
Eleonora Bressanin
Federica Ferrazzano
Angela Oliva
Stefania Valentino
Marta Mirabella
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LA FAMIGLIA
Il capo della famiglia era il padre. Egli veniva considerato il re della casa e il sacerdote della
religione domestica: era lui infatti che celebrava i riti dinanzi all’altare degli dei che
proteggevano la casa e la famiglia.
La moglie e i figli gli dovevano la più rigorosa obbedienza. Anche se un figlio avesse
raggiunto le più alte cariche dello Stato, fosse cioè console o senatore, rimaneva ancora
soggetto alla volontà paterna. Il padre aveva addirittura il
diritto di vita o di morte sui propri figli. Se per sventura
un bambino nasceva storpio, il padre era libero di
ripudiarlo e poteva venderlo o lasciarlo morire.
I piccini che dovevano essere lasciati morire, venivano
abbandonati presso una colonna che era situata in un
grande mercato. La colonna era detta “lactoria” (dal
latino lac, latte), perché l’unico cibo col quale si nutrono
i bambini appena nati è il latte. Accadeva però spesso
che qualche persona di buon cuore prendesse con sé i
poveri piccini per allevarli.
La donna godette in Roma di un grande prestigio e fu tenuta nel massimo rispetto.
Sebbene soggetta all'autorità del marito, veniva considerata la regina della casa ed era
onorata coi nomi di domina, padrona, e di matrona. Ella era veramente la compagna
dell'uomo in tutti i momenti della sua vita e divideva con lui le responsabilità familiari e gli
onori della vita pubblica. Le era persino concesso di partecipare ai banchetti, cosa che in
Grecia era considerata scandalosa: ma, mentre gli uomini mangiavano stando sdraiati su
lunghe poltrone dette triclini, le donne stavano sedute e non bevevano mai vino. Per strada
gli uomini dovevano cedere il passo alla donna e chi le rivolgeva parole offensive poteva
anche essere condannato a morte.
A nove anni dalla nascita, ai maschi venivano dati tre nomi: il prenome, cioè il nome
personale; il nome, che indicava la gens, ossia il gruppo di famiglie discendenti da uno
stesso antenato; infine il cognome, che inizialmente servì a distinguere un determinato
individuo in relazione a una sua caratteristica personale e che, in seguito, indicò la famiglia.
Le femmine avevano il nome della gens al femminile, al quale a volte veniva aggiunto un
diminutivo tratto dal cognome.
Nei primi tempi della Repubblica, l'educazione dei fanciulli era affidata interamente ai
genitori: nei primi sette anni di vita, alla madre; e poi, fino al diciassettesimo anno, al padre.
Ai padri di famiglia non rincresceva di sottrarre tempo ai
loro affari per insegnare a leggere e a scrivere ai propri
figli e per farli assistere ai più importanti avvenimenti
della vita pubblica.
L'educazione romana mirava a suscitare nei giovani
l'amore verso la patria, il rispetto per la religione, le
tradizioni e le leggi. Una vecchia massima diceva che i
giovani devono avere "mens sana in corpore sano", mente
sana in corpo sano, ossia intelligenza pronta e ottima
salute. Così i fanciulli romani venivano esercitati nella
mente e nel corpo.
Accanto agli esercizi di equitazione, di nuoto, di lotta e di
ginnastica non veniva trascurata la lettura dei grandi poeti.
Nei primi anni della Repubblica l'istruzione e i fanciulli
furono affidati a precettori o mandati a scuole pubbliche.
Queste, però, non erano mantenute dallo Stato, come lo
sono oggi, ma dirette da privati, che per un modestissimo compenso si sobbarcavano la
non lieve fatica di insegnare a leggere e a scrivere. Sul finire della Repubblica esistevano
tre ordini di scuole: il primo corrispondeva alla nostra scuola elementare, il secondo a
quella media, il terzo era frequentato da quei giovani che desideravano apprendere
l'eloquenza per avviarsi alla vita politica.
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A diciassette anni l'educazione del ragazzo romano doveva essere compiuta: a quell'età egli
era considerato maggiorenne e acquistava il diritto di partecipare alla vita pubblica e di
prestare servizio nell'esercito. Ogni giovane festeggiava questo avvenimento con una
cerimonia che doveva svolgersi il 17 marzo. Quel giorno, egli si faceva tagliare i capelli,
che sin allora aveva portato lunghi, si toglieva la "bula", una specie di amuleto che aveva
protetto la sua infanzia, e la poneva nella cappelletta, tra le statue dei protettori della
famiglia. Anche la veste veniva cambiata: da quel giorno il giovane non indossava più la
toga adorna di porpora, chiamata toga pretesta (dal latino praetexta, adorna intorno), ma
vestiva la toga virile (dal latino vir, uomo), che era completamente bianca.
I GIOCHI
Nei cortili e nelle piazze c'erano bambini che giocavano a palla (pila), a trottola (turbo), con
il cerchio che guidavano con bastoncini dalla punta ricurva; inoltre si divertivano a
cavalcare una lunga canna (arundo longa) o far trascinare da topini rudimentali carretti
(prostellum); se il carretto era più grande, il gioco diventava più bello perché essi si
facevano trainare da vari animali (cani, pecore, capre). Invece se mancava l'animale,
attaccavano le cinghie ad un amico che era costretto a correre all'impazzata. Usavano
questo gioco per imitare gli spettacoli del circo. Fra i
giochi più diffusi, vi era senza dubbio quello delle noci
(nuces): si trattava di colpire un castelletto formato da
noci, tre sotto ed una sopra, chi riusciva a farlo crollare
vinceva ed il bottino era suo. Questo tipo di gioco è
chiaramente illustrato in un bassorilievo romano. I
bambini giocavano anche al gioco della fune: una specie di acchiappino con la corda, due
ragazzi dovevano tenere in mano uno dei capi di una lunga fune, dovevano afferrare altri
due, per poi legarli ben bene. Le bambine invece giocavano con delle bamboline fatte
d'osso, di terracotta o di legno.
A tutti questi giochi se ne dovevano poi aggiungere altri, di origine greca, come: l'altalena,
l'aquilone, la mosca cieca, il gioco della pentola, che certamente i fanciulli romani avranno
imparato dai numerosi schiavi orientali ai quali molte famiglie solevano far affidare la cura
dei bambini. Alcuni giochi sono ancora oggi usati.
Anche gli adulti sono stati sempre appassionati di giochi: dadi, ossicini, scacchi...
I Romani giocavano all'ombra di colonnati o nelle locande, nel retrobottega facevano
scommesse, lanciavano i dadi (aleae) e facevano risuonare
gli ossicini (tali). Spesso giocavano a testa o croce, pari o
dispari. La nostra morra deriva dalla "micatio" in cui due
uomini posti di fronte, variavano a ogni colpo il numero
delle dita alzate dall'uno e dall'altro. I Romani giocavano
una specie di scacchi complicati e troppo ingombranti per
il materiale necessario, spesso preferivano ripiegare su un
rudimentale gioco della dama, (tabulae luxoriale), che si
poteva improvvisare in qualunque posto con qualche riga
tracciata sul suolo o incisa sul pavimento, di cui parecchi
graffiti restano a testimoniarne l'esistenza sotto le arcate
della Basilica Giulia e nel Foro.
LA SCUOLA
Di buon mattino, quando la città incominciava ad animarsi, le botteghe si aprivano e nelle
strade passavano gruppi di ragazzini, alcuni accompagnati dallo schiavo "pedagogo" si
avviavano verso la scuola, dove li aspettava il maestro con l'inseparabile sferza; a
conclusione della giornata, si riversavano di nuovo nelle vie della città e, come tutti i ragazzi
del mondo, trovavano mille sistemi per arrivare a casa più tardi: si fermavano a curiosare
davanti ai negozi, combinavano scherzi ai passanti, giocavano con le noci, o a "testa e
croce” con le monetine. Le scuole erano aperte e tenute da insegnanti (generalmente
schiavi o liberti istruiti) che ricevevano una retribuzione in genere assai modesta dalle
famiglie dei ragazzi.
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I fanciulli dai sei agli undici anni frequentavano la scuola elementare. Gli educatori erano
molto severi con i bambini, infatti con un bastone picchiavano sulle mani ogniqualvolta i
ragazzi si distraevano.
Le scuole elementari furono aperte verso il IV secolo a.C. e vennero chiamate “ludi”.
L’educazione privata divenne così pubblica. In una modesta stanza d'affitto, sotto la tettoia
di una bottega, c'era un maestro seduto su una sedia; intorno a lui, su panche, sgabelli o
sedie, stavano gli scolari che tenevano sulle ginocchia una tavoletta ricoperta di cera,
oppure rotoli di papiro in
mano. L'aula era disadorna, le
suppellettili ed il materiale
didattico
erano
ridotti
all'essenziale: una lavagna
(tabula), un abaco per i calcoli
(abacus), raramente un tavolo
davanti al maestro. Dalla strada
vicina giungeva il vocio
insistente dei passanti; le grida
dei venditori ambulanti si
mescolavano agli strilli dell'insegnante ed alla cantilena dei ragazzini… In un simile
ambiente gli scolari (discipulus) trascorrevano quasi l'intera giornata: entravano al mattino,
andavano a casa a mezzogiorno per il pranzo, poi ritornavano il pomeriggio. L'anno
scolastico aveva inizio in marzo dopo le feste in onore di Minerva (duravano dal 19 al 25
marzo ed erano sacre soprattutto agli scolari); si faceva vacanza ogni 9 giorni in occasione
del mercato, ed in varie ricorrenze religiose e civili. Durante i mesi estivi, probabilmente le
scuole rimanevano aperte,ma erano poco frequentate dato che in quell'epoca molte famiglie
portavano i bambini al mare o in campagna. Il sistema con cui il maestro insegnava a
leggere ed a scrivere appariva monotono ed astratto. Su una tavoletta di cera vi era un
solco, un abbozzo già tracciato, che lo scolaretto doveva ripercorrere con lo stilo tante e
tante volte, prima con l'aiuto del maestro, poi da solo, finché la sua mano acquistava la
necessaria padronanza delle singole lettere. Dopo le lettere venivano le sillabe. Anche
nell'apprendimento del calcolo si seguiva più o meno lo stesso procedimento di ripetizione
meccanica. Per ore ed ore gli scolaretti contavano le unità sulle dita delle mani, in una
noiosa cantilena che si poteva udire fin sulla strada. Per il calcolo delle decine, delle
centinaia e delle migliaia si servivano di strumenti chiamati "abachi". Ve ne erano di vario
tipo: i più semplici erano tavolette coperte di sabbia su cui erano tracciate delle linee, nelle
quali si facevano scorrere le pietruzze (calculus) adoperate per i calcoli.Se buona parte dei
ragazzi non andava oltre la scuola elementare, quelli che appartenevano alle classi sociali
più elevate avevano ancora dinanzi a loro la prospettiva di un lungo corso di studi, che
comprendeva l'insegnamento del grammatico e del retore. Queste due fasi corrispondono,
sia pure in modo molto approssimativo, a quella che per noi oggi è l'istruzione secondaria.
Verso i 12 anni i figli delle famiglie abbienti venivano affidati alle cure del grammatico
(gramaticus), cioè ad un insegnante che aveva aperto una scuola a pagamento. Nella scuola
del grammatico le materie di studio fondamentali erano la lingua e la letteratura latina e
greca. I ragazzi avevano a loro disposizione opere di autori greci e latini, scelti soprattutto
fra i poeti; nel loro programma figuravano Omero, Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio…
Verso i 15 - 16 anni il giovinetto lasciava la scuola del grammatico: era in grado di parlare
correttamente il latino ed il greco; aveva una discreta conoscenza dei principali poeti delle
due letterature e possedeva un buon corredo di cognizioni relative ai vari campi del sapere.
Poteva perciò affrontare la terza ed ultima tappa della sua carriera scolastica, quella che,
completando la sua formazione culturale, avrebbe fatto di lui un oratore: la scuola del
retore. Nell'età imperiale, Roma era piena di retori: si incontravano nei tribunali, nelle sale
di conferenza, nelle scuole che essi stessi avevano aperto. Sapevano trattare qualsiasi
argomento e affrontare qualsiasi problema con grande abilità oratoria. Vespasiano sotto il
suo impero fece costruire un’altra scuola superiore, l’Ateneo, che al giorno d’oggi è
paragonabile all’Università.
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LA CASA DEGLI ANTICHI ROMANI
Ottimi architetti, i Romani seppero trovare soluzioni
originali e razionali per le loro case.
Il tipo di casa però mutava molto in relazione alle
condizioni economiche e sociali: la domus, era
destinata alle classi privilegiate.
I Romani poveri vivevano in stanzucce poste al di
sopra delle botteghe o in locali presi in affitto in
casamenti simili per struttura ai moderni palazzi
condominiali. Questi casamenti erano tanto grandi
che sembravano “isole” limitate dalle strade
circostanti, e perciò erano chiamate “insulae”.
In una casa signorile, subito dopo l'ingresso, c'era
un grande atrio in buona parte scoperto
(compluvio), per lasciar passare la luce, sotto cui era
collocata una vasca rettangolare (impluvio) dove si
raccoglieva l'acqua piovana.
Da una parte e dall'altra dell'atrio si trovavano le stanze destinate ai vari usi: la sala da
pranzo (triclinio), le camere da letto e altri locali più piccoli, alcuni occupati dai servi, altri
usati come ripostigli per raccogliere tutte le attrezzature della casa.
In fondo all'atrio c'era il tablinio, luogo di studio o di ritrovo, che si affacciava su un
giardino interno (peristilio), di solito molto curato e abbellito con fontane e statue, intorno
al quale correva un porticato su cui davano altre stanze e servizi.
La casa romana era costruita in pietra o mattoni ed era a un solo piano.
Non c'era casa agiata, a Roma, dove non ci fossero in bella mostra anfore, coppe e vasi in
argento, elegantemente decorati. Le case erano illuminate con lucerne di terracotta, bronzo
o argento alimentate ad olio che si appendevano al soffitto o ad appositi sostegni.
D’inverno, la maggior parte delle case era riscaldata da un fuoco di carbonella accesa in un
braciere.
Anche il valore degli arredi mutava a seconda delle
condizioni economiche dei cittadini, ma in generale
le pareti delle case romane erano spoglie e le stanze
semivuote. Tutti gli oggetti venivano collocati in
ripostigli e nelle stanze comparivano solo i mobili
indispensabili, come letti, tavoli e sgabelli. In
compenso, almeno nelle case ricche, le pareti dei
locali più importanti erano artisticamente affrescate con eleganti e raffinate decorazioni, che
si possono ancor oggi ammirare nella Villa dei Misteri a Pompei.
I mobili erano di vari materiali anche preziosi: legno, bronzo, avorio, tartaruga e argento.
Le case povere contenevano solo uno o due giacigli e uno sgabello o una sedia.
Quasi tutte le donne possedevano un fuso per filare e un telaio per tessere la stoffa che
serviva a fare i vestiti.
In città c’era poco spazio per costruire: così le
insulae erano alte e strette e avevano generalmente
almeno cinque piani.
Poiché i costruttori usavano spesso materiale a buon
mercato e di bassa qualità, nelle insulae, a volte così
mal costruite, si crepavano le pareti o cedevano i
soffitti. Cicerone, che era un proprietario benestante,
così si lamenta: “Due edifici di mia proprietà sono
crollati, e in altri le pareti sono piene di crepe. Così
sono scappati tutti: non solo gli inquilini, ma anche i
topi”.
Nei piani superiori delle insulae non c’era acqua corrente, così non c’erano impianti
igienici, né riscaldamento centrale. Gli inquilini usavano perciò i gabinetti pubblici o
versavano i liquami dalle finestre quando era calato il buio. Il pericolo d’incendio era
costante e spesso bruciavano case intere.
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L’ALIMENTAZIONE.
Nei primi tempi l’alimentazione dei Romani si basava su cereali, come il farro e il
frumento, con i quali si preparava una farinata (puls) che continuò ad essere l’alimento
principale dei meno abbienti anche in epoca imperiale. Insaporita con erbe aromatiche
come l’origano o la menta e condito con olio, la farinata si accompagnava con lattughe,
cavoli, porri, fave e olive, che non mancavano mai sulle mense di ricchi e poveri o con
formaggio di capra.
C’era anche abbondanza di frutta: mele, ciliegie, uva, susine, fichi, pesche, noci, mandorle,
castagne, e inoltre albicocche e datteri che giungevano dall’Armenia e dall’Africa.
Il pane apparve solo in un secondo tempo. Ne esistevano almeno tre tipi: oltre al panis
candidus, un pane fine, bianchissimo che solo i ricchi potevano permettersi, si sfornava
pane bianco (secundarius), e pane nero (plebeius).
La carne, inizialmente riservata ai giorni di festa, apparve ben presto in abbondanza sulle
tavole delle famiglie più ricche; era preparata in vari modi e insaporita con una grande
varietà di spezie, odori e salse, tra cui, molto apprezzato, il garum, ottenuto con pesce
fermentato al sole.
I Romani consumavano d'abitudine tre pasti al giorno.
Il primo (ientaculum), essendo sconosciuti tè, caffè e zucchero, era a base di pane intinto
nel vino oppure accompagnato da cacio, uova, frutta, miele; molti bevevano solo un po'
d'acqua.
Il pranzo (prandium) era rapido e sobrio: uova o pesce, un po' di verdura, frutta e, da bere,
acqua o vino allungato.
La cena (cena) era il pasto principale. I poveri dovevano spesso accontentarsi di una
minestra; i ricchi, secondo le occasioni, facevano servire più portate (ferculae), precedute da
antipasti (gustationes) e accompagnate da una miscela di vino e miele (mulsum). Durante
la cena (primae mensae) si serviva carne bollita, arrosto o in umido. Oltre al manzo, alla
vitella, alla pecora, al pollame e alla cacciagione, i Romani apprezzavano il pesce e anche
uccelli esotici come il pavone, la cicogna e lo struzzo. Finite le portate, e dopo un'offerta ai
Lari, la cena si concludeva con le secundae mensae, che consistevano in frutta, dolci e cibi
saporiti. Cominciavano a questo punto i brindisi, le esibizioni di danzatori, musici e attori.
Non di rado, sotto lo stimolo del vino, ai commensali saltava il ghiribizzo di andare a far
baldoria (commissatio) per la strada, cantando e suonando al lume delle torce.
Ecco alcune ricette in uso nella Roma antica:
Salsa piccante
Pepe, ligustico, menta secca, pinoli, uva passa, cariota (frutto della palma: Caryota Urens),
formaggio dolce, miele, aceto salsa, olio, vino, mosto cotto e vino riscaldato.
Piatto di acciughe senza acciughe
Taglia a piccoli pezzi la polpa di pesce arrosto o lesso quanto basti per riempire una teglia.
Trita il pepe e poca Ruta, cospargi di salsa quanto basterà e di poco olio; mescola nella
padella con la polpa insieme a uova crude sbattute perché stiano bene insieme. Accomoda,
sopra, poi le ortiche di mare in modo che non si mescolino con le uova. Cuoci a vapore
perché non si mescolino le uova e quando il tutto sarà rappreso cospargi di pepe tritato e
servi. A tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia.
Piatto di rose
Prendi delle rose e sfogliale: togli il bianco dai petali che metterai nel mortaio, bagna di
salsa e lavora. Aggiungi dopo una tazza e mezzo di salsa e passa il sugo al colino. Prende
quattro cervella snervale e tritaci 20 chicchi di pepe. Bagna col sugo e mescola. Rompi
dopo otto uova, aggiungi una tazza e mezzo di vino una tazza di passito, poco olio. Dopo
ungi una padella e mettila sulla brace calda versandoci ciò che abbiamo detto. Quando
arriverà a cottura sulla brace cospargi ancora di polvere di pepe e porta in tavola.
Dolci casalinghi con miele
Prendi palmule o datteri. Togli il nocciolo e riempili con un trito di noci o di pinoli o di
pepe. Salali all'esterno, friggili nel miele cotto e porta in tavola.
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MENU DI UN BANCHETTO ROMANO
ANTIPASTI
Medusa e uova
Mammella di scrofa ripiena di ricci di mare salati
Cervella cotta in latte e uova
Funghi bolliti con salsa pepata di grasso di pesce
Ricci di mare con spezie, miele, salsa di uova e olio
PORTATE CENTRALI
Daino arrosto con salsa di cipolla, ruta datteri di Gerico, uva olio e miele
Struzzo bollito in salsa dolce
Ghiro farcito con maiale e pinoli
Prosciutto bollito con fichi e cotto al forno in pasta al miele
Fenicottero lesso con datteri
DESSERT
Fricassea di rose con dolci
Datteri snocciolati ripieni di noci e pinoli fritti al miele
Paste calde africane al vin dolce con miele
Frutta
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ABBIGLIAMENTO MASCHILE
Per un Romano vestirsi era un'operazione abbastanza semplice e rapida, dato l'esiguo
numero di indumenti che era solito indossare. Su una specie di camicia di lino piuttosto
corta ed a diretto contatto con la pelle, egli infilava la "tunica", ossia una veste di lana
formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura
piuttosto bassa sui fianchi; la tunica cadeva in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un
po' più lunga dietro. Le maniche o mancavano del tutto, o non
arrivavano all'altezza del gomito.
La tunica era la veste che si indossava nell'intimità della casa, in
campagna, in provincia; era la veste che usava la gente che
lavorava, perché era semplice e pratica.
Quando faceva freddo, si mettevano due o più tuniche l'una
sull'altra, come faceva Augusto il quale, secondo la
testimonianza di Svetonio, era solito indossarne quattro, perché
aveva una gran paura dei raffreddori. L'ornamento più comune della tunica era una striscia
di porpora che serviva a determinare l'ordine o la classe sociale cui si apparteneva: quella
dei senatori era molto larga, più ridotta quella dei cavalieri. Vi era poi la tunica "palmata"
adornata di splendidi ricami, che indossavano i generali vincitori durante il trionfo.
Il cittadino romano non si presentava mai in pubblico vestito della sola tunica: prima di
uscire di casa, egli si avvolgeva nella "toga": era questo l'abito ufficiale dei Romani,
inseparabile da tutte le manifestazioni della loro attività civica. La toga era stata usata fin
dai tempi antichissimi; essa costituiva il costume nazionale e distintivo dei Romani, come
l'"himation" era il costume nazionale dei Greci. Soltanto gli schiavi e la gente umile che
esercitava un mestiere non indossava questa sopravveste.
La toga era un manto di lana bianca, pesante, tutto d'un pezzo; le sue dimensioni ed il
modo con cui si avvolgeva intorno al corpo avevano subito vari mutamenti attraverso i
secoli. Alle origini dovevano essere una specie di coperta di forma quadrata che si gettava
semplicemente sulle spalle; con il passar del tempo quel manto fu tagliato in modo da
permettere un drappeggio meno rudimentale. Intorno al terzo secolo a.C. la forma che la
toga aveva assunto era grosso modo quella di un trapezio con i lati arrotondati. Nell'età di
Augusto era di moda una toga molto ampia tagliata a forma di ellisse, che avvolgeva il
corpo con una sapiente drappeggiatura, lasciando libero il braccio destro. Mettersi addosso
la toga in modo che cadesse bene, che avvolgesse armoniosamente il corpo, richiedeva una
notevole abilità; chi poteva, si faceva aiutare da uno schiavo che provvedeva fin dalla sera
prima a "preparare" l'abito, disponendo in ordine le pieghe; gli altri si arrangiavano da soli.
Bello e dignitoso era questo abito, ma assai poco pratico: quando si camminava, quando si
gesticolava, quando ci si faceva largo nelle vie e nelle piazze formicolanti di gente, era
difficile mantenerlo composto ed in bell'ordine.
La toga era tutta bianca, senza ornamenti; tuttavia
quella che indossavano gli alti magistrati ed i
giovani fino ai 17 anni era ornata di una balza di
porpora, e prendeva il nome di "toga praetexta".
Poiché la toga era veramente poco pratica, i Romani
cercavano di limitarne l'uso alle situazioni in cui era
strettamente indispensabile e, con il passar del
tempo, la sostituivano con manti più semplici e
comodi. Così, soprattutto nell'età imperiale, il
cittadino romano cominciò ad usare il "pallium":
una sopravveste più corta, meno ampia della toga e
che perciò non impacciava i movimenti; oppure la
"lacerna" che ben presto si diffuse fra tutte le classi sociali: si trattava di un ampio mantello
aperto sul davanti e chiuso al collo con una fibbia: generalmente era fornito di cappuccio. I
raffinati usavano lacerne di tessuto molto fini, dai colori vivaci, il popolo si accontentava di
stoffe grossolane e perciò più economiche. Quando ci si metteva in viaggio, o in città
quando faceva molto freddo, si indossava sopra la tunica una specie di blusa interamente
chiusa davanti, fornita di cappuccio, che si infilava passando la testa attraverso un'apertura
centrale: si chiamava "paenula".
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Gli altri elementi che completavano l'abbigliamento maschile erano scarpe e cappelli. In
casa sua o quando era ospite di amici, il
romano usava i sandali (solea), allacciati da
strisce di cuoio che passavano tra dito e dito.
Quando indossava la toga o usciva in
pubblico, portava i "calcei", stivaletti alti fin
quasi al polpaccio che coprivano interamente il
piede; neri erano i calcei dei senatori, rossi
quelli dei patrizi.
Schiavi e contadini portavano in genere degli
zoccoli con la suola di legno; il popolino usava calzature di pelle non conciata, alte sopra la
caviglia, allacciate davanti da lunghi ciuffi di peli. Generalmente i Romani andavano a capo
scoperto; solo quando si mettevano in viaggio, o a teatro quando stavano lunghe ore fermi
al sole, si riparavano con un cappello di feltro a larghe tese annodato sotto il mento o sulla
nuca; si chiamava "petasus" ed era di origine greca.
Se pioveva si alzava sul capo il cappuccio del mantello; l'unico ornamento che gli uomini
usavano erano gli anelli (anulus).
Fin dai tempi antichi gli uomini portavano all'anulare della mano sinistra un anello
(dapprima in ferro poi in oro), di cui si servivano come sigillo. Nell'età imperiale si
diffondeva la consuetudine di portare anelli esclusivamente come ornamento.
VESTI E ORNAMENTI FEMMINILI
Mentre nel mondo moderno l'abbigliamento della donna si distingue nettamente da quello
dell'uomo, in Roma la differenza non consisteva tanto nella foggia del vestire quanto
piuttosto nei tessuti impiegati e nella varietà dei colori. Anche le donne usavano la tunica,
più lunga di quella maschile; su di essa indossavano la "stola" che era la veste caratteristica
della matrona romana, così come la toga era il costume nazionale degli uomini. La stola,
che aveva subito attraverso il tempo vari mutamenti a seconda della moda, era una
sopravveste molto ampia che scendeva fino ai piedi; era stretta in vita da una cintura
(talvolta le cinture erano due, una più alta e l'altra sui fianchi) ed era chiusa sul petto da una
fibbia, oppure sulle spalle da bottoni ornati di pietre preziose; le maniche
potevano essere lunghe o corte; nella parte inferiore la stola era ornata da
una striscia di porpora o da una balza ricamata in oro.
Per uscire in pubblico, nei primi secoli dell'età repubblicana, le matrone
usavano gettare sulla stola un mantello quadrato di dimensioni piuttosto
limitate, cui si andava sostituendo, con il passar del tempo, la "palla" ossia
un grande manto rettangolare che, a differenza della toga maschile,
copriva entrambe le spalle; poteva essere lungo fino ai piedi, ma
generalmente scendeva fin sotto alle ginocchia. Al posto della palla o su
di essa, si poteva usare anche un ampio scialle che dalle spalle scendeva
fin quasi ai piedi. In quanto ai tessuti la varietà era grande: alla lana ed al
lino andavano sostituendosi nell'età imperiale i tessuti misti: lana e cotone;
cotone e lino, cotone e seta. Le donne amavano soprattutto le stoffe fini e
leggere, come la seta che rappresentava il massimo dell’eleganza e della raffinatezza.
Anche nell'ambito dei colori vi era una larga possibilità di scelta: abilissimi tintori avevano
creato tutta una gamma di sfumature che soddisfacevano qualsiasi esigenza.
Le calzature femminili non differivano molto da quelle degli uomini. Le donne però
usavano pelli più morbide e fini, dai colori vivaci, quali il rosso, il giallo-oro o il bianco.
I gioielli erano la grande passione delle donne romane.
Un tempo, nei primi tempi della Repubblica, il lusso eccessivo delle vesti e degli ornamenti
era severamente riprovato dai Censori; allora l'austerità e la semplicità caratterizzavano
ancora la vita del popolo romano. Poi vennero le grandi conquiste che operarono una
profonda trasformazione nella vita e nei costumi dei cittadini: la ricchezza ed il lusso
ebbero un enorme incremento. Patrizi e grossi borghesi facevano a gara nel coprire di
ornamenti preziosi le mogli e le figlie, per ostentare davanti a tutta la città la loro ricchezza
ed il loro sfarzo. La varietà degli ornamenti femminili era enorme: vi erano diademi di
metallo prezioso, nastri ornati di gemme che si inserivano tra i capelli; spille e fibbie in oro
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e argento; anelli con pietre preziose
che si portavano non solo alle dita
delle mani, ma anche a quelle dei
piedi o intorno alla caviglia;
braccialetti in oro massiccio;
collane di perle e pendenti in
smeraldo che adornavano il collo ed
il petto. Fra gli orecchini erano di
gran moda i "crotalia" e cioè dei
pendenti doppi che avevano all'estremità una perla (quando la donna camminava,
produceva un piacevole tintinnio).
Dobbiamo ancora ricordare alcuni accessori che una signora veramente elegante non
dimenticava mai quando usciva di casa: la borsetta, il ventaglio e l'ombrellino. I ventagli
non erano pieghevoli come i nostri, ma rigidi: erano
fatti di piume di pavone dai brillanti colori, oppure di
foglie di loto. In quanto all'ombrello era una schiava
che generalmente lo teneva aperto sul capo della
padrona, quando ella lasciava la lettiga e andava a
passeggio per i giardini o per le vie della città.
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I RITI NUZIALI
Un credente scrupoloso, prima di stabilire la data delle nozze, doveva consultare uno
speciale elenco, fitto di giorni fasti e nefasti.
Racconta Ovidio:
Ho una figliola - e spero che mi sopravviva per anni di cui io sarò sempre felice, finché è sana.
Volendola sposare, pensavo quali fossero i giorni
adatti per le nozze e quali da sfuggire:
allora mi fu spiegato che il tempo propizio alle spose
ed ai mariti è il giugno, ma dopo gli idi sacri;
e si sa che la prima parte del mese è nefasta.
Altri giorni proibiti: i dies parentales, o
commemorazione dei defunti, dal 13 al 21 febbraio;
assolutamente sconsigliabili il 24 agosto, il 5
ottobre e l'8 novembre, perché vi si celebravano riti
destinati ai morti; il mese di maggio, dedicato ai
Lemuri, spiriti cattivi, tanto che il volgo aveva
coniato il proverbio "di maggio si sposano soltanto
le male femmine". Pericolosa era anche la prima
metà del mese di giugno. Il matrimonio romano
aveva molte affinità con quello greco. La donna
lasciava il focolare paterno con l’approvazione del
padre. I preparativi della sposa cominciavano con
l'acconciatura, complicata operazione che richiedeva la spartizione dei capelli in sei trecce,
fatta da una schiava mediante la punta d'una lancia, come voleva un’antica usanza. Poi la
sposa indossava una tunica senza orli stretta ai fianchi da una cintura di lana, legata con
doppio nodo. Si metteva sulle spalle un mantello color zafferano e dello stesso colore, ma
con un tacco un po’ più alto del solito, erano i sandali che la schiava premurosa, la aiutava
a calzare. Quantità e qualità dei gioielli e dei monili appesi al collo, alle orecchie, ai polsi,
dipendevano dalle fortune economiche della famiglia. Generalmente bastava una collana di
metallo. Di rigore era il "fiammeo", un velo color arancione che seminascondeva il volto,
fermato da una corona di mirto o di maggiorana. Il fidanzato era vestito di bianco e
aspettava nell'atrio assieme ai parenti e agli invitati. Sacrificata una vittima agli dei, il
sacerdote ne esaminava le viscere per accertarsi se il cielo fosse propizio alla nuova unione.
Ascoltato il responso favorevole, gli sposi si scambiavano il "sì", pronunciando la formula
“ubi tu Gaius, ego Gaia”, che sintetizza la perfetta fusione degli animi e dei corpi, "dove
sarai tu Gaio, sarò io Gaia"; i presenti allora esultavano di gioia, poi tutti banchettavano
fino al calar della sera. La prima parte del rito era terminata. Poi avveniva il trasferimento
alla casa dello sposo. Un chiassoso corteo, aperto dai suonatori di flauto e da cinque
fanciulli reggenti una torcia, si snodava per le vie ingrossandosi sempre più, a mano a
mano che i curiosi e gli sfaccendati, incontrati per strada, si accodavano intonando
anch'essi canzoni allegre, lanciando frizzi salaci sul conto dello sposo, e raccogliendo a
volo le noci che la coppia lanciava festosamente in aria, per propiziare la fecondità. Si
gridava ripetutamente "Talassio Talassio", una parola che, probabilmente, ricordava
qualche antica divinità matrimoniale. Arrivati alla soglia della nuova dimora, il marito
prendeva in braccio la sposa, e avendo cura che i suoi piedi non toccassero la soglia, la
portava nell'interno, sdraiandola su una pelle di pecora e consegnandole le chiavi di casa.
Iniziava la terza fase della cerimonia. La sposa veniva condotta davanti al focolare, e
assieme al marito, pronunciando le preghiere rituali, beveva e mangiava insieme con lui una
focaccia (panis farreus) consacrata a Giove Capitolino. Da quel momento nessuna cosa al
mondo avrebbe potuto sciogliere il matrimonio, almeno nei primi tempi della repubblica;
successivamente questo tipo di matrimonio cadde in disuso. Infatti oltre al matrimonio
religioso, ce n'erano altri due tipi: coemptio e usus, che avevano un carattere più
contrattuale. La coemptio era una vendita fittizia, in cui il padre plebeo emancipava la figlia,
passandola sotto la potestà del marito. L’usus riguardava la coabitazione di un plebeo con
una patrizia, che se protratta per un anno ininterrotto, produceva legalmente gli stessi effetti
dei due precedenti matrimoni. Il diritto romano non faceva difficoltà nel concedere il
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divorzio ai coniugi legati per coemptio o per usus, ma lo scioglimento del matrimonio del
primo tipo risultava più arduo.
LA MEDICINA
Nell'impero romano ebbe grande impulso la medicina anche se all'epoca le cause delle
malattie non erano ben conosciute. La maggior parte delle
persone credeva che le malattie fossero causate dagli dei.
I medici per alleviare il dolore usavano le erbe come
medicine. Molti malati facevano lunghi viaggi per
raggiungere santuari e centri termali addirittura fin nella
lontana Inghilterra.
I medici più famosi venivano dalla Magna Grecia e
formarono delle associazioni (collegia) per difendersi dagli
impostori.
C'erano dei chirurghi che compivano amputazioni,
asportazioni di denti e tonsille.
I medici e i chirurghi usavano per gli interventi:
bisturi, coltelli, spatole, pinze di tutte le misure.
Le operazioni interne erano sempre fatali
all'organismo e senza anestetico erano estremamente
dolorose.
Anche i più esperti spesso non riuscivano a salvare
le persone dalle malattie più semplici.
In età imperiale venne organizzato un servizio
medico presso l'esercito e la flotta.
Comunque, nonostante l'interesse per la medicina, la
maggior parte della gente chiedeva aiuto agli dei,
anche perché le visite mediche e le relative cure erano molto costose.
I FUNERALI
Quando un romano stava per morire la famiglia si riuniva e il suo parente più prossimo, lo
baciava sulla bocca, per raccogliere l'ultimo respiro; dopo la morte avveniva la
conclamazione, cioè tutti lo chiamavano ad alta voce e con le trombe gli suonavano dentro
l'orecchio, per assicurarsi che effettivamente fosse morto.
Rivestivano il corpo di abiti e poi gli mettevano una moneta in bocca, come facevano i greci
per pagare il trasporto a Caronte, il nocchiero infernale.
I funerali non avvenivano di giorno, ma di notte per non incontrare sacerdoti e magistrati, i
quali avrebbero dovuto poi purificarsi.
La salma era portata in un piccolo carro a due ruote,
a forma di tempio, seguivano i musicisti che
suonavano le trombe e i flauti, poi le prefiche, donne
pagate che piangevano, si lamentavano e si
strappavano i capelli, poi parenti ed amici, che si
cospargevano il corpo di cenere, e infine un attore
che indossava gli abiti del morto e ne imitava i gesti e
la voce.
Spesso gli amici e i parenti portavano immagini di
cera o di gesso per rendere onore al defunto.
Dapprima i cadaveri romani venivano bruciati, come facevano i greci, dopo iniziarono a
seppellire i morti fuori dalla città, nel luogo prescelto per le sepolture.
Se il defunto era stato un uomo politico, veniva esposto nel Foro, prima di essere
seppellito.
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VITA IN CITTÀ
Il Foro (Forum) e le zone adiacenti ad esso erano il cuore di Roma; in tutti i tempi è stato
quello il centro della vita multiforme di Roma: nella Curia si radunava il Senato; nei vari
uffici si svolgeva quel complesso di attività che riguardavano l’amministrazione dello
Stato; le Basiliche (enormi edifici con ampie sale
suddivisi da colonnati in 3 o 5 navate) erano sede
dei tribunali e il luogo dove confluivano gli uomini
della grande finanza per combinare i loro affari;
colonnati, templi, edifici pubblici di vario genere
sorgevano nella grande piazza e ne accrescevano la
magnificenza e lo splendore.
Nelle zone circostanti si svolgeva il commercio di
grandi e piccole proporzioni, secondo un ritmo che
si è intensificato attraverso il tempo, man mano che
la popolazione cresceva e le esigenze economiche
della città si moltiplicavano.
La folla che, specie nelle ore antimeridiane, si aggirava nel Foro, costituiva uno spettacolo
pittoresco. Vi erano magistrati in toga e uomini del popolo in tunica; avvocati e litiganti che
si accalcavano davanti al tribunale; oziosi che passeggiavano e chiacchieravano; usurai e
cambiavalute che richiamavano l’attenzione con il tintinnio delle loro monete disposte a
mucchi su un banco; giovanotti in cerca di avventure galanti.
Ogni tanto quella folla vociante si apriva: passava un corteo funebre preceduto da
suonatori di flauto e seguito da donne prezzolate che piangevano e gridavano; oppure
avanzava lenta e solenne la lettiga (lectica) di un gran signore, portata da robusti schiavi e
seguita da un codazzo di gente.
Ma lo spettacolo più interessante era ancora quella
folla in cui si mescolavano persone di ogni
nazionalità, di ogni colore, di ogni razza.
Nel pomeriggio il Foro cambiava volto; verso le due,
quando cessava l’attività dei vari uffici, si placavano
anche il tumulto e l’animazione della mattinata.
Allora il Foro diventava meta delle passeggiate di chi
amava gironzolare tra i templi e gli edifici pubblici,
alla ricerca di quella pace e tranquillità di cui Roma
era tanto avara verso i suoi abitanti. Nei primi secoli
di Roma anche il mercato cittadino si teneva nel
Foro; poi esso si sviluppò in altre direzioni, perché
ormai il centro della città non poteva più contenerlo
dato il grande sviluppo degli edifici pubblici e
soprattutto l’ampliato volume degli affari. Il centro
dell’attività commerciale rimase sempre nelle
vicinanze del Foro, ma si andò via via estendendo
verso i grandi mercati (quello generale, quello delle
carni macellate, quello delle erbe, i magazzini di
grano, olio, vino, i depositi di sale ecc.) che si
concentrarono nella pianura che dal Foro giungeva
direttamente al Tevere, ed in quella che si estendeva a mezzogiorno dell’Aventino. Il
piccolo commercio bottegaio si sviluppò invece nelle numerose vie che si dipartivano dal
Foro e andavano verso le pendici dell’Esquilino, e soprattutto nel popoloso quartiere della
Suburra fra il Celio e l’Esquilino. La Suburra era uno dei rioni popolari più caratteristici di
Roma; un quartiere puzzolente e chiassoso, dove tra il formicolio incessante della folla che
si riversava nelle botteghe di ogni tipo, volavano le parolacce, scoppiavano le risse e si
trovava gente che faceva un po' tutti i mestieri.
Ogni rione di Roma aveva una sua particolare fisionomia; naturalmente non vi erano
soltanto taverne e botteghe di infimo ordine: vicino al Foro, in una zona del campo di
Marte si trovavano i negozi di lusso, che esponevano la loro merce sotto i porticati dove si
aggirava la gente elegante. Chi aveva gusti raffinati e molto denaro da spendere, poteva
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acquistare in quei negozi stoffe pregiate, vasellame finissimo, legni intarsiati, ninnoli
preziosi e persino schiavi di lusso.
Il venditore di ceste
Il tonsore
Nel negozio di tessuti
La bottega dell'oste
La bottega del vasaio
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ORGANIZZAZIONE SOCIALE
Nei tempi più antichi la popolazione era divisa in patrizi e plebei.
I primi ricoprivano tutte le cariche politiche, emanavano le leggi, si arricchivano con il
bottino di guerra; i secondi, se anche riuscivano ad accumulare denaro con i traffici e la
piccola industria, non potevano aspirare a nessun miglioramento. Poi la plebe indisse una
sorta di sciopero generale e, come risultato, riuscì a ottenere l'elezione di due tribuni
incaricati di difendere i suoi interessi. Gli uomini più ricchi della plebe trassero notevoli
benefici da questa riforma: poterono ricoprire cariche politiche e, dopo una carriera nella
magistratura, essere eletti al Senato.
Ma la situazione del popolino peggiorò: i contadini, costretti dalle lunghe guerre ad
abbandonare i loro poderi, dovettero vendere le terre ai grossi proprietari terrieri; gli
artigiani dovevano sempre più far fronte alla massiccia concorrenza rappresentata dal
lavoro degli schiavi.
Tra gli aristocratici, sempre più ricchi, e il popolo, in condizioni sempre più misere, si andò
formando una nuova classe, quella dei cavalieri che nel II sec. a.C. ottenne un
riconoscimento ufficiale con il diritto di portare una toga simile a quella dei senatori e un
anello al dito.
Nello stesso periodo affluì a Roma una massa di ex contadini che andavano ad ingrossare
le fila dei nullatenenti: cercavano pian piano di inserirsi nella vita tumultuosa della città
trasformandosi, spesso senza successo, in artigiani, operai, venditori ambulanti e piccoli
bottegai.
Lo Stato, preoccupato dalle possibili rivolte, cominciò a distribuire a prezzi inferiori il
grano, poi passò alla distribuzione di farina gratis, infine concesse ai più bisognosi un
sussidio in denaro.
Si è calcolato che nella Roma imperiale esistevano circa 150 000 nullatenenti assistiti dallo
Stato che ovviamente andava sempre più impoverendosi.
Ai tempi dell'impero la sproporzione tra ricchi e poveri era abissale.
In cima alla scala della ricchezza c'era l'imperatore. Ai beni di famiglia poteva aggiungere
una parte degli averi del suo predecessore e in più aveva la facoltà d'incamerare le sostanze
che la giustizia confiscava ai cittadini rei di particolari colpe, di ereditare da privati, di
prendersi buona parte del bottino di guerra, di godere della rendita delle proprietà
dell'impero; poiché nessuno osava chiedere al principe di fare una distinzione tra i beni
dello stato e quelli personali, le sue disponibilità finanziarie erano incalcolabili.
All'imperatore seguivano i senatori che potevano occupare cariche molto remunerative
come l'amministrazione di un'importante provincia.
I cavalieri avevano la possibilità di amministrare province periferiche dell'impero e di
svolgere diverse funzioni civili.
In fondo alla scala c’era la plebe che, per sbarcare il lunario, faceva sempre più
affidamento sui sussidi.
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ORGANIZZAZIONE POLITICA
L'ordinamento monarchico era molto semplice. Il re accentrava in sé ogni autorità: egli era
massimo sacerdote, capo dell'esercito, giudice supremo, unico amministratore dei beni
dello Stato.
Nel 509 a.C. i Romani si trovarono a dover ordinare la vita del loro Stato su basi
completamente nuove. Affinché il potere non fosse più accentrato nelle mani di una sola
persona, sorse l'esigenza di creare degli organi legislativi che si controllassero fra di loro e
moderassero l'uno il potere dell'altro. Si venne così a stabilire una serie di norme che
fissavano la struttura e regolavano il funzionamento dello Stato romano.
I patrizi potevano far parte del Senato, formato da tutti i patres (i capi di ogni gens), dei
Comizi Curiati, un'assemblea che finì con l'occuparsi solo dei riti e delle tradizioni delle
varie gentes, e dei Comizi Centuriati, di cui facevano parte anche i rappresentanti dei plebei.
Il senato e i comizi centuriati nominavano e controllavano i magistrati, che a loro volta si
suddividevano in:
- dittatore, colui che era disposto a governare in caso di pericolo e restava in carica per
circa 6 mesi;
- consoli, coloro che normalmente avevano il massimo potere su tutto;
- tribuni della plebe, coloro che difendevano gli interessi dei plebei e che venivano perciò
eletti da essi;
- pretori, coloro che avevano il compito di giudicare le controversie nei tribunali;
- censori, coloro che vigilavano sulla moralità e sui costumi;
- edili, coloro che vigilavano sugli approvvigionamenti della città, sui mercati, sull’edilizia e
sui giochi pubblici;
- questori, coloro che custodivano il denaro dello stato, riscuotevano i tributi, pagavano le
truppe e gli impiegati;
- pontefici, coloro che provvedevano al culto degli dei.
Con l'avvento dell'impero, anche se continuarono le istituzioni dei consoli, dei tribuni, del
Senato e di tutti gli altri magistrati della repubblica, in realtà Roma fu governata da una sola
persona, l'imperatore, che il Senato chiamò:
Princeps, cioè primo cittadino
Pater Patriae, cioè padre della patria
Augustus, cioè degno di riverenza.
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LE LEGGI
Nei primi tempi della repubblica, a Roma la legge non era uguale per tutti.
Ciò era causa di grave malcontento da parte della popolazione plebea. Per la mancanza di
leggi scritte e ben chiare, i giudici potevano giudicare e condannare a loro arbitrio.
Naturalmente i danneggiati da questo stato di cose erano i plebei che, senza istruzione,
senza ricchezze e amicizie influenti, venivano talvolta sfruttati e ingannati dai patrizi.
Nel 462 a.C., il tribuno della plebe Terentillo Arsa avanzò la richiesta che fosse compilato
un Codice scritto delle leggi, da far osservare a tutti i cittadini, patrizi e plebei.
Per ben dieci anni il Senato, che allora era ancora formato esclusivamente da patrizi,
ostacolò questa proposta, ma alla fine, nel 451, sotto la minaccia di una rivolta popolare, fu
costretto ad accondiscendere.
I Comizi Centuriati scelsero allora i dieci cittadini più illustri, detti “Decemviri” (da
“decem”, 10 e “vir”, cittadino) e ad essi fu dato l’incarico di preparare un Codice. La
loro carica ebbe la durata di un anno e pare che in quel periodo una commissione fu inviata
in Grecia per studiare le leggi che Solone aveva dato ad Atene. Allo scadere dell'anno le
leggi furono sottoposte all'approvazione del popolo, furono incise su dieci tavole di bronzo
ed esposte nel Foro, perché ognuno potesse conoscerle.
I legislatori ebbero il merito di scrivere leggi chiare e semplici affinché tutti i popoli
dell'impero potessero capirne la validità, infatti esse non valevano per una o due province,
ma per tutte le popolazioni che dovevano convivere pacificamente tra di loro.
Successivamente al Codice furono aggiunte altre due Tavole, ma gli ultimi legislatori si
mostrarono meno equanimi dei precedenti e introdussero, nell’undicesima tavola, una
legge umiliante per la parte plebea del popolo romano: era il divieto di matrimonio fra
patrizi e plebei, per cui più tardi questa legge fu abrogata.
La tradizione narra che le tavole di bronzo andarono perdute durante un saccheggio, ma il
loro testo fu ricostruito a memoria e tramandato di generazione in generazione.
Le leggi delle XII Tavole sono state il primo testo scritto del diritto romano che è stato il
maggior contributo di Roma alla civilizzazione del mondo intero.
Dalle 12 Tavolette:
I Se uno è chiamato in giudizio, ci vada; se non ci va, colui che lo chiama in giudizio
prenda dei testimoni e poi ve lo conduca per forza .
Se il convenuto indugia ve lo conduca per forza.
Se il convenuto indugia o cerca di fuggire gli ponga le mani addosso.
Se il convenuto è impedito da un male o dalla vecchiaia, colui che lo chiama gli dia un
giumento.
Se ambo i contendenti sono presenti, il tramonto sarà il limite ultimo del processo.
II Colui al quale sia mancato il testimonio, vada girando davanti alla sua casa chiamandolo
ad alta voce per tre giorni di mercato.
III Per un debito del quale è stata fatta confessione e per il quale il giudizio è pronunciato,
vi saranno i XXX giorni di tempo fissati dalla legge per salvare il debito. Passati i XXX i
giorni, il creditore arresti il debitore e lo conduca in giudizio.
Se il debitore non paga e nessuno in giudizio si fa garante per lui, il creditore lo conduca
con sé e lo leghi con regge o con catene del peso di XV libbre almeno, o d'un peso anche
maggiore, se vorrà.
Nei tre mercati successivi venga condotto, ogni volta, nel comizio davanti al pretore. Nel
terzo mercato venga fatto a pezzi, oppure mandato di là dal Tevere, in paese straniero, per
essere venduto.
IV Sia subito ucciso un fanciullo di grave deformità.
Se il padre ha venduto per tre volte il figlio, questi è libero dalla patria potestà.
V Sia giusto che un padre lasci i suoi beni e i suoi schiavi a chi vuole.
Se uno muore senza testamento, e non si fa avanti il suo erede, il più prossimo congiunto
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in linea paterna abbia tutta l'eredità.
Se neppure il congiunto compare, abbiano l'eredità quelli della sua "gens".
La presente legge interdice al mattino l'amministrazione dei propri beni e prescrive che sia
posto sotto la cura dei congiunti o dei membri della sua "gens".
VI Quando uno farà un impegno o concluderà una vendita, questi atti abbiano la loro
efficacia se siano stati espressi con forme solenni.
Non si può togliere un trave (tuo) congiunto a una casa (di un altro) o i pali (tuoi) dalle
vigne (di un altro), ma neppure l'altro ne diventa proprietario.
VII La larghezza delle vie sia di otto piedi, se la via è diritta.
Si mettano in ordine le strade: se non saranno acciottolate si facciano passare i giumenti
dalla parte che si vuole.
Se un rivo d'acqua, condotto per canale pubblico, nuocerà a un privato, questi avrà una
azione per il risarcimento dei danni.
VIII Se qualcuno pubblica un libello che diffama o reca vergogna ad alcuno, sia
condannato alla pena capitale. Se uno rompe a un altro un arto e non viene a un accordo,
abbia la pena del taglione.
Se uno fa ingiuria ad un altro, la multa è di 25 assi.
Chi, di notte, nascostamente, pascola o taglia le biade altrui, se è un maggiorenne commette
un delitto capitale: venga impiccato e poi sacrificato a Cerere. Se è minorenne deve essere
bastonato e paghi il doppio del danno prodotto.
Non si presti denaro con interesse maggiore dell'8%. Chi ha dato falsa testimonianza sia
gettato dalla rupe Tarpea.
IX Sia punito con la morte chi ha istigato il nemico contro patria o ha consegnato un
cittadino al nemico.
E' vietato che si uccida qualunque uomo che non sia stato prima condannato.
X Non si seppellisca né si bruci nessun morto nella città.
E' proibito l'oro nelle sepolture. Colui i cui denti sono legati con oro, potrà essere
seppellito o bruciato con l'oro.
XI Non vi saranno matrimoni fra membri del patriziato e plebei.
XII Se uno schiavo commette un furto o arreca qualche danno, sarà ceduto in compenso
dei danni.
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L'ESERCITO ROMANO
Si può dire che l'esercito Romano sia nato con Roma: infatti i fondatori della città
dovettero immediatamente armarsi per difendersi dagli attacchi
delle popolazioni latine confinanti. E se, lungo i secoli, i Romani
poterono riuscire vittoriosi contro tanti popoli, anche militarmente
potenti, lo dovettero alla loro superiorità in fatto di armamento e
di organizzazione bellica.
A Roma, ciascun cittadino aveva il compito di armarsi e di
prestare servizio nell'esercito a proprie spese. Da tale obbligo
erano quindi esclusi i poverissimi; ma, in caso di estremo
bisogno, essi venivano armati a spese dello Stato.
I cittadini dai 17 ai 45 anni, detti juniores (giovani), costituivano
l'esercito attivo, quelli dai 46 ai 60, chiamati seniores (anziani),
formavano una specie di milizia territoriale, impiegata soltanto
nelle retrovie.
Appena entrato a far parte dell'esercito, ciascun cittadino doveva
prestare un giuramento, che consisteva in queste parole:
“Ubbidirò ai miei superiori ed eseguirò tutti i loro ordini per
quanto mi sarà possibile”.
Nessun cittadino poteva aspirare ad una carica pubblica se non aveva prestato servizio
nell'esercito per almeno 10 anni. Durante la monarchia e per tutto il periodo della
repubblica, l'esercito venne arruolato soltanto in tempo di guerra, ma al tempo dell'Impero
una parte di esso rimaneva mobilitato anche in tempo di pace.
L'istruzione militare avveniva nel Campo di Marte, posto sulla riva sinistra del Tevere. Le
reclute, cioè i soldati appena arruolati, venivano esercitate nel lancio dei giavellotti, nel
maneggio dello scudo, nella lotta, nel salto, nel nuoto e nelle marce. Ogni recluta piantava
un palo nel campo e poi, con la spada, si esercitava contro di
esso, come fosse un nemico. Per dare prova di grande resistenza
alle fatiche, i giovani si esercitavano con armi molto più pesanti
di quelle che si portavano in guerra. Per far sì che ogni giovane
si sentisse spronato a mostrare il suo valore personale, si
permetteva ai cittadini di assistere all'istruzione delle reclute e di
applaudire ai più forti e ai più arditi. Preparati i singoli soldati, si
passava agli esercizi collettivi; essi consistevano soprattutto in
lunghe marce con tutto il carico di guerra addosso e nel rapido
passaggio dall'ordine di marcia a quello di battaglia.
L'esercito romano era suddiviso in legioni. Nei primi anni della
monarchia, esso era formato da una sola legione: 3 000 fanti e
300 cavalieri. Poi, man mano che lo stato romano si ingrandiva,
si presentava la necessità di ingrossare l'esercito: si cominciò a
portare a due il numero delle legioni, schierando in ciascuna di
esse 4 200 soldati. Al tempo delle guerre contro i Sanniti (circa
300 a.C.), le legioni furono portate a quattro. Il numero dei soldati di una legione non fu
mai fisso ed era condizionato dall'importanza della guerra. Durante la seconda guerra
punica, la legione contava ancora 4 200 soldati, ma al tempo di Cesare ne comprese anche
6 000. Durante l'Impero, le legioni, di 5 000 e 6 000 soldati ciascuna, furono portate sino a
33. A ciascuna legione di fanti veniva aggiunta la cavalleria: dapprima di 300 e in seguito
di 900 e più cavalieri.
Quando l'esercito divenne molto numeroso, fu necessario dividere ciascuna legione in tanti
gruppi allo scopo di farli combattere separatamente. E così ogni legione venne ripartita in
10 coorti, 30 manipoli e, a sua volta, ogni manipolo fu diviso in due centurie.
Durante la battaglia la legione veniva schierata su tre linee, nella prima linea si trovavano gli
astati, nella seconda i principi e nell'ultima i triari. Gli astati, detti così perché usavano in
combattimento lunghe aste, erano i soldati più giovani. I principi (dal latino principes: i
primi), così chiamati perché anticamente stavano in prima fila, erano soldati di età più
matura. I triari (dal latino tres = tre ), cioè soldati di terza fila, erano tutti veterani, cioè con
lunga esperienza militare. Questi soldati formavano la legione regolare.
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Ad essa veniva però aggiunto un corpo di 1 200 soldati, detti veliti (
dal latino veloces: veloci ), che portavano armi leggere per essere
liberi nei movimenti. Essi avevano il compito di aprire il
combattimento e, durante la battaglia, si spostavano dovunque fosse
necessario il loro pronto intervento.
Onagro, 350 d.C.: era una pesante macchina
che lanciava grosse pietre con traiettoria
molto curva per superare alti ostacoli.
Torre mobile da assedio in legno
rinforzato con piastre in ferro,
munita di ruote e ponte levatoio:
serviva per sollevare gli uomini
all'altezza delle mura della città
assediata.
Ariete: era una grossa trave con capo di ferro che serviva per far breccia nelle mura
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LE STRADE
Al tempo dell’antica Roma non accadeva quasi mai
che si viaggiasse per turismo, non solo per i pericoli
e per la lentezza degli scomodi mezzi, ma
soprattutto per la mancanza di vie di comunicazioni.
Le strade che attraversavano in ogni direzione la
penisola italica e i domini di Roma, furono costruite
per soddisfare soprattutto le esigenze militari, ma
anche permettere spostamenti più veloci e più sicuri
a mercanti e funzionari.
Tra le principali strade ci sono: la via Appia che
dapprima unì Roma a Capua e poi Brindisi; la via
Flaminia che collegava Roma con Rimini; la via
Emilia che da Rimini proseguiva per Bologna e
Piacenza; la via Salaria che dalla foce del Tevere
giungeva fino ad Ascoli Piceno; la via Prenestina
che univa Roma ad Anagni; la via Cassia che
conduceva a Bolsena; la via Aurelia che univa Roma
a Genova; la via Claudia che, passando per Veio,
Arezzo, Firenze, Pistoia, giungeva a Lucca. La più
antica via di comunicazione fu la via Salaria che
deve il suo nome alle saline che sorgevano sulle
coste tirreniche del Lazio. La via Latina fu la
seconda strada inaugurata dai romani, ma la prima
strada pavimentata fu la via Appia.
La distanza da Roma era indicata con delle pietre
miliari così dette perché distavano tra di loro un
miglio (1480 m).
Le strade avevano una larghezza massima di cinque
metri ed erano selciate con grossi ciottoli e con
blocchi di pietra, ma a volte erano anche
pavimentate con la ghiaia. Erano costruite con
metodi molto razionali: i tecnici tracciavano il
percorso delle strade, poi venivano scavati dei
canaletti paralleli che successivamente venivano
ricoperti con grosse pietre. All’interno della traccia
si scavava un canale più profondo dove si
posavano diversi strati di pietre, detriti di grandezza
diversa fino a raggiungere il livello primitivo del
terreno. (La parola strada deriva appunto da stratus
= stratificazione). Lo strato finale costituiva la
pavimentazione della strada ed era convesso al
centro per permettere alle acque piovane di
penetrare nei bordi laterali. La pavimentazione era
formata da pietre piatte che venivano assestate con
molta cura, si riempivano gli spazi vuoti con ghiaia
e limature di ferro.
Quando era possibile i Romani tracciavano le
strade in linea retta, costruendo ponti per superare
corsi d’acqua e gallerie per evitare i valichi montani.
Per collegare la Valle d’Aosta alla Gallia fu necessario scavare un’incassatura nella roccia
del Piccolo San Bernardo, lunga 221 m.
Fra Cuma e il lago d’Averno al tempo di Augusto fu scavata una galleria lunga ben 900 m
ed illuminata dalla luce che penetrava attraverso numerosi pozzi verticali ed obliqui.
Eccezionalmente si conosce il nome dell’antico ingegnere che ne diresse la costruzione:
Lucio Cocceio Auctus. Tuttavia la lunghezza di questa galleria non costituisce un record:
per scavare il canale emissario del lago Fucino i romani costruirono una galleria lunga ben
23
5,5 km.
In pianura e nelle città i Romani riuscirono a
tracciare un reticolo regolarissimo di strade parallele
che si incrociavano ad angolo retto, due erano le
strade principali: il cardo (con direzione Nord-Sud) e
il decumano (con direzione Est-Ovest)
Qualche volta all’inizio delle grandi strade che
partivano da una città venivano costruite le tombe di
cittadini illustri. La strada prendeva allora un
magnifico aspetto monumentale. Una di queste vie
sepolcrali, forse la più bella, è la via Appia. Di essa
rimangono ancora, in alcuni punti, il selciato
originale e i ruderi di molti dei monumenti sepolcrali
che la fiancheggiavano.
Camminando per le strade di Roma si incontravano
carri agricoli che avevano solide ruote di legno ed
erano trainati da buoi, carri trainati da muli per
affrontare un lungo viaggio e carri leggeri per le
corse.
C’erano anche passaggi pedonali costituiti da grosse
pietre distanziate fra loro, che permettevano di
attraversare la strada senza bagnarsi i piedi nei rivoli d’acqua o di fogna che correvano
lungo le vie della città e senza intralciare il passaggio dei carri le
cui ruote passavano tra una pietra e l’altra.
Lungo le strade principali dell’impero c’erano alberghi in cui
rifocillarsi o trascorrere la notte. Con l’aumento del traffico e il
miglioramento della rete stradale, si sviluppò il servizio postale;
per molto tempo esso fu disimpegnato da corrieri che si
trasferivano a cavallo da un luogo all’altro, ma in seguito,
nell’epoca imperiale, fu istituito un regolare servizio giornaliero
grazie alla creazione di stazioni di posta dove si potevano
cambiare i cavalli stanchi
con altri freschi e vi era la
possibilità di riposarsi
prima di riprendere il
viaggio.
I ponti romani si trovano
oltre che in Italia, anche in Francia, in Germania, in
Spagna, in Inghilterra e in Algeria. Molti sono
tuttora onorevolmente “in servizio”. Perfino il
famosissimo “ponte di Londra” fu costruito dai
Romani una sessantina di metri più ad est di dove si
trova attualmente.
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L’ACQUEDOTTO
Ingegneri romani progettarono enormi acquedotti per portare l’acqua potabile ovunque.
A Roma i due acquedotti più importanti furono l’Acqua Claudia e l’Acqua Marcia.
L’Acqua Claudia era lunga 69 km: nella zona collinare l’acqua scorreva attraverso canali
sotterranei lunghi 55 km; nella pianura l’acqua scorreva fino alla città in canali posti in
cima a larghe arcate.
Gli acquedotti costruiti dai Romani si trovano ancor oggi in Spagna, in Francia, in
Germania, in Grecia, in Asia minore e in Africa. Sono stati costruiti in luoghi selvaggi e
deserti, a migliaia di chilometri dal mondo civile di allora, con una tecnica perfetta e danno
quindi chiaramente la sensazione della grandezza di Roma. I Romani amavano circondarsi
di grandi imprese che poi servivano all’utilità pubblica; infatti appena conquistata una
nuova provincia cominciavano subito a costruire opere straordinarie.
Una volta trovata la presa d’acqua, una sorgente o un corso d’acqua, si passava alla
realizzazione dell’acquedotto.
La sorgente si trovava sempre in un punto più elevato del luogo in cui l’acqua doveva
giungere, cosicché questa viaggiava per gravità seguendo la pendenza dell’acquedotto.
La conduttura in cui correva l’acqua era in muratura, rivestita interamente con mastice
speciale contenente polvere di cocci finemente macinati, oppure con stucco duro, grasso e
bituminoso. La sezione della conduttura poteva essere triangolare, quadrata, a volta, oppure
con la sommità a triangolo o a trapezio.
L’acquedotto spesso era interrato, mentre si appoggiava su arcate quando doveva superare
depressioni del terreno: vallate, conche, letti dei fiumi.
Ancor oggi ci si stupisce della grandiosità dell’impresa: migliaia e migliaia di blocchi
sovrapposti per lo più a mano o solo con l’aiuto di gru e pulegge.
Nel punto d’arrivo, di solito alla periferia della città, l’acqua si riversava in grandi serbatoi
detti “castelli di distribuzione”: da essi, come il nome stesso indica, l’acqua veniva
immessa in tubi distributori, di bronzo nel primo tratto, di piombo successivamente, che la
conducevano alle fontane pubbliche (per i poveri), alle case dei ricchi, ai bagni pubblici
(terme).
La lunghezza degli acquedotti variava da una decina a un centinaio di chilometri.
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IL COMMERCIO
Il commercio fu fiorente a Roma.
Era soprattutto improntato sulla compra-vendita di derrate alimentari, materie prime, cuoio,
oggetti di lusso, manufatti, opere d’arte, ecc.
Il vasto impero romano non giunse mai ad una grande unione doganale: era infatti diviso
in dieci circoscrizioni doganali, per cui le merci, per passare da una regione all’altra,
dovevano sempre pagare un’imposta.
Il traffico commerciale era comunque favorito dalla presenza di un unico sistema
monetario e da una vasta rete di porti e di strade.
Per i bisogni delle singole province non sempre bastavano i prodotti locali.
In Italia, per esempio, scarseggiava il grano e Roma doveva importarne tante tonnellate
ogni anno dal nord Africa e dall’Egitto.
Lo stesso accadeva alle materie prime: diverse regioni erano prive di alcuni metalli
essenziali, che venivano importanti dalla Spagna, ricca di miniere.
Anche gli articoli di lusso erano oggetto di traffici: la seta cinese, il lino, il bisso e la tintura
di porpora per l’abbigliamento; il papiro egiziano per scrivere; le perle e le gemme indiane
per gli ornamenti; e poi i marmi italiani e greci, le spezie e i profumi arabi; e per i
divertimenti pubblici, le belve dell’Asia e dell’Africa.
Un mercante disposto a navigare con un mare ostile e un carico di merci preziose, poteva
arricchire in un solo viaggio.
All’inizio del primo secolo, l’Italia forniva alle province molti prodotti come le ceramiche,
il vino, l’olio e gli oggetti di metallo della Campania.
Col tempo, però, anche nelle provincie si svilupparono le attività agricole e artigianali: la
Germania e la Gallia esportavano vetri e ceramiche; la Spagna esportava vino, olio e pesci;
l’Africa olio e ceramiche.
La moneta corrente era quella romana, che sostituì la didramma d’argento usata un tempo
per il commercio fuori d’Italia. Con la riforma di Augusto la moneta più importante fu
l’aures d’oro, che valeva 25 denari d’argento; un denarius
valeva 4 sesterzi di ottone o 16 asses di bronzo, divisi
anch’essi in spiccioli di rame.
Per dare un’idea del loro valore, basta dire che con un asse si
acquistava una forma di pane e con 2 denari si poteva fare un
buon pasto.
Il commercio interno romano si svolgeva principalmente nelle
numerose botteghe cittadine e nel mercato pubblico, chiamato
macellum. Vi erano pure mercati straordinari che si tenevano
nelle città o nelle campagne ad epoche fisse e che erano
chiamate nundinae. La città, a giudicare dalle testimonianze rimasteci a Pompei e ad
Ercolano, era ricca di botteghe. C'erano barbieri, librai, droghieri, fornai, pollivendoli,
negozi d'arredamento e bancarelle di cibi cotti. C'era anche qualche usuraio, ma era un
mestiere che i Romani benestanti disprezzavano. La maggior parte dei bottegai erano
schiavi o ex schiavi. I Romani avevano una misera opinione dei bottegai, che ritenevano
capaci di vendere perfino se stessi purché il prezzo fosse adeguato.
Uno dei commerci più fiorenti era quello dell'olio. L'olio serviva infatti sia per
l'illuminazione sia per la cucina; era inoltre usato, al posto del sapone, per lavare. Gli scavi
di Pompei mostrano che le botteghe dei mercanti erano spesso annesse alle loro case
d'abitazione.
In genere, il banco dava direttamente sulla via (strada), era ricoperto di marmi colorati in
cui si aprivano alcuni fori circolari; in questi fori erano infilate delle anfore dentro cui si
trovavano le diverse derrate.
Per il commercio al minuto si usava la stadera costituita da un’asta graduata, con un peso
che scorreva sul braccio più lungo e un gancio o un piatto per la merce all’estremità del
braccio più corto. L’unità di misura di pesi era la libbra, equivalente a 325,45 grammi.
Nelle botteghe dove si servivano bevande ai clienti, generalmente gente umile, artigiani,
piccoli commercianti, soldati, gladiatori, schiavi mandati dal padrone per qualche
commissione, si disputavano delle interminabili e chiassose partite con i dadi.
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LA FLOTTA
COMMERCIALE
Roma era abitata da un
milione di persone: le fattorie
della zona non producevano
cibo sufficiente per sfamare
tutti gli abitanti; era perciò
necessario far arrivare gli
alimenti anche da molto
lontano.
Tutti gli approvvigionamenti
della città di Roma
giungevano per mare e
sbarcavano a Ostia, il più grande porto dell' Impero.
I Romani avevano edificato porti dappertutto per rifornire la flotta commerciale ovunque.
Arles, sul Rodano, diventò un vero magazzino della Gallia. Alessandria in Egitto ebbe un
ruolo importantissimo nel mar Mediterraneo.
Le flotte romane erano anche presenti nel Mar Nero dove cercavano il grano e la legna
della Scizia e nel Mare del Nord dove era attivo il
commercio della lana e dei minerali.
Le navi erano in pino, in quercia o in cedro. Le navi più
grandi come le Corbite navigavano a vela e quelle più
leggere a remi.
Le navi mercantili erano tozze e panciute, in modo da
poter trasportare grossi carichi di cereali, i remi si usavano
in caso di bonaccia.
Le traversate restavano lunghe e difficili e gli armatori, che
si assumevano grossi rischi, assicuravano sempre i loro
carichi.
Il periodo più adatto alla navigazione era quello dei mesi
primaverili ed estivi.
Dati i modesti mezzi di orientamento a disposizione a quell’epoca, ci si limitava a viaggiare
soltanto di giorno e sempre in vista della costa alle origini; ma in seguito i marinai
affrontarono audacemente anche l’alto mare.
All’arrivo, i negozianti rivendevano le loro merci al minuto e all’ingrosso.
Immensi magazzini coprivano dieci ettari a Ostia, ma molto più ampi erano quelli a Roma,
dove accumulavano tutti i prodotti del mondo antico: candele, torce, quaderni di pergamena,
rotoli di papiro, pepe e spezie, con quintali di grano, anfore di vino e giare di olio, vestiti e
materiale da costruzione.
Porto di Ostia
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L’ARTE NELL’ANTICA ROMA
Ad un certo punto a Roma cominciarono ad affluire
oggetti d'arte in enorme quantità. Ogni generale reduce da
una conquista celebrava il suo trionfo portandosi dietro
un intero popolo di statue, come Fulvio Nubiliore, che nel
187 a. C. portò nel suo trionfo 230 statue di marmo e 285
di bronzo.
Lo stesso fecero Emilio Paolo, Cecilio Metello, vincitore
dei Macedoni, Publio Scipione, vincitore di Cartagine,
Silla e Pompeo, conquistatori della Grecia e dell'Asia
minore. Anche i più antichi e venerati santuari vennero
spogliati, e i tesori d'arte in essi contenuti furono tutti
trasportati a Roma.
Dal tempo di Augusto in poi, Roma fu la città più adorna
e più ricca di opere d'arte del mondo antico.
Assieme alle opere affluirono a Roma anche gli artisti; gli
scultori, i pittori e i cesellatori alla moda erano quasi tutti
greci.
All'arte greca si ispiravano gli stessi artisti romani. Se Roma aveva conquistato con le armi
la Grecia, la Grecia stava conquistando Roma con l'arte.
Ma mentre i Greci con l'arte cercavano di descrivere ed esaltare la bellezza, i Romani, nelle
loro opere, celebravano soprattutto gli avvenimenti della loro storia.
Nei fregi delle colonne e degli archi romani sono narrate le imprese di conquista dei
legionari, dei condottieri e degli imperatori, le opere di civilizzazione e di beneficenza, le
emanazioni di editti. Non più dunque, come nelle raffigurazioni greche, dei e figure
leggendarie, ma un popolo di personaggi vivi e reali .
LA SCULTURA
E’ nei bassorilievi che la scultura romana raggiunse la più alta
bellezza.
Si pensi all’enorme bassorilievo che avvolge a spirale la colonna
Traiana: disteso in piano raggiungerebbe la lunghezza di 189
metri, eppure è in ogni sua parte un’opera di grande valore.
I Romani usavano conservare, nel sacrario familiare, le maschere
di cera degli antenati, rilevate direttamente sul volto dei defunti.
In questo modo ogni famiglia poteva conoscere e venerare
l’immagine dei suoi “antichi padri”. Da questa usanza nacque
la predilezione dei Romani per i ritratti in terracotta, in marmo, in
bronzo, che ritraevano l’esatta fisionomia dei volti.
LA PITTURA
Quasi tutto quello che conosciamo sulla pittura romana lo dobbiamo agli
affreschi tornati alla luce a Pompei e ad Ercolano. E per prima cosa si è
constatato che i Romani non dipingevano su tela o su tavolette, ma quasi
esclusivamente, sui muri delle loro case. Dipingevano imitazioni di marmi,
colonnati e, soprattutto paesaggi, giardini e scene campestri. Così quegli
uomini che vivevano in case quasi prive di finestre si procuravano
all’interno l’illusione di uno spazio più ampio.
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LE ARTI MINORI
Nel mondo antico non esisteva una netta separazione fra artista e artigiano. In quanto a
competenze e prestigio sociale, ad esempio, scultori o architetti non erano considerati più
dei vasai o dei fabbri. Molti pezzi d’artigianato, del resto, sono di tale finezza che non è
fuori luogo definirli “opere d’arte”
Roma, famosa per la produzione di articoli di lusso, attirò
esperti manifattori, soprattutto di origine greca, che
producevano oggetti anche d’uso quotidiano, come piatti,
brocche e bicchieri di squisita fattura.
Proprio in seguito all’influenza della cultura greca e ai
contatti con l’Oriente cominciò a diffondersi tra i ricchi il
gusto dei servizi da tavola di metallo pregiato, soprattutto
d’argento: c’era chi ne faceva collezione, spesso puro
sfoggio, mentre i templi e le istituzioni pubbliche li
usavano a scopo cerimoniale. Molti di questi oggetti, come
anfore, coppe, scodelle, crateri, corni potori (per bere),
sono ornati di bellissimi rilievi, con fastose decorazioni
floreali, immagini di divinità, scene tratte dalla storia, dalla
leggenda o dal mito.
La gente comune non poteva permettersi oggetti di lusso e
usava stoviglie di ceramica, che per le figurazioni e i fregi
ornamentali si ispiravano spesso a quelle di metallo.
Particolarmente rinomate erano le ceramiche aretine e le galliche, spesso ornate da eleganti
fregi di foglie, tralci, file di animali.
Agli oggetti di metallo si ispirò anche la decorazione dei recipienti di vetro. Scarsamente
diffusa fino al II secolo a.C., l’arte vetraia raggiunse una grande perfezione con
l’invenzione della soffiatura e con l’uso dello stampo, della molatura, dell’aggiunta di
colori nella pasta vitrea, in modo da ottenere effetti iridescenti. Oltre a bottiglie, bicchieri,
coppe, col vetro si eseguivano figurine a tutto tondo e imitazioni di cammei e pietre
preziose per realizzare monili a buon mercato.
Le donne romane amavano ornarsi vistosamente con diademi, spilloni per capelli,
orecchini, anelli, collane, bracciali e spille; erano però in poche a potersi permettere specchi
d’argento massiccio e gioielli autentici. Oltretutto, era apprezzato più il valore commerciale
del metallo che la qualità della fattura; contando più l’effetto, le dimensioni e la quantità, gli
orafi producevano anche articoli appariscenti di qualità mediocre. A Roma, nei primi tempi
della Repubblica, i gioielli erano rari e il loro uso era regolato da leggi, che ponevano rigidi
limiti al lusso e alle spese superflue: solo i senatori potevano portare un anello d'oro.
Durante l'impero, tuttavia, si presero a importare gioielli artistici dalla Grecia e dall'Oriente.
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GLI SPETTACOLI
Il calendario romano elencava un numero incredibile di
festività: feste religiose, feste tradizionali, feste in onore
dell' imperatore, oltre ai lunghi periodi di ferie, 45 giorni in
tutto, divisi tra febbraio, aprile, giugno, agosto e dicembre,
quando si celebravano i Saturnali.
Ma, a parte le solennità, c'erano cicli di giorni che la
tradizione destinava ai giochi equestri, al teatro, alle gare di
pesca e che erano stati istituiti originariamente come
ringraziamento agli dei.
In totale, calcolano gli storici, i Romani facevano festa 182
giorni l' anno, senza contare le festicciole di quartiere e le
ricorrenze speciali, come gli anniversari di qualche evento
glorioso o gli spettacoli che gli imperatori decidevano di
offrire alla folla, come munifico dono: corse di cocchi,
lotte di gladiatori, rappresentazioni teatrali.
Le corse dei cavalli si svolgevano soprattutto al Circo
Massimo, le cui dimensioni giustificavano il nome: era
lungo 600 metri, largo 200, e, all'epoca degli imperatori Flavi, poteva contenere 255 000
persone sedute, di solito gli schiavi stavano in piedi.
Era obbligatorio per i cittadini di un certo rango indossare la toga e, per tutti, mantenere un
contegno decoroso. Era proibito mangiare, bere, litigare, pena l'espulsione, mentre era
ovviamente impossibile contenere l'entusiasmo e il tifo degli spettatori.
Le corse si susseguivano dal mattino alla sera e nessuno si annoiava anche perché i fantini
si sbizzarrivano nelle trovate, abbinando all'interesse agonistico le acrobazie più ardite: a
volte guidavano due cavalli e saltavano dall'uno all'altro in piena corsa, altre volte si
tenevano sdraiati o inginocchiati sul dorso dei destrieri al galoppo, oppure simulavano
combattimenti con gli avversari, armati di tutto punto, o superavano con un lunghissimo
salto ostacoli incredibili.
Quanto più la corsa era pericolosa, tanto più il pubblico si appassionava e gridava il suo
incoraggiamento alla squadra del cuore, i “bianchi”, i “rossi”, i “verdi” e gli “azzurri”,
così chiamati per il colore della casacca che contraddistingueva i fantini appartenenti alle
quattro più importanti scuderie. Le discussioni sulle qualità dei cavalli e sull'abilità dei
conducenti continuavano anche a spettacolo concluso, non soltanto perché allora buona
parte del pubblico non aveva altro cui pensare, ma perché sulla vittoria di una squadra si
scommettevano interi patrimoni. Per favorire il successo della propria fazione si ricorreva
perfino alla magia: sono state trovate centinaia di tavolette, di pietra o di piombo, con incise
formule magiche e disegnini che raffigurano cavalli e cavalieri della squadra avversaria
azzoppati, legati, impiccati, costretti insomma, per qualche infortunio, a interrompere la
gara.
Gli eroi di quelle giornate godevano di una popolarità immensa. Il
nome dei cavalli che avevano vinto molte corse era conosciuto nei
più remoti angoli dell'impero e i fantini che vantavano più di mille
vittorie erano stramilionari; i loro ritratti erano attaccati su tutti i
muri e, venerati com'erano, potevano permettersi capricci di ogni
genere sicuri che il popolo e la polizia avrebbero chiuso un occhio
sulle loro intemperanze.
Ben altro carattere avevano le lotte dei gladiatori, che nei tempi più
antichi si svolgevano al Circo o nel Foro, finché ebbero una loro
sede stabile ai tempi dell'imperatore Tito, quando fu ultimata la
costruzione del Colosseo, iniziata da Vespasiano. Erano
combattimenti di una ferocia senza pari che vedevano uomini
lottare disperatamente per uccidere l'avversario o per essere uccisi.
I combattenti, chiamati gladiatori, erano reclutati tra la massa degli
schiavi, dei prigionieri di guerra o dei criminali; molti erano
volontari, attirati dai vistosi premi in caso di vittoria e dalla popolarità di cui godevano i
vincitori.
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Vi furono anche alcune donne che si cimentarono con successo.
Il pubblico seguiva la lotta dei campioni con grida di incoraggiamento e non appena uno
dei combattenti stava per soccombere, il presidente dei giochi lasciava decidere agli
spettatori se volevano la grazia o la morte del perdente: un panno agitato voleva dire grazia
accordata, pollice abbassato significava condanna. Il vincitore era ricompensato con un
piatto d'argento pieno di oggetti preziosi e di denaro, la vittoria gli conferiva anche una
popolarità pari a quella dei fantini più rinomati, ma per mantenere la gloria era necessario
che continuasse a scendere in arena e trionfasse su altri avversari. Oltre alle gare che
opponevano due combattenti, erano frequenti anche le battaglie navali, le cacce, e le lotte tra
animali, leoni, orsi, rinoceronti, tenuti a digiuno per alcuni giorni, o aizzati da tizzoni ardenti
lanciati contro di loro, perché fossero più feroci.
IL COLOSSEO
L’imperatore Vespasiano iniziò la costruzione del Colosseo, ma furono i suoi figli Tito e
Domiziano a portarla a termine.
Il Colosseo è un esempio della grande abilità
degli architetti romani. Esso fu edificato in un
luogo appartenuto all’imperatore Nerone,
dove vi era un lago. Il primo problema
dell’architetto era dunque quello di
prosciugare il lago. Allora l’architetto costruì
un sistema di drenaggio con canali di pietra
che scaricavano le acque del lago nel Tevere e
mantenevano asciutto il luogo.
Il Colosseo fu progettato per ospitare un
pubblico di 55 000 persone. La folla dei tifosi
era turbolenta e non facile da controllare: il
secondo problema dell’architetto fu perciò quello di trovare il modo di svuotare
rapidamente e senza incidenti l’arena quando lo spettacolo era finito. Costruì per questo
scopo 80 vomitòria, cioè grandi scalinate d’uscita: grazie a queste scalinate anche quando
il Colosseo era del tutto pieno il pubblico poteva lasciare l’edificio in circa tre minuti.
Il pubblico sedeva in gradinate. In cima all’edificio correva una striscia libera, dove stavano
appostati gli arcieri pronti a colpire le belve che fossero fuggite. Per costruire il Colosseo
furono usati marmo, tufo e cemento. Era decorato in modo grandioso. C’erano corridoi
dorati, soffitti dipinti e pareti con mosaici fatti di pietre preziose.
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LE TERME
I bagni pubblici chiamati Terme, erano di
proprietà dello Stato e per entrare bisognava
pagare. Erano dei posti in cui non solo ci si
poteva lavare, ma anche incontrare, parlare, fare
ginnastica, giocare e perfino leggere.
Parte integrante delle terme era la palestra che
serviva per la ginnastica e per la lotta: si trattava
di un'area seminata a prato con una piscina
circondata da un porticato a due piani.
Le terme cominciavano ad essere frequentate
dal pubblico dall'ora quinta antimeridiana e
chiudevano al tramonto.
Vi erano senatori, cavalieri e gran signori,
circondati da uno stuolo di schiavi; vi erano
operai, artigiani, bottegai, che, avendo terminato la loro giornata lavorativa, si attardavano a
bighellonare nelle terme fino all’ora della chiusura. Tutti alle terme trovavano il modo di
divertirsi nel grande “palazzo dell’acqua”: bambini, donne, giovanotti, autorevoli signori
praticavano con grande entusiasmo giochi individuali e collettivi con palloni di vario tipo;
alcuni si divertivano a far rimbalzare la palla contro un muro, altri tempestavano di pugni
un grosso pallone pieno di terra o di farina. Nei viali spaziosi dei giardini donne e ragazzi
correvano dietro ad un cerchio di metallo che guidavano con un bastoncino dalla punta
ricurva; giovanotti e uomini maturi facevano gare di corsa o praticavano esercizi di marcia,
aumentando progressivamente la lunghezza del percorso.
Le donne e gli uomini frequentavano le terme in ore diverse, ciò si poteva capire grazie al
rintocco di una campana.
Dopo l’attività fisica che per qualcuno si limitava ad un semplice massaggio praticato da
mano esperta, si procedeva alle varie fasi del bagno.
Vicino all'entrata erano disposti gli spogliatoi dove i bagnanti si svestivano ed entravano
poi nelle vasche: si lavavano con l'acqua molto calda del "calidarium", poi si rilassavano
nell'acqua tiepida del "tepidarium" e infine si tuffavano nell'acqua fredda del "frigidarium".
Finito il bagno entravano in scena i massaggiatori con oli ed unguenti profumati.
Chi voleva poteva concludere tutta questa serie di operazioni con una bella nuotata nella
vasta piscina all’aperto, detta piscina natatoria.
I pavimenti delle terme erano in pietra ricoperti di stupendi mosaici ed erano sopraelevati di
cinquanta centimetri rispetto al suolo per mezzo di tanti pilastri di mattone: questa
intercapedine era chiamata ipocausto.
I vapori della combustione provenienti da una fornace posta all'esterno dell'edificio, erano
convogliati nell'ipocausto per riscaldare il calidario, il
tepidario e le camere vicine.
Quando l'ipocausto era pieno, il vapore saliva
attraverso dei condotti in argilla incassati nei muri e
da qui, dopo aver riscaldato le pareti, usciva all'aperto
attraverso dei comignoli.
Sopra la fornace erano sospesi dei grandi serbatoi di
bronzo dove veniva riscaldata l'acqua per i bagni.
Una parte di questa arrivava caldissima alla vasca del
calidarium e la restante, dopo essersi intiepidita lungo
il percorso, giungeva alla piscina del tepidarium.
Le pareti erano decorate di marmo, c’erano colonne
di granito e di porfido, soffitti a cassettoni.
Al secondo piano e sopra l'entrata era stata ricavata,
per coloro che desideravano leggere, una biblioteca
con una collezione di pergamene in latino e in greco.
Al tramonto le terme chiudevano.
Per soddisfare l'accresciuta necessità di acqua causata dall'ampliamento delle terme e
dall'aumento della popolazione, furono costruiti anche nuovi acquedotti.
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GLI DEI
Avevano una divinità tutelare per i boschi, le fontane, i campi, i frutti, le messi, i fiori, le
greggi, le mura, le porte, i confini, il focolare... Crearono una divinità per ogni evento della
vita umana: c'era Vagitàna, la divinità che ispirava al neonato il suo primo vagito, Cumìna,
che lo proteggeva mentre era nella culla, Rumìna che lo
tutelava durante l'allattamento, Potìna durante le sue
prime pappe... Ogni dio aveva il suo tempio.
Con il passare del tempo si diffusero a Roma i miti, le
leggende e i culti greci che vennero adattati alle esigenze
e al modo di pensare dei Romani. Agli dei greci vennero
dati nomi latini, nonostante la religione romana si
diversificasse da quella greca, secondo la quale gli dei
con sembianze umane pensavano e agivano proprio come
gli uomini.
Lo Zeus dei greci diventò Giove: figlio di Cronos e
marito di Giunone, signore del mondo e sovrano di tutti gli dei.
(Hera) Giunone: moglie di Giove. Era la dea protettrice del matrimonio e delle nascite .
(Posidone) Nettuno: fratello di Giove. Era il dio del mare.
(Hermes) Mercurio: figlio di Giove. Era il messaggero degli dei e il protettore dei
commerci, dei mercanti, degli inganni e dei... ladri.
(Febo) Apollo: figlio di Giove. Era il Dio del sole, della bellezza e delle arti. Lo
accompagnavano nove fanciulle, dette Muse, ognuna delle quali era la dea protettrice di una
forma d'arte. Ecco i loro nomi e la rispettiva arte: Calliope, poesie epica; Clio, storia; Eràto,
poesia amorosa; Melpòmene, tragedia; Talìa, commedia; Tersìcone, danza; Eutèrpe,
musica; Polìmnia, lirica; Urània, astronomia.
(Ares) Marte: figlio di Giove e di Giunone. Era il dio della guerra. I Romani lo
consideravano padre di Romolo, il fondatore della loro città.
(Efesto) Vulcano: figlio di Giove, sposo di Venere. Era zoppo e deforme; era il dio del
fuoco e presiedeva alla lavorazione dei metalli.
(Demetra) Cerere: sorella di Giove. Era la dea dei campi e dei raccolti.
(Afrodite) Venere: figlia di Giove, nata dalla spuma del mare e moglie di Vulcano. Era la
dea dell'amore e della bellezza. A Venere erano sacri alcuni animali e piante: le colombe, la
rosa, il mirto .
(Atena) Minerva: nata dal cervello di Giove, tutta armata. Era la dea della sapienza e della
scienza.
(Artemide) Diana: figlia di Giove. Era la dea della notte e della caccia .
(Hestia) Vesta: sorella di Giove. Era la protettrice della pace domestica e del focolare. I
Romani nel suo tempio conservavano il “Fuoco sacro”, mantenuto perennemente acceso
dalle sacerdotesse chiamate Vestali.
Oltre a questi dei i romani pregavano gli spiriti della casa: Lari e Penati, ai quali era
riservato un tempietto in ogni dimora.
Le cerimonie venivano officiate secondo il costume antico da sacerdoti e magistrati. I
Romani continuarono a chiedere favori al proprio dio, in cambio di qualche piccola offerta,
ma all'epoca di Cicerone il romano colto non credeva quasi più agli dei.
Più tardi i Romani venerarono come dio anche l'imperatore.
34
IL CALENDARIO
Ai tempi di Romolo l’annus (anno) cominciava nel mese di marzo e comprendeva 304
giorni distribuiti in 10 mesi. Il mese di luglio (Quintilis) era chiamato Iulius in onore di
Giulio Cesare, invece il sesto mese (Sextilis) era chiamato Augustus in onore di Ottaviano
Augusto.
Poi Numa Pompilio divise l’anno in 355 giorni aggiungendo i mesi (mensis) di gennaio e
febbraio.
Nel 46 a.C. Giulio Cesare con l’aiuto di un astronomo operò una radicale riforma; stabilì
che il calcolo dei mesi dovesse farsi in base al ciclo solare; l’anno risultò di 365 giorni più
6 ore, ogni quattro anni perciò fu aggiunto un giorno e inserito nel mese di febbraio;
quell’anno fu detto bisestile.
I Romani indicavano le date in modo diverso dal nostro; in ogni mese c’erano tre date
fisse: le “Kalendae” (il primo del mese ), le “Nonae” (il quinto giorno) e le “Idus” (il
tredicesimo giorno); nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre, le None cadevano il
settimo giorno del mese, le Idi cadevano il quindicesimo del mese.
I giorni intermedi venivano indicati calcolando
quanti giorni mancavano per giungere alla data
fissa successiva includendo nel calcolo il giorno di
partenza e quello di arrivo.
I Romani dividevano il giorno in due parti: “horae
diurnae”, le ore del giorno, che erano 12 e
andavano dall’alba al tramonto (erano chiamate
anche prima, seconda, terza, quarta, quinta ...);
“horae noctis”, le ore della notte che erano sempre
12 e andavano dal tramonto all’alba.
Per noi le ore sono formate sempre da sessanta minuti ognuna, invece per i Romani, che
non avevano i nostri orologi, variavano con il variare delle stagioni: quelle in estate erano
più lunghe, quelle in inverno erano più brevi. Ad esempio la prima ora in estate andava
dalle 4,30 alle 5,40, invece in inverno la prima ora cominciava alle 7,30 e terminava alle
8,15...
I Romani per calcolare la durata o la divisione del tempo usavano degli orologi a sole
(solarium) o degli orologi ad acqua (clepsydrae); successivamente costruirono anche delle
clessidre a sabbia.
35
LE LINGUE NEOLATINE
Via via che Roma conquistava nuovi territori, romanizzava così profondamente le
popolazioni sottomesse da sostituire alla loro lingua quella latina. Il linguaggio portato nei
nuovi territori dai soldati romani o dai coloni non era quello usato dai grandi scrittori latini.
Questa lingua era sempre la lingua latina, ma si prestava più facilmente ad essere parlata
dal popolo; essa veniva chiamata “latino volgare”, dal vocabolo latino “vulgus”, popolo,
per distinguerlo da quello letterario, usato dalle persone colte. Ecco alcuni esempi di come
il popolo aveva trasformato alcuni vocaboli del latino letterario:
LATINO LETTERARIO
equus
ignis
os
oculus
calidus
columna
LATINO VOLGARE
caballus
(cavallo)
focus
(fuoco)
bucca
(bocca)
oclus
(occhio)
caldus
(caldo)
colomna
(colonna)
Il latino volgare rimase in uso nei territori
occupati dai Romani fino alla caduta
dell'Impero Romano, quando l'unità della
lingua pian piano andò perdendosi. Non più
sottomessi ai Romani, i popoli appartenenti
all'Impero poterono fondere liberamente la
loro lingua originaria con il volgare.
Con i vocaboli latini si formarono così nuove
lingue, che furono dette neolatine (dal
vocabolo greco “nèos”, nuovo).
Lingue neolatine sono l’italiano, il
portoghese, lo spagnolo, il francese, il rumeno
e il ladino (una lingua parlata in una zona
delle Alpi svizzere).
Il latino ora è morto? Macché.
A tenerlo in vita ci pensa il Vaticano che ha aggiornato la lingua di Cicerone traducendo
oltre 15 mila neologismi. Ecco alcuni esempi.
Nastro adesivo “fasciola glutinosa”
(fascia vischiosa)
Tennis
“manubriati reticuli ludus”
(gioco di reticella col manico)
Spot
“intercalatum laudativum nuntium”
(annuncio intercalato di di lodi)
Spray
“liquor nubilogenus”
(liquido nebuloso)
Ufo
“res inesplicata volans”
(oggetto volante inspiegabile)
Vagone letto
“currus dormitorius”
(carro dormitorio)
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LA STORIA DI ROMA
753 a.C.
509 a.C.
312 a.C.
250 a.C.
260 a.C.
146 a.C.
133 a.C.
73 a.C.
48 a.C.
44 a.C.
27 a.C.
31 a.C.
14 a.C.
0
64 d.C.
II sec. d.C.
III sec. d.C.
284 d.C.
312 d.C.
313 d.C.
330 d.C.
380 d.C.
395 d.C.
410 d.C.
452-476 d.C.
476 d.C.
1453 d.C.
inizio della storia di Roma
fondazione della repubblica
costruzione della via Appia e del primo acquedotto
conquista dell'Italia
guerra contro i Cartaginesi
distruzione di Cartagine
Tiberio Gracco tribuno della plebe
rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco
Cesare salì al trono
morte di Cesare
Ottaviano Augusto imperatore
inizio dell'impero romano
morte di Ottaviano Augusto
anno in cui si fa risalire la nascita di Cristo
Nerone imperatore (incendio di Roma)
impero al massimo della sua grandezza
guerre civili
Diocleziano imperatore
Costantino imperatore
Costantino concede ai Cristiani la libertà di culto (Editto di Milano)
Costantino sposta la capitale a Bisanzio
Teodosio imperatore fece del Cristianesimo la religione di stato
Teodosio suddivide l'impero in due parti: impero romano
d'occidente con capitale Roma e impero romano d'oriente con
capitale Bisanzio
i Visigoti saccheggiano Roma
si susseguono sei imperatori nominati dai barbari
caduta dell'impero romano d'occidente
caduta dell'impero romano d'oriente
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BIBLIOGRAFIA
Gianna Bonis Cuaz La vita quotidiana a Roma Loescher
AAVV Enciclopedia Conoscere Fabbri Editori
David Macaulay La città romana Nuove Edizioni Romane
Giovanni Caselli Gli antichi romani
Giunti
Joan Forman I Romani A. Vallardi
Renata Schiavo I Romani 2 La Sorgente
AAVV Al tempo dei legionari romani Fabbri Editori
Carcopino La vita quotidiana a Roma Economica Laterza
Alastair Smith Domande e risposte di storia Edizioni Usborne
AAVV Nell’antica Roma Fabbri Editori
S. Musitelli
Bietti
Agricoltura, artigianato, commercio in Roma. Dal 146 a C. al 14 d.C.
Apicio La cucina nell’antica Roma Economici Newton
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INDICE
LA FAMIGLIA
4
I GIOCHI
5
LA SCUOLA
5
LA CASA
7
L'ALIMENTAZIONE
8
L'ABBIGLIAMENTO
10
I RITI NUZIALI
13
LA MEDICINA
14
I FUNERALI
14
VITA IN CITTA'
15
ORGANIZZAZIONE SOCIALE
17
ORGANIZZAZIONE POLITICA
18
LE LEGGI
19
L'ESERCITO ROMANO
21
LE STRADE
23
L'ACQUEDOTTO
25
IL COMMERCIO
26
LA FLOTTA COMMERCIALE
27
L'ARTE NELL'ANTICA ROMA
28
GLI SPETTACOLI
30
IL COLOSSEO
31
LE TERME
32
GLI DEI
34
IL CALENDARIO
35
LE LINGUE NEOLATINE
36
LA STORIA DI ROMA (breve cronologia) 37
39