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CONCORSO “STORIA DI PARMA” PROGETTO SCUOLA - M. U. P. EDITORE
ISTITUTO COMPRENSIVO “ P.L.Belloni”
COLORNO
Scuola Secondaria di 1° grado
Classe 1^ sez. A
Anno scolastico
2011-2012
Il popolo dei Longobardi iniziò a spostarsi dalle
proprie terre d’origine molto tempo prima di affacciarsi
ai confini della nostra penisola.
La gente dalle LUNGHE BARBE partì nel I secolo a.C.
da una terra detta SCADANAV, corrispondente al Sud
della Svezia, poi passò all’isola di Rugen nel mar
Baltico.
Nel I secolo d. C. i Longobardi, ancora violenti e
sanguinari guerrieri, risalirono il corso del fiume Elba,
addentrandosi nella Germania, fino a raggiungere le
regioni danubiane, Boemia e parte dell’Austria, tra il
IV e il V secolo d.C.
Nel VI secolo si stabilirono in Pannonia, l’Ungheria a
Ovest e a Sud del Danubio, nei pressi del lago Balaton.
Nel 547 circa occuparono la regione
romana del Norico e si prepararono a
scendere verso la penisola italica. Forse
alcuni di loro già sapevano cosa
avrebbero potuto trovare in questa
terra, perché vi avevano combattuto
come mercenari, per conto dei
Bizantini contro i Goti.
Intorno al 568 si trovarono ai confini
orientali della nostra penisola: un
intero popolo e non solo i guerrieri, per
un totale di circa 150.000 persone,
compresi alcuni gruppi di altre
popolazioni. Portavano con sé famiglie
intere, animali, carri, schiavi; erano in
tanti, anche se il loro numero era
diminuito per le difficoltà del percorso,
la fame, le malattie, le battaglie. Li
guidava il loro re Alboino.
I Longobardi, pur procedendo e spostandosi in modo disordinato, cercavano una terra
per fermarsi stabilmente ed a lungo: arrivarono nella penisola nel 569 e vi rimasero
per circa due secoli (773-774), fino a quando furono sconfitti da Carlo Magno.
In Italia non trovarono resistenza e fu facile per loro prendere tutte le terre: infatti gli
abitanti erano indeboliti da guerre, carestie, pestilenze; le città ed i campi erano quasi
abbandonati. Ugualmente si diedero a saccheggi ed uccisioni.
I Longobardi erano organizzati in gruppi di
famiglie, suddivise in bande, che si
muovevano agilmente e rapidamente, ai
comandi dei duchi, cioè dei capi militari.
Alboino, i suoi duchi ed il suo popoloesercito occuparono prima di tutto il Friuli
(Cividale - Aquileia); attraversato il Piave, si
spinsero nella zona Veneta (Treviso – Vicenza
– Verona – Trento) e poi verso Brescia e
Bergamo.
Nel Settembre 569 i Longobardi giunsero a
Milano e da qui una parte del popolo si
diresse verso il Po, lo attraversò dopo aver
preso Pavia (570) e dilagò nella pianura. I
duchi Agilulfo e Gaidoaldo si diressero verso
Asti e Torino, un altro gruppo andò alla
conquista di Modena ed Imola, altri ancora
attraversarono i valichi appenninici tra
Parma e Piacenza per occupare la Toscana.
Da qui successivamente i duchi longobardi
presero il territorio di Spoleto e poi quello di
Benevento, che rimase autonomo anche dopo
la fine del regno Longobardo.
L’insediamento
del
popolo
longobardo
nell’
Emilia
occidentale
avvenne dopo la
presa di Pavia e dopo che essi
ebbero passato il Po, attraverso il
ponte romano esistente allora tra
Pavia e Tortona.
L’Aemilia era una regione ricca e
perciò i Longobardi vollero
conquistarla: essi privilegiavano le
zone fertili, dotate di beni, ed
anche i luoghi che consentivano il
controllo del
territorio, per
esempio i punti elevati sopra le
pianure.
Così
occuparono
territori
appenninici e le vallate
dei
torrenti, dal Piacentino fino al
medio Appennino Reggiano.
Si dispiegarono poi lungo l’asse
stradale della via Emilia verso Sud
– Est e presero ben presto le città
di Piacenza, Parma, Reggio e
Modena;
successivamente
occuparono la pianura Bolognese,
Faenza e Imola (Forum Cornelii),
puntando su Ravenna.
Il confine tra gli insediamenti
Longobardi ed i possedimenti
Bizantini della Romagna fu a
lungo nel territorio Reggiano, allo
sbocco delle valli dell’Enza e del
Secchia, con l’area Modenese a
fare
da
cuscinetto.
Successivamente giunsero fino
allo Scultenna, antico nome del
corso superiore del Panaro (643).
Quando conquistavano una città, i Longobardi si stabilivano in quartieri piuttosto
separati dal resto della popolazione, preferibilmente nei quartieri che consentivano
loro di controllare le vie di accesso al centro urbano. Una caratteristica era quella di
utilizzare gli edifici romani ormai distrutti o abbandonati come loro sedi; sulle macerie
degli edifici romani essi costruivano capanne in legno e paglia e organizzavano attività
artigianali, allevamento di animali domestici, coltivazione di aree della città ridotte ad
orti e pascoli. Solo verso la metà del VII secolo le capanne furono sostituite da edifici in
muratura. Le tecniche costruttive “povere” erano basate sull’impiego di legno ed argilla,
quelle più avanzate si rifanno ai modi di costruire dei romani. I longobardi spesso
prendevano materiali edilizi dai ruderi romani, come mattoni, pietre, lastre o parte di
monumenti, e li riutilizzavano per le loro costruzioni.
A Modena ed a Imola, vicino al
fiume Santerno, sono state ritrovate
numerose sepolture longobarde
risalenti al VI- VII secolo, con anelli,
collane, braccialetti, monete, amuleti
in corno ed ornamenti.
Dello stesso periodo sono i
ritrovamenti a S. Polo d’Enza e a
Montecchio.
Con l’invasione dell’Aemilia (568-69), la città di Parma fu presto presa: i Longobardi si
insediarono all’interno delle mura cittadine, nella città quadrata o nella città
rettangolare dell’epoca di Teodorico, distribuendosi gradualmente in tutta l’area
urbana.
L’insediamento maggiore nella città era nel
suburbio
sud-orientale,
nella
zona
dell’anfiteatro, ma anche a nord dell’antico
foro e vicino all’attuale palazzo del tribunale.
La gente comune si costruì case di legno, ma
i capi si insediarono nelle case dei ricchi
romani fuggiti dalla città. Per i primi 150
anni circa, i Longobardi non costruirono: le
case senza manutenzione si degradavano, le
tecniche edilizie erano state abbandonate,
dimenticate. Forse anche per questo ci
restano scarsi reperti archeologici.
Poi con Rotari e Liutprando (VII – VIII sec.) si riprese ad edificare. In particolare, dopo
la conversione al cristianesimo, si costruirono in città la Chiesa di S. Salvatore e quella
di S. Michele dell’Arco, con vicina zona sepolcrale.
Dapprima Parma fu una città di frontiera, un presidio militare e sede di duchi
longobardi, perché sull’Appennino c’erano ancora i CASTRA in mano ai Bizantini. Più
tardi i Longobardi si diressero verso le zone appenniniche, lungo la strada di Monte
Bardone, in direzione Lucca; insediamenti vi furono anche lungo le valli dello Stirone
(a nord di Salsomaggiore - Castellum Persicum e Berteradi), del Ceno, del Taro
(Castrum Nebbla - Solignano), del Baganza, del Parma e dell’Enza. Nella fase di
occupazione militare gli insediamenti d’altura, come Varsi, Bardi, Solignano, Vianino,
Castell’Arquato, servivano loro per controllare meglio il territorio e le vie di
comunicazione.
Dopo che, nel 590, il duca longobardo di Parma aveva tradito il re e si era sottomesso ai
Bizantini, i sovrani nominarono un diverso governatore: la città era la curtis regia, con
a capo un GASTALDO, più legato al re, responsabile di tutta l’amministrazione urbana
e del patrimonio locale che costituiva il reddito del re.
Tra i gastaldi di Parma ricordiamo Godescalco che aveva sposato la figlia di Agilulfo e
che fu fatto prigioniero dai Bizantini (601). Fu condotto a Ravenna con moglie e figli,
tenuto ostaggio per due anni e liberato da Agilulfo con un’azione militare, che segnò
anche la riconquista di Parma.
Sotto un altro gastaldo, IMMONE (674),
Parma visse il difficile periodo della rivalità
con Piacenza per questione di delimitazione
di confini tra le due città.
Una parte dei reperti di epoca longobarda, ora custoditi nel Museo Archeologico di
Parma, provengono da una tomba femminile ritrovata in Borgo della Posta (al termine
di via Repubblica) nel 1950, e databile tra VI e VII secolo.
Il piccolo tesoro contiene:
COLLANA: è fatta di sassolini
levigati e di pezzi di minerali
dai colori molto vivaci.
ANELLO IN ORO: ha i
margini un po’ rovinati ed
irregolari ed è molto semplice.
FIBULA A DISCO: di forma circolare,
realizzata con frammenti di pietre, granate di
colori vivaci, incastonate su un fondo in
lamina d’oro. Ci sono elementi decorativi a
filigrana, cioè con fili d’oro ritorti e piegati o
granellini di oro a gruppi, saldati sulla
superficie.
CROCI D’ORO: sono fatte con leggera lamina d’oro;
la prima è liscia e l’altra è lavorata con trecce
realizzate a sbalzo.
Le croci erano funerarie, cioè erano destinate ai
defunti, uomini e donne. Attraverso vari fori posti
sui bordi, erano cucite sul sudario o sul velo che
copriva il viso, oppure sul petto del defunto; derivano
da tradizioni cristiane e bizantine. Alcune croci sono
lamine d’oro semplici, senza decorazioni, ma
potevano essere rappresentati anche intrecci,
animali, rosette.
BACILE: realizzato in bronzo, di forma circolare.
Serviva forse per le offerte o per l’anima del defunto.
I longobardi seppellivano i loro morti con il rito dell’inumazione: il defunto era posto
supino nella tomba con il capo rivolto ad est e con le braccia stese lungo i fianchi o
incrociate sul petto. Accanto o sopra al corpo venivano posti oggetti o strumenti a lui
legati, come corredo personale, ed altri di significato rituale che dovevano servire per il
viaggio e la continuazione ultraterrena della sua esistenza.
Nelle tombe di guerrieri o di persone socialmente importanti c’erano scudi, spade,
punte di lancia e un pugnale particolare detto SCRAMASAX, ad una lama sola, forse
usato come un machete. Nelle tombe femminili spille, fibbie, cinture, monili… Il
corredo rituale per tutti era composto da vasellame e croci d’oro; a volte anche
conchiglie, gusci d’uovo, semi, ossa di animali, posti come talismani.
Gli oggetti personali venivano scelti dai parenti e
collocati nella tomba per sottolineare la ricchezza e il
prestigio sociale del defunto, oppure le armi dovevano
conservare e tramandare le energie vitali.
Questi riti funerari con ricchi corredi servirono,
quando i Longobardi erano ancora un popolo di
guerrieri, per mostrare alla comunità la potenza di
alcune persone o famiglie. Quando poi i longobardi
diventarono proprietari terrieri, invece di grandi
corredi funerari da ostentare, fecero donazioni ai
monasteri o testamenti scritti per i propri eredi.
Esistono due tipi di tombe
longobarde: la prima è
composta solo da lastre di
pietra; l’altro tipo è detto alla
cappuccina, perché ha una
copertura costituita da laterizi
romani o da materiali simili
di recupero. Generalmente le
tombe erano singole, ma in
alcuni casi vi giacevano interi
nuclei famigliari.
Oltre che nei luoghi cittadini già indicati,
altre tombe sono state trovate a Lemignano
di Collecchio e a Traversetolo (collane in pasta
vitrea, anelli, amuleti in corno, monete di
epoca anteriore riutilizzate come monili,
elementi di una cintura…).
Nell’ Appennino, a Casola di Ravarano, sono
state trovate tombe maschili con armi.
I re Longobardi non avevano una residenza fissa: soprattutto nel periodo delle
conquiste, il centro del loro regno era il luogo dove si teneva il tesoro di guerra e dove vi
erano residenze dell’epoca di Teodorico che potevano servire allo scopo, come a Verona
e a Pavia. Solo alla fine del VI secolo i Longobardi iniziarono ad avere un vero re con
Autari; infatti in precedenza il re veniva eletto solo in caso di guerra, scelto tra i duchi
che capeggiavano ciascuno la propria fara, quindi primo tra pari.
569 – 572
ALBOINO
Guida la migrazione dei Longobardi in
ITALIA.
Risiede a Verona. Muore per una congiura.
574
CLEFI
Muore di morte violenta. Segue un periodo di
anarchia dei duchi per 10 anni.
584 – 590
AUTARI
Costituisce sul territorio il complesso delle
curtes, beni fiscali a favore del re.
Occupa Brescello, sul Po, dopo aver ucciso il
duca e distrutto la città.
Muore avvelenato.
591– 615
AGILULFO
Riconquista Piacenza , Parma e Reggio (dopo il
tradimento dei precedenti duchi).
Occupa Cremona, Castrum Volturina (Viadana)
sul Po, Mantova. Arriva a Roma e riceve 500
soldi d’oro da papa Gregorio I per liberarlo
dall’assedio.
La moglie Teodolinda (vedova di Autari) favorì la
conversione del popolo al cattolicesimo
(circa 603).
615 – 626
ADALOALDO
Inizia in questo periodo la
contesa territoriale tra Parma
e Piacenza.
626 – 636
ARIOALDO
Prosegue la lite.
636 – 652
ROTARI
Stabilizza i confini del regno, esteso fino al
corso dello Scoltenna - Panaro, nel Modenese
(battaglia del 643 contro i Bizantini).
Nel 643 emana l’Editto dove sono scritte le
leggi longobarde.
ARIPERTO
Abbandona definitivamente
l’arianesimo per il Cattolicesimo.
663
GRIMOALDO
Stabilizza il possesso della costa
ligure e dell’entroterra veneto.
674
PERTARIDO
Risolve la contesa tra Piacenza e Parma: il
confine segue la linea dei torrenti Ongina e
Gotra.
686 – 698
CUNIPERTO
Ricostruisce la città di Modena, vittima dei
tanti eventi bellici precedenti.
Fine secolo VII
712 – 744
LIUTPRANDO
Prende Bologna e le zone tra l’Appennino e la
pianura di Reggio, Modena, Bologna.
Fonda il Monastero di Berceto. Costruisce chiese
a Pavia ed in altre zone del regno.
Paolo Diacono lo definisce saggio e accorto, forte
in guerra, ma clemente verso i vinti, ignaro delle
Lettere, ma virtuoso ed instancabile.
744 – 746
ILDEPRANDO
746 – 749
RATCHIS
Regolamenta il passaggio
dei pellegrini per la via di
Monte Bardone.
749 – 756
756 – 774
ASTOLFO
Conquista Ravenna, capitale dell’Esarcato. (751)
Tenta l’assedio a Roma. Il re dei Franchi, Pipino,
lo ostacola e difende il Papa. Fonda Monasteri a
Fanano e Nonantola.
DESIDERIO
Conferma il possesso di
Spoleto e Benevento.
Tenta ancora l’assedio a
Roma.
E’ sconfitto dai Franchi che
assediano e conquistano la
capitale Pavia.
L’Italia durante il regno
di Astolfo
Quando Carlo Magno si proclama re dei Franchi e dei Longobardi (774), ha fine il
regno longobardo e rimane autonomo solo il ducato di Benevento.
Quando i Longobardi erano ancora un popolo guerriero e selvaggio, non avevano vere e
proprie leggi, ma usanze che erano trasmesse oralmente.
A quel tempo la loro legge era la “FAIDA”, cioè la vendetta personale, considerata
legittima ed obbligatoria per la famiglia di chi era stato danneggiato..
Ma circa alla metà del VII secolo ci fu
un’
evoluzione
nella
cultura
longobarda: la gens Langobardorum
aveva imparato a convivere con la
maggioranza dei locali, che erano
latini. C’era stato un avvicinamento tra
i Longobardi potenti, i ceti romani più
forti e gli ecclesiastici.
Quindi anche i re barbari appresero delle conoscenze pratiche e teoriche su come si
poteva governare meglio il territorio e capirono che ci volevano leggi sicure da far
rispettare. Poiché non avevano tradizione di scrittura, utilizzarono il latino per fissare
quelle norme.
La raccolta di leggi più conosciuta è l’Editto
di ROTARI, emanato nel 643: il codice è
formato da 388 articoli che introducono il
“guidrigildo”, ossia un risarcimento in
denaro in proporzione al rango sociale
dell’offeso, attenuano un poco le antiche
consuetudini longobarde ed uniformano la
legge su tutto il territorio del regno, almeno
per quanto riguarda il diritto penale.
Ma queste regole mettono anche in evidenza
l’arretratezza del diritto longobardo rispetto a
quello romano e ci fanno capire che nella loro
società non erano tutti uguali davanti alla
legge.
Eppure Re Rotari, attraverso il suo Editto,
voleva permettere “a ciascuno di vivere in
pace nelle leggi e nella giustizia, impegnarsi
contro i nemici e difendere se stesso ed il
proprio paese”.
Queste leggi rinforzavano il potere del re e
diminuivano quello dei duchi; il re è infatti il primo
ad essere citato nell’editto:
“Se qualcuno avrà tramato congiure o ordito disegni
contro la vita del re, incomba su di lui la pena di
morte e i suoi beni vengano confiscati”.
“Se un Longobardo, d’accordo col re o per ordine
dello stesso, avrà ucciso un uomo, non sarà
incriminato, perché i voleri del re sono nelle mani
di Dio”.
Chi uccideva un arimanno aveva la pena di morte;
chi toglieva la vita ad un aldio pagava 60 soldi in
oro, mentre un servo valeva meno.
Anche le ferite prevedevano un risarcimento diverso se fatte all’arimanno (3 soldi ogni
ferita), o ad un servo (1 soldo), considerando il servo di altri, perché se si danneggiava il
proprio servo non era prevista nessuna pena!
Chi strappava un occhio o tagliava il naso ad un altro, pagava un risarcimento pari alla
metà del valore personale che aveva la vittima.
Se invece si tagliava il labbro a qualcuno, si pagavano 16 soldi o qualcosa in più se la
ferita era così ampia da lasciare scoperti i denti…
Se si feriva qualcuno provocando il taglio delle dita delle mani o dei piedi, il calcolo era
abbastanza complicato, perché ogni dito aveva un valore differente a seconda della sua
posizione.
Secondo le leggi di Rotari, le donne rimanevano in una condizione di estrema
sottomissione all’autorità maschile: venivano date in spose dietro pagamento di una
somma che dava diritto di “mundio” al marito, cioè di potere su di esse, come se le
avessero comprate, non potevano disporre di beni; non era consentito ad una donna
essere “selp-mundia”, cioè di decidere e di agire autonomamente.
La raccolta iniziata da Rotari, fu integrata da altri re: Grimoaldo, Liutprando, Ratchis
ed Astolfo, fino alla metà dell’VIII secolo.
Nel 727, infatti, LIUTRPRANDO aggiunse 153 articoli, influenzati dai valori della
religione.
Ad esempio fu introdotta la possibilità di fare
testamento scritto, di lasciare un’eredità
anche alle femmine, oppure di donare beni a
favore di chiese e monasteri in cambio di
preghiere dopo la morte (eredità pro anima).
Inoltre, per difendere la fede cattolica e
tutelare il clero, stabilì condanne per chi
ancora praticava riti pagani, consentì la
“manomissione”, cioè la liberazione dei servi
davanti all’altare di una chiesa.
Questa procedura, prima pubblica e poi anche religiosa, rendeva il servo
completamente libero, senza più obblighi verso il padrone (haamund et fulcfree);
altrimenti la condizione era quella di semilibero, cioè aldio, dal quale il padrone poteva
ancora pretendere servizi.
Un altro re, ASTOLFO, nel 750, mentre era in
guerra con i Bizantini di Ravenna, vietò i
commerci con quel territorio; una specie di
embargo che prevedeva sanzioni a chi non lo
rispettava. Infatti, se un funzionario era colto a
fare affari con il nemico, perdeva la propria carica
e doveva pagare una multa corrispondente al
proprio guidrigildo, cioè al proprio valore
personale calcolato in base al rango. Se
commerciava una persona comune, per punizione
gli confiscavano i beni ed in segno di disonore gli
toglievano un pezzo di scalpo dalla testa.
Con le sue leggi, il re RATCHIS regolamentò il
passaggio lungo la via di Monte Bardone, visto che
il transito di gente si faceva frequente. Su di essa il
re esercitò una tutela, infatti per i longobardi era il
principale asse di comunicazione per raggiungere i
ducati di Spoleto e Benevento, mentre per i
pellegrini era la via per oltrepassare la Cisa (Alpe
di Bardo) e raggiungere Roma.
RE
Gastaldi
(Ministri, amministratori dei
beni della corona- nominati
dal re)
Duchi
(capi militari abbastanza
autonomi, coordinati dal re)
Originariamente
la
società
longobarda era organizzata per
tribù: la FARA era un gruppo di
individui legati da vincoli di
parentela,
che
abitava
un
determinato territorio. A capo di
ciascuna fara c’era un duca con
potere politico e militare, che aveva
preso quel territorio per la propria
tribù.
All’interno della fara i longobardi erano divisi in:
Arimanni (uomini liberi e guerrieri , con grande valore sociale perché erano in grado
di combattere. In guerra avevano i giovani faramanni come loro scudieri);
Aldii (semiliberi, che valevano meno perché non potevano portare le armi);
Servi o schiavi (che avevano una pessima qualità di vita e nessuna possibilità di
cambiare la loro condizione).
Inizialmente i gruppi sociali più forti si imposero sui latini, sottomettendoli o
uccidendoli, prendendosi i loro averi o pretendendo da essi il tributo di 1/3 del
raccolto; i longobardi evitavano di mescolarsi con i popoli vinti.
Successivamente, soprattutto dopo l’evoluzione culturale dei longobardi tramite il
cattolicesimo, si crearono relazioni tra la minoranza barbara e gli italici, raggiungendo
forme di convivenza.
Nell’VIII secolo i gruppi sociali non si differenziavano più per origine etnica, ma in
base alle ricchezze possedute.
Ad esempio, nel 750 Longobardi e Romani facevano entrambi parte dell’esercito, non
solo gli arimanni.
Poiché
contavano
le
ricchezze personali, le
terre o il denaro di
ciascuno, doveva servire
nell’esercito, con le armi,
l’equipaggiamento ed il
cavallo, chi possedeva
sette fattorie; coloro che
possedevano di meno
potevano essere soldati
con scudo, faretra, arco e
frecce, ma senza corazza
né cavallo.
Il contenuto delle 11 carte di VARSI, documenti
riguardanti vendite e donazioni di terreni, ci
descrive anche il microcosmo sociale di una
piccola comunità della Val Ceno, dal quale si può
capire meglio come convivevano longobardi e
popolazione locale nel secolo VIII.
In questi documenti i nomi germanici e quelli
romanici delle persone sono scritti uno accanto
all’altro (Godesteo, Rodoaldo, Altegiano, Eldolo…
Faustiniano, Maurace..), quindi ci doveva essere
una discreta fusione sociale.
Gli uomini sono indicati come fedeli al
regno e di buona condizione sociale: vir
devotus, vir honestus… Tra i testimoni c’è
l’arimanno (exercitalis) vicino al mastro
muratore (magistro murarum) o al fabbro
(ferrario): tutti loro, anche se benestanti,
non sapevano scrivere e firmavano
mettendo una croce (signum manus).
Nei documenti compaiono anche i chierici
e i preti perché i longobardi possessores a
volte donavano terre alla Chiesa. Infine,
anche in queste aree rurali si trovavano
persone di elevato rango sociale e buona
cultura che sapevano scrivere i documenti
(viri clarissimi) o fare da segretari al
notaio (notarius).
Nelle prime fasi della loro occupazione, l’attività principale dei longobardi fu la guerra,
il saccheggio, la distruzione, praticata dagli arimanni, gli unici ad avere il diritto-dovere
di usare le armi. Erano anche cacciatori e lavoravano pelli e ossa di animali.
Questo popolo ancora barbaro praticava un’agricoltura rudimentale, come i nomadi,
ma sapeva allevare gli animali.
Attraverso alcuni passi dell’Editto di
Rotari, dove si indica il valore
decrescente dei servi, da pagare come
risarcimento in caso di uccisione,
possiamo avere un’idea delle attività
svolte: c’erano i servi addetti ai maiali,
i guardiani di ovini o di buoi, i servi
addetti alle stalle o alla campagna, ed
infine gli aiutanti dei guardiani di
pecore…
Per quanto riguarda l’artigianato, era per loro un punto d’onore saper costruire armi e
fare gioielli: erano infatti abili fabbri ed orafi, come si può notare dal pregio di alcuni
reperti giunti fino a noi. Sapevano usare il tornio per gli utensili in ceramica.
Nel territorio parmense, soprattutto di pianura, i Longobardi trovarono un immenso
potenziale agricolo, le risorse dei boschi, pascoli per il bestiame e i suini; gradualmente
si interessarono al terreno coltivabile e diventarono dei proprietari terrieri, i
possessores, nuova aristocrazia dominante composta indifferentemente da longobardi
e italici.
C’erano poi i negotiantes, i mercanti che si arricchirono
quando ripresero gli scambi ed i commerci di prodotti
artigianali.
Infine i pauperes, i lavoratori, i poveri, gli esclusi.
I commerci furono prima degli scambi a brevi distanze, poi le
popolazioni ebbero l’esigenza di trafficare in aree più vaste,
visto che c’era più disponibilità di prodotti.
La moneta con il nome di un re longobardo iniziò a circolare
verso la metà del VII secolo: era il TREMISSE, d’oro o
d’argento, e pesava 1,51 grammi circa.
Il commercio fluviale permetteva di trasportare prodotti lungo il corso del Po,
utilizzato, in tempo di pace, come via d’acqua tra i mercati bizantini dell’Adriatico ed i
longobardi della pianura. Ci doveva essere una rete efficiente di porti e flottiglie di
imbarcazioni condotte dai nautae o nauclerii che solcavano le acque del Po.
Dai documenti (del 730 circa) si sa che ai tempi di Liutprando, navi provenienti dai
porti bizantini risalivano il corso del Po e soprattutto i mercanti di Comacchio
vendevano i loro prodotti. Per disposizione del re, essi dovevano pagare una tassa
quando attraccavano nei vari porti lungo il fiume: monete, ma anche sale e garum, che
era una piccante salsa di pesce.
Nel portus Parmisianus erano previsti due
doganieri (riparii) che custodivano la riva
del fiume. Essi riscuotevano il ripatico e la
palafittura, tributi con i quali i
commercianti di Comacchio pagavano il
pedaggio e il palo a cui legavano le navi.
La tassa, in un unico pagamento, consisteva
in un soldo, una libbra d’olio (circa 300 gr),
una libbra di garum e due once di pepe
(circa 60 gr).
Nel porto parmigiano portavano questi
prodotti e non il sale perché il territorio di
Parma ricavava già il sale dalle saline di
Salsomaggiore.
Il porto parmigiano era probabilmente situato
alla confluenza del torrente Parma con il Po,
quindi Caput Parmae o Coparmuli, oggi
Copermio, zona rivierasca tra i comuni di
Colorno e Mezzani. Il sito era interessante
perché poco lontano, c’erano le città
conquistate dai longobardi: Viadana e
Brescello.
Questo porto, la cui importanza durò anche in
secoli successivi, era uno scalo di merci e luogo
di pedaggio, ma anche una postazione
strategica che permetteva di controllare la zona
tra il fiume ed il corso navigabile del torrente
Parma.