Transcript Seneca

SENECA
E LA
TERAPIA
DELL’ANIMA
Un uomo moderno, questo è Seneca anche se vive ed opera nel I sec d.C.,
negli anni in cui la concezione del principato è già fortemente cambiata
rispetto a quella della moderata e non troppo remota politica augustea.
Sono anni drammatici che la tradizione storiografica ha definito di dicotomia
tra la prima e la seconda fase del principato di Nerone di cui Seneca è
precettore, nel vano e improponibile tentativo di attuare, nella Roma del I
sec d.C., l’antico sogno di Platone:giungere allo Stato ideale mediante la
formazione filosofica del sovrano. Nerone deve realizzare, secondo
Seneca, quel modello di equilibrio tra antiche magistrature repubblicane e
autorità moderatrice del principe, caratteristico dell’età augustea.
Busto di Nerone- Musei Capitolini
La Domus Aurea
Ma il suo progetto pedagogico si traduce ben presto in un fallimento:dopo i
primi atti di governo, ispirati da Seneca, quindi moderati ed inclini ad una
politica di clemenza, il comportamento di Nerone comincia a scadere nel
dispotismo, nell’arbitrio, nella violenza. Di qui la risposta del filosofo che
matura la convinzione di ritirarsi a vita privata per dedicarsi ad
un’intensissima attività letteraria. Motivo addotto: le cattive condizioni di
salute, ma Nerone vede in questa giustificazione un pretesto, il segno
dell’ostilità del suo maestro. Una denuncia lo coinvolge, nel 65, nella
“congiura dei Pisoni”. Tra i partecipanti al complotto, senatori, cavalieri,
ufficiali della guardia pretoriana e alcuni intellettuali.
Decorazione della Domus Aurea
La durissima repressione colpisce
anche Seneca, colpevole di non
avere denunciato il disegno
criminoso al quale, secondo Tacito,
con una frase ambigua aveva dato
l’impressione di aderire. La morte
per Seneca arriva lentamente e gli
consente attimi di lucidità in cui
detta il suo estremo messaggio
filosofico improntato “[…] alla
fermezza, alla coerenza con quei
criteri
di
comportamento
che,meditati per anni, non possono
essere rifiutati nell’ora della
sventura”.(G.Rosati)
“Vivrà male chi non sa morire
bene”scrive Seneca nel “De
tranquillitate animi”, dialogo scritto
probabilmente dopo il suo ritorno
dall’esilio e dedicato ad Anneo
Sereno, giovane prefetto delle
guardie imperiali, tormentato da
una
perenne
condizione
di
inquietudine e di insoddisfazione.
Y
La morte di Seneca- P.P. Rubens
Con “tranquillitas animi” Seneca traduce il termine greco euquma , l’equilibrio interiore
predicato da Democrito prima che dagli Stoici e, nel passo in esame, procede ad una
sorta di anamnesi e di diagnosi del male che attanaglia l’amico ma anche tanti altri
uomini, con riflessioni ed intuizioni di straordinaria attualità.
De tranquillitate animi, II, 6-15
(6) Tutti si trovano nella stessa condizione, sia quelli che sono tormentati dall’incostanza e
dalla noia e dal continuo mutamento di proposito, ai quali piace sempre di più ciò che
hanno lasciato, sia quelli che marciscono e sbadigliano. Aggiungi quelli che, non
diversamente da quanti hanno il sonno difficile, si agitano e si mettono in questa o in
quell’altra posizione finché non trovano pace per stanchezza:cambiando continuamente
modo di vivere, alla fine si fermano in quello in cui li sorprende non l’odio per i
cambiamenti ma la vecchiaia restia ai rinnovamenti. Aggiungi anche quelli che sono
poco volubili non per colpa della loro fermezza, ma per colpa della loro inerzia e vivono
non come vogliono, ma come hanno cominciato a vivere.
(7) Innumerevoli sono, inoltre, le particolarità del vizio ma uno solo l’effetto: l’essere
scontenti di sé. Ciò nasce dall’instabilità dell’animo e da desideri deboli o poco fortunati,
quando o non osano quanto desiderano o non l’ottengono e sono tutti protesi verso la
speranza. Sono sempre instabili e volubili, cosa che inevitabilmente accade ai dubbiosi.
Mirano con ogni mezzo a realizzare le loro aspirazioni e insegnano e impongono a se
stessi cose disoneste e difficili e, quando lo sforzo resta senza ricompensa, li tormenta
l’essersi inutilmente disonorati e non si rammaricano di aver voluto cose sbagliate, ma
di averle volute inutilmente.
(8) Allora li angoscia sia il pentimento dell’azione intrapresa sia la paura di
intraprendere altro e si insinua quell’ondeggiare di un animo che non trova
via di uscita, poiché né possono dominare le proprie passioni
né
assecondarle, e l’incertezza di una vita che si realizza poco e l’inerzia di un
animo che rimane intorpidito tra desideri inappagati.
(9) Tutto questo è ancor più grave quando, dall’avversione per un insuccesso
che è costato fatica, si sono rifugiati nell’ozio e negli studi privati che un
animo incline all’attività politica, desideroso di agire e irrequieto per natura,
non può sopportare, trovando chiaramente in se stesso ben poche
gratificazioni. Perciò, tolti i piaceri che le occupazioni stesse offrono a quanti
sono sempre in movimento , l’animo non sopporta la casa, la solitudine, le
mura domestiche;a malincuore si vede abbandonato a se stesso.
(10) Di qui nasce quel tedio e quel non piacersi e l’inquietudine di un animo che
non trova pace in alcun luogo e quel triste e penoso sopportare la propria
inattività, soprattutto quando ci si vergogna di confessarne le cause ed il
pudore ci ricaccia dentro le angosce, e i desideri, chiusi in uno spazio
limitato, si soffocano da sé, senza via d’uscita; da lì la malinconia, la
depressione, i mille ondeggiamenti di un animo incerto che speranze
incompiute mantengono sospeso e speranze fallite rendono triste; da lì quello
stato d’animo di quanti detestano il proprio ozio e si lamentano di non aver
nulla da fare, e l’invidia piena di ostilità per i successi altrui (una sterile
inerzia, infatti, alimenta il livore e, poiché non sono riusciti ad andare avanti,
desiderano vedere tutti distrutti).
(11) Da questa invidia, dunque, per i successi altrui e dalla perdita di ogni
speranza nei propri, l’animo comincia a prendersela con la sorte,a lamentarsi
dei tempi e a ritirarsi in disparte e a covare la propria pena mentre prova
insoddisfazione e disgusto di se stesso. Infatti, per natura, l’animo umano è
attivo e incline al movimento. Gli è gradita ogni occasione per svegliarsi e per
distrarsi, più gradita a tutte quelle indoli più malvagie che si lasciano con
piacere logorare dalle occupazioni:come certe piaghe desiderano le mani che
recheranno loro danno e provano sollievo ad essere toccate e qualunque
cosa irriti procura piacere alla ripugnante scabbia dei corpi, non diversamente
potrei dire che per queste menti, nelle quali le passioni sono esplose come
piaghe maligne, la fatica e la sofferenza sono un piacere.
(12) Ce ne sono, infatti, alcune che procurano piacere anche al nostro corpo con
un certo dolore, come il rigirarsi, cambiare il fianco non ancora stanco e il
voltarsi continuamente ora in una posizione ora in un’altra,come l’Achille
omerico ora prono ora supino, che si adagia in diverse posizioni, cosa che è
propria del malato, non sopportare nulla a lungo e valersi dei cambiamenti
come dei rimedi.
(13) Per questo si intraprendono viaggi qua e là, si percorrono lidi inospitali e, ora
per mare ora per terra, la volubilità sempre ostile al presente si misura con se
stessa: “Ora andiamo in Campania”. Già i luoghi raffinati ci danno noia.
“Visitiamo luoghi disabitati, raggiungiamo il Bruzio e i boschi della Lucania”.
Tuttavia tra i luoghi solitari si cerca qualcosa di bello su cui occhi abituati al
lusso possano sollevarsi dal lungo squallore di luoghi selvaggi.
“Raggiungiamo Taranto, quel suo celebrato porto, i suoi inverni dal clima così
mite, ed il suo territorio abbastanza ricco persino per la popolazione di un
tempo”. “Già cambiamo direzione, verso Roma: troppo a lungo le nostre
orecchie sono rimaste lontane da applausi e confusione, ormai ci piace
godere anche del sangue umano”.
(14) Si intraprendono viaggi, uno dopo l’altro e si cambiano spettacoli su
spettacoli. Come dice Lucrezio:
in questo modo ognuno fugge sempre se stesso.
Ma a che serve, se non sfugge a se stesso? Egli si insegue e si incalza
come un insopportabile compagno.
(15) Così dobbiamo renderci conto del fatto che il male di cui soffriamo non
dipende dai luoghi ma da noi. Siamo deboli a sopportare qualsiasi cosa,
non tolleriamo troppo a lungo né fatica né piacere né noi stessi né qualsiasi
altra cosa. Ciò ha portato alcuni al suicidio poiché, pur cambiando spesso
propositi, ritornavano alle stesse cose e non lasciavano spazio ad alcuna
novità: la vita cominciò ad essere un fastidio per loro, persino il mondo, e si
insinuò quel pensiero proprio dei piaceri che distruggono: “fino a quando le
stesse cose?”
Il passo scelto conferma a Seneca il merito straordinario di aver scoperto la
dimensione dell’interiorità in termini moderni. Secondo l’Autore,
probabilmente sollecitato dalle esperienze vissute sotto il regime tirannico,
le attitudini del singolo possono essere alterate in modo decisivo da quanto
accade nella vita di relazione. Fra le cause della “displicentia sibi”, lo
scontento di sé indica la delusione delle ambizioni frustrate, una delusione
che può essere così sconvolgente da rendere inoperosi e rinunziatari
individui naturalmente inclini all’agire.
Seneca prosegue poi nell’analisi di quel “tedio”, quel “disgusto di sé”, quel
voltarsi e rivoltarsi tipico di un animo irrequieto che fluttua tra speranze e
delusioni, tra l’estenuante desiderio di competizione e la dolorosa
constatazione dell’insuccesso.
E come il malato cambia spesso posizione nel letto per cercare sollievo, così
l’animo inquieto, depresso e insoddisfatto cerca conforto altrove;ma è solo
un frenetico quanto inutile tentativo di raggiungere la pace interiore che non
si trova “cambiando cielo”, anzi – avverte Seneca - questo “proposita saepe
mutare” è oltremodo pericoloso perché può condurre alla morte l’animo
dedito al vizio o all’ignavia. Il giovane Anneo, per cui Seneca è come un
“medico dell’anima” e un consigliere, è tormentato dall’incertezza in cui si
trova, fra l’avversione al male e l’incapacità di attuare il bene: “Video
meliora proboque/deteriora sequor” dice Ovidio nelle Metamorfosi (VII, 20
sg) e il Petrarca: “Io vedo ‘l meglio et al peggior m’appiglio”. Non bisogna
lasciarsi influenzare – secondo Seneca - né dall’indifferenza né
dall’eccessivo trasporto , né dalla noia che deriva dalla monotonia
(“quousque eadem?”). In rapporto alla situazione, ci si potrà dedicare con
uguale e serena imparzialità sia all’attività politica che allo studio e alla
meditazione;sarà utile tanto il raccoglimento interiore del filosofo quanto
l’impegno nella vita pubblica, nei modi consentiti dalle circostanze.
La tranquillità dell’animo è condizione
per una vita felice, è uno stato d’animo
di gioia costante e serena;chi la possiede
supera ogni male, innalzando il suo sguardo
oltre le miserie terrene.
Nella serenità dell’animo è la salvezza
dell’uomo:questa è la risposta ai dubbi di
Sereno ma anche ai dubbi di ogni uomo.
L’idea di un individuo che non appartiene
a se stesso, che non riesce a riconoscere
lo scopo del vivere e, per questo, si macera
nell’insoddisfazione e nell’angoscia, affiora
La quiete-A. Fontanesi (1860)
anche nella poesia di Lucrezio e di Orazio. Anzi, nel III libro del “De rerum natura”,
Lucrezio dà consistenza quasi “materiale” alla noia che pure è imprecisa, indefinita,
impalpabile e vaga: chi soffre di noia è preda della depressione e della malinconia, sia nel
suo grande palazzo sia nella sua villa di campagna, che pure ha raggiunto in tutta fretta,
come se dovesse spegnere un incendio. Del resto anche Orazio confida al suo amico
Celso Albinovano (Epist. VIII e XI): “Non vivo né come si dovrebbe né come vorrei” e,
subito dopo, precisa che la sua insoddisfazione non è dovuta a cause immediate e
determinate, è piuttosto una “apatia mortale” che egli stesso non sa e non vuole curare.
La sofferenza di Orazio è presumibilmente la stessa di un’intera generazione di
intellettuali, collegata al malessere della società che, già sul finire della repubblica,
aveva raggiunto preoccupanti livelli di clientelismo, consumismo, corruzione e
violenza; tutti rapporti e modelli di comportamento riconoscibili anche nella società di
Seneca, in cui è presente l’immagine di una Roma sanguinaria e viziosa. Egli ha in
mente gli spettacoli di ferocia dei giochi circensi ( “…iuvat iam et humano sanguine
frui”), la degradazione e la lussuria dei banchetti, le congiure e i sospetti della vita di
corte, conflitti di una società che ben si manifestano persino nell’andamento della
prosa senecana.
All’esigenza di interiorità sembra rispondere
la scelta stilistica dell’Autore che esprime i
conflitti della società e dell’uomo, conflitti
che sembrano non conoscere una risposta
definitiva, con le “minutae sententiae”, frasi
incisive o comunque capaci di condensare
il concetto. Anche la prevalenza della
paratassi rientra in questo aspetto.
Le frasi non sono sintatticamente armonizzate e subordinate alla principale ma sono
collegate sul piano del pensiero. Possono accostarsi in forma di antitesi che danno risalto
ai conflitti dell’esistenza,o in forma di variazioPollice verso-J.L. Gerome(1872)
ne o amplificazione di un concetto precedentemente espresso.
Ma lo stile di Seneca, come ben sottolinea il Conti, è sostanzialmente lo stile
dell’anima in lotta con se stessa e l’esigenza di riassumere un processo di
pensiero con una frase di valore universale dà spesso luogo ad una
sentenziosità epigrammatica fortemente marcata; l’antitesi concettuale è per
lo più sottolineata attraverso la congiunzione avversativa (“…nec dolent
prava, sed frustra voluisse; […] non locorum vitium … sed nostrum”), come il
gioco di parole richiama l’attenzione su accostamenti arguti. In ciò Seneca
sfrutta il tradizionale gusto della lingua latina per l’allitterazione (“…scilicet in
se solaciorum…”).
Il procedimento dello stile senecano relativo alla ripetizione della stessa idea in
forme diverse è rappresentato, nel brano analizzato, dall’idea
dell’insofferenza riproposta attraverso un ampio spettro di immagini:
l’atteggiamento del malato che cambia spesso posizione nel letto,
(“…proprium aegri est nihil diu pati et mutationibus ut remediis uti”); del
“viaggiatore” inquieto che cambia continuamente meta (“…nunc Campaniam
petamus …Bruttios et Lucaniae saltus…Tarentum…iam flectamus cursum ad
Urbem”), oppure dal ritmo anaforico di avverbi e congiunzioni (“…inde…
inde…inde…, et …et…, nec…nec…nec”) che incalzano con un sicuro effetto
retorico. Interessante è la reduplicazione dei pronomi personali e riflessivi,
tesa a riprodurre sintatticamente il precetto filosofico di ripiegarsi verso la
propria interiorità (“…animus…invitus aspicit se sibi relictum”).
Infine Seneca presenta principi etici attraverso metafore e terminologie mutuate
dall’arte della guerra, della navigazione e, come in questo caso, della medicina;
terminologia proposta in una sorta di climax espressivo (“…ulcera
quaedam…scabiem…dolore…aegri…remediis…infirmi…ad mortem”).
Non a caso il “De tranquillitate animi” è tra i migliori libri di “medicina spirituale”che
Seneca ci abbia lasciato.
La sua ricerca morale fu molto apprezzata anche in ambito cristiano tanto che in età
medievale si favoleggiava uno suo scambio epistolare con San Paolo. Grande la
suggestione delle letture senecane nelle epoche successive:
dal Cinquecento al Settecento Seneca
è maestro di prosa saggistica in Europa,
da Montaigne a Shakespeare,
da Corneille ad Alfieri.
Ma ad una analisi così acuta del tedio,
sia pure con connotazioni diverse,
approda soprattutto il Leopardi
quando scrive “La noia è in qualche
modo il più sublime dei sentimenti
umani. […] Il non poter essere
soddisfatto da alcuna cosa terrena[…]
e sempre accusare le cose d’insufficienza
e di nullità, e patire mancamento e voto, e
però noia, pare a me il maggior segno
S.Paolo e Seneca- Miniatura del XIV sec
di grandezza e di nobiltà che si vegga nella natura umana”.(Pensieri LXVIII)
Così il Poeta analizza lo stato d’animo più vicino al nulla, sul quale ha meditato
a lungo, distinguendolo dall’atteggiamento comune: la noia non è
assuefazione o noia di qualcosa, ma noia dell’essere, è una condizione
assoluta di natura esistenziale, è coscienza di se stessi, della propria
altezza morale.
Del resto anche in Schopenhauer “il piacere è un’illusione a servizio del dolore
che è ineliminabile dal mondo
ed altro non è se non la soddisfazione di un bisogno; appagato
questo, il piacere è finito. Ed
allora o sorge un altro bisognoossia un altro dolore- o è
tedio”
G. Leopardi
A. Schopenhauer
Noia, malinconia, tristezza nella lirica “Semper eadem” di Baudelaire:
“Di dove viene” dicevi”questa strana tristezza che
Sale come il mare sulla roccia nera e nuda?
Quando il nostro cuore ha fatto la sua vendemmia,
Vivere non è che male. E’ un segreto noto a tutti,
Un dolore semplice, senza misteri e, come la tua
Gioia, a tutti manifesto. Cessa dunque, bella curiosa,
Di indagare. E se pure la tua voce è dolce, taci!
Taci, ignorante, anima perennemente in estasi,
Bocca dal riso infantile! Assai più che la Vita ci tiene
La Morte con i suoi legami sottili.
Lascia, lascia il mio cuore inebriarsi di una
Menzogna, tuffarsi nei tuoi begli occhi come in un
Sogno e a lungo sonnecchiare all’ombra dei tuoi
cigli
E l’incapacità di stabilire un rapporto attivo con gli altri ma anche l’inquietudine e
l’angoscia, elementi questi riconducibili alla pagina senecana, costituiscono gli aspetti
essenziali della psicologia complicata e contraddittoria degli “eroi” decadenti. Nel
romanzo psicologico di Svevo e Pirandello la dimensione soggettiva viene indagata
nella sua assoluta autonomia, viene “smontata” attraverso un minuzioso studio
analitico che ne esplora le tortuosità labirintiche. Nelle loro opere essi anticipano le
prossime scoperte della psicanalisi per l’implacabile rigore con cui scavano
nell’inconscio dei loro “inetti”. Anche nel romanzo moderno, come nello scritto
senecano, è presente il tema della malattia interiore, la nevrosi, simbolo dell’intima
disgregazione dell’individuo, del suo vissuto interiore.
Nel frattempo l’Esistenzialismo di
Heidegger concentra l’attenzione sul
singolo, nel suo esistere svincolato
da un “essere” che gli possa conferire
un senso ed un fondamento. Ne derivano
l’angoscia e la mancanza di significato
dell’esistenza, quella stessa che per Montale
è un “male di vivere”. L’ incontro del Poeta con
questo destino di sofferenza rappresenta uno
spunto di riflessione sul dolore implacabile ed
insanabile che investe ogni aspetto della vita,
Melanconia- A. Durer (1514)
su un malessere esistenziale che accomuna tutti , al quale egli oppone un
atteggiamento di “stoico” distacco e di “divina Indifferenza”.
Anche Moravia confessa “di aver
sempre sofferto della noia.[…]per me,
è propriamente una specie di
insufficienza o inadeguatezza o
scarsità della realtà.[…]incapace di
persuadermi della propria effettiva
esistenza”.
La tematica della noia in Moravia ha
una matrice esistenzialistica che deriva
chiaramente dalla “nausea” di Sartre
ma è sostanzialmente vicina,pur
La condizione umana- R.Magritte (1933)
tenendo conto delle diverse implicazioni storico-politiche, al tedio leopardiano: sfugge a chi vive
superficialmente la propria esistenza ma non a chi, dotato di più acute
capacità conoscitive, ne acquisisce consapevolezza ed è condannato a
soffrire per questa condizione alienata e svuotata di senso.
E allora, una domanda antica ma sempre attuale: come sottrarsi
alle inquietudini dell’esistenza?
Malinconia, malessere o , come meglio scrive Seneca “…maeror
marcorque et mille fluctus mentis incertae…” purtroppo
gravitano anche nel mondo adolescenziale e giovanile e
sfuggono spesso ad ogni sistema di lettura. Alcuni giovani si
arrendono all’indifferenza, al vuoto esistenziale e arrivano “ad
mortem”. Altri sono bloccati dalla solitudine in una società in
crisi.
Certo, non esistono sedativi dell’anima: è nell’autoanalisi,
nell’individuazione e nell’assimilazione di quei principi che
sono saldi punti di riferimento che occorre cercare per non
lasciarsi sopraffare dalla sfiducia e dal pessimismo.
La modernità del messaggio senecano è tutta qui: nonostante la
mancanza di valori e di prospettive, l’assenza della speranza, il
disagio dell’incomunicabilità, è possibile raggiungere la
“tranquillitas”, a patto di non arrendersi di fronte alle sconfitte
e promuovere esistenze autentiche.
Prof.ssa Ermelinda Zicchieri