Lungo e difficile il cammino delle donne verso la PARITA`

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Transcript Lungo e difficile il cammino delle donne verso la PARITA`

Giurisprudenza Nazionale
sul principio
dell’uguaglianza di genere.
Discriminazioni: tra normativa e casi concreti
mercoledì 16 ottobre 2013
Corso donne politica e istituzioni
Avv. Lucrezia Zingale
LA GIURISPRUDENZA
COSTITUZIONALE
LE SENTENZE DELLA
CORTE DI CASSAZIONE
LA GIURISPRUDENZA
DI MERITO
Sentenza del 13 maggio 1960, N. 33
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della norma contenuta nell’art. 7
della legge n. 1176 del 17 luglio 1919 che esclude
le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano
l’esercizio di diritti e potestà politiche, in
riferimento all’art. 3 e all’art. 51, primo comma,
della Costituzione (Tutti i cittadini dell'uno o
dell'altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla
legge).
Ora, non può essere dubbio che una norma che consiste
nell’escludere le donne in via generale da una vasta
categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata
incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone
con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici
pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e
all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo
principio é stato già interpretato dalla Corte nel senso che
la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non
può essere mai ragione di discriminazione legislativa,
non può comportare, cioè, un trattamento diverso
degli appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla
legge. Una norma che questo facesse violerebbe un
principio fondamentale della Costituzione, quello
posto dall'art. 3, del quale la norma dell'art. 51 è non
soltanto una specificazione, ma anche una conferma.
La Corte Costituzionale nel 1960
afferma
Corte
Cost.
sent n.
64/61
Corte
Cost.
sent n.
126/68
La moglie adultera
è punita con la reclusione fino a un anno.
Con la stessa pena è punito il correo dell'adultera.
La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione
adulterina.
Il delitto è punibile a querela del marito.
Sentenza n. 64
del 28 novembre 1961
La Corte nel 1961 ritiene legittimo
il diverso trattamento
dell’adulterio della donna rispetto a quello
dell’uomo.
La difesa
dell’ Avvocatura dello Stato
Oggetto della tutela, nella norma
dell'art. 559, non é soltanto il diritto
del marito alla fedeltà della moglie,
bensì il preminente interesse
dell'unità della famiglia, che dalla
condotta infedele della moglie é leso
e posto in pericolo in misura che non
trova riscontro nelle conseguenze di
una isolata infedeltà del marito.
La giustificazione della disparità é da
ricercarsi in ciò che non è uguale. Il
comportamento infedele non determina eguali
conseguenze a seconda che sia dell'uomo o della
donna. La punibilità soltanto della donna nel caso
di un singolo atto di infedeltà trova fondamento
nella diversa gravità delle possibili
conseguenze dell'atto. E basti a tal proposito
pensare alla presunzione dell'art. 231 del
Codice civile, per cui il marito è padre del
figlio concepito durante il matrimonio.
Rileva preliminarmente che se il
legislatore, e in particolare il
Costituente, orienta la
evoluzione della norma nel
senso della evoluzione del
costume, non può sovvertire,
nella malintesa attuazione di
principi insussistenti, le regole
che esprimono il lento evolversi
degli usi e delle tradizioni.
Le motivazioni della Corte Costituzionale
nella sentenza del 1961
….che la moglie conceda i suoi amplessi ad un estraneo é
apparso al legislatore, in base, alla prevalente opinione, offesa
più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del
marito.
… trattasi della constatazione di un fatto della vita sociale, di un
dato della esperienza comune, cui il legislatore ha ritenuto di
non poter derogare. Da solo esso é idoneo a costituire quella
diversità di situazione che esclude ogni carattere arbitrario e
illegittimo nella diversità di trattamento. Del resto, nel disporre
un siffatto trattamento, il legislatore penale, lungi dall'ispirarsi a
sue limitate particolari vedute, non ha fatto che adeguarsi a una
valutazione dell'ambiente sociale che, per la sua generalità, ha
influenzato anche altre parti dell'ordinamento giuridico; come
può chiaramente desumersi, tra l'altro, dall'art. 151 del Codice
civile, il quale per l'adulterio della moglie consente l'azione di
separazione in ogni caso, mentre per l'adulterio del marito la
subordina alla condizione che il fatto costituisca una ingiuria
grave a danno della moglie.
É innegabile che anche l'adulterio del marito
può, in date circostanze, manifestarsi
coefficiente di disgregazione della unità
familiare; ma, come per la fedeltà
coniugale, così per la unità familiare il
legislatore ha evidentemente ritenuto di
avvertire una diversa e maggiore entità
della illecita condotta della moglie,
rappresentandosi la più grave influenza
che tale condotta può esercitare sulle più
delicate strutture e sui più vitali interessi di
una famiglia:
1. in primo luogo, l'azione disgregatrice che sulla intera
famiglia e sulla sua coesione morale cagiona la
sminuita reputazione nell'ambito sociale; indi, il
turbamento psichico, con tutte le sue conseguenze
sulla educazione e sulla disciplina morale che, in
ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte)
tuttora governate da sani principi morali, il pensiero
della madre fra le braccia di un estraneo determina
nei giovani figli, particolarmente nell'età in cui
appena si annunciano gli stimoli e le immagini della
vita sessuale;
2. non ultimo il pericolo della introduzione nella famiglia
di prole non appartenente al marito, e che a lui
viene, tuttavia, attribuita per presunzione di legge, a
parte la eventuale azione di disconoscimento.
Sentenza del 16 dicembre 1968, n. 126
La Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 559
C.P.
(prevedeva come reato soltanto l'adulterio
della moglie e non anche quello del
marito)
ritenendo che
la discriminazione sancita dal primo comma
dell'art. 559 del Codice penale
non garantisse l'unità familiare,
ma fosse più che altro un privilegio
assicurato al marito.
La Consulta ha precisato che…
É questione di politica legislativa quella relativa alla
punibilità dell'adulterio. Ma, poiché la
discriminazione fatta in proposito dall'attuale legge
penale viola il principio di eguaglianza fra coniugi - il
quale rimane pur sempre la regola generale occorre esaminare se essa sia essenziale alla unità
familiare. Infatti solo in tal caso sarebbe ammissibile
il sacrificio di quel principio di base nel nostro
ordinamento.
Ritiene la Corte, alla stregua dell'attuale realtà
sociale, che la discriminazione, lungi dall'essere
utile, é di grave nocumento alla concordia ed alla
unità della famiglia. La legge, non attribuendo
rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece
quello della moglie, pone in stato di inferiorità
quest'ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, ed
é costretta a sopportare l'infedeltà e l'ingiuria, senza
alcuna tutela in sede penale.
Per l'unità familiare costituisce indubbiamente un
pericolo l'adulterio del marito e della moglie, ma,
quando la legge fa un differente trattamento, questo
pericolo assume proporzioni più gravi, sia per i
riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia
per le conseguenze psicologiche sui soggetti.
Sentenza del 24 giugno 1970, n. 128
La Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art.156, V
comma Codice Civile, nella parte in cui
esclude la pretesa della moglie a non usare
il cognome del marito, in regime di
separazione per colpa di quest’ultimo, nel
caso che da quell’uso possa derivarle
pregiudizio
Sentenza del 9 aprile 1975, n. 87
La Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, III c.,
della legge n. 555 del 13 giugno 1912 in
tema di disposizioni sulla cittadinanza
italiana, nella parte in cui prevedeva la
perdita della cittadinanza italiana della
donna che avesse contratto matrimonio con
uno straniero indipendentemente dalla sua
volontà
Sentenza del 11 giugno 1986, n. 137
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale delle norme pensionistiche
,
nella parte in cui prevedevano il conseguimento
della pensione di vecchiaia e, quindi, il
licenziamento della donna lavoratrice per detto
motivo, al compimento del cinquantacinquesimo
anno d'età anziché al compimento del
sessantesimo anno come per l'uomo
(
dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604, degli artt. 9 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, conv. in legge 6 luglio 1939 n. 1272, modificato dall'art. 2 della legge 4
aprile 1952 n. 218, 15 D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708, 16 legge 4 dicembre 1956 n. 1450)
Sono venute meno quelle ragioni e condizioni che
prima potevano giustificare una differenza di
trattamento della donna rispetto all'uomo. In
particolare rispetto all'età del conseguimento della
pensione di vecchiaia e, quindi, rispetto alla disciplina
del licenziamento fondata su detto evento
Sentenza del 16 dicembre 1987, n. 614
La Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, quarto
comma, della legge n. 130 del 11 aprile
1950 in tema di “Miglioramenti economici ai
dipendenti statali” nella parte in cui esclude
che le quote aggiunte di famiglia, debbano
essere corrisposte, in alternativa, anche alla
moglie lavoratrice alla stesse condizioni e
con gli stessi limiti previsti per il marito
lavoratore
Sentenza 2 aprile 1993, n. 163
La Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, n. 2
della legge della provincia autonoma di
Trento n. 3 /80, nella parte in cui prevede,
tra i requisiti per l’accesso alle carriere ….
del servizio antincendio della provincia di
trento, il possesso di una statura fisica
minima indifferenziata per uomini e donne.
Giurisprudenza
di legittimità e di merito
sulle discriminazioni in materia
di lavoro
Discriminazione
La normativa che regola nel nostro
ordinamento le discriminazioni di genere sui
luoghi di lavoro e nell’accesso al lavoro è
contenuta nel D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5
che in attuazione della Direttiva 2006/54/CE
modifica ed integra il vigente D.Lgs. 11 aprile
2006 n.198, meglio conosciuto come Codice
delle pari opportunità tra uomini e donne
Discriminazione
Le discriminazioni si distinguono in: dirette, indirette e
collettive.
 Discriminazione diretta; qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto,
patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole
discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso.
 Discriminazione indiretta; una disposizione, un criterio, una prassi,
un patto o un comportamento, apparentemente neutri, che
mettono o possono mettere i lavoratori in una posizione di
particolare svantaggio rispetto alle lavoratrici e viceversa.
 Discriminazione collettiva; assunzione di atti, contratti,
comportamenti che, discriminando i lavoratori in base al sesso,
producono un danno o , comunque, un trattamento meno favorevole
– rispetto a quello di lavoratori di sesso diverso, in condizioni
analoghe – ad una pluralità di lavoratori/trici.
Discriminazione
La discriminazione di genere vuol dire differenza di trattamento tra
uomini e donne sui luoghi di lavoro nei settori pubblici o privati
quanto concerne:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
l’accesso all’occupazione e al lavoro;
l’accesso a tutti i tipi e livello di orientamento e formazione;
il licenziamento;
la retribuzione;
l’affiliazione e nell’attività in un organizzazione di lavoratori;
l’accesso alle prestazioni previdenziali;
la reazione ad un comportamento teso ad ottenere il rispetto
del principio di parità tra uomini e donne (vittimizzazione).
Discriminazione
Quali comportamenti vengono considerati discriminatori?
Sono discriminatori:
i test di gravidanza al momento dell’assunzione;
i colloqui, in sede di assunzione, in cui venga chiesto se la candidata è sposata o se
ha figli;
3. il rifiuto di assunzione perché la candidata è donna;
4. il rifiuto di assunzione perché sono previsti orari notturni;
5. il rifiuto di assunzione se la candidata è incinta;
6. il rifiuto di assunzione perché il lavoro è pesante;
7. provvedimenti datoriali che escludono i periodi di maternità dalla base di calcolo per
la corresponsione di benefici economici ai dipendenti;
8. mancata concessione del congedo parentale a cui hanno diritto individualmente i
genitori lavoratori per la nascita/adozione di un figlio;
9. non prevedere di posticipare l’eventuale prova d’esame richiesto dalle donne in
gravidanza;
10. ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza,
11. molestie sui luoghi di lavoro;
12. molestie sessuali sui luoghi di lavoro.
1.
2.
Discriminazione
A chi spetta l’onere della prova?
Spetta al datore di lavoro (convenuto) la prova sulla
insussistenza della discriminazione, qualora il
ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche
da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni,
ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e
qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera
e dai licenziamenti, idonei a fondare, in termini
precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza
di atti, patti o comportamenti discriminatori in
ragione di sesso, (Art. 40, d.Lgs n. 198/2006)
Mobbing
Il mobbing consiste in una serie di comportamenti
aggressivi e vessatori, che:
si protraggono nel tempo, nei confronti delle lavoratrici o
dei lavoratori,
sono posti in essere dal datore di lavoro nonché da
colleghi o superiori,
Si caratterizzano come una forma di terrore psicologico
sul posto di lavoro.
In conseguenza di questi attacchi e/o persecuzioni, la
vittima precipita in una condizione di profondo disagio
emotivo, che si ripercuote negativamente sul suo
equilibrio psicofisico.
Mobbing
Quali sono i possibili comportamenti considerati Mobbing?
Il mobbing si caratterizza attraverso vari comportamenti, che sono:
 Sottrarre ingiustificatamente incarichi ad un/una lavoratore/trice o,
addirittura, la postazione fisica di lavoro;
 Dequalificare professionalmente il/la lavoratore/trice, affidando compito
di scarso contenuto professionale e tali da rendere umiliante il
prosieguo del lavoro;
 Ricorrere con continuità, nei confronti del/della lavoratore/trice, a
rimproveri e richiami, sia in privato che in pubblico, anche per motivi
futili e con utilizzo di parole offensive;
 Dotare il/la lavoratore/trice di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o
obsolete, scomode, inadeguate;
 Interrompere il flusso di informazioni necessarie per l’attività lavorativa.
Il fenomeno del mobbing si caratterizza in particolare per i
seguenti aspetti:
 si realizza sul posto di lavoro;
 ripetitività e metodicità delle condotte messe in atto dagli
autori;
 riconducibilità ad una logica unitaria;
 isolamento del mobbizzato all’interno dell’ambiente di
lavoro;
 svilimento della personalità e della dignità della persona
colpita;
 indebolimento delle difese psicologiche del mobbizzato;
 sofferenze fisiche e psichiche che possono degenerare in
malattia;
 nesso causale.
Dall’analisi delle prime sentenze di merito si evince che
c’è un range notevole tra un inquadramento ed un altro.
Infatti se le prime sentenze a Torino fanno quasi
coincidere il mobbing con le molestie, già a Milano si
richiedono sistematicità, molteplicità degli episodi e
soprattutto dolo del mobber.
Il Tribunale di Como restringe la casistica poiché
richiede due elementi, nuovi pure alla psicologia del
lavoro, il carattere collettivo e lo scopo dell’espulsione
della vittima dall’ambiente di lavoro.
La Sezione lavoro del Tribunale di Torino ha
emesso importanti pronunce . Essa, infatti,
richiamando le teorie enucleate dagli psicologi del
lavoro, ha statuito che si ha mobbing ogniqualvolta
«il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi» e, in
particolare, quando «vengono poste nei suoi
confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di
lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il
cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio
psichico del prestatore, menomandone la capacità
lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando
catastrofe emotiva, depressione e talora suicidio».
Qualche anno dopo, il Tribunale di Forlì , ha
utilizzato un metodo differente preferendo affidare
ad un consulente tecnico d’ufficio il compito di
verificare la sussistenza del mobbing.
Una soluzione ulteriormente diversa rispetto a
quelle sopra viste risulta essere quella seguita dal
Tribunale di Milano che afferma «non si configura
mobbing in azienda nell’ipotesi in cui l’assenza di
sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro
oggettivo rapportarsi con la vita di tutti i giorni
all’interno della organizzazione produttiva
escludono che i comportamenti lamentati possono
essere considerati dolosi».
Il Tribunale di Como , ha delimitato notevolmente l’ambito del
mobbing, introducendo ben due requisiti che non ritroviamo in
dottrina:
1.
il carattere collettivo (e cioè il mobbing non potrebbe
essere esercitato da un solo soggetto, ma richiederebbe
un’azione di gruppo);
2.
lo scopo dell’espulsione della vittima dall’ambiente di
lavoro (se non ricorre questo scopo, non sarebbe ravvisabile il
mobbing).
Sempre il Tribunale di Como ha tracciato una particolare linea
di confine tra molestie e mobbing: le molestie, di per sé illecite,
sarebbero attuate da un soggetto nei confronti del soggetto
passivo al mero fine di offenderlo o infastidirlo; al contrario, il
mobbing si configurerebbe come «insieme di atti, ciascuno dei
quali è apparentemente inoffensivo», caratterizzato dall’animus
nocendi, che «mira a ledere la psiche del mobbizzato e ad
espellerlo da una comunità».
«…per "mobbing", riconducibile alla violazione
degli obblighi derivanti al datore di lavoro
dall'art. 2087 c.c., deve intendersi una condotta
nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di
lavoro, o del dirigente, protratta nel tempo e
consistente in reiterati comportamenti ostili che
assumono la forma di discriminazione o di
persecuzione psicologica da cui consegue la
mortificazione morale e l'emarginazione del
dipendente nell'ambiente dì lavoro, con effetti
lesivi dell'equilibrio fisiopsichico e della
personalità del medesimo» .
Cass. sez. lav. 26 marzo 2010 n. 7382.
Forme del Mobbing
-
Prepotenze e vessazioni
Isolamento sociale
Mancanza di informazioni inerenti il lavoro
Voci negative e calunnie
che si trasformano in
- Prestazioni lavorative scadenti
- Reputazione lavorativa compromessa
- Assegnazione di incarichi “vuoti” o privi di senso
L’isolamento
- Isolamento lavorativo
- Isolamento familiare
- Isolamento sociale
- ESPULSIONE DALL’AZIENDA
- PERDITA DEL LAVORO
Conseguenze
- Sulla persona: patologie organiche e
psicopatologiche
- Sulla famiglia: conflitti familiari, isolamento
sociale
- Sul lavoro: aum. infortuni, aum. assenze per
malattia, più errori
- Sulla collettività: aum. costi sanitari, aum.
costi previdenziali, aum. comportamenti
devianti
Costi sociali
Il dipendente mobbizzato costa alla comunità
il 190% in più del suo stipendio (salario
medio annuo)
Costi: improduttività, spese mediche, spese
legali, spese previdenziali, prepensionamento
Le norme….
Non è stata ancora introdotta una legge organica sul
Mobbing, quindi, occorre fare riferimento alle norme
esistenti nel nostro ordinamento giuridico.
COSTITUZIONE:
Art. 4 – diritto al lavoro
Art. 13 – libertà personale ed individuale
Art. 32 – diritto alla salute
Art. 35 – tutela condizioni di lavoro
CODICE CIVILE
Art. 2087 – obbligo tutela salute del dipendente
Art. 2043 – risarcimento del danno
Codice Penale
Art. 609 bis – violenza sessuale
Art. 582 – lesioni personali
Art. 590 – lesioni personali colpose
Art. 594 – ingiurie, diffamazioni
Art. 323 – abuso d’ufficio
Art. 610 – violenza privata
Art. 61 – aggravanti: abuso d’autorità, relazione ufficio
Straining
Nelle tutele previste contro il mobbing, possono rientrare anche casi di
straining.
Il termine, derivato dall’inglese, significa ‘mettere sotto pressione’. Pur essendo
simile al mobbing, esso se ne distingue per alcune peculiarità.
In primo luogo, agli aggressori (strainers) possono essere esclusivamente il
datore di lavoro ed i superiori gerarchici.
Un esempio di straining può essere la dequalificazione professionale.
Lo straining è stato per la prima volta definito anche in sede giurisprudenziale
(Tribunale di Bergamo, 21 aprile 2005) dove si afferma (sulla base della
relazione del CTU dott. H. Ege): ‘la differenza tra lo <<straining>> ed il
<<mobbing>> è stata individuata nella mancanza ‘di una frequenza idonea
(almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni
ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate
nel tempo, spesso addirittura limitate ad una singola azione, come un
demansionamento o un trasferimento disagevole’… ‘La vittima è, rispetto alla
persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene
attuato appositamente contro una o più persone ma sempre in maniera
discriminante’.
Molestia e Molestia Sessuale sui
Luoghi di Lavoro
L’art. 26 del D.Lgs. 198/2006 considera come discriminazione
anche le molestie ovvero tutti quei comportamenti indesiderati,
posti in essere per ragioni connesse al sesso e aventi lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di
creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o
offensivo (comma 1).
Tali atti assumono particolare rilevanza quando vengono effettuati
nell’ambito del luogo di lavoro, in particolare quando sono
accompagnati da minacce o ricatti da parte del datore di lavoro o
del superiore gerarchico, relativamente alla costituzione, allo
svolgimento ed all’estinzione del rapporto di lavoro.
Molestia e Molestia Sessuale sui
Luoghi di Lavoro
E contro la molestia sessuale?
L’art 26 del D.Lgs. 198/2006 considera assimilate alle
discriminazioni molestie sessuali, ovvero quei comportamenti
indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica,
verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la
dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare il clima
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Sono considerati discriminazione anche quei trattamenti
meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore
per il fatto di avere rifiutato i comportamenti offensivi descritti
o di esservisi sottomesso (comma 2)
Molestia e Molestia Sessuale sui
Luoghi di Lavoro
Quali sono i comportamenti che possono considerarsi molestie sui luoghi di
lavoro?
I comportamenti molesti possono essere molto vari, quali:




Battute e/o gesti volgari;
Apprezzamenti offensivi;
Attenzioni o proposte insistenti ed indesiderate;
Ricatto sessuale, ovvero esplicite richieste di prestazioni sessuali, anche
accompagnate da minacce, dalla cui accettazione o non accettazione dipenda
una decisione riguardante il lavoro;
 Molestie ambientali, capaci di creare un ambiente di lavoro intimidatorio, umiliante
e ostile, anche in assenza di espliciti ricatti o richieste;
 Atti di libidine e violenza sessuale;
 In ambienti tradizionalmente maschili e maschilisti sono molto frequenti, quasi
usuali, le molestie di genere, quelle, cioè che, se pur con basso profilo socioculturale, sottolineano la differenza tra maschio e femmina come, ad esempio, il
frasaggio volgare, la frase o il discorso ambiguo.
La legge 54/2006 dispone l’affido
condiviso dei minori in caso di
separazione dei genitori.
L’introduzione della norma ha
modificato le decisioni dei magistrati?
Un lavoro recente ha verificato in che misura
l’introduzione della legge 54 ha modificato le
sentenze dei magistrati.
Il lavoro utilizza i dati raccolti per ciascuna causa
di separazione dalle Cancellerie dei tribunali,
successivamente trasmessi all’Istat. La nostra
base dati si compone di poco meno di 900mila
sentenze, cioè la totalità di quelle emesse dai
tribunali italiani dal 2000 al 2010.
Tratto da: http://www.lavoce.info/affido-condiviso-legge-inapplicata/
Tavola 1. Alcuni effetti della legge 54 sulle sentenze di separazione
Dalla tavola si evince che l’assegnazione formale dell’affido condiviso ha
trovato effettiva applicazione. Per gli altri aspetti, quelli per cui la legge
lascia discrezionalità ai magistrati, è come se la legge non fosse mai
stata approvata: la casa coniugale va alle madri, ancor più che prima
della riforma; non vi è nessuna evidenza che i magistrati abbiamo accolto
le disposizioni che rendevano possibile il mantenimento diretto per
capitoli di spesa, a scapito dell’assegno.
Tratto da: http://www.lavoce.info/affido-condiviso-legge-inapplicata/
TRIBUNALE TRIESTE sent. 20 febbraio 2013
il genitore che, nel ricorso per l’assegnazione del figlio, faccia
istanza al tribunale per ottenere l’assegnazione del minore a
settimane alterne o a giorni alterni dimostra una incapacità di
immedesimarsi nelle esigenze del figlio, che ha invece diritto a una
residenza preferenziale.
Negato, quindi, l’affido condiviso.