Bologna, il Mulino 2016

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Note di lettura
ECONOMIA
a cura di Andrea Giuntini
GIUSEPPE BERTA, Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, Bologna, il Mulino 2016
(«Contemporanea»), pp. 160, € 14,00.
Sull’identità del capitalismo italiano gli storici economici italiani si sono
sempre interrogati, dando ovviamente risposte anche molto diverse fra loro.
Le difficili condizioni economiche, in cui versa il paese, hanno stimolato ulteriormente, in tempi recenti, questa riflessione. Quando l’Italia è approdata ad
una maturità capitalistica, quando ha conquistato il titolo di potenza industriale, quando ha cominciato a perdere le posizioni acquisite: domande lecite
anche per trovare il filo di Arianna per uscire dal labirinto della stagnazione,
che ci sta impoverendo giorno dopo giorno.
Berta è uno degli autori che questo percorso di ricerca l’hanno seguito con
maggior determinazione. Attento osservatore della realtà industriale e postindustriale del paese e delle trasformazioni in corso nella società italiana, nelle
sue opere analizza con l’occhio dello storico economico senza farsi mai trasportare dall’ideologia e senza adottare rigidi schemi e griglie metodologiche.
Nel confronto fra gli studiosi si distingue per indipendenza di giudizio, per l’incisività dell’analisi e, non da ultimo, per la capacità di farsi comprendere e
quindi di parlare ad un pubblico più ampio rispetto all’hortus clausus degli
addetti ai lavori. Nel suo ultimo lavoro, che fin dal titolo pone chiaramente in
primo piano il tema affrontato, propone con nettezza un’interpretazione
decisa e descrive senza incertezze che cosa l’Italia è stata e che cosa non è più.
La vita del capitalismo italiano sta inscritta, secondo Berta, nella parabola
dell’IRI, definito «il più originale esperimento di gestione dell’economia condotto nel Novecento», e dell’economia mista, avviata all’indomani della fine
della seconda guerra mondiale e terminata nell’ultimo decennio del secolo.
Quell’esperienza ha garantito anni di sviluppo economico e industriale – per
alcuni dei quali gli storici sono ricorsi alla definizione di boom economico –
grazie ad un delicato equilibrio fra pubblico e privato nel capitalismo italiano, che ha segnato la modernizzazione del sistema economico e, una volta
perso dopo la liquidazione dell’ente, non è stato rimpiazzato da nessun’altra
formula: «Il sistema delle imprese – scrive icasticamente Berta – ha smarrito
i suoi lineamenti storici, senza acquistarne di nuovi e soprattutto senza raggiungere un assetto inedito abbastanza saldo da far maturare una credibile
prospettiva di sviluppo». Nessun altro soggetto ha saputo svolgere un ruolo
analogo né ha senso richiamarne oggi un’ipotetica ricostituzione per la forma
e le caratteristiche che l’economia globale sta sviluppando. Mostrando una
vocazione plurale, l’IRI, costituito all’inizio degli anni Trenta per contra-
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stare gli effetti della crisi del 1929, ha saputo gestire imprese assai diverse fra
loro, dando una rotta e un senso al capitalismo italiano nell’epoca in cui il
paese ha occupato posizioni di alta classifica a livello mondiale. In quel modo
Stato e mercato non hanno saputo più intrecciarsi proficuamente ed essere
reciprocamente interdipendenti, anzi una stagione si è chiusa per sempre e
nessun modello economico alternativo è stato elaborato. La ragione del progressivo declino va individuata, nella lettura proposta, nella intromissione da
parte della classe politica, colpevole, fatto salvo il tentativo di risanamento di
Romano Prodi diventato presidente nel 1982, di avere stravolto la natura e
corrotto gli esiti di quella che è stata a lungo la principale impresa pubblica italiana.
Dunque nella visione di Berta il capitalismo italiano è stata quella preziosa
combinazione oggi scomparsa e irriproducibile; ne consegue un vero e proprio
processo di disfacimento industriale, una disarticolazione delle filiere storiche
dell’industrializzazione italiana, che è sotto gli occhi di tutti: «a dissolversi
– sentenzia Berta – è stato la trama che innervava il tessuto economico». Casi
clamorosi e tragici al tempo stesso, come quello dell’Ilva di Taranto parlano
chiaro, così come il polo dell’acciaio di Piombino e di esempi purtroppo non ne
mancano. La grande impresa in Italia è da tempo in via di sparizione e quello
che è rimasto finisce nelle mani di gruppi stranieri, com’è capitato alla Pirelli
per quanto riguarda il settore privato; o peggiora le proprie performance,
come sta avvenendo nel caso di Eni ed Enel.
Uno schema come quello ormai definitivamente tramontato non è in nessun modo riproponibile. Restano, a mantenere in vita le speranze dei più
ottimisti, le imprese di medie dimensioni, con forte radicamento territoriale,
che presentano ancora dinamicità e relazioni industriali che «risultano attutite
dalle reti sociali nelle quali sono incorporate», ma anche incapacità di adattarsi all’innovazione tecnologica con ricadute in termini di insufficiente produttività e difficoltà di internazionalizzazione. Possiamo riferirci a questa
tipologia di imprese – il cosiddetto quarto capitalismo e le realtà distrettuali per una nuova definizione di capitalismo e soprattutto basteranno a rilanciare
l’economia del paese?
È indubbio che l’Italia sta scivolando sempre di più verso la periferia economica mondiale privata com’è di qualsiasi residua specificità; sul treno della
globalizzazione non è mai montata e fatica ormai a riconoscersi in un modello,
quindi rispondere alla domanda iniziale su quale sia il tipo di capitalismo
che adotta appare perfino senza senso. Chiedersi, insieme a Berta, se davvero
questo capitalismo leggero sia in grado di invertire il trend oltremodo negativo
ed evitare la decadenza economica, non è affatto ozioso. Ma altro non si prospetta all’orizzonte, se non soluzioni tutte incentrate sulla frontiera del made
in Italy, sui talenti artigianali del paese e sulle sue risorse naturalistico-
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culturali, in una logica frutto dell’individualismo imprenditoriale più che di
sistema. La verità, afferma Berta, è che il capitalismo trionfante oggi «si
muove con rapidità estrema e con la mobilitazione di capitali immensi, fuori
dalla portata degli operatori italiani», che suona quasi come un’iscrizione
sulla pietra tombale dell’Italia. Le conclusioni dell’autore, avverso ad ogni
retorica della decadenza, sono in ultima analisi improntate ad un profondo
scoraggiamento, ma non così drastiche da negare al paese possibili chance di
ripresa. Certo che da parte della politica provengono segnali di scarsa comprensione della gravità della situazione: le riforme procedono con grande
fatica, i soggetti protagonisti storicamente dell’espressione più alta dell’economia italiana non sembrano pienamente consapevoli dell’avvitamento del
paese e le forze populiste prendono sempre più piede. Abbiamo bisogno di una
cornice legislativa adeguata e di infrastrutture, materiali ed immateriali; il
principale compito della politica è valorizzare le forze imprenditoriali innovative e i lavoratori della conoscenza. Viviamo un’epoca di metamorfosi dai
connotati e dagli esiti ancora assai poco definiti e per questo preoccupanti.
Non serve ripiegarsi imponendosi un downgrading, avverte Berta, piuttosto
occorre realisticamente ridimensionare aspettative e prospettive economiche
ed esistenziali, facendo tesoro della storia, affinché l’Italia, come ha scritto un
altro acuto osservatore dei processi attuali, Marco Revelli, torni a riconoscersi.
ANDREA GIUNTINI