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PRIMO PIANO
Giovedì 9 Marzo 2017
Che era stato bandito persino dalla Santa Inquisizione dopo il diciassettesimo secolo
C’è il processo alle intenzioni
Basta la parola, non conta che non ci sia stato niente
DI
SERENA GANA CAVALLO
R
isulterebbe che il
processo alle intenzioni sia stato
bandito dalla Santa
Inquisizione dopo il diciassettesimo secolo.
Nel parlare comune «fare
il processo alle intenzioni»
significa giudicare qualcuno
in base a ciò che si ritiene
intendesse fare, non a ciò
che ha realmente fatto.
Da un punto di vista processuale, sarebbe un giudizio su ciò che una persona
ha (o aveva) intenzione di
fare e, intercettazioni e vaghi foglietti a parte, nessuno
a parte il diretto interessato può sapere esattamente
quali siano questi pensieri.
Ne consegue che un
processo alle intenzioni
si basa necessariamente su
supposizioni, che per loro
natura possono essere false
e normalmente in uno stato
di diritto, si viene giudicati
e/o processati per ciò che si
fa: quindi azioni concrete la
cui portata è oggettivamente percepibile.
Tuttavia il sempre
provvido e prolificamente
legiferante Stato Italiano
ha, in tempi recenti (2012)
ha approvato una nuova
fattispecie di reato (già presente seppure con alcune diverse specificazioni nel diritto francese e inglese) che
punisce il cosiddetto «traf- realizzi un oggettivo lucro: tamtammata sui social, che
fico di influenze illecite», il la semplice promessa (ma, si stacchi dall’argomento, e
cui articolo fondamentale almeno quella, da dimostra- guai a chi parla di gogna
mediatica, di indagini e non
così recita: «Chiunque, fuo- re?) è sufficiente.
Non solo: non è neanche di sentenze: la sentenza è
ri dei casi di concorso nei
reati di cui agli articoli 319 necessario che la contropar- già nella mente di tutti, la
[ reato commesso da pub- te abbia conseguito l’obiet- certezza del reato è lì, bella
blico ufficiale per atto con- tivo cui mirava tramite i chiara, univoca, in prima
trario ai doveri di ufficio] e presunti mediatori. Quattro pagina o in prima serata.
Eppure è un copione
319-ter [corruzione in atti chiacchiere, un po’ di vaghe
ormai logoro,
giudiziari], sfrutq u a s i s t a n t i o.
tando relazioni
Un tempo erano i
esistenti con un
Quattro chiacchiere, un po’ di vaghe
colpi di stato, più
pubblico ufficiale
registrazioni
preventive,
nessun
passaggio
o meno immagio con un incaricadi danaro, nessun appalto vinto, un fonari o grottescato di un pubblico
mente patetici.
servizio, indebiglietto con un paio di iniziali che, con un
Dopo è venuta
tamente fa dare
alfabeto
di
21
lettere,
non
possono
che
di moda la stao promettere, a sé
essere di due specifiche persone e solo di
gione dello scoo ad altri, denaro
perchiamento
o altro vantagquelle, ed ecco che il reato è bello che
delle ruberie dei
gio patrimoniale,
consumato
e
inconfutabilmente
dimostrapartiti (solo di
come prezzo della
to,
al
punto
che
non
c’è
cronaca
scritta,
alcuni, si intenpropria mediaziode) e dei loro lene illecita verso il
parlata, teletrasmessa, tamtammata sui
ader (parola che
pubblico ufficiale
social, che si stacchi dall’argomento, e
secondo la bouo l’incaricato di un
guai
a
chi
parla
di
gogna
mediatica
tade in voga si
pubblico servizio
leggeva «lader»),
ovvero per remuma curiosamente
nerarlo, in relazione al compimento di un atto registrazioni preventive, le ruberie vere (tipo fondi
contrario ai doveri di ufficio nessun passaggio di dana- dei gruppi regionali) fanno
o all’omissione o al ritardo ro, nessun appalto vinto, scalpore a breve termine,
di un atto del suo ufficio, è un foglietto con un paio di per cui quasi non se ne parpunito con la reclusione da iniziali che, con un alfabe- la più, né se qualcuno viene
to di 21 lettere, non possono assolto, come l’ex presidente
uno a tre anni.
La stessa pena si appli- che essere di due specifiche della regione Piemonte, Roca a chi indebitamente dà persone e solo di quelle, ed berto Cota o quello della
o promette denaro o altro ecco che il reato è bello che Ragione Abruzzo, Ottaviaconsumato e inconfutabil- no Del Turco, né se non è
vantaggio patrimoniale.»
In pratica, come si suol mente dimostrato, al punto chiaro come altri casi siano
dire, basta la parola: non che non c’è cronaca scrit- andati a finire.
è infatti necessario che si ta, parlata, teletrasmessa,
Si vive di emozioni estem-
poranee, molto più forti e
rumorose nel caso in cui si
tratti della demolizione di
un partito o del suo massimo rappresentante, piatto fornito periodicamente,
come i giochi al Colosseo
per la plebe, ai cittadini
mediamente impoveriti,
sfiduciati, e «tangentopoli
addict»: la Gotterdammerung, la caduta degli Dei,
è sempre uno spettacolo di
grande successo.
Con Berlusconi c’era
anche il gusto di spiare
tra le lenzuola. Con Renzi
c’è ancora l’aspettativa: Sinatra cantava «The best is
yet to came» (il meglio deve
ancora venire) e il pubblico
è in attesa.
Tutti continuano a ribadire la loro massima fiducia nella magistratura, in
primis tutti quelli che ancora la magistratura non
ha toccati, ma quel che è
innegabile è il fatto che, comunque l’ennesima grande
inchiesta vada a finire, un
corso così intensivo, prolungato nel tempo, ben gestito
e ben diretto, di quel che
i benpensanti etichettano
come populismo, ha oramai
conclamati effetti collaterali che prima o poi daranno
i loro velenosi frutti, anche
se per ora «the show must
go on». Lo spettacolo deve
proseguire.
© Riproduzione riservata
PORTATA IN USA DAI MIGRANTI DEL SUD, SI È DIFFUSA IN NORD ITALIA SOLO CON LE TRUPPE ALLEATE
Si mangiava la pizza già ai tempi di Pompei ma poi sono stati
gli americani che l’hanno fatta riscoprire in tutto il mondo
DI
S
FEDERICO CORABI
icuramente ci sarà chi, solo
leggendo il titolo, sarà balzato sulla sedia.
Purtroppo (o per fortuna)
la cruda verità è proprio questa:
la pizza non è un piatto al 100%
italiano. Non fraintendetemi, non
voglio negare l’episodio napoletano
del 1889 che vede Raffaele Esposito come il creatore della pizza
Margherita; e nemmeno contestare la maestria nostrana nel realizzare questo piatto. Ciò che però
molti italiani non sanno è che la
pizza deve la sua popolarità agli
americani. Ma andiamo con ordine. Svolgendo la mia tesi di laurea
ho ripercorso la storia della pizza,
giungendo alla conclusione che la
data di nascita della pizza va retrodatata, e di molto.
La stessa parola «pizza» è ben
più antica (la prima occorrenza è
in un documento notarile del 997
d.C.) mentre i resti di una pietanza
molto simile alla versione attuale
risalgono all’80 a.C. e sono stati
ritrovati a Pompei. Pensate: fra i
primi consumatori di questa progenitrice della pizza poteva esserci lo
stesso Cesare, altro che Margherita di Savoia!
Forse a questo punto starete
pensando: «Ma allora la pizza è
veramente italiana!». Certo che lo
è, eppure ribadisco: oggigiorno la
pizza è culturalmente più americana che italiana. Non datemi del
pazzo, lasciatemi spiegare! Dopo
l’Unità d’Italia, molti abitanti del
Meridione emigrarono negli Stati
Uniti portando con sé le proprie
usanze alimentari. Fu in questa
occasione che la pizza divenne un
fenomeno di massa americano e, in
pochi anni, entrò a far parte della
loro comune alimentazione, mentre
in Italia rimaneva una semplice ricetta del Sud, conosciuta in poche
località.
Fu solo con l’arrivo dei soldati alleati al termine del secondo
conflitto mondiale che essa approdò
nel Nord Italia e negli altri paesi
europei, portata dagli americani
assieme ad altri simboli Usa come
la Coca-Cola. A proposito: vi siete
mai chiesti perché la pizza viene solitamente accompagnata da
questa bevanda? Perché ci è stato
insegnato così dagli americani, che
amavano bere Coca-Cola mangiando una pepperoni pizza.
Da qui in poi la storia la conosciamo, ma ci sono altre questioni
da affrontare. Perché noi italiani
siamo così patriottici nei confronti
di questo piatto? Perché guardiamo
con ribrezzo ogni variante di pizza
estera?
Perché per molti italiani l’unica pizza è quella napoletana, pur
sapendo che ce ne sono tante varianti di altissima qualità sparse
per la Penisola? Credo che le radici di queste ambiguità risiedano
in una errata concezione di molti
consumatori riguardo alle diverse
culture alimentari. Infatti, è vero
che ognuna di esse ha le proprie
specificità che la rendono unica e
diversa dalle altre; ma è altrettanto
vero che tali diversità non devono
essere pensate come qualcosa di
escludente, come un muro da erigere tra «noi» e gli «altri».
Esse devono essere invece il
trampolino di lancio dal quale
costruire relazioni tra popoli differenti, tutti uniti sotto la comune
insegna del gusto. Questa è la missione della pizza, non essere causa di battibecchi tra i napoletani e
gli altri, o tra gli italiani e il resto
del mondo. La pizza è il simbolo
dell’amicizia: è un cibo che quasi
obbliga il consumatore a mangiarla
in compagnia di persone care. Perché usarla come motivo di inutili
litigi?
Il momento in cui ho preso coscienza di queste mie parole è stato durante la mia seduta di laurea.
Come probabilmente avrete intuito,
la reazione dei presenti non è stata
delle migliori. In tale occasione le mie
argomentazioni si sono scagliate contro un vero e proprio muro, rappresentato da esperti che però si sono dimostrati incapaci di pensare fuori dai
soliti preconcetti. Non porto rancore
per questo, ma mi torna alla mente quanto affermato da Franco La
Cecla ne La pasta e la pizza: «[…]la
storia […] della pizza sta a dimostrare che bastano cento anni a costruire
una identità e a costruirla in bocca,
al dente, in modo tale da far credere
a tutti che sia sempre esistita».
Il Golosario
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