Monastero di Bose - La coscienza del proprio peccato

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La coscienza del proprio peccato
I sette salmi penitenziali
Quaresima, tempo di penitenza, di pianto per i propri peccati e di ritorno al Signore, attraverso l’amore fraterno.
Scegliamo di accompagnare questo cammino con il commento ai sette salmi penitenziali, uno per ogni venerdì
di Quaresima: giorno particolarmente simbolico, nel quale, anche grazie alla pratica intelligente del digiuno a cui la
chiesa ci invita, possiamo conoscere meglio il nostro cuore e disporci ad accogliere la chiamata del Signore a fare
ritorno a lui.
Questi sette salmi non sono una raccolta messa in evidenza dal Salterio con qualche titolo specifico, non
appartengono neanche a un determinato genere letterario. È la sapienza della grande tradizione cristiana ad averli
costituiti in un settenario glorioso, da leggere, meditare e pregare per accompagnare il proprio pentimento. Tracce
di tale raggruppamento sono già presenti in Origene (185-254) e in Agostino (354-430; il suo biografo scrive che
egli amava e meditava con particolare intensità una collezione di “pochissimi salmi di penitenza”); ma il primo a
collegare esplicitamente tra loro questi sette salmi è Cassiodoro (485-580): “Nel libro del Salterio, secondo l’uso
recepito dalle chiese, i penitenti vengono ammaestrati da sette particolari insegnamenti, utilissimi a chi vuole
chiedere perdono al Signore … Questi salmi sono gli strumenti più efficaci per la purificazione del nostro cuore, per
rinascere dalla morte dei peccati e passare dal pianto alla gioia nel Signore”.
Intraprendiamo dunque questo itinerario dal pianto alla gioia, percorrendo le sette tappe indicate dalla sapienza di
questi salmi.
Salmo 32
SECONDA TAPPA: LA COSCIENZA DEL PROPRIO PECCATO
1 Di David. Maskil.
Beato l’uomo assolto dalla colpa
Hai tolto la mia colpa
perdonato dal peccato
2 beato l’uomo a cui il Signore
non imputa la trasgressione
e nel cui spirito non c’e? inganno.
3 Finche? tacevo si consumavano le mie ossa
e ruggivo tutto il giorno,
4 la tua mano pesava su di me
di giorno e di notte
si inaridiva il mio vigore
come nell’arsura dell’estate.
5 Allora ho confessato a te il mio peccato
non ho nascosto la mia colpa,
ho detto: «Confessero? contro di me
le mie rivolte verso il Signore»
e tu hai portato la colpa e il mio peccato.
6 Cosi? ti prega ogni fedele nell’ora decisiva
se irromperanno acque torrenziali
non potranno raggiungerlo,
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7 tu sei per me un rifugio: mi liberi dall’angoscia
mi circondi con canti di liberazione.
8 «Ti istruisco e ti indico la via da seguire
ti daro? consiglio vegliando su di te:
9 non essere come il cavallo e il mulo
privi di discernimento
soltanto con il morso e le briglie
e? domata la loro impetuosita?».
10 Numerosi i tormenti che attendono il malvagio
ma l’amore circonda il credente nel Signore
11 rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti
retti di cuore gridate di gioia.
Il salmo 32 è un ringraziamento penitenziale e, insieme, un’esortazione sapienziale, che nascono dall’aver confessato a
Dio i propri i peccati, ricevendone in risposta il perdono. Il percorso delineato in questo salmo, considerato dalla
tradizione cristiana “voce di colui che fa penitenza” (titoli antichi, serie II) e previsto nell’attuale liturgia battesimale,
può essere così riassunto:
Prologo sapienziale: beatitudine del perdono (vv. 1-2).
Canto del perdono: miseria del peccato (vv. 3-4, passato); confessione e perdono ricevuto (v. 5, presente); pace che ne
deriva, anche in mezzo alle tribolazioni (vv. 6-7, futuro).
Istruzione sapienziale pronunciata da Dio (vv. 8-9).
Dopo un ultimo insegnamento, fondato sulla teoria della retribuzione (v. 10), il testo si chiude con un’antifona dal tenore
liturgico, che invita i giusti e i retti di cuore a gioire insieme al salmista (v. 11).
Se il salmo 1 si apriva proclamando “beato l’uomo” (Sal 1,1) che lotta per non cadere nel peccato, qui la beatitudine
descrive il realistico prosieguo di quella meditazione. I peccati, infatti, prima o poi vengono commessi, ma il cammino
che conduce alla felicità non è precluso a chi sbaglia, altrimenti sarebbe un sentiero vuoto! L’importante è ammettere
le proprie colpe, non fingere di non essere peccatori: questo è ciò che piace a Dio, il quale “gradisce la sincerità del
cuore umano” (cf. Sal 50,8) e “non respinge un cuore contrito e spezzato” (cf. Sal 50,19), ma gli dona gratuitamente il
suo perdono.
La sapienza del salmista nasce dall’aver rimeditato alla luce dello sguardo d’amore di Dio la propria vicenda. Una
vicenda di errore che egli sa definire con chiarezza, utilizzando i tre termini classici del lessico del peccato, che
costituiranno il filo rosso del salmo 50 (51): nel suo comportamento vi sono la colpa, ossia la trasgressione
disobbediente nei confronti dei comandi di Dio; il peccato, che indica il fallire il bersaglio; la trasgressione, cioè l’errare
su strade sbagliate e perdute. L’orante riconosce le proprie mancanze, non vive nell’inganno, nell’ipocrita simulazione di
chi finisce per intestardirsi come un animale privo di discernimento.
Grazie a questa intelligenza da parte dell’essere umano, a questa comprensione realistica della propria fallibilità, il
Signore gli toglie la colpa, perdona il suo peccato annullandolo, non gli imputa la trasgressione. Egli dimentica tutto
questo, come ardiscono rivelare i profeti: “Io cancello le tue colpe per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi
peccati” (Is 43,25); “Tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, poiché perdonerò la loro colpa e non ricorderò
più il loro peccato” (Ger 31,34). Non che il pentimento e lo sforzo di conversione siano la causa del perdono da parte di
Dio: semplicemente, senza questa preliminare ammissione di colpa, che si traduce in una sincera confessione,
l’essere umano non può aprirsi al perdono preveniente del Signore. È un’esperienza comune, che ha anche
ricadute fisiche e psicologiche ben dipinte nel nostro salmo: chi non vuole riconoscere i propri errori è come roso da un
invisibile tormento, qui descritto con le immagini delle ossa che si consumano e del vigore che viene meno per
mancanza d’acqua. In tal modo finisce per isolarsi in una solitudine mortifera, segnata da un ruggito interiore tanto più
rumoroso quanto più le labbra tacciono. E così perde la pace e finisce per sentire pesante su di sé la mano del Signore,
che invece attende solo di poterlo risollevare…
La teologia sottesa a questo salmo è ben presente in tutta la Scrittura: “Chi nasconde le proprie colpe non riuscirà nella
vita, chi le confessa troverà misericordia” (Pr 28,13). Il discepolo amato fa eco: “Se diciamo di essere senza peccato,
inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Dio, che è fedele e giusto, perdona i
nostri peccati e ci purifica da ogni iniquità” (1Gv 1,8-9). Ma è soprattutto Paolo a citare il nostro salmo quale caposaldo
del principio della giustificazione per fede: “David proclama beato l’uomo a cui Dio accredita la giustizia
indipendentemente dalle opere: ‘Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati coperti; beato
l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato’” (Rm 4,6-8). Questo salmo è dunque “il canto della grazia di Dio
e della nostra giustificazione, di cui godiamo non per qualche nostro merito ma perché ci previene la misericordia del
Signore” (Agostino). Non si può non citare al riguardo un appassionato brano di Lutero, che illustra l’intelligenza a cui il
salmo 32 invita, mettendo in bocca a Cristo queste parole.
Non tu, non una creatura, ma io, con il mio Spirito e la mia Parola, voglio mostrarti la strada su cui devi camminare; non
è l’opera scelta da te, né la sofferenza escogitata da te, ma quella che ti si presenta contraria al tuo pensiero e al tuo
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desiderio: lì seguimi, lì sii mio discepolo, lì è il tempo propizio, lì non essere come un cavallo o un animale privo
d’intelletto. Seguimi e abbandonati a me!
Davvero, “non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1)! I singoli credenti e la chiesa nel suo
insieme possono rifugiarsi in lui e ricevere da lui la rassicurazione: “Terrò fissi su di te i miei occhi, affinché tu possa
rimanere saldo nella mia luce d’amore” (Girolamo).
La verità di questa rilettura teologica è radicata nel comportamento di Gesù, nel suo donare a quanti incontrava la
salvezza mediante la remissione dei peccati. Si ricordi il suo incontro con la donna peccatrice in casa del fariseo Simone.
Agli insistiti gesti d’amore e di contrizione della donna, Gesù risponde donandole il perdono dei peccati, mentre Simone
si scandalizza di fronte all’inattesa ventata di amore che vede davanti a sé (cf. Lc 7,36-50). O si pensi alla parabola del
fariseo e del pubblicano al tempio. La preghiera gradita a Dio è quella di quest’ultimo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”
(Lc 18,13). Avendo saputo umiliarsi nel riconoscere le proprie colpe, egli “torna a casa sua giustificato, a differenza
dell’altro” (cf. Lc 18,14). Ecco spiegata la predilezione di Gesù per la compagnia dei peccatori pubblici, più esposti
al biasimo e dunque più aperti alla contrizione: Gesù aveva compreso che i pubblicani e le prostitute (cf. Mt 21,31)
sono un “sacramento” della condizione di peccatore comune a ogni essere umano, che in loro è solo più esplicita e
immediatamente visibile. Per questo ha detto: “Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per
novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
Sì, “l’amore circonda chi crede nel Signore” e, spinto da tale fiducia, non ha paura di compiere lucidamente un atto di
verità: riconoscere il proprio peccato, per scoprire che Dio gli chiede solo di accettare che egli lo ricopra con il
suo perdono. Ecco perché “la prima cosa da capire, l’intelligenza decisiva è riconoscersi peccatori” (Agostino). Ma noi
ne siamo convinti?
Liberaci, Signore,
dalla tribolazione che ci circonda.
Noi riconosciamo il nostro peccato e le nostre ingiustizie:
tu perdonaci.
(Orazione salmica di tradizione africana, seconda metà del V secolo)
Fratel Ludwig Monti
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