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Un giorno a Pompei
II A • Liceo Scien fico E. Fermi - Gaeta
Anno scolas co 2016/2017
Pompei: il nome, la storia, gli scavi archeologici
P
ompei è una città situata
su un pianoro di formazione vulcanica a circa 30
m s. l. m. a controllo della valle
del ume Sarno alla cui foce sorgeva un attivo porto.
Il suo nome è avvolto da un alone di mistero. Gli antichi pensarono che il suo nome derivasse
da “a pompa Herculis” ossia dal
fatto che fosse stata fondata da
Ercole al termine delle sue
imprese.
Alcuni videro, invece, il nome
connesso con la radice del verbo
greco “pémpo”, spedire.
Strabone, scrittore greco, attesta,
infatti, la funzione mercantile di
Pompei, grazie al suo porto.
Altri mettono il nome in rapporto con la voce osca pùmpe, cinque,
e ciò si spiega con il fatto che
Pompei sorse dall'unione di cinque differenti villaggi. Tale affermazione può trovare una confer-
ma nel nome latino Pompeii venne visto come plurale.
Pompei fu fondata intorno all'
VIII sec. a.C. dagli osci, una popolazione di origine indeuropea
stanziatasi nella fertile pianura
padana, e ne è testimonianza
l'irregolarità urbanistica delle
regiones VII e VIII.
Passò poi sotto l'inuenza greca,
come testimoniano le vestigia
del tempio dorico situato sulle
terrazze del foro triangolare e
l'introduzione del culto di
Apollo.
Pompei fu poi occupata dagli
etruschi, di nuovo dai greci, poi
dai Sanniti, provenienti dalle
zone montane di Abruzzi e
Calabria, che la modicarono
profondamente sia dal punto di
vista politico e istituzionale sia
sul piano urbanistico.
In seguito alla vittoria delle guer-
re sannitiche da parte dei romani
divenne città alleata. Fu assediata da Silla nel 89 a.C. e nell' 80 fu
romanizzata del tutto con la
deduzione di una colonia di veterani. Da questo momento essa si
chiamò Colonia Cornelia Veneria
Pompeii, venendo associata così
al culto di Venere, divinità protettrice della città e dea cara a
Silla, e al dittatore Cornelio Silla.
Da allora Pompei andò rapidamente romanizzandosi, pur conservando caratteri italici, e si
registrò una grande crescita economica ed un notevole sviluppo
nell'edilizia pubblica e privata.
Nel 62 d.C. venne colpita da un
grave terremoto, dal quale si
riprese rapidamente, ma nel 79
d.C., durante il regno
dell'imperatore Tito, la grandiosa eruzione del Vesuvio la seppellì sotto uno strato di lapilli e
ceneri alto 6-7 metri. Di questa
sciagura, nella quale andarono
distrutte anche le città di Stabia e
di Ercolano, rimane la testimonianza di Plinio il Giovane, che
narra anche la morte dello zio
Plinio il Vecchio, che, come
comandante della otta di
Miseno, si recò sul posto per tentare di portare soccorso ai
Pompeiani.
I primi scavi archeologici iniziarono nel 1748 durante il regno di
Carlo III di Borbone, ma
l'identicazione fu resa possibile
solo nel 1763 grazie alla scoperta
di un'epigrafe sulla quale si faceva chiaramente riferimento alla
“Res publica Pompeianorum “.
Le prime esplorazioni vennero
fatte tramite l'utilizzo di cunicoli
sotterranei ed è solo con la salita
al trono di Ferdinando I delle
Due Sicilie che avvengono i primi scavi a cielo aperto. All'inizio
del XIX secolo, in seguito a disordini di ordine politico, le indagini vennero sospese ma poi riprese con l'arrivo di Gioacchino
Murat, re di Napoli, la cui moglie
cominciò un'opera di pubblicizzazione del sito in tutta Europa,
tant'è che Pompei divenne una
tappa obbligatoria del gran tour.
Gli scavi ebbero grande impulso
dopo l'unità d'Italia, infatti
archeologi come Fiorelli,
Spinazzola, Maiuri hanno portato alla luce oltre i due terzi della
città. L'assetto urbanistico ricalca
il modello dell'architetto greco
Ippodamo da Mileto, anche se
non è seguito alla perfezione, e
rappresenta il primo esempio di
pianicazione sistematica in
Italia.
All'interno delle mura per volere
di Fiorelli, la città venne divisa in
nove zone chiamate regiones che
corrispondono grosso modo agli
antichi quartieri romani a loro
volta divise in insulae.
Nel 1997, l'area archeologica viene dichiarata, dall'UNESCO,
patrimonio dell'umanità.
a cura di Francesco Buonemani
L'eruzione del Vesuvio tra storia, le eratura e archeologia
I
l Vesuvio, o più propriamente il Somma-Vesuvio,
(1281m) è uno strato vulcano
(un cono eruttivo all'interno di
un cratere più vasto), ancora attivo, situato a sud-est della città di
Napoli. Esso è costituito dal più
vecchio vulcano del Monte
Somma, la cui parte sommitale
sprofondò generando una caldera, e dal più recente vulcano del
Vesuvio, cresciuto all'interno di
questa caldera.
Il 24 agosto dell'anno 79 d. C. il
Vesuvio ebbe un improvviso
risveglio sommergendo gran parte della campagna che lo circondava. Ercolano e Stabia furono
sommerse da una corrente di fango vulcanico; gli abitanti di
Pompei furono investiti da una
tempesta di cenere e di lapilli e
morirono travolti dal crollo dei
tetti delle loro case o soffocati dai
vapori solforosi liberatisi
L'immagine mostra la ricostruzione qualitativa del profilo originario dell'antico vulcano del
Somma (in rosso - basato sul lavoro di Cioni et al., 1999).
nell'aria. Il disastro fu improvviso ed inaspettato e colse di sorpresa gli abitanti della zona, molti dei quali vennero colpiti dalla
morte mentre tentavano di mettersi in salvo fuggendo.
Del terribile evento, che per tre
giorni devastò la costa tra
Ercolano e Stabia, c'è rimasto un
celebre, drammatico racconto
nelle due lettere che lo scrittore
latino Plinio il Giovane inviò allo
storico Tacito, suo amico, per nar-
rargli la morte dello zio Plinio il
Vecchio, naturalista autore della
Naturalis historia e ammiraglio
della otta di Miseno, avvenuta
nel corso dell'eruzione.
Plinio il Giovane, Epistole VI,
16 – Una lettera per la storia
In questa prima lettera Plinio ringrazia Tacito per avergli dato
l'opportunità di parlare della
morte dello zio in quanto, celebrato da un grande storico, sicu-
ramente acquisterà la immortalità.
Nube a forma di pino
Il racconto inizia con una similitudine tra l'immensa nube di
fumo provocata dall'esplosione
ed un pino marittimo. “Una
nube si formava e non era chiaro
all'osservatore da quale monte
s'innalzasse (si seppe, poi, essere
il Vesuvio), il cui aspetto, fra gli
alberi, era vicino a quello del
pino. Essa, infatti, levatasi verticalmente come un altissimo tronco, s'allargava poi a guisa di
rami, probabilmente perché, sollevata grazie alla spinta di una
corrente ascendente e poi abbandonata a sé stessa per il cessare di
quella, o cedendo al suo stesso
peso, si allargava lentamente: a
tratti bianca, a tratti nera e sporca
a causa della terra e della cenere
che trasportava.” La madre di
Plinio il Giovane notando qualcosa di straordinario nel cielo
aveva avvisato il fratello, Plinio il
Vecchio, che si stava godendo
tranquillamente quella giornata
estiva.
Plinio il Vecchio si dirige sul
luogo
Plinio il Vecchio decide di recarsi
sul luogo in quanto non poteva
lasciarsi sfuggire un evento che,
già dai primi momenti, risultava
eccezionale, ascendit locum ex quo
maxime miraculum illud conspici
poterat. Invita anche il nipote ma
lui con una scusa riuta.
Allo studiosus animus dello
scienziato subentra il magnus
animus dell'eroe e del lantropo
Mentre fa preparare una imbarcazione veloce (liburna) riceve
una lettera con richiesta d'aiuto
da Rettina, moglie di Casco. Il
naturalista cambia i suoi programmi e fa uscire in mare quattro imbarcazioni per andare in
soccorso delle persone in pericolo.
Plinio raggiunge dal mare, sotto
una pioggia di fuoco, la dimora
degli amici in pericolo
L'esplosione incalza, ma Plinio
mantiene la calma, addirittura
riposando profondamente, verissimo somno. Svegliato raggiunge
gli altri qui pervigilaverant per
paura di rimanere sepolti dalle
macerie dell' abitazione, visto
che continue erano anche le scosse di terremoto.
Il sole si offusca
Plinio e gli amici si coprono il
capo con dei cuscini, come difesa
contro la caduta dei lapilli, e scendono sulla spiaggia nella vana
speranza di poter fuggire per
mare. La cenere e i lapilli offuscano la luce del sole. Plinio si sdraia
per riposarsi, ma un forte odore
di zolfo seguito da amme lo
risvegliano e mettono in fuga le
persone.
Plinio il Vecchio muore
“Sostenuto da due servi, si leva
in piedi, ma subito ricade perché,
suppongo, l'aria ispessita dalla
cenere aveva ostruita la respira-
zione e bloccata la trachea, che
egli aveva per natura delicata e
stretta e frequentemente inammata. Quando fu giorno (era il
terzo dopo quello della sua morte), il suo corpo fu ritrovato intatto ed illeso, con indosso i medesimi vestiti: l'aspetto più simile a
un uomo che dorme che a un morto”.
Raccomandazioni nali
Plinio il Giovane, dopo il resoconto della morte dello zio, esorta Tacito ad utilizzare della lettera solo gli elementi che possono
essere utili per una composizione storica.
Plinio il Giovane, Epistole VI,
20 – Una lettera per la cronaca
Tacito, ricevuta la prima lettera,
desidera conoscere gli eventi
anche dal luogo dove si trovava
Plinio il Giovane.
Plinio rimane indifferente al terremoto
Nella notte del 24 agosto la terra
trema con una violenza tale da
costringere lui e la madre ad uscire nel cortile. Plinio rimane indifferente e continua le sue letture,
“io non so se chiamarlo coraggio
o imprudenza, non avevo ancora
18 anni”
La gente scappa
All'alba un amico di famiglia consiglia a Plinio ed alla madre di
fuggire dalla città e incontrano
molte persone che scappano spaventate.
Effetti prodigiosi del cataclisma
“I veicoli che avevamo fatto predisporre perché ci seguissero,
sebbene il terreno fosse pianeggiante, andavano indietro e neppure con il sostegno di pietre
restavano al loro posto. Pareva,
inoltre, che il mare fosse riassorbito in sé stesso e quasi respinto
dal terremoto. Certamente la
spiaggia si era allargata e molti
pesci giacevano sulla sabbia. Dal
lato opposto, una nera ed orrenda nube, squarciata dal rapido
volteggiare di un vento infuocato, si apriva in lunghe lingue di
fuoco: esse erano simili a lampi,
ma ancor più estese.”
La nox inlunis
Di colpo cala una notte totale, si
sentono urla, grida e lamenti,
pensiero comune era che gli dei li
avessero dimenticati, che quella
sarebbe stata la loro ultima notte.
Sotto un sole luridus (livido), un
paesaggio completamente mutato. Pian piano il sole ritorna
mostrando una realtà radicalmente diversa “Agli sguardi
ancor tremanti tutto si mostrava
cambiato e coperto da un monte
di cenere, come se fosse nevicato”
Plinio e la madre ritornano a
Miseno attendendo con ansia
notizie dello zio
In chiusa Plinio ribadisce a
Tacito il carattere cronachistico e
privato della lettera.
a cura di Antonia Iannella
Marziale
J.W. Goethe, Viaggio in Italia
Ecco il Vesuvio,
un tempo verdeggiante
di folte vigne, un tempo produttore
d'un eccellente vino: questo è il monte
che Bacco amò più dei colli di Nysa:
su queste balze i satiri danzarono
in coro. E questa fu Pompei, città
prediletta da Venere, a lei cara
più della stessa Sparta,
e questa fu Ercolano, dedicata
al nome del grande Ercole.
Vedi, ora tutto è annerito, sommerso
dal fuoco e dalla cenere: gli Dei
si pentono di quello che hanno fatto.
Napoli, domenica 11 marzo 1787
Con la sua piccolezza e angustia di spazio, Pompei è
una sorpresa per qualunque visitatore: strade strette ma diritte e ancheggiate da marciapiedi, casette
senza nestre, stanze riceventi luce dai cortili e dai
loggiati attraverso le porte che vi si aprono; gli stessi
pubblici edici, la panchina presso la porta della
città, il tempio e una villa nelle vicinanze, simili più
a modellini e a case di bambola che a vere case. Ma
tutto, stanze, corridoi, loggiati, è dipinto nei più
vivaci colori: le pareti sono monocrome e hanno al
centro una pittura eseguita alla perfezione, oggi
però quasi sempre asportata; agli angoli e alle estremità, lievi e leggiadri arabeschi, da cui si svolgono
graziose gure di bimbi e di ninfe, mentre in altri
punti belve e animali domestici sbucano da grandi
viluppi di ori. E la desolazione che oggi si stende
su una città sepolta dapprima da una pioggia di
lapilli e di cenere, poi saccheggiata dagli scavatori,
pure attesta ancora il gusto artistico e la gioia di vivere d'un intero popolo, gusto e gioia di cui oggi nemmeno l'amatore più appassionato ha alcuna idea, né
sentimento, né bisogno. […]
Tacito, Annales
Capri godeva dinnanzi a sé del più splendido dei
panorami, prima che l'eruzione del Vesuvio mutasse l'aspetto del luogo.
Giacomo Leopardi,
la Ginestra o fiore del deserto
L'eruzione del Vesuvio e il ricordo delle città del golfo di Napoli orenti prima del 79 d.C. sono ricordati
nel grande capolavoro leopardiano, composto nel
1836 nella villa Ferrigni di Torre del Greco (davanti
all'abitazione si ergeva il Vesuvio).
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor nè ore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme […]
L'orto dei fuggiaschi
L
' Orto dei Fuggiaschi (I,
21,1), un isolato in origine
occupato da abitazioni,
poi nell' ultima fase di vita della
città destinato a vigneto, dotato
anche di un triclinio estivo con
letti in muratura, è diventato tristemente famoso per il ritrovamento di 13 vittime dell' eruzione del 79 d.C., sopraffatte mentre
cercavano di porsi in salvo dirigendosi verso Porta Nocera.
Grazie all'archeologo Fiorelli
oggi possiamo scorgere le
espressioni dei volti, le pieghe
dei vestiti, le posizioni contorte
in cui i Pompeiani furono sorpre-
si dalla furia del Vesuvio, ma
anche sagome di porte, di armadi, di radici di piante, di animali.
“ll 5 febbraio del 1863 mentre si
sgombrava un vicolo, il Fiorelli
venne avvertito dagli operai che
avevano incontrato una cavità,
in fondo alla quale si scorgevano
delle ossa. Ispirato da un tratto di
genio, ordinò che si arrestasse il
lavoro, fece stemperare del gesso, che venne versato in quella
cavità e in altre due vicine. Dopo
aver atteso che il gesso fosse
asciutto, venne tolta con precauzione la crosta di pomici e di cenere indurita. Eliminati dunque
questi involucri, vennero fuori
quattro cadaveri”. I calchi furono poi ricollocati nella posizione
in cui furono rinvenuti: si rivela
così oggi in quei corpi di adulti,
giovani e bambini, probabilmente gruppi familiari, e nei loro ultimi gesti di vita, la tragedia che si
compiva sotto la pioggia di cenere e lapillo. Dalla posizione di
alcuni calchi si può intuire che la
gran parte dei pompeiani morì
per le esalazioni di gasi nocivi
che l'eruzione disperse nell'aria.
Uomini, donne e bambini rannicchiati, con le mani a coprirsi il volto, un cane ancora legato al guinzaglio. Tutti elementi che fanno
pensare che gli antichi abitanti
non ebbero neanche il tempo di
scappare. Il Vesuvio li imprigionò per sempre nell'attività
che stavano compiendo al
momento della eruzione.
a cura di Valentino Camelio
Stru ura urbanis ca
L
a città, che si estende per
circa 66 ettari, fa perno su
due direttrici viarie principali, il decumano e il cardo, ed
era organizzata in modo tale da
mettere in comunicazione i complessi monumentali della città
con le porte e quindi con le zone
extraurbane.
In origine le strade erano realizzate direttamente sul banco tufaceo e solo alla ne del II secolo
a.C. lastricate in basalto lavico.
Con l'arrivo dei Romani furono
costruiti alti marciapiedi, che
misurano 3-4 metri, pavimentati
ad opera dei privati, e per
l'attraversamento da un marciapiedi all'altro vennero posti,
soprattutto agli incroci, al centro
della carreggiata, blocchi di pietra in basalto di forma ovale, la
sede stradale era, infatti, spesso
invasa da fanghiglia trascinata e
depositata dalle acque pluviali e
da ogni sorta di riuti, scaricate
dalle case, che lasciavano però
tra loro lo spazio necessario al
passaggio delle ruote dei carri.
In corrispondenza di tali passaggi è possibile vedere dei grossi
solchi scavati nel lastricato dalle
ruote dei carri o, molto più probabilmente, appositamente scalpellati per favorire la guida dei
carri. Alcune vie, in una parte del
loro percorso, erano vietate alla
circolazione dei carri. Il decumanus superior si snoda sull'asse estovest e corrisponde all'asse via
Marina - via dell'Abbondanza; il
cardo maximus, posto sulla direttrice nord-sud, corrisponde
all'asse via Vesuvio-via Stabiana.
La città era delimitata da una cinta muraria lunga 3km e 200m in
cui si aprono 8 porte e dodici torri: Porta Marina, Porta Ercolano,
Porta Vesuvio, Porta Capua,
Porta Nola, Porta Sarno, Porta
Nocera, Porta Stabia. A seguito
della conquista dei Romani, le
mura diventarono inutili e piuttosto che abbatterle si preferì
costruire all'esterno di esse: tuttavia ciò è visibile solo nei pressi
di porta Marina dove vennero
edicate le Terme Suburbane e la
villa imperiale; sempre esterna-
mente alla cinta muraria si trovano, nei pressi delle porte, le
necropoli e diverse ville come la
villa dei Misteri. Il luogo principale della città è rappresentato
dal foro, interdetto al trafco veicolare con veri e propri sbarramenti, intorno al quale si affacciano gli edici più importanti
della città.
con il contributo di Mattia Vellucci
I luoghi della vita pubblica
IL FORO
Posto all'incrocio degli assi principali del nucleo urbano originario, il Foro era la piazza principale della città dove si svolgevano
le principali funzioni civili, religiose e commerciali. Riservato
solo ai pedoni, in esso si elevavano monumenti e statue in onore
di illustri cittadini, di personaggi
della famiglia imperiale ed era
un importante punto di incontro
per trattare di politica e di affari.
In un primo tempo aveva probabilmente forma irregolare, ma
nel II secolo a.C. esso fu ricostruito con forma rettangolare (38m x
142m) e circondato con colonne
sui tre lati. Sul lato corto di sudest v'erano tre saloni adibiti a ufci municipali. Nell'angolo esterno v'era il Comitium, lo spazio
aperto in cui si tenevano le elezioni per le cariche municipali.
All'estremità meridionale del
lato lungo del Foro v'era la
Basilica. Di fronte al lato settentrionale della Basilica è il Tempio
di Apollo, l'edicio religioso più
importante della città, di origini
molto antiche. In un piccolo
ridotto, ricavato all'interno del
muro di cinta del Tempio di
Al centro del lato settentrionale
della piazza c'è il Tempio di
Giove, originariamente forse
dedicato al solo Giove, dopo l'80
a.C. vi si venerarono anche
Giunone e Minerva. Esso divenne così il Capitolium della città, il
centro del culto della triade capitolina, simbolo del potere di
Roma. Al centro del lato ovest
sorge una tribuna per oratori.
con il contributo di
Domenico Pontecorvo
Apollo e aperto sul foro, c'era la
mensa ponderaria, dove venivano
conservati gli strumenti necessari a garantire la correttezza degli
scambi e soprattutto a convertire
le diverse unità di misura dei
commercianti provenienti da
diversi paesi dell'impero nelle
unità di misura valide a Pompei
(dapprima calibrate sul sistema
metrico locale di tipo osco, più
tardi uniformato a quello attuato
da Augusto).
Le operazioni venivano svolte
alla presenza di magistrati per
evitare abusi e truffe.
LA BASILICA
La basilica (in greco “la casa del
re”), edicio adibito alla amministrazione della giustizia e alle
contrattazioni economiche, era il
principale luogo d'incontro cittadino come testimoniano le numerose iscrizioni grafte ritrovate
sulle sue pareti, una delle quali
recita: “Mi meraviglio, o parete,
che tu non sia ancora crollata sotto il peso delle scempiaggini di
tanti scribacchini”. Situata sul
lato orientale del foro (VIII) e
costruita tra il 130 e il 120 a. C, era
uno degli edici pubblici più
grandi e monumentali della città.
Questo edicio, formato da una
lunga costruzione rettangolare,
come un tempio greco "rovesciato", cioè con colonnati interni
anziché esterni, può essere considerato il progenitore dell'omonimo edicio cristiano adibito a
luogo di culto.
L'intera basilica, sormontata da
una copertura a doppio spiovente, presentava tre ingressi: un
ingresso principale, caratterizzato da cinque porte, divise da pilastri in tufo e due ingressi secondari. Cinque gradini consentivano l'ingresso alla basilica vera e
propria. L'interno della Basilica
consisteva in una grande sala
suddivisa in tre navate: la navata
centrale è circondata da ventotto
colonne mentre le due laterali
hanno colonne semicircolari con
capitelli ionici poste lungo le
pareti perimetrali.
La navata centrale, più alta e più
larga, era destinata allo svolgimento dei procedimenti giudiziari, presieduti dai magistrati,
che prendevano posto sul podio
di legno o in muratura (tribunal).
Al di sopra delle navate laterali si
trovavano altre due gallerie
colonnate, da dove il pubblico
poteva affacciarsi sulla navata
centrale per assistere alle cause.
a cura di Mattia Lisciani
Le iscrizioni murali: mezzo di comunicazione sociale e fonte storica
S
ui muri di moltissimi edici sono stati ritrovati, perfettamente conservati sotto
la colata di ceneri e lapilli che ha
cristallizzato la città, numerosi
iscrizioni di carattere pubblico e
privato che hanno fornito informazioni importantissime per la
ricostruzione della vita dei
Pompeiani
Le iscrizioni, dipinte o grafte
sui muri o stilate su tavolette
cosparse di cera, opera di scriptores appartenenti a diversi ceti
sociali sono programmi e/o propagande elettorali, conti degli
osti, pensieri di innamorati, ma
anche minacce, acclamazioni di
tifosi, etc.
Le iscrizioni sono riportate in
una lingua, generalmente osca,
greca o latina, semplice e di uso
comune, poiché scritte principalmente da persone di basso ceto
che volevano che il messaggio
fosse facilmente compreso da tutti. La più antica forma scrittura
ritrovata all'interno di queste
iscrizioni è la “capitale maiuscola”, da essa derivano poi due
generi:
Ÿ Uno dritto, elegante e più formale che trova largo uso nei
libri
Ÿ Uno corsivo, di più semplice
esecuzione, per gli usi comuni.
LE EPIGRAFI (scrivo sopra) sono iscrizioni su oggetti di pietra o di bronzo, su monete e gemme.
M(arco) Claudio C(ai) F(ilio) Marcello Patrono
A Marco Claudio Marcello ,glio di Gaio, patrono
Si tratta di un'epigrafe in onore di un personaggio della famiglia imperiale, nipote di augusto, Marco Claudio
Marcello, il protettore della città.
A Pompei troviamo molte epigra come questa dedicate a sacerdoti, persino a divinità:
N (umerius) Popidius Florus Ven(eri), Lib(ero), Herc(uli)
Numerio Popidio Floro a Venere, a Libero, a Ercole
Come nella prima epigrafe i destinatari sono espressi con il caso dativo così come gli attributi. Nella prima
scritta in particolare troviamo il caso genitivo 'Cai' che esprime il nome del padre molto importante, sia per
evitare le omonime sia per esprimere il dovuto rispetto, pietas, del glio nei confronti del padre.
La seconda epigrafe dimostra l'importanza che la dea Venere aveva a Pompei. Nell'89 a. c., scesa in lotta contro Roma per la propria indipendenza (dato che si trovava nella condizione di “socia”), Pompei fu costretta
alla resa militare dall'esercito di Lucio Cornelio Silla che, appartenente alla Gens Cornelia, venerava particolarmente la dea Venere. Ella da quel momento divenne la dea protettrice della città.
Un'altra epigrafe molto importante è quella ritrovata sull'edicio della ricca Eumachia: importantissima donna di Pompei ai tempi di Tiberio e Claudio, presidentessa della corporazione dei fullones, i lavandai. A sue spese fece costruire il più importante palazzo della città, sulla piazza del Foro: il “palazzo della lana”.
Eumachia L(uci) F(lilia) Publ(ica), nomine suo ed M(arci) Numistri Frontonis Fili,
Chalcidicum, Cryptam, Porticus, Concordiae Augustae Pietati
Sua pequnia fecit, aedemque dedicavit
Eumachia glia di Lucio, sacerdotessa pubblica, a nome suo e del glio Marco Numistrio Frontone,
costruì a sue spese il loggiato, la galleria coperta e i portici;
ella stessa li dedicò alla Concordia e alla Pietas Augusta
Altre epigra, invece, risalgono al periodo di Marzo: era proprio quello il mese in cui si rinnovano annualmente le cariche e iniziava la propaganda elettorale. Le epigra che vi appartengono si possono trovare in
maggiore quantità lungo la via dell'Abbondanza.
Un esempio:
C(aium) Cuspium Pansam aed(ilem) aurifaces universi rog(ant)
La corporazione degli oreci chiede C. Cuspio Pansa come edile
I sostenitori, autori di molti epigra come questa, facevano la propaganda per i canditati (chiamati cosi perché indossavano una toga candida). I padroni però molto spesso non apprezzavano questo genere di scritture
sulle mura delle proprie case, quest'epigrafe ce lo dimostra:
Quiquis hic ulla scripserit, tabescat, neque nominetur
Chiunque qui ha scritto alcunché, crepi, e non sia eletto
Lo scriptor Emilio Celere, invece, in quest'altra iscrizione ci fa comprendere che molto spesso i sostenitori dei
candidati avversari cancellavano le richieste di voto:
L(ucium) Statium Receptum (duo) vir(um) i(ure) d(icundo) o(ro) v(os) f(aciatis)
vicini: dig(nus). Scr(ipsit) Aemilius Celer vic (inus). Invidiose qui deles, aegrotes
Abitanti del quartiere, vi chiedo di eleggere L. Stazio Recetto come duoviro per l'amministrazione della giustizia: è persona degna. L'ha scritto l'abitante del quartiere Emilio Celere. Invidioso che cancelli, che tu possa
ammalarti!
Altre epigra erano frasi d'amore:
Marcus Spendusam amat - Marco ama Spendusa
Quisquis amat valeat pereat qui nescit amare bis tanto pereat quisquis amare vetat
Chi ama goda di buona salute; muoia chi non sa amare; muoia due volte chi impedisce d'amare
Altre ancora erano poste fuori le osterie.
Bonus deus hic habitat in domo
Un buon dio abita qui nella casa (il dio è l'onesto oste a cui apparteneva l'osteria)
Talia te fallant utinam me(n)dacia copo tu ve(n)des acuam et bibes ipse merum*
Vorrei che tali inganni ti si ritorcessero contro, oste: tu vendi acqua ma bevi vino schietto
*Un po' sgrammaticata questa epigrafe che presenta vendes invece di vendis, acuam invece di aquam.
a cura di Chiara Mernini
La vita religiosa
Un ruolo molto importante nella
società pompeiana erano i culti
alle divinità. Essi erano divisi in
culti pubblici e privati e molto diffuse erano anche le superstizioni
e la magia. Il principale culto era
dedicato alla triade capitolina,
Giove, Minerva e Giunone, nel
Capitolium, il più importante luogo religioso, culto che aveva
anche una forte valenza politica,
essendo imposto da Roma alle città che entravano in suo possesso.
Giove era venerato come divinità
suprema del Pantheon. Per
Minerva era stato costruito un
tempio in prossimità del Foro
Triangolare col nome di Tempio
Dorico. Apollo aveva invece ricevuto un culto ininterrotto infatti
il suo santuario era il più antico
della città. Il culto attribuito a
Venere risale alla nascita della
colonia romana, essendo la divinità protettrice di Silla.
Protettrice di Pompei è rafgurata in numerose pitture, sia nelle
case che lungo le strade.Nettuno
era venerato in un santuario
posto vicino al porto. Mercurio,
protettore dei commerci, veniva
rafgurato, come Venere, sui
muri delle botteghe come buono
auspicio per i commercianti. Una
divinità molto importante era
Bacco molto venerato dai pompeiani, poiché la viticoltura era
una delle principali risorse economiche del tempo; a lui era dedicato un tempio nella località di
Sant'Antonio. Molto diffusi erano anche i culti privati: il pater
familias per tradizione doveva
recitare, con il capo velato, le formule per il culto domestico. I
principali culti erano quelli dei
Lari e dei Penati, i primi in origine erano gli spiriti degli antenati
in seguito divenuti dei numi tutelari del focolare, i secondi, inve-
ce, erano i custodi del buon proseguimento della vita nella casa.
A differenza dei Lari, le cui immagini erano conservate nei larari,
posti generalmente nell'atrio della casa, i Penati non venivano rafgurati. Nell'atrio delle case
patrizie erano esposte anche le
immagini degli antenati (imagines maiorum) che venivano esibite in pubblico durante particolari
cerimonie. Oggetto di culto era
anche il Genius della casa, ovvero
la forza vitale della casa, che veniva rappresentato sotto forma di
un serpente dotato di energia
positiva. I pompeiani erano
anche molto superstiziosi (superstizione da super statuo, ciò
che va al di là di quanto stabilito)
e praticavano la magia specialmente gli strati popolari della
società. Tra gli incantesimi diffusi erano quello dell'amore anche
se, secondo le dodici tavole, il più
antico codice romano, erano proibiti. Per proteggersi dalla malia
sulla porta d'ingresso di molte
case e botteghe e per le strade
venivano posti dei falli, simboli
in grado di contrastare le forze
negative.
LUOGHI URBANI DEL
CULTO
Il tempio, dedicato al culto della
divinità, costituisce uno dei più
importanti edici del mondo classico. Concepito inizialmente
come riparo per la statua del dio,
collocata nella cella in cui solo il
sacerdote poteva entrare, ha una
struttura che richiama la tipologia della casa: portico, cella.
Il culto veniva svolto sull'altare
posto davanti al tempio e
all'interno di un recinto; al suo
interno si potevano trovare luoghi come i “tesori”, ovvero una
sala che conteneva tutti i doni
offerti dai cittadini, sale per banchetti e portici.
IL TEMPIO DI APOLLO
Il tempio di Apollo è un luogo di
culto di origine greca, il più
importante e più antico della città. Il santuario mescola elementi
italici (alto podio con scala
d'accesso sulla fronte) e greci (colonnato intorno alla cella).
Apollo è rafgurato, su una base
eretta dinanzi al colonnato, nel
gesto di tirare con l'arco, come si
intuisce dalla posizione della
mani.
Sul lato opposto è posto, invece,
il busto di Diana, sorella di
Apollo. Ad ovest di una scalinata
in laterizio che sale al tempio era
posta una meridiana, da collegare con il carattere solare di
Apollo.
IL TEMPIO DEL GENIO DI
VESPASIANO
Il tempio di Vespasiano si trova a
est del Foro tra il Santuario dei
Lari Pubblici e l'Edicio di
Eumachia. La sua planimetria
risulta un po' schiacciata;
all'interno si trova un altare in
marmo lunense abbellito con bassorilievi e sulla parete in fondo si
trova un tempietto costituito da
quattro colonne dove è presente
una cella in laterizio posta su un
podio.
IL TEMPIO DI GIOVE
Il tempio di Giove risale al II sec.
a.C. e si trova a nord della piazza.
Si erge su un podio quadrangolare sulla cui facciata presenta sei
colonne, l'ampia cella è divisa in
tre navate dove sul fondo erano
collocate le statue per il culto tra
le quali ci resta solo la testa di
Giove esposta al museo
Nazionale di Napoli. Acquisì
notevole importanza quando
divenne trasformato in
Capitolium e dedicata alla “Triade Capitolina”
IL TEMPIO DELLA
FORTUNA AUGUSTA
Il tempio della Fortuna Augusta,
detto anche della Fortuna Redux,
fu costruito solo per scopo politico. L' edicio è di piccole dimensioni, nella cella si trova la statua
della Fortuna e nelle nicchie laterali quelle della famiglia imperiale. Si raggiungeva attraverso
una scalinata sulla cui metà è presente un altare per le funzioni
pubbliche.
IL TEMPIO DI ISIDE
Il tempio di Iside, testimonianza
della diffusione del culto egizio,
erge nella zona dei teatri. Grazie
ad una gradinata si raggiunge
una cella le cui pareti sono rivestite da stucchi e in fondo erano
poste due statue di Osiride e di
Iside; il pavimento è a mosaico,
inoltre è presente il purgatorium,
una stanza dedicata alla puricazione dove era conservata
l'acqua del Nilo; come tutti gli
altri templi subì diverse modiche nel corso del tempo specialmente dopo il terremoto del 62
d.C. , ma grazie ad un ricco liberto venne ricostruito a nome del
glio di sei anni per assicurargli
ciò che a lui era stata negato, l'
ingresso nella vita politica.
a cura di Ludovica Lanzetta
Vita quo diana e commercio a Pompei
G
li scavi archeologici di
Pompei rappresentano
una fonte eccezionale
per conoscere la vita quotidiana
dei pompeiani, infatti gli storici
hanno ricostruito la giornata tipo
dei pompeiani. Una vita fatta di
gesti semplici e spesso ripetitivi.
Hora prima diurna (4.27-5.42)
L'assenza di energia elettrica
costringeva gli uomini a seguire i
ritmi del sole. L'acqua corrente
era un lusso di pochi, quindi i cittadini comuni dovevano andare
a prenderla alle fontane pubbliche e la usavano con molta parsimonia. Per lavarsi in maniera
accurata recavano alle terme. La
colazione era solitamente a base
di pane e formaggio, eventualmente con verdure o gli avanzi
del giorno prima.
Hora secunda (5.42-6.58)
Le botteghe erano tutte aperte, le
bancarelle bene esposte, i cantieri al lavoro, i contadini ormai tutti nei campi e così via
Hora quarta (8.13-9.29)
Le vie brulicavano di persone, il
mercato era in piena attività. Al
foro si passeggiava e si tenevano
manifestazioni.
Hora septima (12.00-13.15)
I pompeiani facevano una pausa
con uno spuntino, prandium, spesso nei termopolia o in locali attrezzati per l'alimentazione veloce,
dove consumavano focacce, olive, pesce, salsicce, frutta. Se qualche ricco pompeiano, desideroso
di fare carriera nel campo politico, offriva uno spettacolo di gladiatori si poteva fare un salto
all'anteatro.
Hora octava (13.15-14.30)
Al termine dei negotia della giornata, i pompeiani si concedevano una pausa alle terme, sicuramente molto economiche dal
momento che anche gli schiavi
potevano permettersele. Oltre al
consueto bagno caldo e freddo,
nelle terme era possibile anche
fare esercizi ginnici.
Hora decima (15.46-17.20)
Poco prima del tramonto i romani concludevano la giornata con
il vero e proprio pranzo, cena.
Esso consisteva in un antipasto e
un piatto principale, a base generalmente di carne o pesce. A tavola generalmente si mangiava con
le mani, ma sono stati ritrovati
cucchiai e coltelli. Non si sono
invece rinvenute forchette. Gli
svaghi erano pochi e quindi i
pompeiani preferivano rimanere
a casa con le proprie famiglie.
a cura di Valeria Fedele
La domus pompeiana
N
ella domus abitavano i
patrizi e in generale i
benestanti. Era una combinazione tra l'antica domus italica e la casa greca, che di solito si
estendeva su un unico piano.
Attraverso la porta principale
che immetteva sul vestibulum, il
quale segnava lo spazio tra la strada e la porta, ianua, che si apre sulla facciata chiamata fauces, si accedeva all'atrium (da ater, nero), il
centro della vita di tutta la famiglia dove si consumavano i pasti
e si veneravano gli dei. In seguito
il focolare, che anneriva le pareti
della stanza, venne spostato nella cucina. Il centro dell'atrio era
coperto da una tettoia spiovente
verso l'interno a cui corrispondeva sempre una vasca rettangolare, l'impluvium, in cui veniva raccolta l'acqua piovana che poi scorreva attraverso piccoli fori in
grandi cisterne sotterranee dove
veniva conservata come riserva
per la casa. Dall'atrio si accedeva
alle altre stanze tra cui i cubicula,
cioè le camere da letto, alcune
destinate a camere d'inverno e
altre a camere d'estate; le alae di
uso incerto; le latrinae solitamente piccole composte di un tepidarium, cioè sala tiepida, e un calidarium, cioè sala calda in cui la
vasca è per una sola persona;
l'oculus triclinare in cui erano presenti tre letti tricliniari disposti a
U ciascuno dei quali ospitava tre
commensali, poichè era diffusa
l'usanza greca di sdraiarsi per
mangiare.
Dalla parte opposta dell'atrio
c'era il tablinum, in cui il padrone
di casa teneva incontri d'affari,
che a sua volta si affacciava sul
perystilium, un cortile spazioso,
circondato da un porticato a
colonne, con al centro una fontana e, di solito, un'aiuola, viridarium. Intorno al peristilio si svilupparono successivamente
ambienti di soggiorno e di ricevi-
mento, e anche tutti gli ambienti
adibiti a cucine e bagni vennero
spostati vicino al peristilio,
facendolo diventare il nuovo centro della vita familiare e riducendo l'atrio alla sola funzione di
apertura per l'illuminazione e
l'areazione. Il mobilio delle
domus è ridotto al minimo indispensabile dal momento che le
pareti sono abbondantemente
decorate: c'erano letti, candelabri
e lampade, vasellame d'argento,
tavoli e bracieri, in cui veniva conservata la cenere. La maggior parte delle case Pompeiane non ha il
primo piano, ma l'incremento
demograco ne rese necessaria
la costruzione al di sopra del
pianterreno, che diventa così
meno elevato.
Tra le domus pompeiane ricordiamo:
la Casa del Chirurgo (VI)
così chiamata per il rinvenimento in essa di quaranta strumenti
chirurgici in bronzo e ferro
la Casa di Casca Longus (I)
nota anche come “Casa dei
Quadretti teatrali”, per i soggetti
rafgurati negli affreschi
dell'atrio e ispirati alle opere di
Euripide e di Menandro, la casa
deve la sua fama e la sua denominazione più ricorrente al rinvenimento di tre sostegni marmorei a
zampa leonina, destinati alla
mensa che solitamente decorava
un lato dell'impluvium. I sostegni
recano inciso sulla sommità piana il nome del loro proprietario,
P. Casca Long(us), identicato con
il personaggio che avrebbe per
primo colpito a morte Cesare nel
44 a.C. I suoi beni vennero conscati e, tramite alcune vendite
pubbliche, attraverso successivi
passaggi di proprietà, giunsero
tra gli arredi del ricco proprietario di questa casa, attento collezionista di oggetti di pregio.
la Casa del Fauno (VI)
deve il suo nome alla statuetta in
bronzo di un fauno danzante
posto ad ornamento della vasca
dell'impluvium, è una delle case
più ricche e famose dell'intera
Pompei con una porzione destinata ai proprietari e una destinata alla servitù. Sui giardini si
affacciavano le stanze di rappresentanza, tutte riccamente affrescate. Il pavimento dell'ambiente
rappresentava, con circa 2 milioni di tasselli policromi, La vittoria
di Alessandro Magno contro Dario,
(probabilmente la battaglia di
Isso), mosaico attualmente conservato al Museo Archeologico
di Napoli.
La Casa del Menandro (I)
prende il nome da un affresco
che ritrae il poeta Menandro e si
estende su circa 2000 mq. In questa abitazione sono stati ritrovati
ben 118 oggetti in argento appartenenti ad un servizio da tavola.
Di grande pregio è il trittico di
affreschi con soggetto la guerra
di Troia: la morte di Laocoonte;
Cassandra che resiste ad Ulisse;
Cassandra che cerca di convincere i troiani a non portare in città il
cavallo abbandonato dagli achei.
La casa unifamiliare di tipo pompeiano era prerogativa delle famiglie ricche; il popolo e la piccola
borghesia a Roma abitava, come
ci hanno rivelato gli scavi ostiensi, nelle insulae, grandi caseggiati urbani che nacquero nell'Urbe
per costruire tanto in poco spazio. Sfruttavano, infatti, lo spazio
in verticale raggiungendo no ai
sei piani che si affacciavano
attraverso nestre e balconi sulle
vie circostanti o su cortiletti
interni, illuminati quindi non
dall'alto ma dall'esterno. Le insulae erano costituite dai cenacula,
composti da ambienti privi di
una funzione prestabilita. Al piano terra si trovavano negozi
oppure osterie, mentre dal primo
piano in poi c'erano gli appartamenti. Generalmente, le persone
più ricche abitavano al primo pia-
no, mentre i più poveri agli ultimi dove mancava un accesso
diretto all'acqua. L'arredamento
delle insulae era molto semplice:
c'erano delle cassapanche che
contenevano vestiti e oggetti, piccoli letti incassati nei muri, un
tavolo e talvolta degli armadi. Il
poeta satirico Giovenale rappresenta efcacemente quella che
doveva essere la vita precaria in
un'insula. “Nella gelida Preneste,
fra i colli e i boschi di Bolsena, nella tranquilla Gabi o nella rocca
sui pendii di Tivoli chi teme o ha
mai temuto crolli? Ma noi viviamo a Roma, una città che in gran
parte si regge su puntelli fatiscenti; così infatti l'amministratore rimedia ai guasti e, tappata
la fenditura di una vecchia crepa,
invita tutti a dormire tranquilli
sotto la minaccia di un crollo.
Meglio vivere dove non scoppiano incendi e non si temono allarmi la notte. 'Acqua, acqua!' supplica Ucalegonte portando in sal-
vo i suoi stracci: sotto di te il terzo
piano è in amme e tu l'ignori; se
giù in basso il terrore dilaga, chi
non ha che le tegole per ripararsi
dalla pioggia, lassù dove le languide colombe depongono le
uova, brucerà per ultimo, non c'è
dubbio, ma brucerà.” (Satira III,
190-202)
a cura di Claudia Di Ciaccio
“BENVENUTO GUADAGNO”
questo è uno dei motti rinvenuti
sui muri della città. Pompei era
una città molto attiva ed economicamente orida come testimoniato dall'abbondanza di botteghe e taverne.
Ogni otto giorni si teneva il mercato; il commercio era concentrato nel quartiere che circondava il
foro ma in seguito l'area commerciale si estese in direzione della
via dell'Abbondanza.
L'attività principale dei commercianti di Pompei consisteva nella
vendita di prodotti agricoli. La
maggior parte dei prodotti consumati nelle locande veniva prodotta dalle regioni che circondavano Pompei che fornivano grandi quantità di olio, vino, frutta,
verdura e cereali. Ulteriore attività commerciali era quella della
lavorazione della lana, della fabbricazione del pane.
Molto praticata era la pesca come
ad Ercolano dove sono stati trovati numerosi attrezzi per la
pesca. Con il pesce veniva prodotto il famoso garum, salsa ottenuta dalla salamoia di alcune
varietà di pesce.
a cura di Valeria Fedele
IL THERMOPOLIUM
Il thermopolium (al plurale" thermopolia") era un frequentato luogo di ristoro dove, fuori casa, si
poteva comodamente e velocemente pranzare con bevande e
cibi caldi. Era formata da un grande locale aperto sulla strada con
all'interno un bancone, ricoperto generalmente da lastre di marmo o di terracotta, dove erano
situate le "dalia", dei recipienti
incassati nel bancone che avevano la funzione di contenere le
vivande. In alcuni casi potevano
essere presenti anche degli
ambienti retrostanti con posti a
sedere per permettere ai clienti
di consumare il proprio prandium (pranzo). All'interno di questi "fast food" antichi era possibile mangiare numerosi tipici piatti pompeiani, sempre accompagnati dall'immancabile buon
vino addolcito con del miele.
Le pietanze erano generalmente
ortaggi, conservati in salamoia o
in aceto, frutta, che veniva fatta
essiccare e successivamente veniva posta nel miele. Anche la carne e il pesce erano molto amati.
In particolare quest'ultimo veniva utilizzato per la realizzazione
di un condimento molto apprezzato dagli abitanti di Pompei, che
prende il nome di garum (dal greco gàron, specie di pesce usato
dagli orientali per questa salsa).
Veniva prodotto utilizzando le
interiora di sardine mescolate
con pezzi di pesce sminuzzati e
uova di gallina; successivamente
il tutto veniva pestato e lasciato
al sole. Dopo la fermentazione di
circa sei settimane, il prodotto
ottenuto (liquamen) veniva inserito in un cesto con il fondo forato, in questo modo il condimento
colava e vi rimaneva allo stesso
tempo un residuo chiamato hallec.
Il tutto poteva essere seguito dal
pane, l'alimento principale dei
poveri, che veniva sfornato dai
panettieri nei panici in grandissime quantità: ne venivano prodotti di 10 tipi, persino per i cani!
Tra gli 89 thermopolia presenti a
Pompei, quello di Lucio Vetuzio
Placido è noto per le decorazioni
del larario, piccola cappella
domestica dedicata al culto dei
lari, che vede, oltre alla presenza
dei lari, anche quella di
Mercurio, il dio del commercio, e
di Dioniso, il dio del vino.
a cura di Eleonora Cardi
IL PANIFICIO
L'importanza dei prodotti a base
di farina è testimoniata dal ritrovamento di ben 35 panici. La
numerosa presenza di forni
lascia intendere che la panicazione era una delle attività più orenti della città di Pompei che
contava una popolazione stimabile tra le 8 e le 12 mila unità.. La
struttura dei panici non è cambiata di molto nei secoli ntanto
che si è usata la legna come combustibile. Gli impianti più grandi, circa 23, erano quasi sempre
provvisti di macine, una stalla,
dove erano tenuti gli animali da
lavoro utili sia per muovere le
macine sia per trasportare la merce, e un quartiere abitativo, ma
senza bottega per la vendita
diretta.
Di grande importanza erano le
macine realizzate con pietra lavica, dura e porosa, che non contaminava la farina con frammenti
pericolosi per i molari. Le macine
si componevano di due pezzi,
quello superiore a forma di clessidra (catillus) e quello inferiore a
forma di cono (meta), realizzati in
duro materiale vulcanico, riduceva i chicchi in farina. Alla parte
superiore venivano ssati dei
bracci in legno fatti girare dagli
schiavi con l'ausilio di asini o
muli, che imprimevano loro un
movimento rotatorio in grado di
triturare il grano. I chicchi di grano intrappolati tra le due pietre
venivano frantumati rilasciando
la farina che cadeva su una lastra
di piombo poggiata sulla base circolare a cui la macina era ssata.
Seguiva la setacciatura regolata a
seconda del tipo di clientela da
servire. Veniva utilizzato un retino più stretto per la farina rafnata destinata ad una clientela
facoltosa e retini sempre più larghi per la farina "integrale",
all'epoca destinata alla plebe e ai
poveri. Il tutto veniva poi impa-
stato con acqua e distribuito su
assi speciali dove gli si dava la forma richiesta e si infornava.
Il più pregiato era il un pane bianco prodotto con farine superiori,
una pagnotta circolare, sulla quale erano tracciate le linee per dividerla facilmente in otto parti.
C'era poi il pane delle feste, impastato con ortaggi, canditi, miele,
olio e vino e il pane farcito con lardo. Molto popolari erano anche
le focacce condite con olio e
rosmarino e/o con olio e olive.
Per le classi popolari era prodotto un pane più scuro, dalla forma
allungata, ottenuto con farina
setacciata di orzo e farro o con
sola farina integrale. Tra le tipologie più diffuse anche il pane
biscottato che prevedeva la cottura seguita da un'"asciugatura"
in forno caldo. Alcuni tipi di
pane erano decorati con anice,
semi di papavero, di sesamo e
altre essenze ssate sulla crosta
con bianco d'uovo. Forse che solo
in epoca tardo-repubblicana si
cominciò ad usare il lievito, ottenuto mescolando miglio o crusca
a farina acida. I forni a legna erano realizzati in mattoni (opus latericium), mentre il pavimento dei
panici era fatto di lastre di lava
basaltica, lo stesso materiale utilizzato per la pavimentazione
delle strade, ciò per facilitare
l'andamento degli animali o
degli schiavi che spingevano le
macine legati alle travi lignee.
Sulla parete esterna del forno del
panico N. Popidius Priscus
(VII,2,22) è stata rinvenuta una
lastra in travertino con un fallo in
rilievo recante la scritta “hic habitat felicitas”, ora nel Gabinetto
segreto del Museo Nazionale di
Napoli. La scritta, dal chiaro valore apotropaico, collegava la produzione del pane alla forza generatrice della natura. Di straordinario interesse sono gli 81 pani
carbonizzati rinvenuti nella bottega di Modestus. Essi hanno qua-
si tutti una forma circolare ad
otto spicchi, un diametro di circa
20 cm ed un peso medio di circa
580g.
a cura di Laura Mihalcea
LA LAVANDERIA
A Pompei sono state ritrovate 18
fulloniche, lavanderie per tingere
o lavare i panni, le più famose,
che si trovavano su due degli assi
viari principali, via della
Abbondanza e via Stabiana, sono
quella di Stephanus e quella di
Veranius Hypsaeus. La fullonica
di Stephanus, al cui ingresso sono
visibili i resti del torchio utilizzato per la stiratura dei panni, aveva piani: il piano terra dove aveva luogo la lavorazione dei tessuti e il piano superiore dove
avveniva l'asciugatura.
Le fulloniche erano dotate di
grandi vasche, oltre
all'impluvium, dove veniva raccolta l'acqua per il lavaggio,
c'erano altre vasche comunicanti
e cinque bacini che servivano per
il risciacquo degli indumenti e
dell'eventuale tinta.
Le stoffe da trattare venivano
pigiate con i piedi in recipienti
pieni d'acqua e di soda o di urina
animale, utilizzata come ottimo
sgrassatore. L'urina più pregiata
era quella del cammello, ma era
molto difcile e costosa da reperire e perciò si decise di utilizzare
quella umana, essa veniva raccolta in anfore situate agli angoli
delle strade dove i passanti potevano liberamente riempirle.
L'imperatore Vespasiano decise
allora di mettere una tassa per
occupazione di suolo pubblico
fatta dai fulloni e alle voci di protesta dei senatori mise loro sotto
il naso una borsa piena di denaro
dimostrando loro che Pecunia
non olet. Una volta trattati con
l'orina i tessuti venivano lavati
con l'argilla (spesso le terre utilizzate provenivano dall'isola di
Ponza e dalle isole Cicladi) per
renderli morbidi. A questo punto era effettuata la garzatura: con
l'aiuto del cardo del lanaiolo o
degli aculei di porcospino inseriti in un utensile di metallo, il tessuto veniva steso e poi pettinato
a lungo per ordinare i peli della
lana e consentire una rasatura
uniforme. La fase successiva del
lungo processo di lavorazione
prevedeva la solforatura: la stoffa veniva stesa su una sorta di
gabbia di legno (vimea cavea) e sottoposta a vapori di zolfo che esaltavano la luminosità dei colori
del tessuto, soprattutto se bianco. Successivamente i tessuti
venivano lavati e asciugati e
attraverso delle presse in pietra
venivano stirati. L'importanza di
tale attività nella vita economica
di Pompei è dimostrata dalla collocazione al centro del foro dell'
edicio di Eumachia, la più grandiosa costruzione del foro dopo
la basilica, sede per la contrattazione all'ingrosso della lana e
sede della corporazione dei fullones. A destra dell'ingresso era
murata una giara, in cui si orinava salendo su una scaletta.
La sacerdotessa Eumachia,
patrona dei lavandai, in età tiberiana (14-37 d.C.), fece erigere
questo edicio dedicandolo alla
Concordia Augusta e alla Pietà,
personicazione dell'unione di
intenti tra l'imperatore Tiberio e
sua madre Livia, già moglie di
Augusto.
LE TINTORIE
La colorazione dei tessuti era
un'ulteriore fase della lavorazione delle stoffe; gli infectore tingevano i tessuti grezzi o ridavano
colore ai vestiti usati. Nelle tintorie di Pompei sono stati trovati i
resti di vari coloranti: dal kermes, estratto dalle uova dal
Coccus Iilicis (un insetto) si otteneva il rosso, dalla malva il colore azzurro, dalla reseda, dalla curcuma e dalla ginestra il giallo, dal-
la noce di Galla si ricavavano i
bruni e i neri. La bra tessile più
usata oltre al cotone, il lino e alla
canapa era la lana.
a cura di Anna Elisa Fantasia
MACELLUM
Il macellum (VII 9, 7-8) era il mercato generale delle carni e dei
pesci, ma si potevano trovare
anche cibi preconfezionati e frutta esotica che al tempo erano
poco reperibili.
Costruito intorno al II-III secolo
a.C., all'estremità settentrionale
del foro e ristrutturato due volte,
era formato da un grande cortile
rettangolare, circondato da un
imponente colonnato, con al centro una tholos, un padiglione a
copertura conica con al centro
una fontana. Dentro il vasto spazio a base quadrangolare sono
racchiuse 11 stanze e sulle pareti
esterne si estendono due le di
tabernae non accessibili
dall'interno, queste sono costruite
in modo obliquo
e in ordine decrescente per dare
una sensazione
di parallelismo
con il foro. Le
tabernae situate
nelle zone meno
soleggiate erano
utilizzate per la
vendita dei cibi;
nella tholos veni-
va venduto il pesce, mentre sul
lato settentrionale e meridionale
c'erano tabernae a due piani con
un magazzino. L'ambiente nella
parte sinistra, invece, era usato
come luogo di banchetto per
l'imperatore o come luogo di culto per i sacerdoti. I muri perimetrali sono in opera reticolata e
sono sorretti da pilastri in laterizio, nella facciata possiamo ancora vedere tre colonne di ordine
corinzio e nella parte bassa dei
podi dove venivano poggiate le
statue, purtroppo però del cortile
esterno non ci rimane nulla. Su
tutte le pareti c'erano degli affreschi di quarto stile (illusionismo
prospettico/architetture improbabili, bidimensionali e puramente decorative), che rafguravano anche nature morte dei cibi
venduti nel macellum; altri elementi decorativi sono statue e
vani. Oggi nell'edicio sono presenti due calchi umani.
a cura di Rosa Vitale
I piaceri e il diver mento
LE TERME
L'importanza che rivestivano gli edici termali nel mondo italico e romano appare particolarmente evidente a Pompei, dove si trovavano ben quattro impianti termali pubblici all'interno della città (terme Stabiane (il
più antico impianto termale della città), terme del Foro, terme del Sarno e terme
Centrali, queste ultime ancora in fase di
costruzione al tempo dell'eruzione del
Vesuvio del 79 d. C) ed uno poco fuori le
mura, le terme Suburbane, oltre ad impianti
privati. I Romani si lavavano tutti i giorni le
braccia e le gambe, dopo il lavoro ma solo
ogni nove giorni facevano un bagno completo. Solo pochissimi avevano la possibilità di avere bagni privati nelle proprie abitazioni; è con la necessità di fare un bagno caldo tutti i giorni che sorsero i primi impianti
termali pubblici.
L'edicio termale
Il bagno si divide, secondo il costume abituale, in bagno per gli uomini e per le donne. L'articolazione degli ambienti termali si
ripete secondo uno schema più o
meno consueto: la sequenza
comincia con lo spogliatoio, di
pianta rettangolare dove sono
situate delle panchine.
All'altezza della testa, lungo le
pareti, vi erano alcune nicchie
quadrangolari, con funzione di
armadietto, usati per deporre le
vesti. Talvolta lo spogliatoio è
munito anche di una vasca.
All'interno le terme si dividevano in quattro stanze: il frigidarium, il tepidarium, il calidarium e
il laconicum. Il frigidarium è la stanza per il bagno freddo con vasca
o circolare o rettangolare, munita
di due o tre gradini che servivano per scendere nella vasca o per
sedersi. Dal frigidarium si passa,
attraverso il tepidarium, una stanza per così dire di passaggio, con
una o più vasche di acqua tiepida, necessaria per preparare il
corpo all'acqua calda, al calidarium, cioè la stanza per il bagno
caldo. L'ambiente ha una forma
tale da consentire solo una minima dispersione del calore, il calore era talmente forte da rendere
necessario l'uso di appositi zoccoli di legno per evitare scottature. Il vano è a pianta circolare,
con copertura a cupola. Lateralmente sono situate una o due
vasche con acqua calda, mentre
un sistema complesso di riscaldamento portava la temperatura
a raggiungere anche i 40 gradi C.
Il laconicum, invece, era un vano a
pianta circolare riscaldato da bracieri, una specie di sauna che
comportava però l'inconveniente di sprigionare ossido di
carbonio.
Le strutture annesse agli
ambienti termali
Più o meno al centro dell'impianto si apre in genere un'area porticata di forma quadrangolare, la
palestra, una sorta di grande cortile interno circondato da portici
dove soprattutto gli uomini, svol-
gevano attività siche, ginnastica e giochi. Negli impianti maggiori, come nelle terme Stabiane,
ai lati della palestra si trovavano
degli ambienti destinati ai gabinetti di estetica, alle latrine e
all'unzione del corpo. Nelle
Terme Stabiane, inoltre, su un
lato della palestra è sistemata
una grande piscina, utilizzata
per il nuoto.
L'approvvigionamento idrico e
il sistema di riscaldamento
Essenziale per il funzionamento
delle terme è l'approvvigionamento costante e abbondante
dell'acqua e il sistema del riscaldamento. A Pompei l'acqua proveniva dall'acquedotto del
Serino e da qui veniva convogliata direttamente in grosse cisterne
poste nella parte più alta della città. Una serie di tubature di piombo o di terracotta portavano
l'acqua alle case, alle fontane pubbliche e agli edici termali. I forni
avevano il duplice scopo di scaldare l'acqua per i bagni e produrre aria calda che, circolando nelle
cavità lasciate appositamente
libere sotto il pavimento e dietro
le pareti, contribuiva a riscaldare
l'ambiente. All'imboccatura del
forno veniva inserita la legna da
ardere che alimentava il fuoco.
Di solito il forno si apriva in una
stanza a cielo aperto, spesso una
cantina, ed era coperto da un bancone in muratura dove venivano
appoggiate le caldaie. I contenitori dovevano essere, dunque,
comunicanti tra loro con un sistema di tubature munite di valvole
che assicuravano il ricambio continuo dell'acqua. Un addetto,
quasi sempre uno schiavo, controllava il funzionamento delle
caldaie e, soprattutto, si occupava del rifornimento dei forni. La
legna preferita era quella delle
conifere (pino e abete) perché
produceva poco fumo. L'aria cal-
da prodotta veniva fatta circolare nelle apposite intercapedini
degli ambienti da riscaldare. Il
pavimento del vano da riscaldare era sollevato e sostenuto da
una serie di pilastrini di mattoni
sovrapposti, internamente cavi,
che poggiavano su una sotto
pavimentazione. Nello spazio
creato tra il pavimento
dell'ambiente termale e il piano
d'appoggio dei pilastrini, circolava omogeneamente il vapore
bollente.
L'aria calda circolava anche nelle
intercapedini create nelle pareti
dei vani. In questo caso venivano
appoggiate alla parete dei mattoni con piedini all'estremità che
creavano un piccolo passaggio
d'aria. L'aria che passava
nell'intercapedine del pavimento veniva naturalmente convogliata, per le leggi della termosica, verso l'alto, insinuandosi
negli spazi vuoti e riscaldando
l'ambiente.
Nelle terme
A Pompei probabilmente le terme venivano solitamente aperte
al pubblico nelle primissime ore
del pomeriggio, tra le tredici e le
quattordici, perché queste erano
considerate le ore migliori per
fare il bagno, oltre ad essere il
momento più caldo della giornata, favorendo la conservazione
del calore prodotto dall'attività
dei forni. Quando l'impianto era
unico e non esistevano sezioni
distinte per le donne e per gli
uomini, si dovevano imporre turni di frequentazione diversi. In
questi casi, probabilmente,
l'apertura delle terme era anticipata alle dieci del mattino per
consentire il turno alle donne
no alle tredici, quando iniziava
l'orario destinato agli uomini. Gli
impianti rimanevano di solito
aperti no al tramonto (tra le 18 e
le 19 circa), ma sostanzialmente
l'orario del funzionamento degli
edici pubblici termali era stabi-
lito da appositi regolamenti locali o da provvedimenti
dell'Imperatore. Le terme, pur
essendo spesso pubbliche, potevano essere concesse in appalto
ad un privato. Non ci sono informazioni certe sul costo del
biglietto per entrare alle terme:
questo doveva essere basso o
addirittura gratuito. Dopo essere
stati nella palestra o nella piscina
si tornava nello spogliatoio dove,
in seguito alla gran sudata fatta,
il corpo cosparso di olii veniva
deterso con lo strigile, una sorta
di lungo cucchiaio ricurvo, con
cui si asportava l'olio misto al
sudore e alla polvere. Dopo il
massaggio, si accedeva nalmente agli ambienti termali propriamente detti dotati di vasche
con acqua a diversa temperatura.
Oltre agli aspetti legati alla cura
della salute e del corpo, le terme
costituivano anche un luogo di
incontro di uomini e donne di
diversa condizione sociale ed
età. Si incontravano amici, si
discuteva di politica, ci si occupava di affari, si cercavano raccomandazioni, si scommetteva sulle corse dei carri o sui giochi dei
gladiatori, si commentavano i fatti del giorno e i pettegolezzi sulle
persone in vista della città.
a cura di Emilio Macari
IL LUPANARE
Lungo le strade, oltre alle case e
alle botteghe, si trovavano luoghi dediti al piacere sessuale, i
lupanari. La maggior parte di
questi edici era una sorta di piccola azienda dove il padrone faceva lavorare due o tre schiave
come prostitute oppure ricavava
un reddito con l'aftto della cella
meretricia, ossia piccoli lupanari
sulla strada in cui non c'era spazio che per un letto, a donne libere. Questi edici potevano essere
di piccole dimensioni con una
stanza generalmente situata al
piano superiore di una bottega, o
di grandi dimensioni con dieci
stanze buie distribuite sui due
piani. Il lupanare maggiore (VII),
da lupa, prostituta, all'incrocio di
due strade secondarie, si sviluppava su due piani. Le cinque stanze del piano superiore, al quale si
accedeva tramite una scala di
legno che dava direttamente sulla strada, erano più spaziose ed
erano rese indipendenti da un
pianerottolo coperto, con nestre a intervalli regolari. Quelle
del piano inferiore, cinque, erano
poste ai due lati di un grande corridoio. Ciascuna stanza aveva un
letto e un capezzale in muratura
che veniva coperto da un materasso, cuscini e drappi per offrire
un minimo di comfort ed erano
chiuse da porte in legno. Le pareti erano decorate da pitture erotiche che stando ad alcune interpretazioni erano una specie di
catalogo, ossia erano rappresentate le possibili prestazioni che le
prostitute potevano offrire. Sulla
porta della cella era riportato il
nome della donna e il prezzo della prestazione e un cartello con
scritto "occupata" serviva ad
avvertire di aspettare il suo turno
il nuovo cliente che ingannava il
tempo scrivendo sui muri. In molti lupanari sono visibili i nomi e
le abitudini della clientela, i nomi
delle prostitute stesse, tra cui molti di origine greca e orientale, e i
nomi di ragazzi richiesti da chi
intendesse praedicare, cioè unirsi
con loro in rapporti sessuali.
Spesso, all'esterno, i lupanari erano segnalati da insegne molto
esplicite come la scritta "Qui abita la felicità" o le tre grazie assieme ad una donna più anziana e la
scritta "dalle tre sorelle".
Per attirare i clienti le prostitute
vantavano la propria "merce"
davanti al lupanare oppure si
affacciavano da una nestra
nude o con una veste trasparente.
In alcuni esercizi quali termopoli
o bettole si sono trovati indizi della pratica della prostituzione alla
quale dovevano dedicarsi cameriere compiacenti nei retrobottega o in camere ricavate al piano
superiore. Nel termopolio I,
infatti, da un grafto si deduce
che qualche cameriera si esibisse
in un vero e proprio streap tease.
a cura di Claudia Di Ciaccio
GLI SPETTACOLI
Nel mondo romano partecipare
agli spettacoli aveva un signicato ed una funzione decisamente
molto più importante di oggi, gli
spettacoli avevano, infatti, profondi signicati religiosi, politici,
sociali. In un primo momento
venivano effettuati all'aperto in
strutture provvisorie, successivamente per volere di Pompeo fu
eretto a Roma il primo teatro in
muratura. Le rappresentazioni
teatrali erano di vario genere:
c'erano i ludi Graeci, commedie e
tragedie greche proposte in adattamenti latini e i ludi Latini, nei
quali venivano rappresentate
fabulae praetextae, fabulae Atellane,
Saturae, spettacoli mimici, gli
spettacoli più amati dai romani.
A Pompei era in uso anche la
mescolanza dei generi, soprattutto di quello comico e tragico,
mescolanza attestata dal ritrovamento di dipinti che accostano
scene tragiche a scene comiche.
Gli spettacoli che cominciavano
al mattino e si protraevano, come
per i giochi gladiatori, per più
giorni forse erano
annunciati dagli
araldi, perché
non è stato reperito nessun manif e s t o c h e i l l us t r a s s e i l p r ogramma degli
spettacoli.
L'inizio dello spettacolo era
annunciato dal doppio suono del
auto, che invitava gli spettatori
a prendere posto sulle gradinate.
Nel caso delle tragedie veniva
allestito lo spazio antistante alla
scena e c'era l'accompagnamento musicale di un coro; nelle
commedie la scenograa era in
legno ed era mobile, solitamente
venivano riprodotti luoghi come
piazze, interni di case o campagne. Gli attori, durante la recitazione, erano muniti di parrucche
e indossavano vestiti colorati (i
colori indicavano lo stato di
appartenenza sociale e l'età della
persona che si rappresentava),
erano, inoltre, forniti di maschere che disponevano di un foro
all'altezza della bocca per
ampliare il suono. Le maschere
avevano diverse espressioni facciali, cosa che aiutava ancora gli
attori a far emergere lo stato d'
animo del personaggio rappresentato.
Le spese non erano effettuate dai
cittadini, che entravano gratuitamente, ma erano sostenute dagli
edili e dai magistrati. Oltre ai
ludi scenici, a Pompei si tenevano gare letterarie e musicali, giochi atletici, spettacoli di equilibristi, giochi gladiatori. Questi
ultimi erano combattimenti cruenti nei quali si fronteggiavano a
coppie i gladiatori usando spade,
lance, tridenti, e, anche reti; , delle volte potevano avvenire anche
combattimenti tra uomini a
cavallo o su carri. I combattenti
venivano scelti tra schiavi, prigionieri di guerra e condannati
alla pena capitale. I gladiatori
erano addestrati in ludi, scuole
speciali, e vivevano in caseprigioni.
A differenza delle altre città
romane, Pompei non disponeva
di un circo, ma qui fu costruito il
primo anteatro romano capace
di oltre 20000 posti.
a cura di Michele Mezzullo
I luoghi degli spe acoli
LA PALESTRA GRANDE
La Palestra Grande (II,7), situata
nei pressi dell'Anteatro, è stata
costruita nel I secolo d.C. ed era il
più grande impianto ginnico della città. L'edicio è stato edicato
poiché le altre strutture presenti
a Pompei (la Palestra Sannitica e
la Palestra delle Terme Stabiane)
non rispondevano più alle esigenze dei fruitori e delle associazioni di giovani volute da
Augusto. Questo spazio verde
offriva invece ai giovani la possibilità di compiere esercizi ginnici
secondo il motto romano mens
sana in corpore sano. L'edicio fu
gravemente danneggiato dal ter-
remoto del 62 che portò alla
distruzione del muro di cinta.
Mentre i lavori erano ancora in
corso, la città e la palestra furono
colpite da un altro tragico evento: l'eruzione del Vesuvio che seppellì con cenere e lapilli la struttura. La palestra ha una pianta
rettangolare (141m x 107m) ed è
circondata da un muro di cinta
formato da colonne sia nella parte interna che in quella esterna.
Nel muro ci sono 10 porte che permettono di entrare nella palestra.
All'interno si trova un porticato
sorretto da colonne realizzate in
laterizi. Nella corte, il luogo dove
erano praticate le varie attività
sportive, luogo usato anche dagli
abitanti come per riposarsi e mangiare, era posta una doppia la di
platani che servivano a creare
una zona d'ombra. La corte è
arricchita nella zona centrale da
una piscina (34m x 22m) che era
inclinata per permettere una profondità variabile tra 1 e 2 metri.
All'interno della palestra ci sono
due ambienti principali: una sala
a forma di esedra, dedicata ad
Augusto, che dispone di un piedistallo sul quale è posta la statua
dell'imperatore.
La statua è preceduta da due
semicolonne afancate alla parete. L'altro ambiente è una latrina,
che aveva inizialmente anche un
accesso esterno che in seguito fu
chiuso.
Nella parte interna si trovavano
pitture e affreschi, ma oggi ne
rimangono pochissime tracce.
Sono invece numerosi i graffati
di tipo politico, erotico e anche
amoroso.
Tra essi si è anche rinvenuto un
quadrato magico formato da cinque parole di cinque lettere
disposte in modo da essere leggibili sia bustrofedicamente che
dal basso verso l'alto, da destra
verso sinistra e viceversa:
SATOR AREPO TENET OPERA
ROTAS
“È difcile stabilire il signicato
letterale della frase composta dalle cinque parole, dal momento
che il termine AREPO non è propriamente latino. Alcune congetture su tale parola (nelle Gallie e
nei dintorni di Lione esisteva un
tipo di carro celtico chiamato arepos: si presume allora che la parola sia stata latinizzata in arepus e
che nel quadrato essa avrebbe la
funzione di un ablativo strumentale, cioè un complemento di
mezzo) portano a una traduzio-
ne, di senso oscuro, quale Il seminatore, con il carro, tiene con cura le
ruote. Una interpretazione più
semplice considera "Arepo"
come nome proprio, da cui il
signicato diviene: Arepo, il seminatore, tiene con maestria l'aratro.”
a cura di Luca Falanga
IL TEATRO
Il teatro era uno dei più importanti luoghi di incontro della
società romana. Centinaia di persone si riunivano nelle cavee per
assistere alle varie rappresentazioni, un passatempo abituale
che non poteva mancare nella
pacica e spensierata Pompei.
La struttura principale in cui erano soliti riunirsi era il Teatro
Grande (VII 7,20). Realizzato in
età ellenistica, tra il III e il II secolo a.C, il teatro di Pompei mostra
di aver recepito completamente i
canoni architettonici del teatro
greco, la maggior parte dei quali
sono rimasti inalterati nonostante i diversi rifacimenti. La cavea,
infatti, poggia sulle pendici naturali di un costone lavico e non su
costruzioni in muratura, l' orchestra si presenta a ferro di cavallo
e non a modulo semicircolare.
Greca è anche la posizione del teatro, situato in direzione del tempio di Giove e dell'antica area
sacra del foro triangolare.
Il teatro che noi vediamo oggi
presenta molti elementi frutto
degli interventi di restauro effettuati in età augustea, come ci
informano alcune inscrizioni,
grazie a fondi elargiti da Marcus
Holoconius Rufus e dal fratello
Marcus Holoconius Celer, personaggi appartenenti ad una ricca
famiglia e che hanno rivestito
importanti cariche politiche cittadine. L'architetto a cui si attribuiscono i rifacimenti e le innovazioni è il liberto Marcus
Artorius Primus: egli eresse la galleria anulare (crypta) sulla quale
poggia la summa cavea e allestì i
tribunalia, ossia i palchi d'onore
sopra le volte dei corridoi (parodoi) che in origine erano scoperti
secondo il modello greco e furono coperte solo intorno all'80 a.C.
La cavea risulta suddivisa da corridoi in ima, media, e summa, a loro
volta ripartite in senso verticale
in cinque settori per una capienza totale di circa cinquemila spettatori. L'ima cavea ospitava, nelle
sue quattro le di larghi e bassi
gradini, i sedili dei magistrati e
dei più eminenti uomini del senato. La più bassa delle venti le di
gradini della media cavea presenta al centro, nelle migliori condizioni di visibilità, il posto riservato a Marcus Holconius Rufus,
come ci informa un'iscrizione a
caratteri bronzei. Sulla sommità
del muro che delimitava la summa cavea, dove venivano fatte
sedere le donne, c'erano dei pali
che sostenevano il velarium che
molto probabilmente veniva s-
sato tramite un sistema di funi,
alla tettoia che doveva sovrastare
la scena.
Nell'orchestra erano allestiti bacini per i giochi d'acqua, quando
non veniva adoperata per il coro
e le danze. Dalla scaenae frons
attraverso 3 porte gli attori accedevano ad un ampio spazio rettangolare che fungeva da camerino. Alle spalle della scena del
teatro troviamo un'area porticata
ornata da 74 colonne doriche di
tufo rivestito di stucco, il quadriportico dei teatri, nella quale gli
spettatori potevano intrattenersi
a passeggiare e a conversare
durante gli intervalli degli spettacoli. È questo uno degli esempi
più antichi in Italia di porticus
post scaenam, costruito nel I secolo a.C. Dopo il terremoto nel 62
a.C questo complesso perse la
sua funzione originaria per divenire una caserma per gladiatori,
l'ingresso monumentale fu murato e presso una porta di accesso
fu collocato un posto di guardia.
In questo periodo furono realizzate strutture a due piani che
comprendevano a nord-oriente
il settore mense e una grande
cucina con magazzini annessi. Al
piano superiore si trova
l'appartamento del lanista,
istruttore dei gladiatori, i quali
alloggiavano in celle disposte
lungo i lati del quadriportico. In
queste celle sono stati rinvenuti
armi ed elmi assieme a 18 cadaveri e allo scheletro di un neonato. Oltre al Teatro Grande, nella
città di Pompei troviamo, non
molto distante dal precedente, il
teatro Odeion o Teatro Piccolo.
L'edicio fu fatto costruire dai
due duoviri Q.Valqus e
M.Porcius, come ci informano
due iscrizioni, nei primi anni del-
la colonia sillana. Il teatro si compone semplicemente di una cavea
sostenuta da una struttura quadrangolare la quale fungeva da
sostegno per il tetto. Capace di
circa 800 posti, contro i quasi
3500 del teatro grande, esso era
destinato a spettacoli, in genere
lirici, in cui si riteneva necessario
un ambiente più raccolto.
a cura di Ariana Mrejeru
Un giorno a Pompei
Testi a cura degli alunni della IIA
Liceo Scientico E. Fermi - Gaeta
Anno scolastico 2016/2017
Coordinatrice Prof. Anna Luisa Perrone
Impaginazione, graca e stampa