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Tre per uno, uno per tre
/ 27.02.2017
di Cesare Poppi
Di quella giornata l’Altropologo ha ancora un ricordo vivissimo. Ero appena arrivato in un villaggio
dell’interno nel nord del Ghana dopo un massacrante percorso fuoripista nella savana che mi aveva
lasciato con le ossa rotte e polvere dappertutto. Era il giugno del 1987, la stagione delle piogge
tardava a partire ed un sole accecante disseccava le ultime piante verdi e le ultime pozze dei fiumi.
Dopo la visita d’obbligo al capo del villaggio al quale avevo spiegato che la mia missione era di
prendere parte ad un funerale importante che si sarebbe svolto il giorno dopo, mi era stata
assegnata una capanna ai margini del villaggio. Stavo sistemando le mie cose pregustando il
momento nel quale mi sarei tolto gli stivali e sdraiato sulla stuoia a riposare quando entra il
ragazzino che mi era stato assegnato come assistente factotum. «Boroni Baal (Uomo Bianco)» mi fa
«c’è una persona che vuole parlarti». «Proprio adesso!», mi dico, un po’ seccato. «Addio riposino
pomeridiano». Esco di nuovo nella luce accecante del pomeriggio e seguo la mia guida fino all’altra
estremità del villaggio. Mi piego per entrare nella capanna dell’appuntamento e, dopo aver
riaggiustato lo sguardo alla penombra interiore, vedo una persona vestita con un ampio camicione
bianco seduta a gambe incrociate su una stuoia. «Guai in vista», mi dico «questo è un mallam».
I mallam sono membri del clero islamico di grado più basso. Nel nord del Ghana, quando non sono di
servizio nelle moschee si recano di villaggio in villaggio mendicando ospitalità presso i capi ai quali
offrono i loro servizi. Sono spesso esperti di piante medicinali, con le quali preparano decotti ed
unguenti rinforzati con versetti del Corano o con formule della tradizione cabalistica. Ma la loro
offerta terapeutica non si ferma qui. La loro specialità è infatti la confezione dei ta’wizz che vengono
venduti a caro prezzo a seconda dello scopo e della potenza della quale sono investiti. Si tratta di
amuleti nella forma di piccole tasche in pelle che racchiudono versetti del Corano o formule
magiche. I capi, pur non essendo spesso musulmani essi stessi, ne fanno largo uso esibendoli sui
copricapi e bene in vista sulle vesti: servono a combattere malocchio e le stregonerie al quale i
leader sono soggetti da parte di persone malintenzionate o gelose del loro potere. Nella mia
esperienza tendono ad essere persone con le quali uno non andrebbe mai in vacanza: disprezzano i
«pagani» per i quali peraltro lavorano (spesso approfittando della loro buona fede) e si ritengono
altamente superiori ai naazari («nazareni», cristiani) che considerano solo leggermente più «civili»
dei pagani perché, magari, possiedono biciclette e, a volte, automobili. Insomma «guai in vista».
E difatti, scambiati i convenevoli di rito, il mallam viene al sodo e, attraverso il ragazzino costretto –
come capirete – ad una non facile opera di traduzione – spara a zero: «Ti ho convocato perché voglio
interrogarti su questa questione della Trinità». Dovetti far tradurre tre volte – e ancora non capivo. Il
traduttore capiva poco lui stesso della faccenda in questione: per fortuna che andando a scuola alla
missione cattolica aveva sentito Padre Hegan parlare di Padre, Figlio e Spirito Santo «come una sola
cosa», capendoci peraltro quello che poteva. E l’Altropologo? L’Altropologo stesso si era accorto che
– di quella questione lì – lui stesso non è che ne capisse molto. «La Trinità? Lei vuole sapere della
Trinità? Beh… in un certo senso è molto semplice…». Poi ricordo che mi inchiodai lì. Ne seguì una
conversazione surreale, col mio interlocutore felice di menarmi in giro per l’aia reiterando ad ogni
mio tentativo di sgattaiolare con un qualche escamotage che se Dio è Uno non può essere Tre, e se
sono in Tre come può essere Uno – e poi cosa c’entra la colomba (aveva trionfalmente esibito a
proposito un vecchio santino sgualcito) che è un uccello – e chi più ne ha più ne metta... Insomma,
una débâcle teologica senza appello, che mi lasciò per almeno tre giorni ad interrogarmi su quanto
fossero, dopo tutto, strani i naazari con le loro strane storie…
L’episodio è tornato alla mente per una ragione precisa: il 28 febbraio del 380, esattamente 1637
anni orsono, l’Imperatore Teodosio proclama l’Editto di Tessalonica, che sarà poi sottoscritto anche
dai co-imperatori Graziano e Valentiniano. Secondo l’Editto, tutti i cittadini romani dovevano
convertirsi, pena sanzioni, al Cristianesimo Trinitario così come sottoscritto da Papa Damaso al
seguito di San Pietro e dal Patriarca di Alessandria. Faceva testo per tutti il Credo di Nicea (325),
nel quale la Santissima Trinità figurava in forma prominente. Teodosio intendeva così far piazza
pulita anzitutto dell’Arianesimo, dottrina allora in gran voga, che negava la parità
(«consustanzialità» in termini teologici) fra il Padre e il Figlio a favore di un Monoteismo assoluto
con il quale il mallam della nostra storia sarebbe forse stato d’accordo. Mezzo secolo dopo l’Editto di
Costantino (313) circolavano le idee più bislacche sulla natura profonda di Cristo e di Dio Padre –
per non parlare dello Spirito Santo. Era ora di fare un po’ d’ordine. Certo, a dire di alcuni, non si
scelse la via più semplice. Provate ad immaginarvi la scena: un gendarme di Teodosio ferma una
persona qualsiasi al mercato di Salonicco (l’antica Tessalonica) e gli fa, a bruciapelo: «Ehi, lei! Mi
dica: che ne pensa di questa questione della Trinità?».
Ieri come oggi rispondere non è roba da poco. Parola di Altropologo.