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La Cassazione sul ramo d’azienda: lavoratori e beni materiali devono preesistere
inscindibilmente come struttura unica e
autonoma
di S. D'Ascola - 24 febbraio 2017
Con la sentenza n. 1316 del 19 gennaio 2017 la Cassazione torna ad approfondire la nozione
di ramo d’azienda, con riferimento ad un caso che coinvolge una società di telecomunicazioni di grandi dimensioni. In particolare, una serie di dipendenti impugnano per Cassazione
una pronuncia che aveva qualificato come trasferimento ai sensi dell’art. 2112 c.c.
un’operazione di cessione di ramo con la quale si era esternalizzata una parte dell’attività di
assistenza clienti effettuata tramite call center.
La sezione lavoro cassa la sentenza impugnata svolgendo un’attenta analisi che, seguendo
l’orientamento maggioritario di legittimità (da ultima, Cass., 25 febbraio 2016, n. 10542),
costituisce l’occasione per riepilogare i requisiti necessari perché il ramo sia tale e quali circostanze di fatto integrano tali requisiti.
Il ramo, afferma la Corte, è una entità economica che deve avere una propria identità prima
della cessione e deve mantenere tale identità dopo la cessione. L’orientamento prevalente
della Cassazione, come noto, va oltre la previsione dell’art. 2112, comma 5 (nella formulazione successiva al 2003), recuperando come indefettibile il principio della preesistenza di
cui alla direttiva n. 23/2001/CE anche nei casi in cui cedente e cessionario «identifichino il
ramo al momento del suo trasferimento».
Secondo la sentenza che si pubblica, perché si applichi l’art. 2112 c.c. è necessario che il
ramo sia autonomo e autosufficiente (e a maggior ragione difetta la preesistenza in mancanza
di uno di tali requisiti, indefettibili sia prima che dopo la cessione).
Nel caso di specie l’elemento di maggiore rilevanza è costituito dal fatto che l’identità economica del ramo era caratterizzata dalla compresenza di beni materiali e di lavoratori che
impiegavano tali beni.
Con la cessione si opera un significativo smembramento di queste due componenti, con ciò
inducendo a ritenere che l’entità ceduta sia stata individuata ad hoc da cedente e cessionario
in occasione della stipula del contratto (possibilità a cui il codice apre, ma a cui la giurisprudenza interna guarda con sfavore, allineandosi alla più rigida previsione comunitaria): infatti,
da un lato i beni materiali non sono integralmente transitati insieme ai lavoratori benché si
trattasse di «beni essenziali ed indispensabili ai fini dell’esecuzione dell’attività». Dall’altro,
rileva la Corte, anche con riferimento al personale, si è segmentata una componente in precedenza unitaria, perché una parte del servizio di assistenza clienti (quello riservato alla
“clientela Top”) non è rientrata nella cessione.
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Per di più, anche prima del trasferimento i lavoratori dell’assistenza clienti operanti nel sito
coinvolto «non godevano di alcuna autonomia operativa», perciò a fortiori non potrebbero
goderne una volta traferiti solo in parte e senza i mezzi materiali.
La Cassazione segue dunque con questa pronuncia l’orientamento più rigoroso, motivando
con ricchezza anche sotto altri aspetti: ad esempio si evidenzia che è vero che esiste una giurisprudenza comunitaria che ammette il trasferimento “parziale” dei beni da parte del cedente, ma si rileva che tale consuetudine è legittima solo quando la natura dell’attività economica sia sin da principio costituita da singole parti separate.
Infine la Cassazione esclude anche che ricorrano nel caso di specie le caratteristiche del ramo c.d. “dematerializzato” o “leggero”, in presenza delle quali non può comunque mancare
la coesione del gruppo di lavoratori, che devono avere tra loro «precisi legami organizzativi
preesistenti».
Simone D’Ascola, dottorando di ricerca nell’Università degli studi di Verona
Visualizza il documento: Cass., 19 gennaio 2017, n. 1316
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