La Voce del Popolo

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la Voce
del popolo
la Voce
del popolo
KSENIJA
PROHASKA
ARTISTA
POLIEDRICA
spettacoli
www.edit.hr/lavoce
Anno 3 • n. 14
martedì, 28 febbraio 2017
IL PROTAGONISTA
ATTUALITà
FESTIVAL
NOVITà
Il regista canadese
Denis Villeneuve
I diritti delle donne
nel cinema contemporaneo
In margine al 67º Festival
di Sanremo
Lo spassoso «Deadpool»
avrà un sequel
Una carrellata nei film che trattano
la condizione femminile in diversi Paesi
del mondo.
Un breve storia del più famoso Festival
canoro italiano, la cui qualità è in
declino dagli Anni ‘70.
Le riprese di «Deadpool 2» inizieranno
a giugno, mentre il film dovrebbe
uscire nelle sale nel 2018.
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Il suo film «Arrival» è stato più o meno
snobbato agli ultimi Oscar. Grande attesa
per il sequel di «Blade Runner».
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REUTERS/MARIO ANZUONI
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spettacoli
martedì, 28 febbraio 2017
IL PROTAGONISTA
la Voce
del popolo
di Gianfranco Miksa
IL REGISTA CANADESE
DENIS VILLENEUVE
STA VIVENDO UN INTENSO
PERIODO CREATIVO
PECCATOPER«ARRIVAL»,TANTA
ATTESAPER«BLADE RUNNER2049»
N
el 2017, il regista canadese
Denis Villeneuve, noto per le
sue pellicole di cinema d’autore
– il cui stile è un misto di genere e
approccio intellettuale con un forte
impatto emotivo –, come La donna
che canta (Incendies, 2010), Prisoners
ed Enemy, gli ultimi due entrambi del
2013 e interpretati da Jake Gyllenhaal,
s’impone sulla scena cinematografica,
soprattutto in quella del genere di
film di fantascienza. Il suo Arrival,
che si basa sul racconto “Storia della
tua vita”, dell’omonima antologia di
racconti (Stories of Your Life) dello
scrittore statunitense Ted Chiang, e
vede come protagonisti Amy Adams,
Jeremy Renner e Forest Whitaker, è
stato candidato all’Oscar in ben otto
nomination, tra cui miglior film,
miglior regia, miglior sceneggiatura.
Ha trionfato però solamente nella
categoria Miglior montaggio sonoro,
dando così credito alla tradizione
secondo la quale lo sci-fi movie non può
vincere nelle principali sezioni degli
Oscar.
Ciò nonostante, pur essendo rimasto
a secco di premi, il cineasta canadese
suscita particolare interesse non solo
per il suo Arrival, ma anche perché,
nell’anno in cui compie 50 anni,
realizzerà il sequel del classico di
fantascienza Blade Runner, prodotto dal
regista Ridley Scott, autore del primo
capitolo realizzato nel 1982, e darà vita
al reboot di Dune, tratto dall’omonimo
romanzo di Frank Herbert.
Ma andiamo per ordine, iniziando da
Blade Runner 2049 la cui sceneggiatura,
scritta da Hampton Fancher (co-autore
della sceneggiatura dell’originale) e
Michael Green, è basata sui personaggi
del romanzo di Philip K. Dick, “Il
cacciatore di androidi” (Do Androids
Dream of Electric Sheep?). I due hanno
preso come spunto un’idea di Fancher
e Ridley Scott, che sarà produttore
esecutivo del film. Roger Deakins,
nominato a 13 premi Oscar, sarà,
invece, il direttore della fotografia,
mentre le colonna sonora sarà
realizzata dal compositore islandese,
Jóhann Jóhannsson, che già in passato
ha lavorato con Villeneuve (Sicario e
Arrival).
Protagonista Ryan Gosling
Da quanto trapelato finora, il film avrà
come protagonista Ryan Gosling, che
interpreta il ruolo dell’agente K, e un
cast che comprende Dave Bautista,
Jared Leto, Mackenzie Davis, Robin
Wright, Sylvia Hoeks, Ana de Armas e
Harrison Ford, che riprenderà il ruolo
di Rick Deckard, interpretato nel film
precedente.
La trama si svolge trent’anni dopo gli
eventi del primo film. Un nuovo blade
runner, l’Agente K della Polizia di Los
Angeles, scopre un segreto sepolto
da tempo che ha il potenziale di far
precipitare nel caos quello che è rimasto
della società. La scoperta di K lo spinge
verso la ricerca di Rick Deckard, un exblade runner della polizia di Los Angeles
sparito nel nulla tre decenni fa.
E come se non bastasse il suo apporto
nel rivivere i celebri personaggi di
Philip K. Dick, il cineasta è stato
incaricato pure di realizzare la regia
di un’altra pietra miliare del cinema
di fantascienza, quella del reboot di
“Dune” dalla saga di Frank Herbert,
che rimane ancora oggi il romanzo
fantascientifico più venduto del mondo,
con più di 12 milioni di copie vendute.
Reboot di «Dune» dopo 33 anni
Le vicende della Casata Atreides
torneranno, dunque, sul grande
schermo a distanza di 33 anni.
L’ultimo ad aver adattato il ciclo di
romanzi di fantascienza per il cinema
(dopo il tentativo fallito di Alejandro
Jodorowsky) era stato David Lynch nel
1984; nel frattempo la saga ha ispirato
una miniserie su Syfy, dei fumetti e
dei videogiochi. La casa di produzione
Legendary Pictures non ha ancora
fornito nessun tipo di indicazioni
sul cast o sulla data d’uscita, ma
almeno un paio d’anni d’attesa sono
ampiamente ipotizzabili.
Ritornando al film Arrival, ecco
perché questa sua nuova pellicola
appare estremamente interessante
agli occhi degli amanti del genere
fantascientifico, anche per capire
come Blade Runner 2049 e Dune
evolveranno. E in tale ottica d’analisi
Arrival pone la fantascienza in
una nuova prospettiva. Il primo
incontro tra il regista canadese Denis
Villeneuve e lo sci-fi prende infatti
le distanze dai blockbuster che in
passato hanno incrinato la credibilità
del genere, ritenuto da molti registi
un campo minato. Arrival si inserisce
pienamente nel recente processo
di mutamento della fantascienza al
cinema. Questo genere ha subito una
metamorfosi strutturale, assumendo,
oltre al carattere avventuroso,
pure quello filosofico, inteso alla
comprensione dell’ignoto. E da questo
recente connubio sono nate opere
cinematografiche quali The Martian e
Interstellar.
«Arrival»
Arrival segue la vicenda di Louise
Banks (Amy Adams), linguista
di fama mondiale e madre
inconsolabile di una figlia scomparsa
prematuramente. Ma quello che crede
la fine è invece un inizio. L’inizio
di una storia straordinaria. Dodici
misteriose astronavi extraterrestri,
soprannominate “gusci” dai militari
degli Stati Uniti e simili a dei monoliti
neri, appaiono in tutta la Terra. Sono
navi aliene in attesa di contatto e
non è chiaro il motivo per cui sono
arrivate o se vi è una logica dietro
la scelta dei luoghi dell’atterraggio.
La linguista Louise Banks è stata
scelta per partecipare a una squadra
speciale creata per analizzare le specie
aliene nel sito degli Stati Uniti in
Montana, in quanto abile traduttrice.
Fanno parte della squadra anche il
fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy
Renner) e un colonnello dell’esercito
americano di nome Weber (Forest
Whitaker). La missione è quella di
penetrare il monumentale monolite
e “interrogare” gli extraterrestri sulle
loro intenzioni. Ma l’incarico si rivela
molto presto complesso e Louise
dovrà trovare un alfabeto comune
per costruire un dialogo con l’altro. Il
mondo esterno intanto impazzisce e
le potenze mondiali dichiarano guerra
all’indecifrabile alieno.
Il film è un maturo dramma
fantascientifico che mantiene la paura
e la tensione dando al tempo stesso
risonanza ai temi dell’amore e della
perdita. I punti di forza di Arrival sono
una bella storia, misteriosa e romantica,
capace di tenere lo spettatore sulla
corda e allo stesso tempo commuoverlo.
Al contempo è anche un film di
fantascienza nella sua forma più bella
e provocante, un magnifico dramma,
una storia molto romantica e l’esito
migliore del talento visionario di un
fenomeno della macchina da presa
come Denis Villeneuve. Infatti, le
splendide immagini del film assieme
a un raffinato montaggio (che alterna
sogno e realtà e poi anche i piani
temporali) fungono da guida. Sono
immagini bellissime, sostenute da note
enfatiche ma mai invadenti, sospese tra
luce e buio, aiutano a mettere da parte
l’angoscia per cedere definitivamente al
fascino di ciò che stiamo guardando.
In conclusione, realizzare il seguito di
Blade Runner e il reboot di Dune è una
grande sfida per il cineasta canadese.
Una sfida che per certi versi ricorda
quella di J. J. Abrams, noto al grande
pubblico per aver diretto il rilancio
della serie cinematografica di Star Trek,
e anche l’Episodio VII di Star Wars – Il
risveglio della forza. Cosa che all’epoca
non è stata accolta con entusiasmo,
ma poi i critici più aspri si sono dovuti
ricredere davanti ai risultati delle
pellicole. Il timore maggiore dei fan,
era legato alla paura, essendo lo
stesso regista a realizzare i film, di
una contaminazione involontaria dei
due mondi. Un po’ la situazione che
intercorre tra Blade Runner e Dune.
L’unica cosa certa è che, alimentando la
curiosità dei fan, Denis Villeneuve sta
facendo un ottimo lavoro per dare una
nuova dimensione cinematografica al
genere di fantascienza.
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ATTUALITÀ
martedì, 28 febbraio 2017
3
di Dragan Rubeša
UNA CARRELLATA NEI
FILM CONTEMPORANEI
CHE TRATTANO
LA CONDIZIONE
FEMMINILE IN DIVERSI
PAESI DEL MONDO
|| Much Loved
I DIRITTI DELLE DONNE NEL MIRINO
DELLE SOCIETÀ PATRIARCALI
“N
oi non siamo contro la legge!
Noi vogliamo creare la legge!“.
È questo il grido rivoluzionario
in un contesto politico e sociale corrotto
e maschilista che troviamo in un film
importantissimo che racconta la conquista
del suffraggio femminile nel Regno Unito
nel 1928. È intitolato Suffragette ed è
stato girato da Sarah Gavron, figlia della
laburista Nicky Gavron, vicesindaca di
Londra. La pellicola è stata proiettata
nelle sale italiane in occasione del 70º
anniversario del primo voto delle donne in
Italia. Le dichiarazioni di Meryl Streep nel
ruolo dell’attivista Emmeline Pankhurst,
però, non si differenziano molto da quelle
che l’attrice ha pronunciato di recente ai
Golden Globes.
Intenso processo di clericalizzazione
Il clima nel quale è ambientato il film
di Gavron non si differenzia molto
dalla nostra quotidianità nella quale
siamo testimoni di un intenso processo
di clericalizzazione della società, con
l’avvento di associazioni ultraconservatrici
quali “Vigilare” e “Nel nome della famiglia”
(U ime obitelji), nonché di comunità di
preghiera che manifestano dinanzi agli
ospedali la forma peggiore del fanatismo
religioso, cercando di imporre alle donne
le loro opinioni talebane e vietare loro il
diritto all’aborto. Il loro scopo è umiliare
le donne che hanno deciso di avvalersi
del diritto garantito loro dalla legge di
decidere sul loro corpo e nel loro interesse.
Basta ricordarsi come questo funzioni
nel rigido comunismo romeno, quando
gli aborti venivano effettuati nelle stanze
sudicie degli alberghi, come ciò viene
descritto nel film 4 mesi, 3 settimane,
2 giorni, un’opera pesante diretta da
Christian Mungiu. In Romania, infatti,
nel 1966 venne approvata una legge che
impediva l’aborto. Questa venne abolita
dopo la caduta del regime nel 1989.
L’ipocrisia della nuova Europa
Una Romania completamente diversa
viene ritratta da Maren Ade nel
bellissimo Toni Erdmann. A incarnarla è il
personaggio della figlia della consulente
di una compagnia petrolifera romena,
che ricorda il tipo della donna d’affari
tedesca in tailleur e camicia bianca, la
cui vita è eternamente divisa tra i lounge
bar, gli uffici asettici e appartamenti di
gusto minimalista in fortezze di vetro
costruite a pochi passi dalle catapecchie
post-comuniste. Suo padre è qui ritratto
come un pagliaccio con parrucca e
dentiera, il quale cerca di riavvicinarsi
alla figlia rompendo le convenzioni, le
regole del comportamento e l’ipocrisia
della nuova Europa, come pure la vacuità
della macroeconomia internazionale e
della sua cultura d’affari che si basa su
dei calcoli egoistici. Ma nel gioco della
vita, il banale, il distaccato e il coerente
sconfiggono ciò che è speciale e magico.
I diritti della donna nel mondo arabo
Tuttavia, il mondo arabo è pur sempre
l’ambiente più indicativo per sondare
il problema dei diritti della donna.
Come gli scaffali delle nostre librerie
vengono bombardati da libri che parlano
della vita infelice delle donne arabe,
prodotti quasi a livelli industriali nello
stile del femminismo McDonald’s, così
effettivamente non c’è festival al quale
non venga proiettato un film su questo
tema. Così, ad esempio, il Cairo Film
Festival è stato inaugurato con la parabola
femminista Il giorno per le donne, diretto
dalla regista egiziana Kamla Abou Zekri,
nel quale la protagonista acquista un
costume da bagno dopo che è stato deciso
che la domenica nella sua piscina sarà
riservata esclusivamente per le donne.
Però, a provocare le lacrime qui non
è soltanto il cloro, bensì pure i destini
personali delle sue amiche, tanto che
la loro comune della piscina diventa un
luogo pulsante di catarsi collettiva e di
auto-realizzazione. Dopo che l’Europa
è stata travolta dall’isteria legata al
“burkini”, non ci poteva essere un timing
migliore per questo film. Nonostante le
loro piccole vendette, come la brillante
sequenza nella quale le donne rubano
i vestiti degli uomini all’ingresso nel
hammam e li spruzzano con l’acqua
mentre questi corrono in strada in presa
al panico nella loro biancheria intima,
ciascuna capirà alla fine di non poter
vivere senza il suo amato uomo.
|| 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni
Lo scandalo al Festival
Al medesimo festival è stato proiettato
anche il film Il rossetto sotto il mio
burqa della regista indiana Alankrita
Shrivastava, nel quale la sua protagonista
sogna sotto il burqa di diventare una
famosa stella del pop, mentre a suscitare
uno scandalo è stata la pellicola egiziana
Tracce del peccato, di Khaled El Hagar,
durante la cui proiezione un gruppo di
studentesse del Cairo coperte dal velo è
uscito dalla sala perché l’intimità maschile
presentata esplicitamente nel film urtava
le loro convinzioni religiose.
Ancora più in là si è spinto l’autore
marocchino Nabil Ayouch nel film Much
Loved, che racconta la storia di un gruppo
di prostitute che ricevono i clienti ricchi
dagli Emirati che giungono a Marrakech
nell’ambito di arrangiamenti di turismo
sessuale, dal momento che la legge
Sharia vieta simili avventure nei loro
Paesi, mentre la prostituzione è un tabù.
Paradossalmente, la prostituzione non è
soltanto l’unico modo di sopravvivenza
delle protagoniste di Ayouch, bensì questo
è l’unico modo di raggiungere una specie
di autonomia nell’ambiente religioso,
patriarcale e conservatore in cui vivono.
I momenti in cui eseguono la danza
del ventre, le risate e le tenerezze sono
l’unico contrappunto all’ipocrisia della
loro infelice quotidianità nella quale la
sessualità viene percepita come strumento
di divisioni e di dominazione economica.
Per questo motivo, dopo una notte
trascorsa con un amante francese, Noha
si metterà il velo. “Chi vuole fare sesso?”
chiede la paffuta Alima a tre uomini che
ha scorto in strada.
Minacce per una frase
Questa frase bastava per far sì che
Ayouch cominciasse a ricevere minacce
via internet, il che lo ha portato a
chiedere l’asilo in Francia, mentre la sua
attrice principale Loubna Abidar è stata
attaccata in una strada a Casablanca in
pieno giorno e chiamata “sgualdrina”.
Per questo motivo il lungometraggio
di Ayouch è forse la più esplicita
rappresentazione dell’eros femminile
arabo nella genesi del cinema magrebino,
con una quantità sorprendente di scene di
sessualità frontale, solidarietà femminile,
travestitismo e una serie di maschi alfa
eccitati. Alcuni di loro amano recitare
poesie, ma non ce la fanno a ottenere
l’erezione in un rapporto eterosessuale,
celando il loro piccolo segreto.
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del popolo
martedì, 28 febbraio 2017
INTERVISTA
«OGNIPERSONAÈILRIFLESSODE
M
arlene Dietrich, Billie Holiday,
Edith Piaf e Filumena
Marturano sono soltanto
alcuni dei grandi personaggi femminili
che ha magistralmente interpretato
nel corso della sua carriera teatrale,
rendendoli suoi fino all’inverosimile. La
sua invidiabile preparazione artistica
(recita, canta e balla perfettamente),
l’intensità interpretativa, il suo entrare
nelle parti con la grinta di una leonessa,
la rende una delle attrici croate più
brave e richieste. Una donna forte, che
sembra aver vissuto dieci volte, che ha
raggiunto il successo “relativamente
tardi” (lo afferma lei stessa) e che oggi,
dopo trent’anni di venerato cammino
artistico, trascorso in gran parte sulle
tavole teatrali, si definisce grata per
quanto la vita le ha regalato. “Ora posso
dire di godermela fino in fondo”. È così
che inizia la nostra lunga chiacchierata.
L’attrice Ksenija Prohaska ed io siamo
sedute comodamente al tavolino di
un bar in Cittavecchia a Fiume, in una
mattinata piena di sole, e parliamo
come se ci conoscessimo da anni anche
se effettivamente ci siamo viste per
la prima volta soltanto poche ore fa.
Questa splendida donna, piena
di energia e verve,
trasmette a pelle
un piacevole
senso di tranquillità e dopo un po’
dimentico che mi trovo lì per lavoro e che
quella che le sto facendo è un’intervista.
Prima neanche di riuscire a porle la
prima domanda, esordisce lei per prima
parlandomi delle sue adorate nipotine,
Caroline e Clare, di rispettivamente 5 e 2
anni, regalatele da sua figlia Ana (avuta
dall’ex marito, l’attore americano John
Byner), che vive in Vermont negli Stati
Uniti. “Le adoro! Sono pazza di loro.
Mi chiamano Nana e sono la mia luce.
Corro da loro quando posso e non è facile
perché vivono dall’altra parte del pianeta.
Fortuna che oggi la tecnologia è andata
così avanti: sono una nonna-Skype e
uso questo mezzo tantissimo”, racconta
con un’espressione malinconica. “L’altro
giorno sono impazzita di gioia quando
Caroline mi ha detto che da grande
vuole fare l’attrice e la ballerina. Avevo
la stessa età quando l’ho detto anch’io.
Mi trovavo in via Dežman a Fiume, la
stessa dove abita Sandro (Damiani,
l’uomo che ama e con cui vive da oltre un
decennio, nda), quando si dicono i casi
della vita, in casa della migliore amica
di mia madre. Ricordo di essere salita
su un tavolo, di avere allargato le mani,
e di aver esclamato: un giorno farò
l’attrice e la ballerina! Ed
eccomi qua. La tenacia è
stata più forte di tutto,
ma soprattutto
quest’immenso
amore verso
l’arte. Per
tanti anni ero
affamata di
teatro, di
pubblico, di applausi, di successo. Avevo
questo fortissimo desiderio di sentirmi
affermata. Alla fine ne è valsa la pena,
anche se l’affermazione professionale
vera e propria è arrivata nel mio caso
piuttosto tardi, non a vent’anni né a
trenta, bensì a quaranta“, ricorda.
Ksenija Prohaska è diventata primattrice
nazionale del TNC di Spalato nel 2015,
dopo quattordici anni di… servizio
presso lo stesso ente teatrale. “È stato
uno dei momenti più perfetti della mia
vita. Questo titolo mi ha portato una
gioia incredibile e ha fatto sparire tutte
le insicurezze che sentivo per anni. È
stata l’affermazione, dopo anni di lavoro
svolto con incredibile passione. La mia
e, avendo alle spalle due matrimoni
relativamente brevi, mi sono ritrovata ad
essere una ragazza madre. Per anni sono
stata quello che io definisco un ‘survivor’,
una sopravvissuta. Dovevo pensare a
mia figlia, a come crescerla nel migliore
dei modi e questo non mi dava quella
libertà di poter mettere a fuoco le cose,
di poter essere concentrata e focalizzata
su ciò che avrei voluto fare dal punto
di vista professionale, artistico. Sì,
posso dire di aver fatto cose importanti,
progetti di una certa portata, di aver
recitato in film di produzione americana
al fianco di attori quali Warren Beatty,
Ben Kingsley, ma io volevo fare teatro.
Come ho già detto prima, ero affamata
A COLLOQUIO CON KSENIJA PROHASKA, ATTRICE
POLIEDRICA DISTINTASI PER I GRANDI PERSONAGGI
FEMMINILI CHE HA MAGISTRALMENTE INTERPRETATO
insicurezza era dovuta anche al fatto che
quand’ero giovane dicevano: ‘Sì, bella
ma senza talento’. Poi, in età più matura:
‘Bella e talentuosa’ e oggi finalmente:
‘Questo è talento puro’. Recentemente
un collega mi ha detto: ‘Ormai dovresti
scegliere ruoli più consoni alla tua età,
più maturi’. Ho riso da matti: ma quali
ruoli più maturi. Io posso interpretare
chi voglio, posso scegliere finalmente.
Ecco, mi piacerebbe interpretare un ruolo
maschile”, afferma.
Perché secondo lei il successo è
arrivato più tardi?
“Non saprei. Ho avuto
una vita turbolenta.
Ho partorito mia
figlia quando
ancora
studiavo
di applausi, avevo questo fuoco dentro
che mi spingeva avanti e mi dava la forza
di non mollare. Il successo che volevo è
arrivato nel momento in cui sono tornata
in Croazia e sono stata ingaggiata dal
TNC di Spalato. La chiamo la mia terza
carriera ed è quella che cercavo e alla
quale aspiravo. In tutto questo percorso,
Sandro è stato essenziale per me, mi ha
aperto tantissimi orizzonti, mi ha fatto da
manager, consulente, mi ha portato con
sé in tournée in Italia per almeno venti
volte, mi ha accettata per quella che
sono e soprattutto mi ha amata. Ecco,
posso dire che anche l’amore vero per
me è arrivato in età matura. L’amore mi
dà quella serenità che ognuno dovrebbe
avere. Mi sento amata dal mio uomo,
dai miei familiari, dalle mie adorabili
nipotine e da mia figlia con la quale
ho costruito negli anni un rapporto
bellissimo e per la quale sono grata alla
vita”.
Quando ha conosciuto Sandro
Damiani?
“Lo conosco da sempre. Da bambini
giocavamo ogni tanto in via Dežman
dove lui appunto abitava e io
venivo con mia madre in
visita dalla sua amica. Chi
l’avrebbe mai detto
che un giorno
sarei venuta a
viverci… Ricordo
quel periodo
vagamente.
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del popolo
martedì, 28 febbraio 2017
5
di Ivana Precetti
DELL’UNIVERSO»
A cosa sta lavorando attualmente
Ksenija Prohaska?
“Sto preparando il mio prossimo ruolo
che sarà quello di Clara Schumann in uno
spettacolo di Ivan Leo Lemo, con il quale
ho già avuto modo di lavorare in ‘Marlene
Dietrich’, il personaggio che maggiormente
mi ha segnata come attrice teatrale. È
la terza volta che lavoriamo insieme, la
seconda è stato per ‘Hollywood’, una pièce
meno conosciuta di cui pochi sanno, e che
avevamo portato in scena anni fa a Zara.
Quello su Clara Schumann è un pezzo
teatrale che aspetto con estrema gioia e
nel quale sarà incluso anche il balletto
con coreografie del grande Leo Mujić,
coreografo belgradese di fama mondiale,
che ha realizzato progetti di danza
alla Scala di Milano e che è impegnato
attualmente al TNC di Zagabria con lo
spettacolo ‘I signori Glembay’ di Miroslav
Krleža. Il personaggio di Clara Schumann
mi affascina da morire. È stata una donna
fortissima, con un’anima incredibile. Tutti
la conosciamo per essere stata raffigurata
sulle banconote da 100 marchi tedeschi,
ma in pochi forse siamo a conoscenza
del suo immenso talento. Una donna che
duecento anni fa è riuscita a costruirsi già
da bambina una grande carriera pianistica,
che era ammirata da Paganini e Goethe,
che è rimasta sola con otto figli dopo
la morte del marito Robert Schumann,
l’immenso compositore la cui fama la
dobbiamo proprio a lei, che si è premurata
di far conoscere al mondo la sua musica,
una donna di cui era innamorato Johannes
Brahms, che viaggiava in continuazione da
una parte all’altra dell’Europa, da Vienna
a Londra, a Parigi, in un’epoca in cui non
era assolutamente facile farlo, siccome
ci si spostava a bordo di carrozze ed
esistevano soltanto quelle. Lo spettacolo
su Clara Schumann si basa sul libro della
scrittrice romana Valeria Moretti. È stata
proprio lei a propormi di interpretare
quest’interessantissimo personaggio. Mi ha
vista al Teatro dell’Orologio di Roma mentre
facevo Marlene Dietrich e al termine dello
spettacolo mi si è avvicinata dicendomi:
‘Lei è la mia Clara Schumann. Deve
interpretarla’. Non so che cosa abbia visto in
me, ma sta di fatto che a breve questa sua
specie di visione diventerà realtà“.
Che cos’ha fatto nell’ultimo anno,
teatralmente parlando?
“Sono felice che l’anno scorso io abbia
lavorato con quella che per me è la più
grande attrice croata, Milka Podrug
Kokotović. Abbiamo fatto
insieme la commedia teatrale ‘Bjegunke’
(Le fuggiasche): 14 date ‘sold out’ a
Spalato e Ragusa (Dubrovnik). Un
successo enorme. Il pezzo parla del
fatto che oggi le persone comunicano
a malapena con i propri genitori e
noi due interpretiamo due fuggiasche
che si ritrovano alle 3 del mattino in
autostrada. Io sono fuggita da casa e lei
dal gerontocomio. È così che inizia lo
spettacolo…“.
Perché interpreta sempre donne forti,
complesse?
“Non credo si tratti di complessità. Io non
posso dividere le persone per complesse
e non complesse. Credo che ogni persona
sia un riflesso dell’universo. Non c’è anima
che non sia perfettamente bella. Queste
donne risultano particolari perché nel loro
cammino di vita si sono trovate per caso
sotto i riflettori, al centro dell’attenzione.
Ogni donna vorrebbe essere una perfetta
moglie, madre, amante, lavoratrice. Oggi
la donna deve avere successo in tutti i
campi, sennò non vale. Interpretando
questi personaggi, cerco di trasmettere
il loro lato semplice, ciò che erano al di
là del loro ruolo. Sono donne che hanno
lasciato un segno, ognuna nel proprio
campo, ma tutti dimenticano che per
riuscire a farlo si sono perse pezzi di vita
dei loro figli, sono state assenti come
madri, mogli, e soffrivano profondamente
per questo. Donne complesse? No, diverse
per il lavoro che facevano, ma non certo
migliori di mia nonna ad esempio, che
è rimasta a casa per dedicarsi ai figli e
che li ha cresciuti in condizioni difficili,
senza mai perdere il sorriso e il senso
dell’umorismo. A prescindere da ciò
che facciamo nella vita, siamo tutti dei
vincitori. Everybody is a winner!”.
|| Ksenija Prohaska come Billy Holiday al Kastav Blues Festival 2012
NINO STRMOTIC/PIXSELL
Poi l’ho rivisto a diciassette anni: era
bellissimo e mi piaceva però non mi aveva
neppure notata. Una volta passando per
il Corso, erano in molti a voltarsi per
guardarmi. Lui, neanche di striscio. Ci sono
voluti trent’anni affinché la vita ci riunisse
e ci innamorassimo – racconta sognante –.
Sono così felice che sia tornato a lavorare
col Dramma Italiano, nella sua lingua
materna. È casa sua. Ammiro e ringrazio
Rosanna Bubola per averlo capito e per
aver letto bene. Ha intravisto le immense
qualità di quest’uomo, che per anni è stato
il mio supporto artistico e che mi ha dato
tanto dal punto di vista professionale. Nel
caso di Sandro, posso dire senza alcuno
scrupolo che il suo nuovo ruolo allo ‘Zajc’
(consulente artistico, nda) è un’ingiustizia
rimediata in virtù di quanto è successo in
passato”, afferma.
Come si sente oggi, con questa
splendida carriera alle spalle?
“Sono felice come mai in vita mia. Mi
sento molto più leggera e la cosa più
curiosa è che non sento l’età. Dentro sono
ancora una ragazzina. In passato credevo
che la felicità fosse dovuta al successo
in carriera, ma oggi so che non è così.
Io la devo alla mia vita privata, al fatto,
come dicevo prima, di essere amata e di
amare. Le mie percezioni sono cambiate
negli anni. Ho sempre vissuto in maniera
spartana, in estrema disciplina. Non
ho mai fumato né bevuto, ho sempre
fatto sport e sono sempre stata attenta
all’alimentazione e lo faccio tuttora.
Per me non esistono ferie. Impazzirei se
qualcuno mi dicesse di dovermi sdraiare
in spiaggia per ore a prendere il sole.
Non posso stare ferma un attimo e la
mia mente è una turbolenza continua, è
affamata di cose”.
È l’amore, dunque, il suo motore?
“Sì, l’amore e la dolcezza. Noi attori ci
diamo così profondamente quando siamo
in scena, regaliamo la nostra anima senza
alcun freno, senza inibizioni, e poi, una
volta calato il sipario, siamo grati per ogni
singolo applauso. Io ringrazio il pubblico
a lungo, proprio per questa mia enorme
gratitudine”.
Quali personaggi vorrebbe
interpretare e che ancora non ha
interpretato?
“Indubbiamente Mata Hari. Le ho
fatte tutte ed è rimasta ancora lei. Mi
piacerebbe inoltre vestire nuovamente i
panni di Filumena Marturano, e farlo nel
mio teatro, in dialetto. Mi stuzzica anche
il personaggio di Gabriella Ferri, la
grande cantante italiana che ammiro
tantissimo per quella sua voce
così drammatica. Mi piace
interpretare cantanti che sul
palco sono anche attrici,
senza rendersene conto”.
Ha un desiderio
irrealizzato?
“Sì, vorrei tanto
ricominciare a leggere. I
libri sono così preziosi”.
|| Assieme a Sandro Damiani nel TNC di Spalato
6
spettacoli
martedì, 28 febbraio 2017
la Voce
del popolo
FESTIVAL
|| Lucio Dalla mentre interpreta la canzone “4 marzo 1943”
|| Adriano Celentano nel 1961
ITEMPID’ORODELLARASSEGNACANOR
UNA BREVE STORIA
DEL FESTIVAL DI SANREMO,
CHE QUALCHE SETTIMANA
FA È GIUNTO ALLA SUA
67ª EDIZIONE
N
on è passato nemmeno un mese dalla
conclusione della sessantasettesima
edizione del Festival di Sanremo,
che già ben pochi ricorderanno, non dico
cinque, ma almeno tre canzoni in gara, tra
cui la stessa vincitrice. E, se se lo ricorderà
– parlo della maggioranza dei telespettatori
– sarà per merito (o a causa) delle sfibranti
trasmissioni televisive ad ogni ora del
giorno, in cui i discografici, a pagamento
e a tambur battente intruppano i propri
contrattualizzati.
Ciò cosa dimostra? Mi riferisco alla
“dimenticanza” e alla sovresposizione dei
Pinco e dei Pallino passati da Sanremo tre
settimane fa? Al fondo, dimostra che l’offerta
musicale, testo incluso, è generalmente
scarsa e che, comunque, la rassegna
ligure poco o nulla c’entri più quanto a
manifestazione dedicata alla “canzone
italiana”, ma sia diventata una passerella
per cantanti. Cantanti? Diciamo qualche
cantante e tanti “vocivendoli”.
Ma non era sempre così. O meglio, è così
da almeno una trentina d’anni, da quando
il “villaggio” s’è fatto globale. Uhm... anche
quaranta.
Vediamo, percorriamo insieme i tredici
lustri attraversati dal Festival, con l’aiuto
di qualche nome e qualche titolo. Nulla
di impegnativo. Così, da una parte per
rinfrescare la memoria degli scontenti; e
dall’altra per ricordare a chi non c’era, cosa
c’era in tema di “canzone italiana”.
canoro nazionale”, invece, si spense per
banalissime ragioni economiche, in quanto
l’organizzazione non godeva di quel
consistente supporto finanziario senza il
quale non era possibile chiamare a raccolta
e spesare interpreti, orchestrali, squadre
tecniche, ecc.
Se Sanremo, viceversa, tiene botta è perché
sin dall’inizio poggia su tre solide gambe:
i soldi del Casinò – nel cui Salone si svolge
la manifestazione – la neonata RAI e le
società discografiche, le quali evidentemente
sentono il bisogno di una rassegna canora
dalla quale lanciare i propri “prodotti”. In là
nel tempo interverranno altri cofinanziatori,
privati e pubblici.
lontani dal mutamento a cui assisteremo
dalla seconda metà dei Sessanta, tuttavia,
pervengono i primi segnali. Che sono dati,
da un lato dalla nascita dei cantautori, primo
fra tutti Domenico Modugno, e dall’altro
dall’apparizione dei rockettari casalinghi,
battezzati “urlatori”.
«Nel blu dipinto di blu»
Ed è proprio il “Mimmo nazionale”, nel
1958, con “Nel blu dipinto di blu” a
innescare la miccia; da tenere comunque
presente che la seconda versione del pezzo,
interpretata da Johnny Dorelli, è in puro
stile melodico “all’italiana”; e la canzone
ne soffre, senonché il “ciclone pugliese” si
rivela inarrestabile con le sue pennellate
chagalliane, fuori dalla tradizione. Quella
tradizione saldamente al “comando” dagli
inizi: nel 1951 e nel 1952 Nilla Pizzi,
rispettivamente con “Grazie dei fiori” e
“Vola colomba”; nel 1953 Carla Boni/Flo
Sandon’s con “Viale d’autunno”; nel 1954
Giorgio Consolini/Gino Latilla con “Tutte le
mamme”; nel 1955 Claudio Villa/Tullio Pane
con “Buongiorno tristezza”. Nel 1956 (si era
optato per l’interprete singolo) è la volta di
Franca Raimondi con “Aprite le finestre”. Nel
1957 – quando si torna all’antico recente –
torna a trionfare Claudio Villa, con Nunzio
Gallo (“Corde della mia chitarra”).
Nel ‘58, come abbiamo detto, fa irruzione
Modugno, ma alle sue spalle arrivano le
melodiosissime “L’edera”, con la Pizzi e
Tonina Torrielli e “Amare un’altra”, con
Latilla e ancora Nilla Pizzi.
Nel 1959, si riconferma, sempre in
coppia con Dorelli, Modugno con “Piove”,
ovvero l’interpretazione grintosa e quella
carezzevole. Dietro a loro, “Io sono il vento”
con il cantante lirico Arturo Testa e Gino
Latilla, e “Conoscerti” con il triestino Teddy
Reno e il Togliani.
Si tenga presente che da un paio di anni
siamo entrati nell’“era televisiva”, la quale
spesso si guarda in compagnia, al bar, seduti
ai tavolini. I locali, inoltre, hanno i jukebox. Insomma, ascolto e consumo sono
centuplicati, ovvero è centuplicata pure
l’offerta interna e internazionale. Ma per le
strade, sotto la doccianelle balere si canta,
si fischietta, si balla (su) motivi sanremesi.
Noi abbiamo citato solo i vincitori della
rassegna ligure. Ma, per esempio, nel ‘59
ci sono “Tua” di Jula De Palma, sensuale
e proibitissima “avance” che l’esordiente
Mina, extrafestival, canterà a modo suo, tra
strilli e acuti; c’è “Nessuno” di Betti Curtis,
che darà straordinaria visibilità a Dallara;
c’è “Una marcia in fa”, presentata da due
coppie: Dorelli-Betty Curtis e Latilla-Villa,
canzoncina scherzosa tipo “La casetta in
Canadà” o “Papaveri e papere”, nulla di tale,
ma orecchiabile come poche altre...
degli “urlatori”, Tony Dallara, con
“Romantica” e dietro a loro “Libero” del
Modugno in coppia con Teddy Reno.
Quindi è la volta di Joe Sentieri e Wilma
De Angelis, il duo (momentaneo) più
simpatico del momento con “Quando vien
la sera”. Sempre il genovese Sentieri porta
alla manifestazione a pochi chilometri
da casa sua “È mezzanotte”, che... mezza
Italia canterà per tutto l’anno, mentre...
tutta Napoli si commuoverà con “Il mare”
di Sergio Bruni. Quest’edizione, col senno
di poi, la ricorderemo anche per l’esordio
festivaliero di Mina Mazzini (“È vero”, scritta
dal cantautore Umberto Bindi, e cantata con
Teddy Reno, cioé Ferruccio Merk Ricordi; e
“Non sei felice”, con Betty Curtis.)
Il 1961 segna il passo. Il primo premio se
lo portano a casa Luciano Tajoli e la Curtis
con “Al di là”, in compenso al secondo e
al quarto e quinto posto troviamo i due
mattatori degli ultimi sessant’anni musicali
italiani: l’esordiente Adriano Celentano
e la succitata Mina (per lei, seconda e
ultima partecipazione). Il “molleggiato”,
in coppia con il primo degli “Elvis de
noantri”, Little Tony, si presenta con “24.000
baci”, mentre la “Tigre di Cremona” canta
due pezzi: “Io amo, tu ami”, con Nelly
Fioramonti, e “Le mille bolle blu”, con Jenny
Luna. Ma questa edizione sanremese va
ricordata anche per la robusta presenza di
cantautori: Pino Donaggio, Gino Paoli (che
formerà, con Dallara, la “strana coppia”
del festival), Umberto Bindi, il Sentieri
fresco vincitore di “Canzonissima”, Giorgio
Gaber, Gianni Meccia (che venderà un sacco
con “Patatina”), Edoardo Vianello, che
dall’estate successiva per tre anni consecutivi
tormenterà le estati italiane con i Watussi,
le pinne e gli occhiali, le abbronzatissime, i
twistaroli che dondolano. C’è pure Jimmy
Fontana, ma la canzone non è sua, “Lady
Luna”, in coppia con Miranda Martino. A
proposito della quale, ma anche del festival
sanremese, c’è da dire che due anni prima
dell’esplosione del confronto a distanza
Mina-Milva, inventato da discografici e
giornalisti, era talmente famosa e gettonata,
che per tre o quattro anni di seguito,
aveva l’obbligo contrattuale di incidere un
LP contenente tutte le canzoni finaliste
di Sanremo. Vi immaginate oggi un/a
cantante in grado di emulare la Martino?
Quand’anche... cosa avrebbe da cantare
questo/a poverino/a, a parte qua e lè
qualche brano? Oggi, come quattro decenni
fa... Notiamo, infine, come il testo della
canzone vincitrice è firmato da tale Mogol...
J
Il Festival nacque nel 1951
Quando nacque, nel 1951 a Sanremo, il
“Festival della canzone italiana” aveva
alle spalle già due tentativi, uno fatto nel
1936 a Rimini ed uno effettuato nel 1948 a
Viareggio. Entrambi non arrivarono alla terza
edizione. Il primo, probabilmente anche a
causa dei “venti di guerra” che cominciarono
a soffiare sin dalla seconda metà degli anni
Trenta. Non che il clima fosse cupo, più
che tanto: l’Eiar (la RAI dell’epoca), anzi,
ogni anno organizzava concorsi regionali e
nazionali per giovani di talento alle prese
sia con canzoni di successo che con canzoni
composte per l’occasione; ogni città aveva
i suoi “caffé concerto”, balere e “dancing”
non si contavano. A Fiume, per esempio, il
luogo principe era il Caffé Centrale, in cui
alle spalle degli avventori, seduti ai tavolini,
c’era una marea di persone accalcate intente
ad ascoltare il o la cantante più o meno
famoso/a, quanto meno in città.
Il tentativo viareggino, denominato “Festival
Depersonalizzazione dell’interpretazione
I primi due anni sono effettivamente,
diremmo “fanaticamente”, dedicati alla
canzone italiana. Gli organizzatori, infatti,
nel 1951 invitano ad esibirvisi tre soli
interpreti: Achille Togliani, Nilla Pizzi e il
Duo Fasano, in quanto a loro dire sarebbero
quelli che meglio di ogni altro “leggono”
e rendono l’idea di cosa è il prodotto
musicale cantato italiano. Nel 1952, ad
essi vengono affiancati Gino Latilla e Oscar
Carboni, altre due voci “giuste”. Sono loro
che eseguiranno tutte le canzoni in gara.
Evidentemente discografici e autori reputano
che solo attraverso la depersonalizzazione
dell’interpretazione, giuria e ascoltatori
sapranno apprezzarle. Il che in effetti
non è del tutto sbagliato, senonché –
altrimenti, perché dalla terza edizione
“salta il banco”? - dal 1953 si ricomincia da
zero. Evidentemente, passata la novità –
temono i patron della kermesse - potrebbe
subentrare nel pubblico la noia. In effetti... la
seconda rassegna vede le prime tre canzoni
interpretate dalla medesima cantante, Nilla
Pizzi (nell’edizione d’esordio, fu prima e
seconda).
Oltre tutto, non è che durante l’anno i
discografici e la stessa RAI (parliamo
ovviamente di radiofonia) vadano in letargo.
Anzi, nuove canzoni e nuovi cantanti sono
all’ordine del giorno. E nuovi ritmi. Tutto
ciò a sua volta condiziona, arricchisce e
diversifica i gusti degli ascoltatori. E affina le
idee dei musicisti.
Dunque, dalla terza rassegna ogni brano
in gara viene proposto addirittura da due
interpreti. Il che, però, al tempo stesso
il “festival della canzone italiana” va
prendendo i connotati del “festival dei
cantanti italiani”. Autori e arrangiatori,
infatti, al momento della propria creazione
artistica iniziano a immaginarne l’esecutore.
Non è ancora un lavoro “ad personam”,
ma avverrà a breve. Per ora compositori,
arrangiatori e discografici puntano su una
ristretta rosa di nomi per le proprie canzoni,
tanto più che una diversificazione stilistica
è già in atto e il tipico canto all’italiana
sta lasciando il posto, con la sempre più
massiccia influenza estera, a modi di cantare
provenienti in primo luogo dall’America e
dalla Francia. Intendiamoci, siamo ancora
Renato Rascel, capostipite degli «urlatori»
Nel 1960, a vincere è una coppia che
in buona sostanza ricalca la maniera
del “modulo” Modugno-Dorelli, ossia il
tenerissimo Renato Rascel e il capostipite
«Quando quando quando»
L’edizione del 1962 vede vincitori la super
coppia formata da Claudio Villa e Domenico
Modugno, con interpretazioni che mettono
in risalto sia le rispettive doti stilistiche
e vocali che la bellezza della canzone “Addio... addio...”. A differenza, infatti
delle accoppiate precedenti, qui non ci
troviamo di fronte alla furbata (tu conquisti
i tuoi estimatori, io i miei), ma all’esigenza
spettacoli
la Voce
del popolo
martedì, 28 febbraio 2017
|| Gene Pitney nel 1965
|| Nilla Pizzi nel 1956
7
di Sandro Damiani
|| Gigliola Cinquetti nel 1964
ORASONOFINITINEGLIANNISETTANTA
del suicidio a poche ore dall’eliminazione,
di Luigi Tenco. Ne abbiamo già parlato
la volta scorsa, con un “ritratto” del
Cantautore nell’inserto “Spettacoli”, perciò
non torneremo sull’argomento. Di certo,
la canzone “Ciao amore, ciao”, presentata
con Dalida, meritava, non solo la finale,
ma forse anche il titolo: italianissima nella
linea melodica, italianissima per la storia
che narra, ma niente affatto “sanremese”.
Qui – sembra di sentire qualche giurato
– non si fa politica, si fa musica! Infatti, il
titolo va a “Non pensare a me” (Claudio
Villa-Iva Zanicchi). In bella mostra, gli ospiti,
assurdamente eliminati: Les Surfs (“Quando
dico che ti amo”), Les compagnons de la
chanson (“Io, tu e le rose”), il Pitney e la
Francis (rispettivamente, con “La rivoluzione”
e “Canta ragazzina”), Marianne Faithfull
(“C’è chi spera”), Dionne Warwick (“Dedicato
all’amore”), Sonny Bono e Cher (“Il cammino
di ogni speranza”) e Cher senza Sonny (“Ma
piano”), The Hollies (“Non prego per me”).
Sia chiaro, tutte queste eliminazioni, se
riferite alle rispettive canzoni e in alcuni casi
agli interpreti italiani, sono meritate. È però
un fatto, che le versioni straniere sono tutte
di valore medio-alto. Ma tant’è.
tradizione, quanto per le modalità con cui i
musicisti italiani (compositori e arrangiatori)
“sposano” la tradizione e le varie acquisizioni
melodiche, ritmiche, armoniche estere.
Vince “Zingara” (Bobby Solo-Iva Zanicchi);
a seguire “Lontano dagli occhi” (EndrigoMary Hopkin), “Un sorriso” (Milva-Don
Backy), “Un’ora fa” (Fausto Leali e Tony
Del Monaco). Staccata “Un’avventura”,
con un Wilson Pickett in gran forma, di
fronte al quale Lucio Battisti – autore con
Mogol - non ancora lo splendido interprete
che impareremo ad amare, sembra uno
scolaretto. Esordisce Nada con “Ma che
freddo fa”. Tra gli eliminati di lusso, questa
volta abbiamo Reuccio Claudio (Villa), con
“Meglio una sera”, che nemmeno lui è in
grado di “salvare”. Fuori anche un acerbo
Stevie Wonder, insieme a Gabriella Ferri,
interprete e co-autrice del niente male “Se tu
ragazzo mio”.
J
|| Domenico Modugno nel 1958
propria del brano che appunto può venire
legittimamente cantato in entrambi i modi:
il melodico a piena voce e il teatrale, quasi
recitato. A questa edizione Tony Renis
porterà “Quando quando quando”, che ben
presto diventerà una delle canzoni italiane
più eseguite nel mondo, dopo “O sole mio”
e “Volare” (cioè “Nel blu dipinto di blu”);
arriverà quarto, ma si rifarà l’anno dopo,
battendo, con “Una per tutte”, assieme a
Emilio Pericoli, per pochi punti di scarto su
Claudio Villa in splendida forma con la sua
“Amor, mon amour, my love”. Fra l’altro,
erano anni che non si sentiva una canzone
tipicamente italiana contenente una frase
in un’altra lingua; che fino a un paio di
anni addietro andavano di moda, grazie
soprattutto a Nicola Arigliano e al compianto
Fred Buscaglione.
Il 1964 e il 1965 Sanremo si fa totalmente
internazionale: ad ogni interprete italiano
è affiancato uno straniero, con l’obbligo di
cantare in italiano. Va da sé, non tutti ci
riescono, con esiti talvolta buffi.
Il ‘64 è l’anno di Gigliola Cinquetti, già
vincitrice del Festival di Castrocaro Terme,
per soli debuttanti. Sbaraglia la concorrenza
con una delle più belle canzoni che si siano
ascoltate a Sanremo: “Non ho l’età” (in
coppia con la francofona italo-belga Patricia
Carli). Trionferà pure all’Eurosong di
quell’anno, la prima volta per l’Italia.
Dietro di lei troviamo Domenico Modugno
e Frankie Laine, poco noto in Italia, ma
negli USA uno dei nomi più gettonati, in
taluni casi più di Sinatra e Crosby. Quindi,
abbiamo il Dallara con (udite, udite) Ben
E. King. Tra gli stranieri in gara: Paul
Anka, Gene Pitney, Frankie Avalon, i tre
giovani che negli States vanno per la
maggiore, con Neil Sedaka, qui già noto (“I
capricci tuoi”).
«Legione straniera»
Nel 1965, la “legione straniera” presenta
una formidabile cinquina di voci femminili:
la megastar italoamericana Connie Francis
(Concetta Rosamaria Franconero), la sua
connazionale, pur essa oriunda, Timy
Yuro (Rosemarie Timotea Aurro) e una
delle regine del country, Jody Miller, e le
britanniche Petula Clark e Dusty Springfield.
Grazie alla Miller, la canzone di Pino
Donaggio, “Io che non vivo (senza di te)”,
col quale canta in coppia, diverrà il brano
italiano più venduto al mondo dell’anno.
Inoltre, ci sono il Pitney e Udo Jürgens.
Vinceranno Bobby Solo e i New Christy
Minstrels, con “Se piangi, se ridi”. I maligni
dicono: lo hanno premiato per scusarsi
della gaffe dell’anno precedente, quando si
presentò con “Una lacrima sul viso”. Una
canzone bella davvero, ma la pudìca Gigliola
era un’altra cosa...
L’edizione ‘66 va a Modugno (quarto
successo) e alla predetta Cinquetti, con
“Dio come ti amo”. Alle loro spalle, la
rivelazione Caterina Caselli e, per il terzo
anno a Sanremo, Gene Pitney, interpreti
di “Nessuno mi può giudicare”. Ma questa
è anche l’edizione più contestata. Infatti,
l’eliminazione di “Il ragazzo della Via Gluck”
è un brutto scivolone per la giuria, come
confermeranno il milione di dischi venduti
in quell’anno. Nota curiosa, con domanda
rimasta in aria fin da allora: che ci fanno a
Sanremo gli Yardbirds, un complesso rock
inglese assai quotato in patria e in Europa?
Ma è pure l’anno del debutto di un piccoletto
tutto peloso, scatti e nervi, dall’orecchio
inconfondibile: Lucio Dalla.
Il Sanremo numero 17, se da un lato presenta
un nutrito pacchetto di buonissime canzoni
per palati diversificati, dall’altro lato lascia in
bocca un gusto tragicamente amaro. È l’anno
Louis Armstrong, la torta con la ciliegina
Il 1968 si presenta con numerose bellissime
canzoni: una torta con la ciliegina dal nome
Louis Armstrong (“Mi va di cantare”). Vince
la struggente “Canzone per te” di un Sergio
Endrigo in forma smagliante, con Roberto
Carlos che di suo ci mette l’immancabile
pizzico di saudade brasiliana.
Ornella Vanoni-Marisa Sannia (“Casa
bianca”) al secondo posto; Milva-Celentano
(Canzone”) al terzo. Entrambi i brani,
musicalmente parlando, sono di Don
Backy, la cui carriera dall’oggi al domani
viene semistroncata a seguito dello scontro
con Celentano, probabilmente geloso dal
successo del cantautore toscano. Alle loro
spalle, il Numero uno del R&B, Wilson
Pickett, e l’astro nascente del Soul all’italiana,
Fausto Leali (“Deborah”, scritta dall’avvocato
Paolo Conte). Tra i nomi del firmamento
pop straniero ci sono Bobby Gentry (“La
siepe”), Lola Falana, in coppia con Satchmo,
ed ancora la Warwick che farà de “La voce
del silenzio” un hit internazionale (“Silent
voices”). Tra i bocciati, troviamo niente meno
che Domenico Modugno-Tony Renis (“Il
posto mio”), Eartha Kitt (“Che vale per me”)
e Shirley Bassey (“La vita”, che grazie ad un
arrangiamento appropriato diverrà uno dei
suoi cavalli di battglia, con il titolo inglese,
“This is my Life”); infine, Paul Anka-Johnny
Dorelli (“La farfalla impazzita”) e Pino
donaggio-Timi Yuro (“Le solite cose”).
Torno a ripetere: vincitori, vinti ed eliminati,
intendiamo i brani, sono cantatissimi, reincisi
da altri interpreti, presenti nei repertori dei
gruppi che si esibiscono nei night e nelle
balere.
Nel 1969, abbiamo una Sanremo molto
“italiana”, non solo per la tipologia delle
canzoni immancabilmente entro la
«Chi non lavora non fa l’amore»
Il 1970 è l’anno del “crumiro” Adriano
Celentano, che con Claudia Mori canta la
divertente e ironica “Chi non lavora non fa
l’amore”.
Alle loro spalle, Nicola Di Bari-Ricchi e
Poveri (“La prima cosa bella”) e Sergio
Endrigo-Iva Zanicchi con “L’Arca di Noé”,
che avrebbe meritato fors’anche il primo
posto... ma Sanremo doveva farsi perdonare
l’eliminazione del “Ragazzo della Via Gluck”
di Celentano, che puntualmente la critica più
intelligente gli rinfacciava... Dietro a queste tre
canzoni, il vuoto o quasi. Di rilievo, il ritorno
di uno stanco e non più “usignolico” Luciano
Tajoli (“Sole pioggia e vento”), insieme ad
un ambiguo efebico Mal, ex Primitives; di
una Rita Pavone, ombra della sbarazzina di
soli cinque anni prima (“Ahi, ahi ragazzo!”)
e di uno stanco Renato Rascel (“Nevicava a
Roma”, dove il riferimento all’Urbe avrebbe
dovuto essere lo specchietto per le allodole...
do you remember “Arrivederci Roma”?).
Da ricordare il debutto di tale Rosallino
Cellamare, in seguito Ron (“Pa’ diglielo a
ma’”). Pattuglia straniera ridotta, ma anche in
sordina: Sandie Shaw, Nino Ferrer, Antoine,
Rocky Roberts (che per il resto della carriera
camperà su “Stasera mi butto”); sorvoliamo
sui titoli, per amore delle note. Seconda
eliminazione di Claudio Villa (“Serenata”), ma
non si esclude una futura “zampata”. In fondo
non sono i leoni, dei “re”?
Il 1971 si presenta bene.
Nicola di Bari, da qualche anno in ascesa,
si aggiudica Sanremo con “Il cuore è uno
zingaro” (con Nada). Dietro di lui, “Che
sarà”, piacevolmente cantata dai Ricchi
e Poveri, ma che ha in José Feliciano il
trascinatore a livello mondiale.
Terzo piazzato, Lucio Dalla, con una delle
più belle canzoni italiane di tutti i tempi: “4
marzo 1943”. In origine, il titolo era “Gesù
bambino”, ma il capataz religioso della
Liguria è il cardinale Giuseppe Siri, guardiano
della Tradizione, del quale Dario Fo disse: “È
arrivato dritto dritto dal Medio Evo”.
Segue a pagina 8
8
spettacoli
martedì, 28 febbraio 2017
la Voce
del popolo
NOVITÀ
DOPO LO STREPITOSO SUCCESSO DEL PRIMO FILM,
È IN CANTIERE IL SEQUEL
|| I Pooh nel 1990
Dalla pagina 7
Agguerrita la presenza di “big” italiani.
Modugno, Celentano, Don Backey, la
Cinquetti in coppia con Ray Conniff e la
sua band; Donaggio e Peppino Di Capri,
I Giganti, I Nomadi, addirittura i Mungo
Gerry. Agguerrita, ma il livello medio
delle musiche lascia a desiderare. Oramai,
la musica si fa, in termini temporali,
altrove, cioé durante tutto l’anno. Chi
ha un buon prodotto, non aspetta più
Sanremo per lanciarlo, mancassero anche
solo due mesi all’appuntamento. Radio
e televisione abbisognano di canzoni,
cantanti/personaggi come il pane;
non bastasse, gli italiani, per lo meno i
giovani, sono sempre più infatuati delle
star estere; il pop e il rock inglesi e quelli
statunitensi con in più il Soul e l’R&B, e la
nuova musica brasiliana hanno già messo
in ombra la grande chanson francese,
ci vuole poco per far saltare il banco
anche in Italia. E poi, quelli che oramai
vanno per la maggiore, in primo luogo
i complessi e i cantautori, di mettersi in
concorso non interessa proprio. Insomma,
il Festival della canzone italiana è nella
sua fase discendente. Ovviamente, non
mancheranno pezzi di tutto rispetto, due,
massimo tre a rassegna, ma nulla di più.
di più”, con il trio formato da Gianni
Morandi, Enrico Ruggeri e l’autore del
pezzo, Umberto Tozzi. Debutta Fiorella
Mannoia con “Quello che le donne non
dicono”.
Bisogna arrivare al 1989 per avere un
pezzo meritevole di menzione: “Ameno
tu nell’universo” con Mia Martini, la
sua seconda Sanremo, dal 1982 quando
presentò “E non finisce mica il cielo”.
La vittoria di questa edizione di fine
decennio va a “Ti lascerò” con un vero e
proprio duetto: Anna Oxa e Fausto Leali.
p
Edizione 1972: il canto del cigno
Il canto del cigno sarà l’edizione del
1972, con il nuovo ritorno all’antico:
un interprete a canzone: “I giorni
dell’arcobaleno” di Nicola di Bari,
“Jesahel” dei Delirium, “Montagne verdi”
di Marcella Bella... una bella rivelazione;
“Piazza grande” di Lucio Dalla.
Nel 1973 si distinguono Peppino di Capri,
vincitore con “Un grande amore e niente
più” e Gilda con “Serena”.
Fino al 1981, avremo un festival in
sordina, con rari “nomi”, tanti esordienti,
qualche straniero semisconosciuto e il
corollario di ospiti: comici, cantanti e
arte varia. Quand’ecco spuntare Alice con
“Per Elisa”, composta da Franco Battiato
e la stupenda “Ancora” di Eduardo De
Crescenzo.
La grande novità del decennio
è la scomparsa dell’orchestra.
L’accompagnamento musicale, cioé, è in
play-back.
Nell’82 abbiamo l’intramontabile “Vacanze
romane” dal sapore Anni Trenta, dei
Matia Bazar (ma non vince) e “Margherita
non lo sa” di Dori Ghezzi. Il pieno
successo, postfestivaliero, va al motivetto
assai orecchiabile e furbacchione
“L’italiano” di Toto Cutugno. Tiene bene
“La mia nemica amatissima” con un
ritorno dopo un decennio di semiassenza,
di Gianni Morandi.
Nel 1987, grande e sincero momento
di commozione quando in presa diretta
il presentatore (Pippo Baudo) riferisce
della morte in un ospedale di Padova,
di Claudio Villa, plurivincitore (quattro
volte) di Sanremo. Vince “Si può dare
I Pooh con «Uomini soli»
Nel 1990 vincono i Pooh con “Uomini
soli”, ma l’attenzione del pubblico,
in teatro come davanti al televisiore,
è tutta rivolta agli ospiti stranieri
accoppiati ai colleghi italiani, i quali
naturalmente sempre più mettono in
ombra i protagonisti del Festival... I Pooh
vincono, ma sono in coppia con la nuova
star del jazz, Dee Dee Bridgewater. Toto
Cutugno è secondo, ma in compagnia di
Ray Charles... e poi c’è l’ex enfant prodige
Nikka Costa (con Mietta e Minghi), La
Toya Jackson con Marcella, Sandy Shaw
con Milva (ma la Padana è di un altro
pianeta: che cosa ci faccia a Sanremo è un
segreto da esorcisti), Toquinho con Paola
Turci), Mamma Afrika-Miriam Makeba
con Caterina Caselli, Jorge Ben con Ricchi
e Poveri.
Sarà l’ultimissimo Sanremo degno di
(tanta) nota.
A qualcosa pare che sia servito: nel 1991
c’è un piccolo risveglio rispetto a due anni
prima. Riccardo Cocciante vince con “Se
stiamo insieme”. Ci sono alcuni big del
momento: Renato Zero, Marco Masini,
Umberto Tozzi, Riccardo Fogli, Al BanoRomina. Ma manca la musica... Solo i
Tazenda e Francesco Bartoli riescono
a dare un fremito con “Spunta la luna
dal monte” e l’istrionesco e ironico Enzo
Jannacci con “La fotografia”. Amedeo
Minghi si salva con “Nené”. Segnalo,
come campioni di pessimo gusto – ma
sono i tempi “draivinnati” dalle televisioni
berlusconiane - “Siamo donne” con
Sabrina Salerno e Jo Squillo.
Nel frattempo, sono stati inventati
altri premi (esordienti, testo, critica,
ecc.), mentre il Festival è diventato
un’altra cosa, con una tenitura folle,
tre, poi quattro infine cinque serate.
Spettacolo, tanto e non sempre bello,
anzi. Le canzoni? Alle volte ci scappa una
ascoltabile, e non sempre per intera...
Nel 1995, uno sprazzo di luce: “Con te
partirò”, la voce è del tenore toscano
Andrea Bocelli. Ma vince la figlia di un
musicista; si chiama come la canzone
di Ray Charles che suo padre predilige,
Giorgia. Il brano si intitola “Come saprei”.
“Vorrei incontrarti fra cent’anni”, è
l’intelligente brano di Ron che vince nel
1996.
Tre anni dopo, mai successo in
precedenza: i primi tre posti ad altrettante
cantanti. Meritevolmente quanto a
interpretazione. E anche le canzoni
sono pregevoli: Anna Oxa “Senza pietà”,
Antonella Ruggiero “Non ti dimentico”,
Mariella Nava “Cos’è la vita”. Quarta,
ma in duetto con Enzo Gragnaniello,
la ultrasessantenne Ornella Vanoni
(“Alberi”).
Da allora ad oggi, è assai difficile il solo
ricordare qualche motivetto sanremese,
figurarsi titoli, nomi, classifiche. Forse
l’ultimo degno di menzione è il professor
Roberto Vecchioni che a quasi settant’anni
pianta la bandierina in cima e vince nel
2011 con “Chiamami ancora amore”.
q
la Voce
del popolo
Anno 3 / n. 14 / martedì, 28 febbraio 2017
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
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SPETTACOLI
Edizione
Caporedattore responsabile f.f.
Roberto Palisca
Redattore esecutivo
Helena Labus Bačić
Impaginazione
Denis-Host Silvani
Collaboratori
Sandro Damiani, Gianfranco Miksa, Ivana Precetti, Dragan Rubeša
Foto
Creative Commons, Pixsell, Reuters, archivio
DEADPOOL2:
LERIPRESE
INIZIANOAGIUGNO
D
eadpool tornerà a divertire e a dispensare con disinvoltura il suo
umorismo irriverente e al limite del politicamente corretto. Dopo lo
strepitoso successo del primo film, tenuto per anni lontano dalle sale
cinematografiche dalla Fox e infine rilasciato dopo che un leak del materiale in
Rete aveva fatto impazzire gli appassionati dell’universo Marvel, è pianificato
per giugno l’inizio delle riprese del sequel Deadpool 2. Chissà che non riesca a
ripetere, o magari superare, i risultati del primo film che divenne campione di
guadagni della franchise X men.
La pre-produzione, però, non è passata senza problemi, in quanto dal sequel si è
ritirato il regista del primo film, Tim Miller, a causa di divergenze creative con il
protagonista e autore del progetto, Ryan Reynolds, per cui è stato rimpiazzato da
David Leitch. Nel processo di stesura della sceneggiatura è stato coinvolto anche
Drew Goddard, autore, tra l’altro, della sceneggiatura di The Martian, per la
quale ottenne una nomination all’Oscar.
Tre mesi di riprese
Stando alla Gilda dei registi del Canada, le riprese, che erano state rimandate
di qualche mese – forse anche per dare più tempo agli sceneggiatori e per
finalizzare il casting - dovrebbero iniziare il 19 giugno e concludersi tre mesi
dopo, ovvero il 18 settembre.
Per quanto riguarda il cast, si parla del coinvolgimento di Pierce Brosnan e Russel
Crowe, mentre Kerry Washington sarabbe la favorita per il ruolo di Domino.
Stando al produttore Simon Kinberg, Deadpool 2 dovrebbe trovarsi nelle sale
cinematografiche nel mese di marzo del 2018. “La sceneggiatura è davvero
eccellente e al momento siamo nel processo di casting per alcuni dei nuovi
personaggi – ha spiegato -. Non ce ne sono molti, ma sono importanti”, ha
concluso Kinberg. (hlb)