Between being born "alive" and being born "alive

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Vol. 99, N. 2, Febbraio 2008
Pagg. 71-74
Oggi
Tra nato vivo e nato vivo e vitale:
l’accertamento della capacità di vita autonoma
Maria Serenella Pignotti
Riassunto. Viene rivisitata la definizione di “nato morto” con le sue implicazioni cliniche nella valutazione delle possibilità di sopravvivenza fuori dall’utero materno. Viene ripresa la definizione di nato morto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed i suoi scopi epidemiologici e viene esposta una breve revisione delle posizioni internazionali sulla
valutazione medica della presenza di segni di vita alla nascita.
Parole chiave. Limite di vitalità, nato morto, neonato.
Summary. Between being born “alive” and being born “alive and vital”:
the clinical evaluation of viability.
This paper reviews the definition of stillbirth and its clinical implications in assessing
survivability outside the womb. The World Health Organization’s definition of stillbirth and
its epidemiological purposes are taken into account, together with a brief review of the international opinions regarding the medical assessment of the presence of life signs at birth.
Key words. Limit of viability, newborn, still born.
«Non si esclude che, nel caso in cui il prodotto del
concepimento venga alla luce prima d’essere vitale, non
possa esprimere tuttavia qualche segno di attività biologica, come muoversi e compiere persino qualche atto
respiratorio; feti partoriti anche al 5° mese si sono visti
muovere, respirare e se ne è perfino avvertito il vagito.
Tuttavia tali rudimentali manifestazioni biologiche non devono essere considerate come segni di acquisita attitudine alla vita autonoma, bensì come infruttuosi ed evanescenti conati di vita. Potrebbero tali conati paragonarsi a quelle residue estrinsecazioni
vitali del muscolo il quale continua per alcun tempo
a fibrillare o del cuore che continua a pulsare, dopo
che furono isolati dall’animale vivente.
Nel caso di una nascita estremamente prematura,
tra le 22 e le 25 settimane di gravidanza, s’impone,
per il neonatologo, la diagnosi di vitalità del
neonato. Tale dovere professionale, per disposizione
della legge 194/78, è altrettanto vincolante per il medico che assiste al parto in una terminazione di gravidanza. L’imperativo professionale che deriva da entrambe queste situazioni è porre diagnosi di “nato vivo e vitale” contro quella di “nato vivo e morente”, cioè
distinguere tra «vere manifestazioni vitali e fatti vitali incoordinati e fatalmente transitori ed effimeri»,
non espressivi cioè di una effettiva autonomia, di una
già conseguita attitudine alla vita extrauterina, autonoma dal sostegno materno. Adamo, medico-legale
del secolo scorso, precisò magistralmente tale differenza, come nella citazione sopra riportata.
Si parla per questi casi, di vita residua, poiché effettivamente si tratta di un residuo di attività vitale,
come quella analoga che anche il cadavere per alcun
tempo conserva, dopo la morte, sia nelle unità elementari che nei complessi aggregati cellulari: onde si
parla anche di biologia del cadavere.
Ebbene, non mutano i termini per il caso del feto
immaturo, il quale si agita e perfino può compiere
qualche atto respiratorio, dopo che ha perduto i suoi
rapporti con la madre, a spese della quale si nutriva
e della cui vita viveva, come qualunque altro organo
materno…».
ADAMO 19491
Ballantyne2, nel 1902, definì la capacità di vita autonoma con queste parole: «il bambino prematuro differisce dal feto immaturo nel possesso della capacità di vita, cioè è capace di una vita indipendente
fuori dall’utero materno; una esistenza – deve essere
aggiunto – che non sia limitata a poche ore, ma che è potenzialmente possibile per mesi e anni. Non solo deve
avere battito cardiaco, movimento degli arti, polmoni
capaci di respirare, ma i suoi organi digestivi devono
anche essere capaci di un certo livello di attività funzionale, ed i suoi tessuti devono essere capaci di assimilare il nutrimento che gli arriva attraverso il canale
alimentare…la vitalità di un bambino dipende, perciò,
non solo dal numero dei mesi spesi nell’utero, ma anche
dal carattere della vita di questi mesi».
Neonatologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria A. Meyer, Firenze.
Pervenuto il 16 maggio 2007.
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L’A., quindi, più di 100 anni fa, definisce la capacità di vita non solo con un limite cronologico, o come
la presenza di un qualche segno vitale, ma come un
processo in divenire, sottoposto alla variabilità biologica, un continuum verso la maturazione dall’embrione al neonato per renderlo adatto alla vita extrauterina. E tale capacità di sopravvivenza deve
esprimere una prospettiva che va ben al di là dei primi minuti di vita, deve essere “potenzialmente possibile per mesi o anni”. Ballantyne mostra poi grande intuizione scientifica nel prevedere che «… miglioramenti nell’assistenza al prematuro, così come sono stati
possibili dall’introduzione delle incubatrici e dal controllo
delle sepsi, hanno già compresso il limite della vitalità…; è
un fatto di primaria importanza ricordare che l’età della capacità di vita non è una data fissa, ma variabile…così che,
naturalmente, la prematurità passa, attraverso gradi diversi, nella maturità al nono mese di vita intrauterina, e
emerge ad immaturità al quinto…».
Il tenere in considerazione le possibilità offerte
dalla scienza è essenziale ad una corretta diagnosi di vitalità; quindi – nel definire la capacità di vita fuori dall’utero materno –, non è sufficiente fare riferimento esclusivo alle intrinseche capacità
del bambino, ma, alla luce delle conquiste della
tecnologia, occorre valutare anche se la capacità di
vita possa essere sostenuta con mezzi artificiali,
vale a dire se vi sia disponibilità e possibilità di
mezzi straordinari di cura. Identificare il neonato
di estremo pretermine come potenzialmente vitale, differenziandolo da quello che sta, invece, terminando la vita intrauterina non è semplice e non
ci è certamente di aiuto la definizione di nato vivo
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità3:
«è nato vivo ogni prodotto del concepimento che,
indipendentemente dalla durata della gestazione,
dopo la completa espulsione o estrazione dal corpo
materno, respira o mostra qualunque altra evidenza di vita». Questa definizione fu adottata, a
scopo epidemiologico, per permettere una distinzione tra nato vivo e nato morto su cui si potessero realisticamente basare le statistiche di sopravvivenza/mortalità in tutto il mondo. Non esprime, assolutamente, un giudizio sulla vitalità
del neonato. Non serve a dire: “a questo bambino
batte il cuore o cerca di respirare, quindi vivrà”,
né: “a questo bambino il cuore non batte, quindi,
non vivrà”. Serve invece, a scopo statistico, ad
identificare i neonati che nascono senza alcun segno di vita da quelli che, invece, lo mostrano. Sta
poi al medico, dinanzi al caso concreto, capire se
tali segni siano espressione di una vitalità possibile oppure no.
La morte, a volte, non è un evento immediato che
si consuma in una frazione di secondo. È invece un
insieme di eventi irreversibili che conduce alla fine
di tutto un organismo. La difficoltà sta nell’identificare quando alcuni fenomeni biologici sono di una
vita che può continuare o appartengono, invece, ad
una vita che sta ineluttabilmente terminando. Identificare la morte non significa limitarsi a registrare
l’assenza di battito caridaco, tanto è vero che abbia-
mo una legge per l’accertamento della morte
(L.578/1993 e successivo decreto Ministero della Sanità 582/1994) molto puntuale, che impone al medico l’attuazione di precisi comportamenti nella diagnosi di morte.
È per tale motivo, per la difficoltà nella definizione di nato vivo che importanti istituzioni scientifiche esortano i medici a coniare una definizione
di nato vivo nuova, ufficiale, che permetta di chiarire le idee, di dare risposte a medici e genitori e,
soprattutto, di assistere in maniera scientifica i feti/neonati: «…Essere nato vivo non impone di per sé
l’obbligo legale a medici e genitori di prendere misure attive per prolungare l’esistenza del neonato o per ventilare un bambino che non può respirare naturalmente. Il
dovere verso i bambini, così come è sancito dalla legge
della Gran Bretagna, è di fornire cure adeguate al suo
miglior interesse, un dovere che noi sosteniamo da una
prospettiva etica. Non iniziare oppure interrompere
trattamenti che non siano nell’interesse del neonato non
è illegale, anche se questi trattamenti potrebbero prolungare la sopravvivenza…» 4.
Il CESDI (Confidential Enquiry into Stillbirths
and Deaths in Infancy) in Gran Bretagna ha specificato, in conseguenza della definizione di “nato
vivo” dell’OMS, che «le pulsazioni cardiache percepibili come conseguenza di un massaggio cardiaco non sono un valido segno di vita e che uno sforzo respiratorio
deve essere spontaneo ed attivo, piuttosto che un risultato di atti rianimatori, per esser considerato un valido
segno di vita»5.
Questa distinzione tra segni di vita non suggestivi di vitalità e, al contrario, segni di vita quali promessa di vita futura ci viene ulteriormente chiarita
dal dibattito sorto negli Stati Uniti in seguito alla
promulgazione del Borne-Alive Infants Protection
Act (BAIPA) del 2001, diventato legge nel 2002. Istituito, fondamentalmente, per «ripudiare il concetto
che il diritto di un bambino alla protezione della legge fosse dipendente dal fatto che sua madre lo volesse o meno», stabilì che «ogni neonato, nato vivo, ad ogni
stadio dello sviluppo, e indipendentemente dalle circostanze della nascita, è una persona che ha diritto alla protezione legale».
I termini “persona”, “essere umano”, “bambino”,
“individuo” sono riferiti ad ogni «neonato della specie homo sapiens che sia nato vivo ad ogni stadio
dello sviluppo» ed essere nato vivo significa «un neonato completamente espulso o estratto dalla madre,
a ogni età dello sviluppo, che mostra un qualche segno di vita: respiro, battito cardiaco, movimenti definiti dei muscoli volontari indipendentemente dal
fatto se il funicolo sia stato tagliato e indipendentemente dal fatto se l’espulsione o l’estrazione sia il risultato di un travaglio naturale o indotto, di un taglio cesareo o di un aborto»6.
Benché la stessa legge chiarisca che essa non deve modificare gli standard di cure mediche attuali,
ma solo assicurare che tutti i nati vivi siano trattati come persone, la preoccupazione crebbe nel mondo medico e spinse autorevoli neonatologi come
Avery e Cole a prendere posizione7.
M.S. Pignotti: Tra nato vivo e nato vivo e vitale: l’accertamento della capacità di vita autonoma
L’American Academy of Pediatrics Neonatal Resuscitation Program Steering Committee8, precisò
che la legge «non deve in nessun modo influenzare l’approccio dei medici nell’assistenza ai bambini estremamente prematuri. I medici devono discutere le opzioni di
trattamento con i genitori, preferibilmente prima della
nascita. I piani di trattamento devono essere basati sulle
informazioni correntemente disponibili e sulla prognosi.
Al momento del parto, e indipendentemente dalle circostanze del parto, le condizioni mediche e la prognosi del
neonato devono essere valutate. A questo punto medici e
genitori possono decidere sul non-inizio o sulla interruzione di cure considerate inutili, tenendo presente sempre
il miglior interesse del piccolo. In ogni caso, i neonati devono essere trattati con dignità e con le misure adeguate».
Nella discussione che seguì, venne chiarito che
la ragione per cui il BAIPA non definisce un nato vivo in base all’età gestazionale risiede nel fatto che
molti bambini nascono vivi a 20-22 settimane e sopravvivono per qualche ora, benché la capacità funzionale del loro apparato respiratorio non permetta
la sopravvivenza. Anche se possono vivere solo poco
tempo, questi bambini sono nati vivi e devono essere trattati come persone vive: cioè devono esser trattati umanamente, hanno diritto alle cure palliative
e devono ottenere un certificato di morte.
«Tale legislazione non vuole, assolutamente, interferire col giudizio dei medici curanti, o con le dolorose decisioni che le famiglie devono prendere nella più difficile
delle circostanze. Dobbiamo rispettare le famiglie e non
rendere, attraverso la lunga mano del governo, il momento più difficile della loro vita un momento non sopportabile.»6.
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tava segni di vita a 4 ore di vita. Solo 13 bambini (il
4,2% dei nati vivi) arrivarono ad essere dimessi dall’ospedale, e tutti e 13 erano di 23 settimane compiute di età gestazionale. I segni di vita presenti ad
una ora di vita, divisi nei tre grandi gruppi – battito
cardiaco, movimenti corporei attivi e pianto o respiro spontaneo – erano variamente presenti, come risulta nella figura 112.
Pianto o respiro
spontaneo
5%
(13)
7%
(21)
26%
(76)
13%
(39)
<1%
(2)
Movimenti
corporei attivi
8%
(22)
39%
(114)
Battito cardiaco
spontaneo
Non conosciuto
1% (4)
Figura 1. Segni di vita nella prima ora dopo il parto a 20-23 settimane di gestazione. Il 5% dei neonati (equivalente, nello studio, a numero assoluto di 13 bambini) presentava solo pianto o
respiro spontaneo; meno dell’11% (n. 2 neonati) solo movimenti corporei attivi; il 39% (n. 114 neonati) solo battito cardiaco
spontaneo. Altri neonati presentavano più di un solo segno di
vita (percentuale e numero assoluto di costoro sono identificati dalle cifre in rosso).
[Da ref. bibliogr. 12]
Anche Watson Bowes, presidente del Committee
of Ethics della ACOG, dichiarò: «Questa definizione di
nato vivo non restringe la prerogativa medica di valutare
se il trattamento medico sia da considerarsi inutile e
quindi da non iniziarsi o da interrompersi. È importante
tenere in mente che la legge si confronta solo con i criteri
che definiscono se un bambino è nato vivo. Non legifera
come medici e genitori debbano comportarsi nella decisione di non inizio o di cessazione di cure mediche o chirurgiche che siano considerate inutili per un bambino.»
Esistono criteri obiettivi che aiutano la disgnosi di “vitalità”: la frequenza cardiaca persistentemente bassa, l’ipotermia, un basso punteggio
di valutazione –CRIB-9 o, ancora, la mancata rapida
ripresa della frequenza cardiaca e del colorito con le
prime manovre rianimatorie, o l’assenza di un valido sforzo respiratorio10 sono segni indiscutibilmente
sfavorevoli. Dopo 3 minuti di rianimazione attiva
(intendendo così ogni misura rianimatoria, ventilazione assistita con e senza massaggio cardiaco), se il
battito cardiaco rimane inferiore a 100/min, la prognosi a breve termine per questi bambini è estremamente povera11. Lo studio di Macfarlane12, uno dei
pochi effettuati sui bambini “pre-vitali”, ha dimostrato come su 869 gravidanze terminate tra le 20 e
le 23 settimane (escluse le terminazioni volontarie di
gravidanza), il 35% dei neonati rientrava nella definizione di nato vivo. Il 26,3% di tali bambini presen-
Quindi, la valutazione della capacità di vita che la
legge chiede al neonatologo, una capacità di vita potenzialmente durevole, per mesi e anni, pur dipendente da strumenti e tecnologie, è certamente un capitolo difficile ma che rientra nei precisi compiti del
medico che si occupa di neonati. Tale valutazione non
può prescindere dalla valutazione della storia familiare e gestazionale di quel bambino, dalla esatta valutazione dell’età gestazionale in cui nasce, dalle condizioni di travaglio e parto, dal luogo di nascita, dalle caratteristiche individuali di quel bambino alla
nascita, espresse da criteri e segni obiettivi.
Infatti, la valutazione dei parametri vitali alla
nascita del neonato permette di valutare la risposta
del bambino allo stress del parto ed agli sforzi rianimatori e di giudicare le sue probabilità di sopravvivenza. Sono indici molto precisi ed oggettivi, anche
se permangono una certa confusione e differenti approcci terapeutici. Queste lacune sono dovute allo
scarso numero di neonati che nascono a tali età gestazionali, per cui gli studi prospettici, randomizzati, sono quasi impossibili e, di conseguenza, mancano le indicazioni della medicina basata sull’evidenza.
Quello che sappiamo è che le manovre di rianimazione aggressiva – massaggio cardiaco, adrenalina –
proposte per il neonato a termine, non sono mai state dimostrate di beneficio in questi bambini13.
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La valutazione della risposta agli sforzi rianimatori in queste fasce di età gestazionale, essenziale per la definizione clinica di nato vivo,
precede, a mio parere, le manovre di rianimazione più aggressive, e si basa su una immediata valutazione dei parametri vitali del bambino,
sulla ripresa del colorito, sulla risalita della frequenza cardiaca, sui tentativi di respirazione
autonoma o sotto ventilazione con pallone e maschera.
Se entro i primi minuti di vita (tre minuti, secondo alcuni), senza ausili eccezionali, vi è ripresa dei parametri vitali, la capacità di sopravvivenza del bambino deve esser presa in
considerazione e sostenuta.
Tuttavia, sarebbe privo di fondamento scientifico ed eticamente inaccettabile, in tali età della vita, basarsi, semplicemente, sulla presenza di sforzo respiratorio alla nascita o di battito cardiaco
quale criterio clinico per la decisione di sostenere
artificialmente la vita. Riprendendo la definizione
di Adamo, citata all’inizio di questo articolo, «…tali rudimentali manifestazioni biologiche non devono esser considerate segni di acquisita attitudine
alla vita autonoma, bensì infruttuosi ed evanescenti conati di vita…»
Molti feti partoriti nelle estreme età gestazionali rientrano tra i nati vivi ma solo per manifestazioni di vita residua, della vita intrauterina
che se ne sta andando e, come tali, pur nati vivi,
non sono da considerare “vitali”, cioè in grado di
affrontare la vita extrauterina12. La valutazione,
incongrua, di manifestazioni di vita intrauterina
che si sta esaurendo come espressione, invece, di
una capacità di vita autonoma nell’ambiente extrauterino, può indurre a sottoporre a rianimazioni intense e prolungate, o addirittura a cure
intensive, feti abortiti tanto prematuramente da
non avere alcuna possibilità di sopravvivenza al
Indirizzo per la corrispondenza:
Dott. Maria Serenella Pignotti
Neonatologia
Azienda Ospedaliero-Universitaria A. Mayer
Viale Pieraccini, 24
50100 Firenze
di fuori dell’utero; con le ingrate conseguenze che
ne derivano per il piccolo e per la famiglia: sanitarie, economiche ed affettive.
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