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24 febbraio 2017 delle ore 18:07
ALLONS ENFANT/26
Nuovo appuntamento con la giovane arte italiana. Stavolta a rispondere ad Andrea Bruciati è
Davide Sgambaro
"Si direbbe che il loro stato normale sia il
silenzio, e la parola una piccola febbre che li
prende di tanto in tanto". Jean Paul Sartre, La
nausea, Einaudi, Torino 2014, p. 73.

A cosa si riferisce quando pensa al termine
parola e perché la trova affine alla sua ricerca? «
Sartre si riferisce ad un rapporto di coppia e lo
descrive rievocando alla mente del lettore
quello che dovrebbe essere il normale
procedimento che va dalla formazione di
un'idea, un pensiero (il silenzio), alla
realizzazione di un gesto, una fisicità
percettibile (la parola). Sono cresciuto come
scrittore per poi inoltrarmi nel mondo dell'arte
quando il significato emotivo delle parole
scritte venne a mancare. Sono sicuro che, più
che la parola, che in fin dei conti rappresenta
un tassello importante nella ricerca e nella
digestione che conduce al lavoro, mi ha sempre
affascinato molto il silenzio, l'osservazione. É
un gioco che faccio giornalmente con la
complicità delle mie influenze, come fossi un
ladro, un infiltrato. Un procedere a tempo pieno,
in punta di piedi: una febbre costante e leggera,
quindi. Tutti i miei lavori sono nati e cresciuti
da una necessità che nel processo si trasforma
fino alla sua realizzazione: un finale
drammatico nel quale capisci di aver
abbandonato quell'idea iniziale perché consumata
e conclusa come fosse un rapporto sessuale
occasionale. Diversi i media utilizzati ma
costante il silenzio e nulla risulta forzato: tutto
viene coerentemente da sé ed ogni volta è
sempre qualcosa di nuovo che mi arricchisce».
Mi illustri questa sua analogia fra atto creativo
e pratica sessuale? «Più che altro mi piace
definire il lavoro in toto come un rapporto
amoroso dove, tra i due estremi, la sofferenza
e il godimento, si svolgono una serie di
circostanze che sviluppano la storia fra autore
e opera. Ogni lavoro è un rapporto differente,
ecco perché "occasionale”; una volta esaurita
la necessità resta la fisicità del ricordo ed un
graduale bisogno di abbandonarlo per lasciare
il posto ad una nuova ossessione e così
procedere. Personalmente baso la mia ricerca,
e conseguentemente ogni pratica, sul vissuto
giornaliero: è un passeggiare per mano con il
proprio lavoro, sapere che ogni sguardo
potrebbe essere un potenziale oggetto di
riflessione, ogni avvenimento, ogni parola udita
per strada. Il tutto sfocia nel prodotto finale che
diventa quindi soluzione o sintesi della mia
stessa esperienza». Parlando di quotidiano:
ritiene che il suo possa essere un lavoro che
trascende il reale o che ne rappresenta
l'essenza? «Ne rappresenta l'essenza, senza
dubbio. Spesso ci gioco distorcendola
ironicamente sia nel significato che nell'allestimento,
ma resta pur sempre un lavoro figlio di
un'esperienza vissuta. Credo che questo
attaccamento all'esperienza diretta sia il
medesimo bisogno che mi portò a scrivere o a
far musica in adolescenza. È un semplice modo
per demistificare le difficoltà e trasformarle
rendendole utili, o meglio, disarmandole. Più
che da letture credo piuttosto sia un'influenza
dovuta alle radici nomadi e il bisogno vitale di
conoscere ogni suolo sotto ai propri piedi per
sapersi muovere e conseguentemente sopravvivere.
Anche questo è una sorta di reinventare un
medium, e qui penso alla raccolta di saggi di
Rosalind Krauss, quando il medium base è
l'essere in Se, potenzialmente poi potrebbe
diventare chiunque. A tal proposito vorrei
consigliare le letture: L'idiota di Fedor
Dostoevskij e ancora L'utilità dell'inutile di
Nuccio Ordine».
Formazione e obiettivi. «Sono diplomato in
lingue, motivo per il quale in gioventù mi
innamorai della letteratura, soprattutto quella
francese. Successivamente ho studiato all'Università
IUAV di Venezia, facoltà di Arti Visive e dello
Spettacolo, dove mi laureai nel 2014 con una
tesi sul lavoro di Gino de Dominicis. Ho poi
proseguito i miei studi sempre a Venezia,
specialistica in Arti Visive e Moda e nello stesso
anno ho partecipato alla residenza annuale negli
atelier di Bevilacqua La Masa 2015/2016.
Credo che questa esperienza sia la più
importante e costruttiva per la mia produzione.
Fondante è stata poi l'esperienza a Spinola
Banna con Lara Favaretto come tutor, curata da
Guido Costa e Gail Cochrane. Quella residenza
fu un punto chiave e di svolta per la mia ricerca:
non abbiamo fatto altro che analizzare
minuziosamente i portfolio dei vari artisti
presenti arrivando a sviscerare lavoro per
lavoro le necessità di ogni singolo. Fu
un'esperienza che personalmente servì a
confermare la coerenza tra me e la mia
produzione: da quel momento in poi uscì tutto
più fluido e spontaneo. Nel febbraio 2016, ho
ricevuto un premio per la poesia visiva in
Francia, la fondazione Microcentre d'Art "La
Non-Maison” che mi ha proposto anche una
residenza di sei mesi tra Marsiglia e Aix-enProvence, A quel punto ho deciso di
abbandonare gli studi a Venezia per
intraprendere quella esperienza lavorativa. Una
volta in Francia mi sono spostato più di qualche
volta a Parigi, dove mi sono iscritto all'École
Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Attualmente
vivo in Italia per motivi economici cercando
fondi, opportunità espositive e lavoro per poter
realizzare e finanziare i miei progetti».
In che modo l'aspetto narrativo, vista la sua
formazione letteraria, può aver influenzato il
percorso più propriamente artistico-visivo? «
L'aspetto narrativo ha un ruolo chiave,
principalmente perché la maggior parte delle le
mie ossessioni sono accese dalla narrativa, altre
volte invece sono le mie ricerche che si
sviluppano anche attraverso romanzi e, inoltre,
tutti i lavori manuali e materici li ho prodotti
dopo averli immaginati e descritti scrivendo
racconti brevi o lettere senza destinatario. Ciò
che mi affascina in un lavoro è soprattutto la
ricerca di un'estrema semplicità, la sintesi negli
elementi visivi presenti, la velata ironia o
provocazione e, nel mio caso, il senso di
mancanza, elemento che esce spontaneo in tutta
la mia produzione. Detesto la pedanteria e
l'ostentazione concettuale e visiva. Son
dell'idea che la ricerca debba essere un valore
aggiunto in primis per la sincerità del pezzo
proposto, quindi una sorta di rispetto verso il
pubblico, secondariamente per una continua
crescita personale come artista e individuo.
Alcuni riferimenti letterari che nel tempo sono
diventati fondamentali per la mia produzione
sono l'esistenzialismo di Sartre e Camus,
l'analisi sulla percezione di Merleau-Ponty e, in
particolare Frammenti di un discorso amoroso
di Barthes».
Ironia e semplicità: può darmene una
definizione traendo esempio da alcune opere? «
Credo che la semplicità sia l'immediato
recepire, far immedesimare chi osserva in una
riflessione attraverso il proprio lavoro.
Dev'esserci solo un passo tra il vedere e il sentire
"tac-tac” mi disse una volta un amico. Semplice
è anche coerenza nell'imperfezione, nell'errore,
non soffocare il lavoro con elementi che
terrebbero a renderlo troppo macchinoso. Fra i
miei lavori penso a Non ci sarà mai nulla tra di
noi dove si esplicitava semplicemente il
rapporto di distanza tra una zolla e il buco che
la conteneva. Ho delocalizzato la zolla in un
punto dal quale si potesse vedere il buco dal
quale l'ho estratta, la relazione è immediata e
creata dallo sguardo del fruitore. 11.11 è invece
un lavoro che vive una volta all'anno, quando
il sole illumina l'angolo di una finestra e si
scopre la frase "Il posto delle cose da non
trovare”. L'ironia è una scelta, non sempre
adeguata, non sempre presente: la attivo
pagina 1
Exibart.com
utilizzando lo stretto collegamento che c'è tra
titolo e lavoro finito e, dipendentemente dal
tema da me proposto ne assume diversi
significati. Mi riferisco a lavori come Origàni
dove l'ironia sta nel titolo che a sua volta porta
ai materiali usati; penso a Maledetta quella volta
che t'ho fatto, il doppio significato che pretende
questa frase in riferimento alla scultura e al suo
significato, o ancora Padre, perdonali perché
non sanno quello che fanno. Ho usato una
citazione biblica che rimanda ad una serie di
significati ben presenti a tutti e difficilmente
confondibili per altri contesti, inizialmente si
vede l'opera con uno sguardo divertito, ma più
si assiste all'autodistruzione dello skydancer
più ci si avvicina ad una vera e propria
crocifissione. Non è un semplice readymade ma
la performance di un oggetto che rappresenta la
storia dell'azienda che lo ospitava. Il pupazzo
ha sembianze umane, sorride stupidamente ma
ci si accorge che è falso, sfiora l'osservatore, gli
sputa aria addosso, sbatte contro il soffitto e le
pareti, con il suo rumore non si può né parlare
né sentire, solo assistere alla sua lenta fine. Poi
cade, si sgonfia, si spegne il motore e muore. È
una morte che non si può prevedere, succede
solo quando e se le pareti riescono a lacerarlo.
Cala il silenzio e quello che prima era un
monumento di aria e stoffa ora è piccolo ed
insignificante».
Davide Sgambaro: Lei crede che ci si possa
permettere di fermarsi, di non avere fretta,
lasciarsi decantare nel tempo, slacciarsi dalla
veloce quotidianità grazie al far niente (con
passione) senza essere mal compresi? Come si
può uscire dall'ossessivo spauracchio contemporaneo
del tempo "perduto” quando questo diventa
indispensabile per la nostra produzione senza
essere considerati disfattisti? Andrea Bruciati: «”
Basta che un rumore, un odore, già uditi o
respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel
passato e insieme nel presente, reali senza
essere attuali, ideali senza essere astratti, perché
subito l'essenza permanente, e solitamente
nascosta, delle cose sia liberata, e il nostro vero
io che, talvolta da molto tempo, sembrava
morto, anche se non lo era...”. Cito Proust
perché ho sempre creduto in un tempo privato
di cui noi siamo gli unici artefici e responsabili.
Lo trovo una forma di piacere sottile, quasi
intimo».

Davide Sgambaro é nato a Cittadella
(PD) il 31 agosto 1989. Vive e lavora fra
Mantova e Parigi.


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24 febbraio 2017