Compensi amministratori sproporzionati e sindacato del Fisco

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Edizione di martedì 14 febbraio 2017
DIRITTO D'IMPRESA
Compensi amministratori sproporzionati e sindacato del Fisco
di Redazione
La Cassazione, con sentenza 24379 dello scorso 30.11.2016, torna sulla tormentata vicenda
della possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di sindacare l’ammontare del compenso
amministratori, disconoscendone (in tutto o in parte) la deducibilità, ove
ritenuto sproporzionato.
La tematica è specificamente riferita al compenso, ma può essere tranquillamente estesa
anche ad altri componenti negativi, secondo un più ampio ragionamento: l’inerenza di un
costo, va valutata esclusivamente sotto l’aspetto qualitativo oppure quantitativo?
Ed ancora, ove si condividesse il secondo approccio, il sindacato del Fisco può, di fatto,
sconfinare in una sorta di intromissione nelle scelte gestionali dell’impresa?
Accenniamo subito al fatto che la Suprema Corte, nella citata pronuncia, accoglie il ricorso
dell’Agenzia delle entrate che aveva censurato la deducibilità di un compenso amministratore
di una società, per il semplice fatto che (nell’annualità interessata) lo stesso era stato
erogato in misura pari a 600.000 euro, mentre sino al precedente anno la misura era fissata in
150.000 euro.
I Giudici, in particolar modo, affermano che:
l’Amministrazione finanziaria ha il potere di valutare la congruità dei costi;
nel caso particolare dei compensi, il Fisco non risulta per nulla vincolato alla delibera
di attribuzione del compenso;
non risulta sufficiente la prova di effettiva esistenza del costo, ma risulta necessario
comprovare anche l’inerenza in senso quantitativo;
il contribuente ha l’onere di fornire plausibili ragioni a giustificazione dell’ammontare
del compenso; in difetto, il componente negativo può essere disconosciuto.
Trattasi, insomma, di un perfetto allineamento rispetto ai precedenti rinvenibili nelle sentenze
n. 9036/2013, n. 3243/2013 e n. 9497/2008.
Ci si affretta ad affermare, peraltro, che non si condivide il minoritario orientamento (sentenza
24957/2010) che sostiene invece la non sindacabilità quantitativa del compenso.
Prendiamo atto dell’ulteriore approdo e proviamo a domandarci se la soluzione offerta alla
vicenda possa essere condivisibile, o meno.
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Innanzitutto, riscontriamo che il tema del disconoscimento quantitativo dei costi (per presunto
difetto di inerenza) ha sempre come bersaglio il compenso degli amministratori; non risultano,
ad esempio, contestazioni relative allo stipendio di un dirigente.
Aggiungiamo, poi, che le notizie di stampa sono sempre ricche di segnalazioni in merito alle
indennità milionarie di taluni amministratori di grandi aziende a livello nazionale ed
internazionale; tali compensi non risultano contestati.
Pertanto, è sin troppo facile riscontrare come la riflessione sia sorta solo ed unicamente in
merito alla posizione di società medio piccole, normalmente a composizione familiare, in
relazione alle quali il Fisco e la Cassazione applicano un principio di sostanzialità che
“scavalca” l’aspetto giuridico formale. Già questo potrebbe dare spunti di riflessione.
In secondo luogo, ci domandiamo quale sia l’economicità di una contestazione della posta del
compenso amministratori in capo ad una società di capitali, quando risulta evidente che
la tassazione in capo alla persona fisica risulta palesemente superiore rispetto a quella della
società. Se poi vi aggiungiamo il gravame di contributi previdenziali, raggiungiamo livelli
davvero da brivido.
Se ciò è vero, verrebbe da domandarsi quale sia l’oscuro ragionamento che possa guidare un
imprenditore (che normalmente vorrebbe massimizzare il carico fiscale, riducendolo), nel
momento in cui decide di pagare più imposte con il compenso, anziché minori imposte con la
distribuzione di utili.
Ancora, quale valore vogliamo assegnare alle decisioni dell’assemblea dei soci delle società di
medio piccole dimensioni? Il disconoscimento della deduzione del compenso rappresenta, di
fatto, una mortificazione della funzione giuridica dell’assemblea, con conseguenti riflessioni
che andrebbero effettuate.
Se una società decide, come è avvenuto nel caso di specie, di incrementare il compenso
all’amministratore (magari per riconoscere, sia pure a posteriori, una determinata attività),
quale mai dovrebbe essere la preoccupazione del Fisco e dell’Erario? Perdere X di gettito dalla
società e guadagnare X+100 di gettito dal socio? A noi pare, dunque, che il comportamento
antieconomico sia quello dell’Amministrazione finanziaria, che non sta rendendo un buon
servizio alla collettività.
Il ragionamento, ovviamente, appare più subdolo: la contestazione del costo sulla società non
determina (per ovvi motivi di natura giuridica) la “detassazione” del compenso in capo
all’amministratore.
Proprio tale ultima circostanza dovrebbe indurre a rilevare che, in un sistema equilibrato, ci
dovrebbe essere un immediato raccordo tra l’una e l’altra posizione: se il costo non è
riconosciuto un capo alla società, in automatico dovrebbe scomparire il reddito in capo
all’amministratore. E, se così fosse, abbiamo la sensazione che contestazioni come quelle in
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analisi scemerebbero all’istante.
Questo dovrebbe essere un Fisco equo e collaborativo.
Articolo tratto da “Euroconference News”
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