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PRIMO PIANO
Giovedì 9 Febbraio 2017
Il suo libro si proponeva di scoperchiare il Vaticano e invece è un tricchete tracchete
Chaouqui con le polveri bagnate
È un misto tra femme fatale e idealista incompresa
DI
ANTONINO D’ANNA
L’
arsenale c’era, a
sentir lei, e avrebbe permesso di
lanciare una serie
di bombe atomiche mediatiche in grado di infliggere
danni pesanti. D’altronde,
quando dici di avere in cassaforte (ma al Fatto Quotidiano ha
ammesso di custodirli in un caveau
di un’azienda specializzata) le carte della Cosea (la
commissione di riforma delle finanze
vaticane), i dossier
delle Nunziature
(le ambasciate),
persino i dossier
sulla sicurezza interna della Santa
Sede (roba, com’è
n o t o, d a s e r v i z i
segreti), l’attesa
che si crea diventa
spasmodica.
E invece Nel nome
di Pietro, il volume di
Francesca Immacolata Chaouqui
pubblicato da Sperling & Kupfer, non
sembra aver raccolto
grossi consensi dalla
stampa specializzata. Anzi, in
un caso il «ni» porta la firma
dell’autorevolissimo vaticanista americano John Allen
sul prestigioso sito Crux.
Ma andiamo con ordine. La prima recensione è
di Marco Ansaldo, su Repubblica. Ansaldo dice una
cosa nel chiudere il suo pez-
Emiliano Fittipaldi, ndr).
Inclusi alcuni frammenti
del testo che sembrano un
giallo».
Certo: «Non si lesinano
dettagli né documentazione», e conclude: «Chaouqui
considera che si sono accaniti su di lei perché faceva
parte di una commissione
che pretendeva portare una
trasformazione in Vaticano. Almeno è
quel che lascia
capire nel suo
libro».
E veniamo
ad Allen, che
all’ex commissaria voluta da
Papa Francesco alla Cosea
fa una serie di
appunti: «Lo
scopo del libro
sembra essere
quello di rifare l’immagine
della Chaoqui,
che passa da
femme fatale
a idealista incompresa travolta da una
Francesca Immacolata Chaouqui
serie di lotte
interne e gioancora, sui segreti immensi chi di potere che non sono
del Vaticano»
opera sua».
Interlocutorio. Mentre
Il vaticanista americano,
Monica Bernabè scrive che parla anch’egli di un
per El Mundo: «Si tratta testo più simile a un diadi un libro scritto in forma rio nel quale comunque: «a
di romanzo, a differenza di volte è difficile separare i
quelli pubblicati dai giorna- fatti dalla fiction», è colpilisti processati per Vatilea- to dal «Principale candidato
ks 2 (Gianluigi Nuzzi ed al ruolo di cattivo» secondo
zo: «Francesca Chaouqui ha
forse scritto meno di quello
che conosce.
Il nome di Pietro, come
battezzerà il figlio nato
dopo la sua condanna a dieci mesi (pena però sospesa),
sembra un prologo, benché
zeppo di interpretazioni.
Resta tanto da scoprire,
Il vescovo di Bergamo
tra Brescia e Milano
Ne parlavamo già nell’ottobre 2016 su queste pagine:
ora le voci sembrano essersi intensificate. Parliamo
del vescovo di Bergamo Francesco Beschi, classe 1951.
A Bergamo dal gennaio 2009, Beschi è da tempo indicato come in partenza per un’altra sede, più grossa di
quella che occupa attualmente.
Presidente della commissione episcopale per
l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra
le Chiese della Conferenza episcopale italiana, ai
giornalisti ha ricordato il 24 gennaio scorso (San
Francesco di Sales, patrono della categoria): «Se la
critica è non solo legittima, ma anche necessaria,
così come la denuncia del male, tuttavia il rispetto
dell’altro, della sua vita, dei suoi affetti, non può
essere un optional».
Non è amato dalla Lega Nord locale e guida una
diocesi che ha avuto qualche problema di pedofilia.
Ha attenzione per gli ultimi e i poveri e tra poco
saranno libere le diocesi di Brescia e Milano.
Antonino D’Anna
Nel nome di Pietro, e cioè
il cardinale George Pell,
il ministro delle finanze
vaticane.
«Per come la mette
Chaouqui», scrive Allen,
«lei aveva dei dubbi su Pell
sin dall’inizio».
Solo che se la pierre afferma di aver percepito
Pell come un nemico sin
dall’estate 2014, mentre
Allen ricorda: «L’ho intervistata per il Boston Globe
a giugno 2014 e allora ha
detto: ‘‘Credo siamo ad un
momento di cambiamento
storico. In parte grazie a
Pell, che appoggio completamente’’».
Per il collega: «La gente
non sempre dice ai gior-
nalisti che cosa pensa, ma
quelle parole non suonano
come figlie di quel tipo di
cautela che uno, che adesso dice di aver visto allora Pell come un cancro,
potrebbe usare in questi
casi».
Allen promuove il libro per la denuncia dello
«spesso disfunzionale e a
volte corrotto mondo della
finanza papale».
Anche se: «Il libro aggiunge relativamente poche
nuove tessere al puzzle – e
come per il tentativo di riabilitazione della Chaouqui,
beh, anche questo è ancora
da vedere». La montagna ha
partorito il topolino?
© Riproduzione riservata
LE PEN PUÒ PERDERE IN FRANCIA MA, SE NON SI RISOLVONO I PROBLEMI, VINCE LA VOLTA SUCCESSIVA
Il problema non è se uscire o no dall’euro ma se è sostenibile
un sistema che provoca il 50% di disoccupazione giovanile
DI
È
PAOLO ANNONI
vero che l’uscita dall’euro
implicherebbe un impoverimento istantaneo, ma è
altrettanto vero che nello
scenario attuale assistiamo a un
impoverimento lento e inesorabile
per cui non sembra esserci soluzione, anche per colpe dell’Italia,
nell’attuale Europa. La questione
che bisognerebbe porsi è se esiste
un modo per l’Italia di rilanciare la crescita e ridurre una disoccupazione ormai drammatica,
all’interno dell’attuale Europa con
le sue regole e, soprattutto, con i
suoi rapporti di forza.
Gli interessi dei disoccupati
e del 50% dei giovani che non lavora sono divergenti rispetto a chi
ha una rendita di qualsiasi tipo,
meritata o meno. Nel primo caso
non c’è nessuna differenza tra non
avere euro e non avere lire, però
può esserci una differenza se inve-
ce con le lire si trova lavoro senza
dover emigrare.
Più questa situazione si perpetua, più saranno le persone per
cui è indifferente non avere euro
o non avere lire, ovviamente posto che un giovane su due non
riesca a emigrare, ma a quel punto dell’Italia non rimarrebbe più
niente, nemmeno per i pensionati
o per i dipendenti pubblici. Risolto il problema dell’immigrazione
rimarrebbe quello dei milioni di
disoccupati.
La seconda questione è che
l’Italia sta assistendo a decisioni
prese da altri. Anche ammesso
che tutte le forze politiche italiane siano a favore dell’euro rimane la questione che altri si stanno
ponendo la domanda se non sia
meglio uscire dall’euro o depotenziarlo. In Italia si può fare e dire
qualsiasi cosa, ma non si può fare
niente per impedire le elezioni in
Francia, Olanda e Germania. Non
si può fare niente per impedire il
declino o i problemi degli altri
Paesi che, in questo momento, si
pongono, giustamente, il problema della convenienza dell’euro o
di questa Europa. Impostare la
discussione partendo dall’assunto che comunque l’Europa esista e
che comunque l’Italia esista in un
contesto europeo, così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi due
decenni, elude completamente il
problema.
Se la Le Pen perde, la Francia presenterà comunque il conto
alla Germania tentando una ridefinizione dei rapporti di forza
che eviti il declino di cui è pure
vittima e se questa operazione non
riuscisse, in favore della Francia,
tra cinque anni la Le Pen si ripresenterebbe alle elezioni con il
doppio dei voti. In tutto questo c’è
la Germania che andrà a votare a
settembre.
Quello che ci aspetteremmo non
è una discussione sul fatto che fallito l’euro ci sarebbe «un impove-
rimento gigantesco e istantaneo»,
una previsione per cui non serve
neanche un esame di economia.
L’Italia non può permettersi di
escludere a priori possibilità solo
perché sembrano troppo brutte e
non può, letteralmente, permettersi di non chiedersi se l’euro sia
o non sia un problema ed eventualmente a che condizioni; non
può permetterselo perché i dati
economici sono tragici.
La questione dell’euro non
si pone per delle diverse opinioni
filosofiche, ma si pone perché intere economie stanno, irrimediabilmente, collassando e perché all’interno dell’Europa ci sono priorità
di politica internazionale e difesa
confliggenti. L’euro potrebbe anche sopravvivere come l’Europa,
ma queste questioni rimarrebbero
sul tavolo e qualcuno prima o poi
sarà obbligato a farci i conti; più
passa il tempo, per la cronaca, più
i conti si allungano.
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