Delibera sull`inaugurazione dell`Anno Giudiziario

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L’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO, IL BUCO NERO DELLE
INDAGINI PRELIMINARI E L’OBBLIGATORIETA’ DELL’AZIONE PENALE
Si sono svolte la scorsa settimana le tradizionali cerimonie di inaugurazione dell’anno
giudiziario, sia presso la Corte di Cassazione che presso le sedi delle Corti di
Appello. Tanti i temi affrontati nelle relazioni tenute dai vertici della magistratura, ma
uno soprattutto ha destato la nostra attenzione.
Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Dott. Giovanni Canzio, ha focalizzato
la propria attenzione su una serie di problematiche inerenti la fase delle indagini
preliminari. Si è soffermato sull’incidenza dell’azione degli organi di informazione e
sulla eccessiva distanza temporale tra il c.d. processo mediatico, parallelo alla fase
delle indagini, e il processo vero e proprio; ha, subito dopo, sottolineato l’esigenza di
abbreviare la durata della fase investigativa e di prendere “in seria considerazione la
proposta di aprire talune, significative, finestre di controllo giurisdizionale nelle
indagini preliminari, piuttosto che prevedere interventi di tipo gerarchico o
disciplinare”.
Certamente, il primo punto è cruciale: le indagini preliminari sono troppo lunghe,
tanto che, com’è noto, ma come viene spesso poco evidenziato, la maggioranza
(circa due terzi) delle prescrizioni rilevate si collocano in tale fase. E’ quindi
importante sottolineare questo aspetto, per dedurne la sostanziale inutilità di un
prolungamento sine die o comunque in termini significativi del termine di prescrizione
dopo la sentenza di primo grado, posto che la gran parte delle prescrizioni matura
prima di tale momento, quando il fascicolo - e ci si tornerà poco oltre – è nel dominio
assoluto della pubblica accusa. Peraltro, vale la pena ricordare come il numero dei
fascicoli prescritti si sia in dieci anni sostanzialmente dimezzato, non
comprendendosi come tale tema sia tuttora considerato quale “emergenza”.
Ma ancor più significativa è la seconda affermazione: le indagini preliminari
necessitano di “finestre di controllo giurisdizionale” effettivo. Nonostante taluno abbia
ritenuto di replicare in termini sbrigativi, facendo riferimento ai meccanismi di proroga
del termine delle indagini oggi già presenti (per quanto poco effettivi), è evidente che
il Presidente Canzio si è voluto riferire ad altro: il controllo sui tempi delle indagini,
che la Commissione ministeriale che portava il suo nome aveva ritenuto di poter
risolvere attraverso la verifica giurisdizionale della tempestività delle iscrizioni al
registro delle notizie di reato. Il tema è quello dei meccanismi che vanificano
l’obbligo di immediata iscrizione delle notizie di reato del nominativo della persona
indagata, e che – di fatto – dilatano i tempi delle indagini a dismisura: iscrizioni contro
ignoti immotivate, fascicoli “contenitore” con stralci e riunioni senza verifica
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giurisdizionale dei relativi presupposti ed altro ancora. Il principio, centrale per il
nostro sistema accusatorio, di durata predeterminata delle indagini avrebbe potuto
essere tutelato, secondo la bozza di articolato proposta dalla Commissione Canzio,
attraverso la possibilità per il giudice per le indagini preliminari di retrodatare
l’iscrizione non tempestiva, con conseguente inutilizzabilità degli atti di indagini
compiuti oltre il termine massimo conteggiato dalla data in cui l’iscrizione sarebbe
stata doverosa.
Altrettanto chiaro è il riferimento all’inutilità dell’intervento disciplinare attualmente
previsto dalla giurisprudenza consolidata (la quale ha sistematicamente ricondotto il
mancato rispetto dell’obbligo di iscrizione immediata ad un mero illecito disciplinare);
così come il riferimento all’intervento di tipo gerarchico, previsto nell’ambito del d.d.l.
2067 all’esame del Senato, che tanto fastidio ha dato alla magistratura associata e
che è stata anche oggetto degli strali del Procuratore Generale di Milano. Egli, nella
propria relazione, ha definito la prevista imposizione di termini all’esercizio dell’azione
penale “incompatibile con la realtà delle indagini ma soprattutto con l’organizzazione
e con gli organici degli uffici”. Un via libera a che i fascicoli continuino a rimanere
negli armadi e i reati si prescrivano senza alcun controllo giurisdizionale.
E dunque, emerge chiara l’insofferenza da parte della magistratura requirente a che
la fase delle indagini sia oggetto di controlli maggiormente effettivi.
Ma ci si deve domandare quali siano le vere ragioni della insofferenza manifestata
verso l’ipotesi di un controllo gerarchico sui tempi delle indagini preliminari, ed ancor
più della indifferenza rispetto all’auspicio di un controllo giurisdizionale espresso dal
dottor Canzio, passato quasi sotto silenzio e non ripreso da alcuno dei suoi colleghi
nelle diverse cerimonie di questi giorni.
Non possiamo che concludere che dietro tale atteggiamento vi è la consapevolezza
che la obbligatorietà dell’azione penale sia una utopia impossibile da realizzare in
concreto, e che la libertà di azione nella gestione della fase delle indagini preliminari
consenta di fatto una selezione dei fascicoli da portare a giudizio senza alcun
controllo sui criteri di tale selezione.
Le indagini preliminari sono oggi regno incontrastato ed incontrollato degli uffici di
Procura, che – come casi di cronaca hanno dimostrato – hanno spesso gestito
l’assegnazione dei fascicoli in maniera discutibile anche rispetto alle linee di
organizzazione interna degli uffici, permeate dal principio di attenuata gerarchia e
sovraordinazione del Procuratore.
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Negli ultimi tempi, peraltro, alcuni casi clamorosi di esercizio del potere di avocazione
da parte della Procura Generale di Milano hanno dimostrato come effettivamente il
sistema si presti ad una gestione delle iscrizioni delle notizie di reato tutt’altro che
limpida. Il potere di avocazione, sul quale il Procuratore Generale ha ritenuto di
soffermarsi nella propria relazione sostenendone la massima ampiezza in
correlazione al suo ruolo di baluardo della obbligatorietà dell’azione penale, nasce
come riservato a casi ben delimitati. La Procura Generale presso la Corte di
Cassazione, con un revirement rispetto a decisioni precedenti, ne ha affermato la
massima ampiezza, sostenendo in una decisione della fine del 2016 che sarebbe
necessario “apprestare maggiore controllo sull’operato del titolare delle indagini e far
sì che gli esiti portino a ridurre le ipotesi di eventuale dissenso tra pm e gip” e dunque
prevalente il principio “del favor actionis, che tende a favorire l’esercizio dell’azione
penale quando sorge contrasto sull’accoglimento di una richiesta di archiviazione”. Il
campo sarebbe così esteso dalla inerzia nella decisione anche alla inerzia nelle
indagini.
Va però sottolineato che, se l’ulteriore ipotesi di avocazione legata all’inerzia
nell’esercizio dell’azione penale contenuta nel d.d.l. 2067 non viene considerata
compatibile, a dire dello stesso Procuratore Generale, con le risorse degli uffici, è
evidente che l’avocazione non può avere una funzione suppletiva generalizzata. Il
problema è che una zona grigia ne copre i presupposti in concreto, mancando ogni
controllo su di un meccanismo, che – come altri – dilata i tempi della fase
procedimentale nella quale ogni esercizio del diritto di difesa è inibito e nella quale,
viceversa, l’interesse dei media è massimo.
Tutto ciò ci pare dimostri quanto il principio di obbligatorietà dell’azione penale sia
velleitario e come nasconda dietro l’ipocrisia di una sua enunciazione formale il suo
superamento sostanziale.
L’enorme carico di fascicoli che derivano dal sistema che impone l’iscrizione di
qualsiasi notizia di reato viene di fatto “gestito” attraverso scelte dell’ufficio di Procura
non trasparenti; e gli interventi di supplenza della Procura Generale costituiscono
ulteriori passaggi non controllabili nella loro assoluta discrezionalità. A fianco
all’enorme mole di fascicoli abbandonati negli armadi, altri fascicoli vivono traversie
che dilatano a dismisura i termini delle indagini, posti a tutela del diritto del cittadino
ad essere sottoposto ad un processo in tempi ragionevoli.
Crediamo, quindi, che una riflessione complessiva sul principio di obbligatorietà
dell’azione penale si imponga, partendo dalla presa d’atto che attualmente il suo
esercizio in concreto non è governato da criteri trasparenti e verificabili e che le
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scelte discrezionali non vedono di conseguenza alcuna forma di responsabilità in
capo a chi le esercita.
Milano, 31 gennaio 2017
Il Consiglio Direttivo
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