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USA
SICUREZZA
ON-LINE
‫בס’’ד‬
ITALIA
RECUPERIAMO
LA PAROLA HASBARÀ
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
Il Kaddish contro l’abisso della morte
Portiamo nel cuore il ricordo dei nostri cari
1967
50
2017
SHALOM‫שלום‬
EB
RA
ISM
RA
N° 1 - GENNAIO 2017 • TEVET 5777 • ANNO L - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
OBAMA HA GETTATO
LA MASCHERA
ISRAELE
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50 anni di Shalom, storia ebraica da sfogliare
FOCUS
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maggiori informazioni in assoluta riservatezza
Enrica Moscati - Responsabile Roma
Tu con il Keren Hayesod
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N
ei giorni in cui il giornale Shalom
giungerà nelle case, mancheranno
poche ore alla cerimonia ufficiale
di giuramento di Donald Trump,
quale 45° presidente degli Stati Uniti. A
partire dal 20 gennaio, ci dimenticheremo di
Barack Obama, il più opaco dei presidenti
americani, quello che premiato
avventatamente con il Nobel per la pace, ha
perseguito il sogno di un’era pacifica
lasciando però morire migliaia di civili
siriani. Il mondo ancora ride ricordando la
sua minaccia lanciata, con voce grossa, al
regime siriano: l'uso delle armi chimiche
sarebbe stato il limite ultimo, la linea rossa
(così disse) che non andava superata. Come
sia finita lo sappiamo tutti: Assad ha
lanciato più volte i gas e Obama si è
nascosto, ha fatto finta di non vedere, non
ha minimamente reagito. E allo stesso
tempo il mondo non ride affatto ricordando
che l’accordo sul nucleare iraniano, che
avrebbe dovuto garantire Israele, non ha
cancellato la minaccia della bomba atomica
nelle mani dei fanatici ayatollah, l’ha solo
spostata di dieci anni.
Ci dimenticheremo quindi dell’Obama
presidente, ma non è detto che riusciremo a
dimenticare le conseguenze delle sue ultime
azioni, della sua ultima decisione di
rinunciare al veto, astenendosi, in occasione
del voto Onu con cui Israele è stata
condannata per gli insediamenti ‘illegali’
oltre la Linea verde del 1967. È stato questo
un vero e proprio agguato diplomatico,
preventivamente concordato con le Autorità
palestinesi, volto a creare una situazione di
non ritorno, a mettere Israele con le spalle al
muro sottraendogli il suo legittimo diritto a
trattare il tema della cessione della terra,
nell'ambito di una più ampia trattativa di
pace con la controparte palestinese.
Obama ha scelto un momento particolare
per togliere il suo sostegno ad Israele
mostrando una incomprensibile forza
intimidatoria contro il più tradizionale degli
alleati. Non lo ha fatto durante gli otto anni
della sua presidenza, quando era più forte,
ma nel periodo in cui viene definito
“un’anatra zoppa” - “lame duck”, nel
periodo cioè in cui un presidente uscente,
pur nel pieno delle sue funzioni, attende il
giuramento e l'insediamento del nuovo
presidente già eletto. Per di più Obama è
'zoppo' due volte, perché da quando ha perso
le elezioni di medio termine nel 2014, si è
dovuto confrontare con un Congresso
(Camera e Senato) interamente a
maggioranza repubblicana. Queste forti
limitazioni all’esercizio del suo potere, non
hanno impedito all’anatra zoppa Obama di
credersi un’aquila che volava, di
immaginarsi forte come l’aquila che è il
simbolo dello stemma degli Stati Uniti,
raffigurata mentre persegue la pace (in una
zampa ha un ramoscello d’ulivo), ma che sa
anche essere sempre pronta alla guerra
(nell’altra zampa ci sono 13 frecce). Proprio
quell'aspetto che è mancato nella politica di
Obama. Solo su Israele ha mostrato
attivismo, fino a giungere ad una decisione
senza precedenti nella storia dei rapporti tra
i due Paesi.
Che conseguenze avrà la risoluzione
dell'Onu? Una prima interna: cresce nel
Congresso la voglia di ‘rompere’ con l’Onu,
quanto meno congelando i finanziamenti
statunitensi (che rappresentano il 22% del
budget totale delle Nazioni Unite),
malcontento espresso in un twitter dallo
stesso Trump: “L’Onu ha un così grande
potenziale, ma ora è soltanto un club di
persone che si incontrano, parlano e
passano del tempo assieme”.
Una seconda conseguenza è esterna. E'
innegabile che Israele deve fronteggiare
ancora di più un isolamento diplomatico che
non è dovuto alla sua rigidità o a sue
presunte scelte sbagliate, ma è il risultato
tangibile del successo della lobby pro-araba
e pro-palestinese che è presente in quasi
tutte le diplomazie (non dimentichiamoci
che pochi mesi fa l'Unesco ha negato
l'ebraicità di Gerusalemme). E' facile
immaginare che la pressione contro Israele
crescerà ancora di più. C'è il fondato rischio
che, in base alla risoluzione Onu approvata,
ogni israeliano, civile o militare coinvolto
negli insediamenti, possa essere chiamato in
giudizio dalla Corte dell’Aia, per aver violato
la Convenzione di Ginevra e quindi accusato
di crimini di guerra. C'è il rischio, anzi la
certezza, che crescerà il movimento di
boicottaggio contro i prodotti israeliani e
l’isolamento commerciale delle imprese
israeliane, per colpire le quali si stilerà la
“lista nera” delle aziende che operano in
Cisgiordania. Si alzerà più forte la richiesta
di Gerusalemme capitale di due stati. Si
proporranno sanzioni per condannare
l’apartheid dei palestinesi. In ultimo l'Onu
tenterà di imporre uno stato palestinese
senza l’intermediazione israeliana. E' uno
scenario drammatico che potrebbe però,
speriamo, non realizzarsi o almeno
realizzarsi solo in parte. Dobbiamo affidarci
alla promessa che ha fatto Donald Trump:
“Dopo il 20 gennaio alle Nazioni Unite, le
cose andranno diversamente”. “Sii forte,
Israele, il 20 gennaio arriverà presto!”.
SHALOM‫שלום‬
COPERTINA
Il valore della dignità
umana al di là del dolore
4
5
7
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
Le regole dei vivi
per ricordare i defunti
JOELLE SARA HABIB
Sepolture ebraiche a Roma:
una storia lunga millenni,
con alcune interruzioni
DANIELE TOSCANO
8
10
Quei foglietti
sulle lapidi
JONATAN DELLA ROCCA
Praga: il più famoso
cimitero ebraico DEL MONDO
MARIO DEL MONTE
MONDO
Ciao, ciao Obama:
non ti rimpiangeremo
14
16
FIAMMA NIRENSTEIN
L’ultimo (si spera)
colpo basso di Obama
UGO VOLLI
ISRAELE
SE COMPRIAMO IN TRANQUILLITÀ
ON-LINE IL MERITO È DEI
‘GUARDIANI’ ISRAELIANI
18
LUCA D'AMMANDO
19
Per difendere Israele
recuperiamo la parola
hasbarà
ANGELO PEZZANA
PENSIERO
Wondy: “Ridere, ridere
ridere ancora, ora la guerra
paura non fa…”
20
CLELIA PIPERNO
FOCUS
Lia Levi racconta “Shalom”:
così cominciarono
i primi 50 anni
21
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
L’anatra zoppa
che ha provato a volare
3
COPERTINA
Il valore della dignità umana al di là del dolore
Il kaddish è una risposta alla frustrazione, alla disperazione, al dolore e alla sofferenza.
Pubblicamente dichiariamo con forza che non ci arrendiamo, che non ci lasciamo
distruggere, che continuiamo a camminare nella vita e per la vita
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
L’
4
ebraismo non affronta il male o, per meglio seguire
gli insegnamenti del Rav Joseph B. Solovietchik, l’ebraismo insegna che il male non può essere razionalizzato o teologizzato, perché razionalizzare il male o
teologizzarlo significherebbe rendersi insensibili al disastro, alla
tragedia.
L’halachà pone al centro della propria riflessione la tragedia,
qualora questa accada, e gli stessi dettami halachici del lutto insistono sul riconoscimento dell’unicità della persona e di conseguenza della sua perdita. Nel mondo animale la morte non è una
mostruosità, è un momento fisiologico, probabilmente crea qualche squilibrio, ma non ha altre dimensioni espressive. Nel mondo
umano la morte è caratterizzata da una dimensione ontologica
perché la morte nel mondo umano mette fine alla storia dell’individuo, alla sua esistenza rispetto al passato ed alla sua proiezione nel futuro, mette fine ai legami tra la persona in quanto
individuo ed il resto del
mondo. Gli animali non
hanno il senso dell’individualità, dell’unicità,
a differenza dell’uomo,
ed è in questa differenza che si trova il grande
valore esistenziale che è
reciso dalla morte.
L’ebraismo non fugge la
morte, non nega la sua
esistenza e non vuole
che sia negata: la morte
è reale, proprio perché
nega il valore della vita
e della sua unicità. L’halachà ci spinge al confronto con il male non
come analisi metafisica,
ma ponendosi una sola domanda: “Come si agisce di fronte al
male?” La frustrazione, la disperazione, il dolore e la sofferenza
devono divenire, ebraicamente, un orizzonte di redenzione. Un
orizzonte di redenzione che chi soffre vive, inizialmente, da solo,
perché il dolore isola, l’esperienza del dolore pone chi è in lutto
al di fuori della società in una dimensione di totale solitudine. Il
percorso di lutto divenuto norma halachica, serve anche a reintegrare chi è in lutto all’interno della comunità e della società.
La tradizione ebraica codifica due momenti diversi nel percorso
del dolore, della disperazione e del lutto. Un primo momento è
quello identificato con il periodo dell’aninuth, il momento che va
dalla morte alla sepoltura ed il secondo momento è quello dell’aveluth che va dalla sepoltura al periodo in cui si esprime il lutto
nella pratica, che va dai sette giorni della shivah, ai trenta giorni
ed anche ai dodici mesi.
L’aninuth risponde all’immediata reazione spontanea dell’uomo
di fronte alla morte, è il momento in cui l’uomo insieme al dolore, avverte il senso della propria sconfitta. Nasce il dubbio, si fa
strada prepotente il senso della disumanizzazione della propria
immagine di uomo e viene dissolta, dal dolore che si prova, la
consapevolezza che noi siamo imago Dei.
Di fronte alla morte con la disperazione compare anche il cinismo, la presa di distanza da ogni significato, razionale e teologico, che diamo di noi stessi e con il quale interpretiamo la vita. In
altre parole crolla il sogno della nostra vita.
La Mishnà in Berachot 3,1 e nella relativa Ghemarà 17b insegna
che colui che ha il proprio morto davanti a sé, in altre parole colui
che sta vivendo il momento della morte di un suo congiunto, è
esente dal recitare lo Shemà ed altre preghiere, dall’indossare i
teffilin e da tutte le mitzvot contenute nella Torà. L’onen è di fatto esente dal compiere le mitzvot. Perché? Rashi spiega questa
esenzione affermando che essendo l’onen impegnato nella mitzvà della sepoltura, non deve occuparsi di altre mitzvot. I Tosafot,
citando Rav Bon, seguono un’altra strada interpretativa e collegano l’osservanza delle mitzvot con il versetto di Deuteronomio
16,3 dove l’obbligo del ricordo dell’uscita dall’Egitto è connesso
a “tutti i giorni della tua vita”.
L’onen, che vive il momento tra il dolore della morte e la sepoltura, perde il contatto e la consapevolezza dei giorni della vita ed è
esente dalle mitzvot allo stesso modo di un minore o una persona
incapace di intendere ed anche se l’onen è capace di intendere,
deve esprimere i nobili
sentimenti della disperazione, della tragedia,
della confusione che si
genera dal dolore e l’Ebraismo non vuole che
questi sentimenti siano
negati, rifiutati o rigettati, anzi devono essere espressi ed in nome
di questa espressione
esiste l’esenzione dalle
mitzvot.
Il dolore, che ci esime
dalle mitzvot, esprime
anche il fatto che il nostro legame con le stesse mitzvot e con Dio
esiste all’interno della
consapevolezza dell’umana dignità e santità. Nel momento in cui
l’onen è tale, è immerso nella disperazione, nel dubbio, nel dolore
e l’intera connessione con l’unicità, la santità e la dignità dell’essere umano si annebbia e con essa anche il senso delle mitzvot.
All’aninuth segue l’aveluth, immediatamente dopo la sepoltura.
Quando i nostri Maestri hanno imposto all’uomo il percorso di
lutto dell’aveluth, hanno dichiarato la fiducia nel fatto che l’uomo
non è solo padrone delle proprie azioni, ma anche dei propri sentimenti. Secondo l’halachà l’uomo non deve aspettare lo scorrere
dei giorni, ma deve attraversare il passaggio dal dolore al ritorno
alla vita e proprio l’halachà che spinge l’onen a non osservare
le mitzvot, forza l’avel, dopo la sepoltura, ad iniziare il percorso
attivo di lutto, denso di mitzvot, che lo porterà di nuovo alla vita
ed al legame con l’unicità dell’essenza del genere umano e con
l’unicità dell’osservanza delle mitzvot.
Nel primo periodo che segue la morte, l’aninuth, l’halachà non
prova ad insegnare nulla all’uomo, anzi ne accetta passivamente
la disperazione e prende distanza da lui come lui prende distanza
dalla vita stessa. Nella fase dell’aveluth, invece, l’halachà conferma all’uomo l’idea che la morte sia un elemento terribile, mostruoso, spaventoso. Eppure tutto questo non deve distoglierci
dalla nostra dimensione umana, dall’unicità della nostra dignità.
Nonostante la morte noi siamo parte di un disegno, siamo chiamati a costruire anche se, forse, non vedremo la fine della costruzione, siamo chiamati a piantare alberi, anche se non sempre ne
dichiariamo con forza che non ci
arrendiamo, che non ci lasciamo
distruggere, che continuiamo
a camminare nella vita e per la
vita. E’ significativo che ad ascoltare l’avel che recita il kaddish
c’è la comunità, rappresentata
dal minian composto dai dieci
uomini, che da un lato accetta
questa dichiarazione di difesa
e ripresa della vita e dall’altro
rappresenta il luogo dove la vita
continua: nella comunità, nella
società. Chi ascolta l’avel che
recita il kaddish deve rispondere: “Amen” ed in questo modo
afferma di credere nel valore della dignità umana al di là del dolore e dichiara anche il proprio
impegno ad accogliere nuovamente l’avel nella comunità dopo la
solitudine forzata che lui ha vissuto con l’esperienza del dolore.
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
Le regole dei vivi
per ricordare i defunti
verbi 17:5 - letteralmente ‘prendere in giro il povero’- che indica la
componente legata al non ‘mostrare mitzvot’, studiare o parlare di
torà nelle prossimità dei deceduti, i quali non hanno possibilità di
fare mitzvot, che sono legate al corpo, e costituiscono la differenza fondamentale tra questo mondo e quello futuro”. Vanno perciò
coperti eventuali sefer torà o tefillin, rammenta, gli tziziot infilati
nei vestiti, ed addirittura quando si fa l’esped - il discorso funebre,
bisogna cercare di limitare il più possibile le citazioni, accennando
unicamente a quelle necessarie per lodare la persona che si sta
ricordando.
All’uscita si fa poi la netilat yadaim, senza berachà, usando non
asciugare le mani, per simboleggiare come “il ricordo del defunto
rimanga con noi”, e a Roma, come in altre comunità, è tradizione
non andare direttamente a casa, solitamente fermandosi a bere
o mangiare qualcosa. Ciò deriva probabilmente dal voler recitare
alcune berachot in onore del defunto, “il modo migliore per far
salire l’anima”, che rimane valido per tutto l’anno, ed è la fonte
rabbinica alla base dei frequenti ‘pasti in onore’ e limmud, per
cui, tra l’altro, “lo studio
preferibile è quello della
mishnà, che ha le stesse
lettere di neshamà - anima”.
Per quanto riguarda minaghim particolari, precisa
poi il rav, “venire seppelliti
in Israele non è una vera e
propria mitzvà, ma un uso
di cui si ha testimonianza
fin dai tempi della torà dove vediamo Yacov e Yosef molto determinati ad essere interrati nella terra dei loro padri
- e del Talmud, quando addirittura alcuni dei Maestri di Israele,
non volendo che la loro terra diventasse solo un grande cimitero,
si lamentavano dei molti Saggi di Babilonia che passavano la loro
vita in esilio e giungevano in Eretz solo da morti. È un’usanza legata alla techiat ametim, che secondo la mistica avverrà prima per
i sepolti in Israele e successivamente per gli altri - che dovranno
prima arrivarvi tramite il gilgul mechilot, delle ‘gallerie’ sotterranee - causando un’attesa molto dolorosa per le anime”. Un uso,
e non proprio una mitzvà, riportato anche nello shulchan aruch,
anche lo spargere un quantitativo di terra proveniente da Eretz
Israel, che “è ulteriore motivo di kaparà, ed aggiunge perciò espiazione per l’anima”.
JOELLE SARA HABIB
Le halachot quando ci si reca al cimitero,
spiegate da Rav Yacov Di Segni
I
l cimitero in ebraico è comunemente chiamato ‘bet hakevarot’- casa delle tombe, ma, ci informa Rav Yacov Di Segni, i
due nomi originariamente usati dalla Bibbia sono l’eufemismo
‘bet hachaim’- casa dei vivi, e ‘bet aolamin’ - casa dei mondi, o
casa eterna, in quanto, secondo la tradizione, la morte rappresenta
anche l’inizio della vita nel mondo futuro, per il Pirkè Avot addirittura la ‘vera’ vita, il ‘vero fine dell’esistenza umana’, per la quale
questa è solo “l’ingresso, la preparazione”.
“Quando si entra in un cimitero per la prima volta dopo 30 giorni, che si stia iniziando un funerale, o semplicemente visitando
i propri cari,” continua il
Rav prendendo ‘tefillot
per i defunti’, il libro di
preghiere recentemente
edito da Morashà riguardo
ad avelut e funerale, “si
recita una berachà, in cui
sono ben esplicitati i temi
centrali del lutto”: grande
enfasi è data all’assolutezza della giustizia divina, e
soprattutto, alla resurrezione. ‘Benedetto... che vi
ha creati con giustizia, vi ha alimentati con giustizia, vi ha mantenuti con giustizia, e vi ha fatto morire con giustizia. Egli conosce
il numero di tutti voi e vi farà resuscitare con giustizia e risorgere
per la vita del mondo futuro. ‘Baruch attà H. mechayè ametim - che
fai vivere i morti’ leggiamo infatti.
Le regole da rispettare all’interno del cimitero, spiega poi, sono
molte, ed in gran parte analoghe a quelle da tenere all’interno del
bet hakeneset, poiché si tratta, in entrambi i casi, di rispetto per
il posto. Non lo si può usare quindi come scorciatoia, né vi ci si
può comportare con leggerezza, mangiare, bere, leggere, parlare
di lavoro o tutto ciò che è estraneo. “Generalizzando, possiamo
dire che i dinim riguardanti questo luogo derivano da due categorie principali” tira infatti le somme Di Segni, “quelle collegate al
kavod, e quelle connesse al ‘loeg larash’, il termine, tratto dai pro-
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
vedremo i frutti. Al buio del dolore, dell’aninuth, l’aveluth offre
il cammino del ritorno di una vita
che abbia un senso, nonostante
il dolore. Il punto di svolta in
questo ritorno è segnato dal momento in cui chi è in lutto recita
il kaddish.
Recitare il kaddish significa camminare nuovamente i passi della
coscienza della dignità umana,
della sua unicità, della sua particolarità. Il kaddish è il segno di
questa ripresa di coscienza: “Sia
glorificato e santificato il Suo
grande Nome…”. Queste parole
non sono solo una lode all’Eterno, sono una dichiarazione contro la sconfitta che l’uomo subisce
dalla morte.
Non importa quanto potente sia la morte e quanto terribile sia
la sconfitta che subiamo, attraverso la preghiera del kaddish,
5
COPERTINA
6
Foto di Micol Funaro
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
A Roma, al campo Verano, uno straordinario cimitero
monumentale - che forse merita cure più attente
Sepolture ebraiche a Roma:
una storia lunga millenni,
con alcune interruzioni
Vi sono sei catacombe e tre cimiteri
“A
cquisire la storia della nostra collettività anche attraverso i cimiteri significa riappropriarci di una delle nostre dimensioni più importanti: ci permette di
capire come viene trattato il proprio passato, senza
per questo elaborare il culto dei morti”. Con queste parole Claudio
Procaccia, Direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali della
Comunità Ebraica di Roma, apre la sua intervista a Shalom. Il suo
contributo ci permette di scoprire come si siano evoluti i vari luoghi
di sepoltura nel corso della millenaria storia degli ebrei a Roma. “Il
primo elemento che colpisce è che la comunità ebraica di Roma preesiste alle tracce archeologiche delle sepolture. In altri termini, se
abbiamo testimonianze della presenza ebraica già diversi decenni
1895 era stato creato il riquadro israelitico; qui venne trasferita anche una piccola parte delle salme presenti al Roseto.
Il Verano si distingue per le numerose tombe monumentali, ma anche per un utilizzo di sculture e di immagini tipico di fine ‘800: un
simbolo di come gli ebrei romani recepissero quella mentalità positivista e illuminista diffusa in Europa, fino ad adottare anche usi non
ebraici nelle sepolture. Nel dopoguerra, sono state collocate anche
due lapidi dedicate ai deportati, una prima situata all’ingresso e
un’altra per ricordare le vittime romane della Shoah.
Infine, i luoghi più moderni: il Cimitero Flaminio, a Prima Porta,
inaugurato a metà anni ’80, si presenta profondamente diverso.
Collocato all’estrema periferia della città, è privo di ornamenti e decorazioni artistiche. Forse la conseguenza di un cambio di mentalità
o di una visione urbanistica dell’intera città. Nella scia di questo
percorso, probabilmente presto entrerà in attività anche il Cimitero Laurentino, nel quartiere di Trigoria, già inaugurato nel 2002.
“Ma su questi cimiteri più recenti non posso aggiungere dettagli
dal punto di vista artistico o halachico”, conclude Procaccia, “posso
solo limitarmi a considerazioni da semplice osservatore o al massimo da futuro fruitore!”.
DANIELE TOSCANO
prima dell’era volgare, le prime catacombe sono datate II secolo e
ne esistono fino al VI”. Le cause di questo vuoto le ignoriamo: forse devono ancora essere scoperte o non c’erano sistemi separati di
sepoltura. Sono state individuate sei catacombe, risalenti soprattutto al IV e V secolo. Sono sparse in diverse zone: due nei pressi di
Villa Torlonia, sulla via Nomentana; a Vigna Cimarra (Ardeatina);
a via Labicana; a Monteverde; a Vigna Randanini (Appia Antica).
Solo quest’ultima è visitabile, nonostante un problema di passaggio
ancora irrisolto. Delle altre resta ben poco, al di là dell’indicazione
generica dei luoghi. Come noto, poi, ogni campagna di scavo nelle
aree del centro di Roma presenta problemi oggettivi.
Le raffigurazioni presenti in queste catacombe sono un elemento
utile a comprendere come cambia lo schema di auto-rappresentazione delle varie collettività ebraiche che si sono succedute sul territorio. L’uso del greco e del latino, ad esempio, dimostra come prevalesse la lingua franca rispetto all’ebraico; tuttavia, non mancano
riferimenti espliciti all’ebraismo, come la menorah, l’etrog, il lulav,
oltre ad altre raffigurazioni non decodificate.
Dal Medioevo inizia un buco documentario, tipico dell’epoca. C’è
anche un notevole calo demografico in questa fase: gli abitanti di
Roma da un milione si riducono a 20mila; parallelamente, gli ebrei
da alcune decine di migliaia restano in meno di mille. “Solo nel tardo Medioevo si torna a individuare una testimonianza degli usi funerari: dal 1363 al 1645, infatti, si ha la certezza dell’uso del cimitero
di Porta Portese, laddove oggi si trova il deposito degli autobus”,
afferma Procaccia. Nel 1645 fu inaugurato il cimitero del Roseto,
all’Aventino; un cambiamento figlio della nuova urbanistica che
prevedeva un’inedita cinta muraria per la città. Il Roseto divenne
così un punto di riferimento e ancora oggi ne restano varie testimonianze, come la targa all’ingresso o la menorah che viene formata
dai viali di una delle due parti che lo compongono. Nel 1934, Mussolini decise di espropriare la comunità ebraica di questo terreno.
Unico cimitero divenne così il Verano: un’antica necropoli, dove nel
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Nella foto a sin.: un particolare delle Catacombe di Vigna Rondanini
In alto: interno della Catacomba di Villa Torlonia
7
COPERTINA
Quei foglietti sulle lapidi
Sono le invocazioni, le preghiere, le richieste che i fedeli lasciano sulle tombe
dei grandi Maestri dell’ebraismo, oltre ovviamente che alla Grotta dei Patriarchi
N
el libro dei Numeri, nell’episodio degli esploratori, viene narrato grazie all’ausilio del commento della tradizione, che Chalev quando entrò nella terra di Israele,
andò a pregare alla tomba dei Patriarchi. Fu l’inizio di
un uso mai tramontato in seno al popolo ebraico. Con una tradizione sviluppata nella storia del pellegrinaggio presso i loculi
dei grandi giusti per chiedere loro, grazie alle virtù morali e sapienziali, e alla vicinanza con D-O, la perorazione dei bisogni e
delle volontà dei fedeli. Così nel corso dei secoli questi luoghi
sono divenuti affollati da migliaia di
seguaci e adepti i quali in particolari
date dell’anno, vuoi che sia l’anniversario del defunto o ricorrenze del
calendario ebraico, vi si recano con
devozione e rispetto. Sin dall’antichità, i testi sacri ed esegetici ci riportano al ruolo venerato di madre di
tutto Israele, la presenza della tomba
di Rachele, mamma di Josef e Beniamin, alle porte di Betlemme, presente
nell’esodo travagliato dell’esilio babilonese. Così come, la regione di Tiberiade, che in epoca mischnica fu molto frequentata dai sapienti, è stata da
sempre una delle zone di approdo per
questa pratica di pellegrinaggio. Qui,
nelle diverse località della regione,
si trovano i sepolcri di Rabbi Akivà,
Maimonide, e soprattutto quella di Rabbi Meir Baal Hanes dove,
con un flusso incessante, i fedeli depositano foglietti contenenti
messaggi con le richieste più diversificate: dalla buona salute
alla guarigione degli ammalati, domande di perdono e assoluzione delle trasgressioni, preghiera di una redenzione a breve,
sostentamento, pacificazione nei rapporti sociali, esaudimento
delle suppliche, ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, successo e fortuna nella professione e negli affari, destinazione di
un partner idoneo e la pace nel mondo. Si tratta di preghiere che
rispondono sia ai propri bisogni che a quelli della collettività.
Oltre alla zona del lago di Tiberiade, andando più su, nel nord di
Israele, troviamo altre località che meritano una notorietà turi-
stica grazie a questo fenomeno religioso. Una tappa frequentata
è Meron, dove fu tumulato rabbi Shimon Bar Yokai, capostipite
della mistica. Proseguendo si arriva a Safed sempre affollata di
fedeli che sostano in preghiera presso le sepolture dei grandi
rabbanim. Qui, oltre a Izchak Luria, padre della cabbalà moderna, riposano anche il rabbino Shlomo Alkabetz, autore del canto
Lechà Dodì, che celebra l’inizio dello Shabbat, ed il rabbino Yosef
Caro, compilatore dello Shulchan Aruch. Insieme alla grotta di
Machpelà a Hevron, dove sono sepolti i patriarchi oltre ad Adamo e Eva, e al Monte Sion di Gerusalemme, dove c’è la tomba del Re
David, sono i posti più frequentati di
questo pellegrinaggio presso i grandi
rabbini scomparsi. Ma non solo nello Stato di Israele si assiste a questo
rilevante turismo religioso. Anche in
Europa la folta presenza di cimiteri
ebraici, sviluppata nel tempo, richiama un afflusso costante di visitatori.
Basta andare nella zona delle sinagoghe antiche di Praga, dove c’è un
cimitero che ospita la tomba del celeberrimo Maharal, autore tra l’altro
del Golem, o nella piazza del vecchio
quartiere ebraico di Cracovia vicino
al Tempio, in cui si trova il feretro di
Rav Moshè Isserles, punto di riferimento della Halachà askenazita, per
rilevare l’ampiezza del fenomeno. Un discorso a parte merita il
pellegrinaggio che viene effettuato ogni anno nella settimana di
Rosh Hashanà presso Uman, a qualche centinaio di chilometri da
Kiev. Qui decine di migliaia di ortodossi chasidim da ogni parte
del mondo si recano dal 1811, anno della scomparsa di Rav Nachman, presso la sua tomba, per far si che la teshuvà richiesta
nei giorni penitenziali possa essere accettata dall’Alto dei Cieli
anche grazie alle opere meritorie del venerato maestro. Si tratta
di un evento annuale che per le sue proporzioni non trova una
simile partecipazione in nessun’altra manifestazione ebraica nel
globo.
JONATAN DELLA ROCCA
“Tefillot per i defunti”
e dai fedeli dopo il decesso e prima del lavaggio del defunto, fino a
descrivere tutte le fasi liturgiche che accompagnano la cerimonia
funebre, fino alla collocazione del
feretro alla tomba, le commemorazioni e gli anniversari della persona scomparsa.
Il volume colma un vuoto nel panorama editoriale ebraico italiano,
essendo il libro del rito funebre disponibile in copie limitate solo al
cimitero. E’ un volume prezioso
nelle tristi circostanze, come descrive nell’introduzione il rabbino
capo, Riccardo Di Segni, perché
si tratta di un “testo quanto serio quanto utile e che tiene conto
degli sviluppi storici della nostra
Comunità, in cui ogni sua componente giustamente tiene alle sue tradizioni, tanto più in momenti
tristi e coinvolgenti, come sono quelli del lutto e dell’accompagno”.
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Un libro per le ore tristi, con tutte
le preghiere. Edito dalla famiglia
in ricordo di Emanuele Pacifici
8
È
stato pubblicato in un’edizione curata da Morashà il libretto “Tefillot per i defunti”. L’opera è stata distribuita,
in occasione dell’anniversario del compianto Emanuele
Pacifici z.l. che come scrivono i figli e la moglie nei saluti iniziali “ha dedicato tutta la sua vita alla collezione di libri di
Judaica e alla riscoperta delle Comunità ebraiche scomparse. Le
sue gite in famiglia erano spesso abbinate con questa passione,
così come i viaggi di lavoro. Fotografava ogni sinagoga o vecchio
quartiere ebraico, così come ogni tomba di cimiteri ebraici abbandonati”.
Il testo di preghiera in lingua ebraica, con la traduzione in italiano,
inizia con le tefillot che si recitano quando il malato è agonizzante.
Per poi proseguire con la pubblicazione dei brani letti dai parenti
I pellegrinaggi sulle tombe dei Maestri
Si invocano i loro meriti, come nel caso di quella del Rebbe dei Lubavitch
Menachem Mendel Schneerson, aperta 24 ore al giorno
I due grandi leader del movimento Lubavitch sono ora sepolti
l’uno accanto all’altro e poiché sono migliaia i visitatori che qui
giungono ogni anno, oltre all’ohel - la tipica costruzione eretta
sopra il sepolcro di grandi saggi - per facilitare l’accesso alle
tombe, si è proceduto all’acquisto di una struttura limitrofa al
cimitero, che è stata pian piano ampliata, ed ora funziona come
visitor center, aperta 24 ore su 24, 6 giorni a settimana, e completa di tempio, bet midrash, e tutta una serie di locali a servizio
dei visitatori.
“Il posto è nel Queens, vicino all’aeroporto JFK, e conosciuto dai
tassisti”, descrive Rav Shalom, “non sono rari i casi di
persone che vengono dall’estero unicamente per visitarla, tornando in aeroporto
immediatamente dopo, e in
alcuni momenti l’affluenza è
altissima: il 3 di Tammuz, anniversario di morte dello zaddik, ed a Rosh chodesh Kislev,
quando solitamente si tiene
la conferenza mondiale degli
shelichim chabad, ci si può
trovare di fronte a 50mila persone, una presenza massiccia
delle forze dell’ordine, ed una
lunghissima fila, che limita a
pochi minuti il tempo a disposizione di ognuno”.
“Durante il resto dell’anno è però possibile trattenersi per ore, è
un luogo sempre attivo, e in molti vi si recano anche a notte fonda o nelle prime ore dell’alba”, conclude, ricordando come siano
molte le storie, anche recenti, di persone che recandosi lì abbiano trovato conforto o risposte alle loro richieste.
JOELLE SARA HABIB
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
“P
er l’ebraismo è assolutamente vietato pregare rivolgendosi ad una persona, dobbiamo sempre essere coscienti che qualsiasi nostra richiesta potrà
essere esaudita unicamente da H.”, ribadisce Rav
Shalom Hazan. Potrebbe perciò sembrare fuori luogo l’abitudine
di molti di recarsi sulle tombe di Maestri per esprimere richieste
e sentirsi più vicini al Creatore, tuttavia, spiega il Rav, pregare
sulla lapide di uno zaddik si collega piuttosto all’invocare i suoi
meriti davanti al S., a chiedere alla sua anima di intercedere per
noi, ed a una santità specifica del posto che, luogo di sepoltura di
una persona completamente
pura, è già di per se propenso
ad accogliere tefillot.
Esistono d’altronde fonti dalla
Torà per questa usanza, sottolinea, la più evidente delle
quali nell’episodio degli esploratori, dove la forza di opporsi
ai detrattori di Eretz Israele è
garantita a Yehoshua dalle preghiere di Moshè, mentre quella
di Calev è determinata dalla sua deviazione a Chevron,
dove si recò per pregare sulle
tombe dei patriarchi nella grotta di Machpelà.
È quindi evidente la particolare importanza data dall’ebraismo al luogo di riposo dei
grandi Maestri, e la stessa cosa vale nella tradizione chassidica. “Il Rebbe stesso, Menachem Mendel Schneerson, si sentiva
‘agente’ del suo predecessore il suocero Yosef Yitzchak Schneerson”, spiega rav Hazan, “e andava abitualmente a pregare sulla
sua tomba, e spesso, quando gli venivano chieste berachot, prometteva che ne avrebbe fatto menzione sulla stessa”.
9
COPERTINA
Praga: il più famoso cimitero ebraico del mondo
Raccoglie tombe, le più antiche del 1440, sovrapposte anche per dodici strati.
Tra leggende e racconti vi è anche quella del Maharal, il creatore del mitico Golem
N
el cuore di Josefov, lo storico quartiere ebraico di Praga,
si può trovare uno dei più famosi cimiteri al mondo: il
vecchio cimitero ebraico di Praga. Si tratta del secondo
più antico luogo di sepoltura conforme alla tradizione
ebraica in Europa ed è rimasto attivo per più di tre secoli in cui
sono stati seppelliti circa centomila corpi.
A seguito di un ordine del re che proibiva l’espansione del cimitero oltre il perimetro esistente, per sopperire alla mancanza
di spazio, le tombe sono
state sovrapposte creando
più strati di terra. In alcuni punti addirittura ci sono
fino a 12 strati per altrettante sepolture. Dato che
questo processo di sovrapposizione
comprendeva
anche la rimozione temporanea delle lapidi ed il loro
riposizionamento, in molti
casi queste ultime sono
andate perse. È per questo
che ad oggi si contano “solo” ventimila lapidi a fronte
del ben più alto numero di
corpi seppelliti.
La densità delle lapidi, gli
altissimi sambuchi che
oscurano quasi completamente il cielo, la scarsa
illuminazione ed il silenzio spettrale hanno contribuito ad accrescere la tetra fama di questo luogo. Non è un caso se il vecchio
cimitero di Praga è stato utilizzato come luogo dove ambientare
la riunione dei capi rabbini di tutto il mondo nel testo antisemita
‘I Protocolli dei Savi di Sion’. Inoltre una leggenda locale narra
che le autorità naziste, durante l’occupazione della città nel secondo conflitto mondiale, si siano rifiutate di demolire il cimitero
per paura di ritorsioni da parte delle anime dei defunti. Secondo
la versione ufficiale fornita dai documenti del Reich il cimitero
sarebbe stato risparmiato perché avrebbe simboleggiato bene
l’estinzione del popolo ebraico, ma non è difficile credere che i
soldati tedeschi si siano fatti suggestionare dall’atmosfera cupa.
Purtroppo non è possibile stabilire l’esatta data di apertura del
cimitero, per convenzione si usa la data inscritta nella lapide più
antica, quella del rabbino e poeta Avigdor Kara risalente al 1439.
Una delle sue elegie in cui è accuratamente descritto il grande
Pogrom del Ghetto di Praga del 1389 viene ancora oggi recitata
durante il Kippur nella più importante sinagoga della città. La lapide più recente invece combacia con l’anno di chiusura imposto
dall’imperatore Giuseppe
II, il 1787, ed appartiene a
Moses Beck.
Un discreto numero di personaggi importanti per la
cultura ebraica europea
riposano in questo cimitero: David Gans, astronomo
e matematico, Mordechai
Katz Ben Gershom, autore
dell’Haggadah di Praga,
Aharon Meshulam Horowitz, l’ebreo più ricco del Rinascimento, Hendl Bassevi,
moglie di Jacob Bassevi, il
primo ebreo a ricevere un
titolo nobiliare nell’Impero
Asburgico, e Joseph Solomon Delmedigo, dottore cosmopolita che ha vissuto in
tre diversi continenti. Il più
famoso di tutti è sicuramente il rabbino Judah Loew, soprannominato Maharal. Kabbalista e filosofo, fra i più grandi esperti di Talmud e autore di uno dei più importanti commenti al Rashi. Il suo
nome è intimamente legato alla leggenda del Golem, una creatura
d’argilla da lui creata e resa viva grazie alla Kabbalah per proteggere gli ebrei di Praga dalle continue persecuzioni. La tradizione
vuole che il Golem sia ancora custodito nella soffitta della vicina
sinagoga e in molti ancora oggi si fermano a pregare sulla tomba
del Maharal lasciando sassi e bigliettini come in tutti i luoghi sacri
della tradizione ebraica.
MARIO DEL MONTE
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
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Monte Herzl: luogo
di sepoltura dei grandi di Israele
...con qualche eccezione
D
della Knesset Sprinzak; il Ministro delle Finanze Kaplan ed il
Sindaco di Gerusalemme Kollek riposano uno accanto all’altro, a
pochi metri da un altro campo riservato ai leader delle organizzazioni sioniste mondiali. Nonostante le polemiche dovute alle
sue idee ultranazionaliste anche Ze’ev Jabotinsky è sepolto sul
Monte Herzl, una decisione di cui
si fece carico il Primo Ministro Levi
Eshkol nel ’64 promuovendo un clima di riconciliazione nazionale.
Il Monte Herzl è inoltre il luogo
dove l’esercito israeliano seppellisce i soldati caduti in battaglia
sin dalla guerra d’indipendenza
del ’48. Nonostante la rilevanza di
questo cimitero alcuni dei più importanti uomini dello Stato Ebraico
decisero di essere seppelliti altrove. E’ il caso di Chaim Weizmann,
David Ben-Gurion, Ariel Sharon e
Menachem Begin. Mentre i primi
tre hanno scelto dei luoghi particolari legati alla loro storia personale, Menachem Begin optò per il cimitero del Monte degli Ulivi,
uno dei luoghi di sepoltura più antichi al mondo risalente addirittura al periodo del Primo Tempio, circa tremila anni fa, perché
ospitava già i resti della moglie Aliza.
MARIO DEL MONTE
Nella foto in alto a sinistra: Asher Hiram
con il Ministro della Difesa - 1951
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
iversi mesi prima della fine della guerra d’indipendenza del ’48, in un giorno di febbraio, i funzionari del Ministero della Difesa israeliano si incontrarono per stabilire se lo Stato dovesse costruire un cimitero militare,
dove collocarlo e che aspetto dovesse avere. Il primo passo fu
dare l’incarico ad un architetto e l’uomo scelto fu Asher Hiram,
nato a Budapest nel 1897 con il nome di Sigmund Kerekes, che
fuggì da Brno in Cecoslovacchia quando il paese fu occupato dai
nazisti nel ’39. Arrivò nel Mandato di Palestina nel ’42 e si stabilì
nel quartiere Mamilla di Gerusalemme proseguendo il suo lavoro
di architetto e guadagnandosi una discreta fama.
Questo ebreo ungherese ha lasciato un segno indelebile nel più
famoso cimitero militare israeliano, quello del Monte Herzl dove
sono sepolte quasi tutte le più importanti figure dello Stato Ebraico, dalla sua fondazione ad oggi. Decise che le tombe dovevano
essere molto basse così che i visitatori dovessero essere costretti
ad inginocchiarsi; dettò le dimensioni ed il posizionamento delle
lapidi; creò un apposito carattere
tipografico richiamante l’ebraico
antico e sostenne l’uniformità delle tombe indipendentemente da
età e grado.
Nell’agosto del ’49 i resti del padre
fondatore del movimento sionista
Theodor Herzl vennero portati lì
secondo le sue ultime volontà e
Hiram, insieme al suo giardiniere-collaboratore Haim Giladi decise di seppellirlo sulla cima del
monte con ai fianchi i guerrieri
d’Israele, coloro che riuscirono a concretizzare il suo coraggioso
sogno.
E’ così che oggi si presenta questo luogo di straordinaria importanza nazionale. Nel corso degli anni infatti altri grandi della
storia ebraica contemporanea sono stati sepolti sul monte Herzl.
Una sezione separata è appunto dedicata ai grandi leader della Stato Ebraico: i Presidenti Shazar, Herzog, Navon e Peres; i
Primi Ministri Eshkol, Shamir, Meir e Rabin; il primo speaker
11
COPERTINA
Cimiteri rialzati: una novità
anche per Israele
È una risposta al sovraffollamento
dei luoghi di sepoltura
I
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
n particolare in città densamente popolate e tra le religioni
che vietano o scoraggiano la cremazione, il sovraffollamento
dei cimiteri rappresenta una sfida, ed il doversi basare su risorse territoriali limitate per far fronte
all’ininterrotto flusso delle morti ha portato alla creazione di soluzioni innovative.
Dal Brasile al Giappone, cimiteri elevati
costituiscono ormai l’ultima dimora per
migliaia di persone, e versioni ne esistono
in varie forme a New Orleans, nel simil-anfiteatro di Pok Fu Lam a Hong Kong, e nella ‘montagna dei morti’, in Egitto. Progetti
sono stati presentati per Parigi, Mumbai e
Città del Messico, dove ‘la torre dei morti’ combinerà una necropoli verticale e
un complesso sotterraneo di 250 metri di
profondità. In Cina, per i residenti di Pechino sono previsti sussidi per acquistare
spazio in questi piuttosto che nei cimiteri
tradizionali, mentre a Santos, in Brasile, si
trova il Memorial Nécropole Ecumenica,
con i suoi 32 piani il complesso più alto
esistente al mondo.
I sostenitori dicono che il nuovo sistema è
più sostenibile, rispettoso dell’ambiente e
comporta un’esperienza di visita più confortevole, tuttavia, solo in Israele, in prima
linea nel movimento globale e dove il prezzo degli immobili è alle stelle, il fenomeno
sembra essere parte di un progetto sostenuto dal governo. Le opzioni ‘salva spazio’ utilizzate sono principalmente tre: la prima, comune tra le coppie ed anche intere famiglie,
prevede il mettere le tombe una sopra l’altra - separate da un divisorio in cemento - ed avere una lapide condivisa, sicché ogni fossa
12
scavata in Israele ha spazio per inserirvi almeno altre due tombe; la
seconda è impilare i morti in nicchie incavate su pareti in superficie,
come se fosse un obitorio, ma ornato di lapidi; mentre la terza, più
rivoluzionaria, è quella di seppellirli in un edificio in cui ogni piano
assomiglia ad un cimitero tradizionale, salvo l’essere a cielo aperto.
Dopo alcune esitazioni iniziali, da quando le sentenze rabbiniche
hanno decretato la pratica in accordo con la halachà e abbracciato
il concetto come la soluzione kasher più efficace in un’epoca in cui
la maggior parte dei cimiteri nei principali centri abitati è arrivata
alla capacità massima, il cimitero rialzato è ormai l’opzione di default per i recentemente scomparsi in Eretz, e eccetto coloro che
hanno già acquistato i loro appezzamenti
futuri, tombe individuali all’esterno non
sono già più offerte ai familiari degli oltre
35.000 israeliani che muoiono ogni anno.
Molti sono coloro che hanno espresso il
loro sostegno, “Dio ci ha dato terra per i
vivi, non per i morti, se non vi è più spazio
per costruire case a Gerusalemme, io preferisco seppellire a strati” ha dichiarato
Chananya Shahor manager della Jerusalem burial society, e “è irragionevole passare la nostra intera esistenza ammassati
in condomini e poi morire in ville”gli ha
fatto eco Tuvia Sagiv, l’architetto incaricato del rinnovamento del Cimitero Yarkon,
alla periferia di Tel Aviv, che come luogo
di riposo principale della città, con 110.000
tombe estese su 150 acri, ha quasi raggiunto la piena capienza, e ora grazie alla
serie di 30 strutture verticali pianificate,
sarà in grado di fornire altri 250.000 posti
senza inghiottire ulteriore terreno, fornendo alla regione 25 anni di respiro. Sebbene
il numero di persone consapevole dell’inevitabilità del cambiamento sia crescente,
coloro che insistono sulla sepoltura tradizionale sono però ancora in molti, e ciò non
gli sarà negato: dovranno solo pagare, e guidare un po’ di ‘più, per
recarsi nel Negev dove la mancanza di spazio non è per ora certo
un problema.
JOELLE SARA HABIB
Esprime la gratitudine e la prova di un’educazione
ebraica e in alcune circostanze può essere recitato
anche dalle donne
I
l cordoglio per la morte del presidente Shimon Peres ha avuto un momento di sussurri, quando Tzivia Walden
figlia del presidente, ha recitato pubblicamente il kaddish per la morte del padre. Non è chiaro se i sussurri e le parole
di disapprovazione siano stati tali perché
una donna ha recitato pubblicamente il
kaddish o perché il testo del kaddish si
concludeva con una chiosa universalistica
dal sapore “reformed”. In realtà, purtroppo, il pubblico israeliano ha già visto una
donna recitare pubblicamente il kaddish
per il proprio figlio: si tratta di Rachel Fraenkel, madre di Naftali, uno dei ragazzi
rapiti e barbaramente uccisi da terroristi
arabi nei pressi Halhul, vicino ad Hebron.
Di fronte a Rachel persino il rabbino capo
di Israele rispose: “Amen”, ma anche in
quel caso non mancarono rumori di sottofondo e sospetti di “riforma”.
Le donne possono o non possono recitare
il kaddish? E se possono recitare il kaddish, le fonti e la discussione intorno a
questa possibilità sono in odore di riforma? Il Kaddish come insegna il Rav Uziel
(1880-1953) non è solo una preghiera per
il defunto, perché “il kaddish non è una
tefillah per il morto, bensì qualcosa che
il figlio recita per il padre dato che lo ha
cresciuto giusto nei confronti di Kadosh
Baruch Hu […]”.
Il kaddish quindi esprime la gratitudine e
la prova di un’educazione spiritualmente
valida, cosa che è un valore per tutti i figli di una persona, maschi o femmine che
siano.
Rav Bacharach, di Leipzig in Germania,
nel diciottesimo secolo racconta di un
episodio avvenuto ad Amsterdam, dove
un uomo rimasto senza figli, ma con una
sola figlia, ha comandato che dopo la sua
morte ella studiasse e recitasse il kaddish
per lui. Nessuno tra i saggi della comunità
si oppose ed anzi Rav Bacharach afferma
che: “Esiste un’opinione che anche una figlia può procurare vantaggi e riposo all’anima…”.
Rav Ovadia Yosef, rispetto all’ipotesi di
un uomo che abbia avuto figlie e non figli
ammette che: “Si può permettere loro di
dire il kaddish nel momento in cui si raggruppa un minian di uomini in casa per lo
studio di parole di Torà, o dopo la lettura
dei tehilim in un qualsiasi luogo. Ma nel
bet haknesset non si usa che una donna
dica il kaddish”.
Se quindi la donna può recitare il kaddish
ed il problema è solo legato al luogo, potremmo affermare che non è il kaddish ad
essere messo in discussione, quindi non
l’halachà in quanto tale, ma l’abitudine
sociale o il costume del luogo rispetto ad
una presenza “pubblica” di una donna che
recita il kaddish o altre forme di tefillot.
Rav Yosef Eliahu Henkin, morto a New
York nel 1973, non esprime nessun dubbio
riguardo ad una donna che si rechi a pregare al tempio per poter recitare il kaddish
e lo fa al di là della mechizà ed anzi ricorda
nella sua infanzia: “Ragazze che dicevano
il kaddish di fronte agli uomini, in comunità di chassidim e di tementi del Cielo, e per
questo non si rifiuta né la loro presenza né
la loro giovinezza, dato che questo avvicina all’ebraismo…”. Lo stesso ricorda rav
Moshe Feinstein quando risponde: “Mi
è stato chiesto se serva una mechiza per
una donna o due…per molte generazioni
era in uso che la donna era solita entrare
nel bet midrash per ricevere la tzedaka, o
una donna in lutto per dire il kaddish, e la
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Il Kaddish: significati
della preghiera-non preghiera
che si recita in ricordo dei defunti
halacha in questi contesti va studiata con
precisione e dipende da molti fattori…”.
Uno dei fattori, o sarebbe meglio dire una
delle preoccupazioni che oggi sono apparse all’orizzonte della riflessione halachica
non è il senso della stessa halachà quanto
le conseguenze sociali della stessa. Rav
Israel Mei Lau lo sottolinea chiaramente quando insegna che: “Per Halacha mi
sembra che non dovremmo poggiarci sul
permesso di rav Henkin specialmente nei
nostri tempi dove c’è il sentore di una idea
contemporanea che potrebbe portare ad
aggiustamenti per i miscredenti che imparerebbero da questo a permettere alle
donne di salire sulla tevà e deriverebbe da
questo un pericolo dalle nostre mani, per
questo meglio non permettere alle donne
di dire il kaddish in nessun caso”.
A quanto pare pur in presenza di autorità
halachiche che permettono che una donna reciti il kaddish, la paura di un incomprensione sociale e di una deriva riformata
ferma la stessa riflessione halachica che
autorizza e che non vieta. Rav Aharon Solovietchik coglie il senso di questa debolezza e non vede logico il vietare il kaddish
ad una donna solo in nome di un timore di
“riforma”, perché di fatto vietiamo qualcosa di permesso solo perché pensiamo che
potrebbe essere frainteso.
Se quindi un certo pubblico, fuori e dentro
Israele, ha mormorato parole di distanza o
disapprovazione per il comportamento di
due donne che in lutto hanno recitato il
kaddish, dovrebbe chiarire se la distanza
avvertita è halachica, cosa che è smentita
da autorevoli maestri, o sociale, cosa che
si smentisce nei ricordi di molti Maestri e
nelle riflessioni degli stessi, perché lì dove
l’halachà permette, la paura sociale non
può avere seguito.
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
13
MONDO
Ciao, ciao Obama: non ti rimpiangeremo
La sua politica estera, filo araba e filo palestinese,
non ha favorito la pace ma anzi ha rafforzato gli estremisti islamici
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
È
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difficile ormai pensare, come molti avrebbero voluto,
che a Obama è stata a cuore, durante i suoi due mandati, la pace in Medio Oriente. Innanzitutto si è tirato
vergognosamente indietro lasciando il campo libero a
russi, iraniani e Hezbollah quando avrebbe dovuto fare il passo
decisivo, ovvero quello di fermare Assad, al tempo della “linea
rossa” delle armi di distruzione di massa, che hanno prodotto
l’uccisione di centinaia di migliaia di persone e milioni di feriti
e fuggitivi.
Al tempo della Primavera Araba Obama scelse l’interlocutore al
momento più comodo, la Fratellanza Musulmana, senza interrogarsi sui disastrosi risultati per il futuro; sulla questione iraniana
si è impuntato a non scorgere i pericoli evidenti e le trappole palesemente tese dalla Repubblica Islamica che oggi si traducono
in un efferato imperialismo che occupa quattro capitali; ha insistito con un atteggiamento esclusivamente ispirato al politically
correct nella negazione dell’islam radicale come ispirazione del
terrorismo, di fatto spuntando le armi di tutto l’Occidente... e più
di ogni altra cosa si è avventato alla fine del suo mandato, por-
per i palestinesi, per i primi dal punto di vista della sicurezza, per
i secondi dal punto di vista della praticabilità.
Ci possono essere molte ipotesi che superino la vecchia visione
dei confini (che poi non sono confini, Israele non ne ha se non con
l’Egitto e la Giordania che hanno accettato un trattato di pace,
altrimenti si tratta sempre di linee armistiziali), per esempio i
cosiddetti “swap” territoriali che tirino in gioco l’Egitto e la Giordania stessi con scambi e incentivazioni... ma no, di nuovo l’ONU
ha stabilito una condizione impraticabile e insensata, quella dei
confini del ‘67 che Israele non potrebbe mai accettare perché ne
va della sua esistenza stessa; ha di nuovo indicato come ostacolo
fondamentale non quello del tutto evidente a ogni persona ragionevole del rifiuto palestinese (che si è espresso anche in trattative generosissime, come quella del 2000 fra Ehud Barak e Arafat e
poi quella del 2008 di Ehud Olmert, che era letteralmente pronto
a tutto pur di firmare una pace) ma quello degli insediamenti.
Essi sono di nuovo stati definiti “illegali”, e non “disputati” come
nella risoluzione del ‘67, la 242. Oggi i nemici di Israele, disegna
no come propria una parte della capitale bimillenaria dello Stato
tando a espressione completa una autentica nevrosi aggressiva,
contro Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente e incurante
dei suoi stessi cittadini, contro l’unico vero sincero alleato, anzi,
parente stretto nella scelta democratica.
Per farlo ha scelto come palcoscenico il peggiore nemico non soltanto di Israele, l’ONU (che con le sue maggioranze automatiche
fatte di Stati Islamici e di Paesi cosiddetti del Terzo Mondo dedica ogni anno due terzi delle sue risoluzioni di condanna allo
Stato Ebraico) ma del suo stesso Paese, se è vero, come è vero,
che l’ONU è stato il teatro dell’intera Guerra Fredda, che ha visto
tutto lo schieramento prosovietico e cinese farsi alternativa mondiale al cosiddetto “imperialismo” di cui America e Israele erano
considerati i due pilastri, e quindi i nemici fondamentali.
E’ del tutto evidente che le cose stavano, e stanno a tutt’oggi,
alla rovescia di come li descriveva la narrativa di sinistra, ovvero
che i Paesi autocratici, imperialisti, aggressivi, schiavisti, bigotti
e dominati da impossibili dittatori erano appunto quelli del blocco sovietico, gli stessi che nel 1975 hanno votato la infame risoluzione “sionismo uguale razzismo”.
Ma Obama ha scelto l’ONU, e non poteva essere più coerente per
un’operazione di distruzione della legittimità di Israele e della
sua politica, e di conseguenza anche della ripetuta proposta israeliana per un autentico processo di pace: sono ormai più di tre
anni che Netanyahu invita Abu Mazen a sedersi e a trattare su
una pace che disegni confini plausibili sia per gli israeliani che
Ebraico, compreso il Muro del pianto, e rivendicano zone come
quella da cui si può agevolmente sparare agli aerei in arrivo
all’aeroporto Ben Gurion. Le cose adesso funzionerebbero come
quando si sono consegnati ai palestinesi 21 insediamenti a Gaza
nel 2005 ricevendone in cambio lo Stato Islamico di Hamas che
chiede la distruzione di Israele e lo bombarda strenuamente con
una gragnuola di missili sui civili.
La stessa espressione della risoluzione che chiede la restituzione
di “palestinian territories” è fasulla, non esistono territori palestinesi, non c’è mai stato uno “stato palestinese”: come è noto la
Giudea e la Samaria erano terre occupate illegalmente nel 1949
dalla Giordania che attaccò Israele anche nel ‘67. Allora Israele
difendendosi ha appunto occupato quei territori. Senza tuttavia
violare mai la dichiarazione di Ginevra, per cui è illegale spostare
popolazioni aborigene: Israele non l’ha mai fatto. Inoltre quella
zona è parte del disegno di una futura “casa ebraica” disegnata
con la dichiarazione Balfour.
Ma lasciamo da parte la storia, che probabilmente Obama non
conosce o preferisce ignorare.
Importante è ricordare invece che, persino dopo il “remake” delle posizioni obamiane nel discorso di 72 minuti che Kerry ha dedicato a poche ore dalla risoluzione alla terribile evenienza che
esistano insediamenti che impediscono la pace (che vergogna
sentirlo mentre a pochi chilometri si compiva la tragedia di Aleppo), i palestinesi hanno subito ripetuto un loro prevedibilissimo
“no”. Come potrebbero pensare a colloqui di pace mentre il mondo sembra dalla loro
parte nel disegnare una soluzione totalmente sbilanciata
verso di loro? Come trattare
i confini, se sono già stati disegnati? E più di ogni altra
cosa, come non proseguire in
questo magnifico gioco delle
vittime cui sono stati rubati i
loro territori e che li vogliono
indietro, se esso contribuisce
al picconamento quotidiano
del nemico sul terreno diplomatico, del BDS, dell’aggressività internazionale, dell’emarginazione morale di Israele, l’unico Paese morale della zona?
Abu Mazen ha assunto toni di sfida molto più aggressivi del solito: uno dei suoi uomini ha subito sottolineato che la risoluzione
deve essere vista non solo come una luce verde al boicottaggio
di Israele, ma anche all’uso della violenza, al rafforzamento della
“resistenza popolare”, lancio di pietre, attacchi con le auto e i camion, incendi, assassinio di donne e bambini negli insediamenti.
Abu Mazen naturalmente è particolarmente soddisfatto della conferma da parte della risoluzione della sua supremazia su
Gerusalemme, da cui viene espulsa la storia confermando l’invenzione di Arafat che gli ebrei non hanno niente a che fare
con questa terra e con la sua capitale. Naturalmente, felicissimi
della risoluzione sono anche Hamas e la Jihad Islamica, che la
vedono come un gesto di complicità nel disegno di rimpiazzare
Israele con una regione del futuro impero islamista. Il terrorismo
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classico di Hamas ne verrà
sicuramente
incoraggiato.
Naturalmente gli Hezbollah e
l’Iran, che hanno iscritto nel
loro principale programma la
distruzione di Israele, vedono
con grande soddisfazione il
sentimento di vittoria dell’odio antisemita nel mondo.
Era questo che Obama cercava? E’ difficile dirlo: certamente resterà nella storia
questa dedizione alla causa
antisraeliana proprio negli
ultimi giorni della sua presidenza insieme alla mobilitazione di Kerry, mentre così
tanto, e così degno di nota, avviene in medio Oriente e nel mondo islamico. Se era questo che voleva, l’ha avuto: un immenso
fallimento in Medio Oriente, una scia di sangue in Siria, una risalita economica e militare dell’Iran, una crescita del terrorismo
nel mondo.
Ma Israele non ha certo alzato le mani: il prossimo capitolo probabilmente ci riserva una svolta internazionale molto rilevante, e
speriamo di poterne presto dar conto.
FIAMMA NIRENSTEIN
Nella pagina a fianco, a sinistra: il Segretario di Stato U.S.A.
John Kerry, a sinistra, con il ministro degli Esteri Iraniano
Mohammad Javad Zarif all’ONU, a destra: lo sgombero da Gaza
In questa pagina: settlers israeliani percossi e tenuti in ostaggio
in un palazzo in costruzione nel sudest di Nablus
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16/12/16 14.22
MONDO
L’ultimo (si spera) colpo basso di Obama
N
Alla vigilia del cambio ai vertici dell’Amministrazione Usa,
il presidente uscente ha gettato la maschera: la sua politica
è sempre stata quella di mettere in difficoltà Israele
ella politica internazionale c’è un grande cambiamento
alle porte. Mentre scrivo questo articolo manca ancora
quasi un mese, ma quando lo leggerete saremo probabilmente alla vigilia del cambio di amministrazione negli
Stati Uniti e questo passaggio da Obama a Trump potrebbe essere
davvero decisivo. Dopo averlo visto promuovere la mozione del
Consiglio di sicurezza dell’Onu
contro Israele a fine dicembre, non
possiamo sapere in anticipo se
Obama approfitterà ancora di queste ultime settimane per cercare
di realizzare dei fatti compiuti contro Israele, tentando di “legare le
mani” all’amministrazione entrante. Molti lo temono, altri sperano
che le pressioni del Congresso e
del presidente eletto, cioè della
legittima rappresentanza della
volontà dell’elettorato americano
possano dissuadere il presidente
uscente dall’approfittare ulteriormente del periodo della sua irresponsabilità politica, che purtroppo è proprio conseguenza della
sua mancanza di rappresentatività e, per come è congegnata la
costituzione americana, dura a lungo. Obama non ha più nulla da
perdere, non rende conto né all’elettorato né al Congresso e dunque fa quel che corrisponde davvero alla sua ideologia, cioè cerca
di mettere Israele in difficoltà. Quel che è successo all’Onu in
dicembre dovrebbe far riflettere gli ebrei che hanno votato per lui
(la grande maggioranza della comunità ebraica americana) e anche
poi per Clinton, che ne avrebbe prolungato le politiche. Chi ha polemizzato contro Trump, ha tenuto il lutto per la sua vittoria e ancora
prova a boicottarlo, dovrebbe interrogarsi davvero sul suo rapporto
con il popolo ebraico, che appare quanto meno contraddittorio, se
non proprio segnato dalla patologia grave dell’odio ideologico.
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
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Ma anche se Obama non organizzerà altri colpi di coda contro lo
stato ebraico, i danni di questa amministrazione saranno numerosi. L’esempio più evidente è la Siria. Nella lunghissima intervista a
Jeffrey Goldberg di qualche mese fa, quasi un libretto in cui Obama
cercava di delineare la sua eredità politica, il presidente democratico affermava che il momento per lui forse più significativo della
sua presidenza era quello in cui
aveva deciso di non far rispettare
con le armi l’ultimatum (la “linea
rossa”) che aveva pubblicamente
intimato ad Assad di non usare le
armi chimiche contro l’opposizione. E’ una scelta che ha distrutto la credibilità americana non
solo in Siria ma in tutto il Medio
Oriente. In questa maniera Obama ha scelto di ritirarsi, di non
contare più e ha aperto la strada
all’egemonia russa su quello spazio politico decisivo nella politica
mondiale. La stessa politica è
stata fatta dalla sua amministrazione con l’Iran. Dopo avere fatto di tutto per concedere un accordo che permettesse all’Iran di sviluppare il suo apparato nucleare
fino all’orlo dell’armamento atomico (un limite che varrà solo per
dieci anni), evidentemente con la speranza di spegnere l’odio degli
ayatollah e magari di stringere un’alleanza strategica, Obama ha
minimizzato le violazioni all’accordo e ignorato le aggressioni simboliche e militari dell’Iran contro il suo paese, soprattutto ha evitato
di opporsi all’imperialismo rinato dell’antica Persia, oggi padrona
di Iraq, Siria e Libano, all’offensiva nei paesi del Golfo e in Yemen.
Insomma ha concesso ai nemici dell’America e dell’Occidente l’egemonia nel nodo vitale dei rifornimenti energetici e dei passaggi
marittimi che rendono il Medio Oriente decisivo per tutto il mondo,
ma prima di tutto per l’Europa. Nessuna meraviglia dunque che l’A-
Sennonché la leadership russa è interessata ad affermarsi nel mondo, minaccia l’Europa orientale, si è istallata stabilmente in Medio
Oriente e sulla sponda meridionale del Mediterraneo, ha preso territori che appartenevano all’Ucraina senza essere respinta. Tutto ciò
in seguito alla politica di Obama, riecheggiata dall’Unione Europea.
Con l’arrivo di Trump, questa situazione potrebbe cambiare. La sua
promessa di “fare di nuovo grande l’America” è certamente realizzabile, almeno se si guarda alla sostanza delle tendenze economiche. Non è detto che Trump voglia davvero attuarla, che faccia le
scelte giuste, che ottenga la collaborazione necessaria. Ma un’America che riconosce i suoi nemici e tiene cari i suoi amici, che chiede a
ciascuno di pagare i prezzi necessari, che non rinuncia a perseguire
i suoi giusti interessi, è nell’ordine delle cose. Questa possibilità è
importantissima per Israele, che si è trovata da molto tempo incompresa da un’America impaurita dall’Islam, che non capiva il valore
straordinario dell’impresa sionista nel fondare e far fiorire uno stato
autenticamente democratico nel Medio Oriente. Tutta la preparazione dell’amministrazione Trump, le nomine che ha selezionato
per la posizioni politiche chiave, le dichiarazioni che ha fatto sui
principali problemi, testimoniano della possibilità di una nuova epoca per i rapporti fra Israele e Stati Uniti e anche della possibilità di
operare finalmente sul conflitto fra gli arabi e Israele in maniera non
ideologica, badando ai fatti concreti. E’ una speranza e un augurio,
non una sicurezza. Ma certamente il periodo che si apre promette
di presentare numerose opportunità, che il governo di Israele certamente saprà cogliere.
UGO VOLLI
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
merica non abbia avuto nulla da dire sulla terribile distruzione di
Aleppo, realizzata assieme da Russia, Iran e governo di Assad e che
non sia nemmeno stato invitato a partecipare alle trattative che si
sono svolte fra Russia, Turchia e Iran sulla sistemazione dell’area,
in cui le vittime principali rischiano di essere i curdi, traditi dall’America per la seconda volta in una generazione (la prima era stata
responsabilità di Bush senior alla fine della guerra del Golfo). Per
fortuna Israele è retto da una leadership acuta, realistica e non ideologica come quella di Netanyahu che ha saputo sganciarsi dalla
subordinazione alla politica americana e ritagliarsi uno spazio di
dialogo con Putin.
Questa situazione spesso viene presentata come il frutto del declino economico e demografico degli Usa, stanchi di guerra dopo la reazione di Bush junior all’attacco dell’11 settembre, giusta ma senza
dubbio logorante e condotta in maniera discutibile. E però le cose
non stanno così. Perché il vincitore apparente di questa vicenda è
l’imperialismo russo. Ora la Russia ha meno di un decimo del prodotto nazionale lordo rispetto all’America, la dimensione della sua
economia, dopo la durissima recessione che ha subito negli ultimi
anni, è di poco superiore a quella spagnola e inferiore a quella italiana; la crisi demografica russa è terribile, con tassi negativi fin dal
1990; la sua industria non è in grado di esportare nulla (la sola voce
attiva è quella delle materie prime e cioè del petrolio, che a sua volta ha da molti anni un prezzo basso). Insomma le basi economiche
di un imperialismo russo sono del tutto inadeguate e un confronto
con la potenza americana è in astratto improponibile, mentre certamente sarebbe possibile per la Cina, che ha numeri ben diversi.
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ISRAELE
Acquisti on-line:
se compriamo in tranquillità
il merito è dei ‘guardiani’
israeliani
A Herzliya ha sede il più grande gruppo
antifrode al mondo, che controlla e gestisce
la sicurezza informatica di centinaia
di milioni di utenti
L
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
e sentinelle della nostra sicurezza informatica lavorano
24 ore su 24, 365 giorni l’anno, in un fortino nascosto in
un palazzo a vetri con vista mare identico a molti altri a
Herzliya, poco a nord di Tel Aviv. Sono ingegneri, ventenni o poco più, che agiscono con mouse e tastiera.
Siamo nell’Afcc, il centro di comando antifrode di Rsa, colosso
della sicurezza informatica che fa parte del gruppo Emc, che ha
oltre 10 mila clienti, tra i quali la quasi totalità delle aziende di
Fortune 500 e i principali istituti finanziari del mondo, da Barclays a Hsbc, da Ing a MasterCard fino a Visa. Protegge oltre 500
milioni di carte di credito e si vanta di raggiungere un tasso di
rilevamento delle frodi di oltre il 90%. Finora, oltre a intercettare
i traffici di denaro liquido rubato, questa task force ha sventato
oltre un milione di attacchi di phishing, malware e simili evitando, solo nel 2015, perdite complessive per 6 miliardi di dollari in
tutto il mondo, Italia inclusa.
Più di 400 persone al lavoro – per un fatturato annuo di circa 200
milioni di dollari – hanno il compito di intrufolarsi nei mercati
18
neri delle carte di credito e in forum blindati, zone oscure del
web alle quali si accede solo su invito di almeno cinque persone. Si tratta per lo più di predoni di credenziali dei nostri conti
bancari, ladri digitali esperti di cui occorre carpire la fiducia, con
pazienza e perizia, per poterli poi incastrare.
Il pezzo forte di questo centro è la stanza di controllo, con 25 persone che monitorano incessantemente quattro schermi giganti
sulla parete: mostrano in tempo reale tutti gli attacchi informatici in corso ai danni dei clienti dell’Afcc. Con un unico colpo d’occhio si vede il paese di origine, la vittima e il fornitore di servizi
Internet su cui sta avvenendo l’attacco.
La parte principale del lavoro la fa un super-computer centrale, che scandaglia
il web e passa al setaccio
milioni di e-mail, domini sospetti e chat room. Poi, però,
per richiedere il blocco di un
sito sospetto occorre sempre il via libera umano, di
un operatore dell’Afcc. Solo
allora parte una segnalazione a Google, Microsoft & Co.
e già nel giro di mezz’ora le
pagine compromesse diventano potenzialmente inaccessibili dal 95 per cento dei
browser: gli utenti possono
scegliere se visualizzarle a
loro rischio e pericolo oppure abbandonarle. L’83 per cento lascia
perdere, il 17 per cento va avanti, esponendosi all’eventualità
che qualcuno entri nel loro computer trafugando tutto ciò che
trova.
Per esempio, ogni volta che di uno dei clienti opera una transazione utilizzando un sistema di online banking, 20 fattori di rischio vengono registrati e alimentati automaticamente nel database dell’Afcc. Questi dati poi vengono poi analizzati e combinati
mettendoli a confronto con le 150 tipologie di frodi più comuni.
In una determinata operazione, a ogni funzione viene assegnato
un punteggio di rischio da 1 a 100, con i punteggi più alti che
indicano una maggiore probabilità di frode. Tutte le 150 colonne
vengono quindi combinate utilizzando una serie di algoritmi, che
rintracciano o escludono eventuali attività fraudolente.
L’Anti-Fraud Command Center della divisione dell’Afcc ha anche
un centro d’eccellenza, una sorta di accademia, dove vengono
formati giovani ingegneri che finiranno poi a lavorare sul campo.
Emc, la società di cui fa parte l’Afcc, opera in Israele dal 1999.
Nel 2006, a seguito di numerose acquisizioni nel paese, ha stabilito il suo centro di sviluppo a Petach Tikva, che nel 2011, si è trasformato nell’Emc Israele Center of Excellence, con sede a Herzliya. Una filiale di ricerca e sviluppo è stata poi aperta a Be’er
Sheva. Emc è diventata la prima multinazionale in Israele con la
presenza nel Negev e nel 2015 ha aperto un altro centro nella
città settentrionale di Haifa. Così nel corso degli ultimi tre anni,
il Consiglio d’Europa ha registrato oltre 200 brevetti in Israele.
LUCA D’AMMANDO
Per difendere Israele recuperiamo la parola hasbarà
C
i fu un tempo, non molti anni fa, in cui pronunciare la parola “hasbarà” (informazione) era giudicato sconveniente,
sapeva di ‘propaganda’, mentre le speranze di tutti erano
puntate sul ‘nuovo Medio Oriente’, la pace sembrava apparire all’orizzonte, Israele andava declinato su altri livelli. La parola sostitutiva divenne ‘public diplomacy’, suonava bene, cancellava i toni polemici, non più argomenti a cui controbattere, si stava
entrando nel tempo tanto atteso, Israele poteva finalmente essere
raccontato per quello che era, Israel hayaffà, la bella Israele, innovazione, cultura, diritti civili, scienza, progresso. Non più guerre,
sicurezza e difesa lasciavano spazio a collaborazione. La speranza
divenne però illusione, l’accordo sul quale si erano appuntate tante
speranze, si tramutò in ciò che era sempre stato, dissimulazione,
parole in inglese in pubblico, in arabo quelle vere, che vedevano
in Israele l’entità sionista da eliminare. Entità sionista, l’aggettivo
che si credeva pronto per essere archiviato, per aver svolto la sua
funzione storica, riappariva in tutta la sua dimensione, invece di
collocarlo nella memoria collettiva, ritornava attuale.
120 anni fa, nel 1897, Theodor Herzl, durante il primo congresso
sionista, dichiarava “A Basilea ho fondato lo Stato ebraico”, parole
profetiche, che oggi vale la pena di ricordare per capire come il
sionismo debba essere non solo rivalutato, ma usato quale arma
politica per spiegare Israele.
L’antisemitismo, che nella giornata della memoria ogni anno viene
condannato praticamente da tutti, purtroppo è più vivo che mai,
nella nuova veste “antisionista”. Gli ebrei uccisi nella Shoah – anche se il negazionismo trova ancora proseliti – sono ricordati con
rimpianto e commozione, ma quello che avvenne in quegli anni si
sta cancellando nella memoria, può anche diventare oggetto di critiche. “Se ne parla troppo, adesso basta, il passato è passato, è
l’ora della riconciliazione…” quante volte abbiamo sentito e letto
queste parole? A cui va aggiunto l’antisionismo, che ha sostituito l’odio verso gli ebrei con l’odio contro Israele, nella certezza di
evitare l’accusa di antisemitismo. “Critico la politica di un governo, sarà pur lecito”, un’affermazione che trova molti consensi, che
sarebbero molti meno se solo se ne analizzasse la provenienza. Le
accuse contro Israele, non importa il colore politico del governo,
sono l’esatta riproposizione dell’antigiudaismo classico, gli israeliani si macchiano degli stessi crimini che nei secoli passati venivano attribuiti agli ebrei: avvelenatori di pozzi, uccisori di bambini
(arabi, non più cristiani) per poterne usare il sangue nell’impasto
delle azzime, ecc. Attribuite oggi a Israele, con poche variazioni,
non da fanatici antisemiti, ma da intellettuali, politici, sindacalisti,
giornalisti europei, i quali non possono non conoscere come stanno
veramente le cose, e che hanno trovato il modo per esprimere il
loro odio verso gli ebrei evitando l’etichetta di antisemita. Quasi la
metà dei nostri concittadini europei, rispondendo a un sondaggio,
ritiene che Israele si comporta con i palestinesi come il nazismo
fece con gli ebrei. Ecco spiegato perché il BDS rafforza le proprie
radici.
Torniamo allora alla dismessa “hasbarà”, facciamo ‘conoscere’ la
realtà di Israele rintuzzando le menzogne che le vengono lanciate
contro. Il tempo della “public diplomacy” - in versione unica - verrà, questo è certo, non sappiamo però quando. Nell’attesa armiamoci di argomenti sionisti e partiamo.
ANGELO PEZZANA
Un’opera d’arte
o una provocazione?
che ritiene che non debbano essere elargiti fondi statali a istituti
che non esprimono fedeltà allo Stato israeliano.
L’artista, Itay Zalait, interpellato dai giornalisti, ha sostenuto che
la scelta del luogo era legata alla sua volontà di verificare quali
fossero i limiti di libertà di espressione in Israele e quale potesse
essere la reazione degli israeliani, da coloro che vorrebbero più
statue di questo genere sulle piazze israeliane, a quella di coloro che le vorrebbero invece buttare giù. La risposta del ministro
Regev alla provocazione artistica non è tardata ad arrivare e sulla
sua pagina Facebook, difendendo Netanyahu, ha criticato la statua dicendo che rappresenta il vitello d’oro, l’odio della sinistra
israeliana per Bibi.
Indignati, perplessi o semplici curiosi
spesso in cerca di un selfie con la statua
del Primo ministro hanno continuato a radunarsi ai piedi dell’opera di Zalait fino a
quando diverse persone non l'hanno buttata giù, a terra.
Il telegiornale su Aruz 2 (channel 2),
nell’edizione delle 20.30 ha paragonato la
scena di coloro che hanno rimosso la statua dal piedistallo alla distruzione della
Statua di Saddam Hussein.
Il 6 dicembre in tanti si sono domandati
se l’intento dell’artista sia stato quello di
rappresentare Bibi (recentemente indagato per l’uso di fondi pubblici per spese personali) come un mito, un eroe o un
dittatore. Se la statua di Zalait sia stata
una vera provocazione o della buona arte
saranno gli israeliani a deciderlo nei prossimi giorni; di certo per lui è stata un’ottima fonte di pubblicità.
SARAH TAGLIACOZZO
Reazioni contrapposte per la statua
di Netanyahu eretta dall’artista Itay
Zalait, in piazza Rabin a Tel Aviv
L
a mattina del 6 dicembre Tel Aviv si è svegliata con un mistero che ha inevitabilmente suscitato stupore e curiosità
nell’opinione pubblica israeliana.
A pochi passi dal municipio cittadino, a Rabin Square, al di sopra di un
piedistallo bianco, è comparsa una statua
dorata alta quasi 4 metri di Benjamin Netanyahu. Già alle prime ore del mattino
decine di curiosi si sono fermati a fotografare quella che è stata rapidamente definita da radio, telegiornali e social media,
la statua di “King Bibi’’ - Bibi, il Re.
La statua è stata collocata sulla piazza
dedicata a Yitzhak Rabin, Primo ministro
israeliano assassinato il 4 novembre del
1995 da un ebreo di estrema destra durante un comizio in difesa della pace e
il riferimento al partito di destra di Netanyahu, Likud, è stato subito inevitabile.
Inoltre in Israele, in questi ultimi mesi, vi
sono state forti tensioni fra il governo e il
mondo della cultura e dell’arte dopo che il ministro della Cultura
e dello Sport del governo di Netanyahu, Miri Regev, ha affermato
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Era stata abbandonata negli ultimi anni nell’illusione che la pace fosse a portata di mano.
Ma l’antisionismo, che è la forma attuale dell’antigiudaismo classico, non ha mai abbassato la testa
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PENSIERO
I
Wondy: “Ridere, ridere ridere ancora,
ora la guerra paura non fa…”
dicina, soppesando ogni
singola sillaba, per cercare di carpire ogni minima
informazione.
Proprio in questi momenti
di dolore, incertezza e tanta rabbia, Francesca Del
Rosso, una giornalista e
blogger, per gli amici Wondy, è riuscita a trovare la strada per affrontare tutto questo con uno
stato d’animo che è l’antitesi per definizione: l’allegria.
Nel suo viaggio in quella città che lei ha soprannominato “Rozzangeles”, ci fa entrare nella sua nuova vita fatta di famiglia, lavoro,
viaggi e il cancro.
Francesca parla a tutti, uomini e mariti, donne e mogli, ragazze e
ragazzi, di come affrontare questo nuovo capitolo inaspettato e spaventoso in cui ci troviamo catapultati senza la nostra volontà e che
siamo costretti a scrivere. Perché è nel momento che tutto crolla,
che tutto diventa sfocato e incerto, che bisogna trovare il coraggio
di alzarsi, e se abbiamo la fortuna, di farci prendere per mano da chi
amiamo e ci ama. Francesca ci insegna che è possibile continuare
ad amare se stessi, trovare il lato bello di una mastectomia, trovare
una piccola gioia in un ghiacciolo al limone, in una passeggiata sotto le stelle, in un sorriso di un bambino.
La cosa però più importante che ci ricorda Wondy, è di ridere e di
ridere sempre, di festeggiare per ogni piccolo traguardo, di festeggiare la vita ogni giorno.
Purtroppo però, un giorno il cancro ha ribussato alla sua porta e
con una velocità che è la sua si è preso Francesca. Ma non ha vinto, non è stato il più forte, non si è preso la testimonianza né del
suo sorriso, né del suo coraggio. Tutti noi dobbiamo dire grazie a
Francesca, a tutte le donne e gli uomini che cercano di mantenere
la poesia nelle loro vite malate, perché la poesia e l’allegria sono le
fonti della forza.
Tutti dobbiamo dire grazie ora a questa donna Francesca Del Rosso
per il coraggio che ha avuto non solo nel racconto, ma nella vita, perché lei ha vissuto fino all’ultimo non è mai stata una sopravvissuta.
Ha spiegato fino a sfinirsi che l’amarezza porta via tempo prezioso
che possiamo impiegare ad essere felici.
Ha lasciato a 42 anni, anche un vademecum delle chemioavventure… è scaricabile gratuitamente da amazon, perché l’amore non si
può pagare… arrivederci Francesca e grazie.
CLELIA PIPERNO
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
l cancro al seno è una voce, un sussurro fra donne, un urlo
dell’anima, una lacrima di “perchè io?” il mantra della paura,
“io ce la farò, sono una guerriera”, la paura negli occhi amati
e da amare, l’isolamento, perché anche se qualcuno ti terrà la
mano la battaglia parte da te, dentro di te e devi vincere, non hai
una seconda opzione.
Poi inizia il secondo respiro: cerchi di dargli una forma, devi trasformare la vaghezza della malattia appena affacciata in un mostro
gigantesco con mille bocche di fuoco, si chiama cancro, cioè ha un
nome, quindi inizia e finisce.
Ogni volta che la notizia di una malattia oncologica ci sfiora si ha
la sensazione del passaggio del fantasma, incontrato di frequente
e altrettanto frequentemente rimosso anche nei racconti che senti
fare dagli altri sottovoce, per paura che il fantasma prenda corpo.
Ecco “sulle altre”, sugli altri, non su di te. Così allontani il racconto,
eviti il pensiero, riponendolo in un angolo della mente e sperando che non torni più fuori a spaventarti così tanto. E fai passare
il tempo, guardando altrove, concentrandoti su altro, e quando lo
rincontri di nuovo, in un altro racconto, tiri avanti ancora una volta
guardando dritta davanti a te, immergendoti negli impegni quotidiani che anestetizzano qualsiasi cattivo pensiero. Poi un giorno lo
incontri, lo scopri dentro di te, ed è solo paura e dolore. In quel momento impari che il cancro non lo puoi scegliere ma lo puoi gestire,
può diventare la molla per resettare una vita. Puoi trasformare una
malattia anche in una opportunità.
Finalmente puoi trovare il coraggio per ricalibrare la tua vita, ridare significato a parole come “presente” “futuro” il secondo non è
oggi, appunto è domani, ovvero fra qualche ora.
Tutte cose alle quali non pensi , perché solo l’inizio degli acciacchi
degli anni che si accumulano, altrimenti , ci pone di fronte alla
fine della gioventù, ritenuta, in alcuni momenti della vita, interminabile.
Scopri ed entri in un altro mondo, fatto di condivisione e di lacerazioni, di apparentamenti e di strappi , ma soprattutto di esperienze, di dolore e lotta per sopravvivere.
Quando il fantasma lo vedi stà lì nella tua mammella, è circoscritto,
ma chiarissimo e definito, non sarò la mia malattia , che si chiama
cancro. Io resterò bella, gradevole, non farò uccidere la mia femminilità da una mutilazione e dalle sue cure, ma sai, perché te lo dice
qualunque donna mastectomizzata che la vita sarà diversa.
Inizi a familiarizzare con parole che prima non avresti mai pensato
di pronunciare, chemioterapia, mastectomia e altre dalla pronuncia quasi impossibile. Impari a capire la lingua che parla la me-
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Contatti: Yael Ilmer Giron 392 889 1103 I [email protected] I www.masaisrael.org
Masa Israele è un progetto del governo Israeliano e dell'Agenzia Ebraica ed è reso possibile grazie al generoso contributo del Keren Hayesod
FOCUS
LIA LEVI Shalom è nato a caldo, nelle ore tumultuose che hanno
accompagnato la Guerra dei Sei Giorni. Adesso sappiamo che «è
durata sei giorni», ma allora? Erano in molti a temere che, attaccata
da tanti fronti Israele sarebbe stata sopraffatta. Si parlava di una
seconda Shoà e c’era in giro una grande angoscia. La comunità era assediata da giornalisti
che volevano cercare notizie, captare comportamenti ed emozioni. A quel tempo la comunità ebraica non disponeva certo di un ufficio
stampa e fu così che ne improvvisammo uno,
ovviamente basato sul volontariato. Io in quel
periodo mi occupavo del Bollettino, l’organo di
informazione e cultura della comunità romana
e far parte della squadra fu naturale. Come me
c’erano il giornalista e scrittore Alberto Baumann ed Enrico Modigliani, “storico” consigliere della comunità.
Shalom. Qual era l’atteggiamento della
stampa nazionale in quel momento storico?
LEVI: C’era molta partecipazione emotiva
anche nella maggioranza della stampa. E non
solo, perfino le centraliniste (a quel tempo le
chiamate interurbane della stampa passavano ancora attraverso i centralini) prima di passarci l’interlocutore dicevano «Siamo con voi,
facciamo il tifo per voi». Ma sarebbe andata
sempre così? Il primo a porsi qualche dubbio
fu Baumann: «Adesso sono tutti per Israele, e se cambiasse il
vento? Perché noi giornalisti ebrei dobbiamo affidare all’esterno
le ragioni di Israele e le peculiarità del nostro essere ebrei? Perché
non esprimerci in prima persona potenziando e dando una nuova
fisionomia al Bollettino». Ci trovammo subito d’accordo. Shalom
nacque dall’elaborazione di un pensiero formatosi in un momento
di forte carica emozionale. La realtà ci diede ragione: molti media
cambiarono in fretta atteggiamento, Israele da aggredito divenne
aggressore, con tutto quello che negli anni ne seguì. Ma la comunità di Roma aveva accettato la nostra scommessa. Il Bollettino divenne “Shalom”, una voce ebraica rivolta anche al mondo esterno.
SHALOM: Come l’avete strutturato?
LEVI: In principio ci radunavamo nelle nostre case e ognuno leggeva a voce alta l’articolo che aveva preparato. Era un momento
di entusiasmo ideologico quasi da autocoscienza. In quella fase, e
naturalmente anche dopo, fu fondamentale l’arrivo di Alberto Ni-
SHALOM‫שלום‬
SHALOM: Come arrivaste a questo passaggio?
LEVI: La comunità attraverso l’assessore al Bilancio Bruno Portaleone ci diede modo di impiantare una struttura non con l’aumento
di fondi, di cui non disponeva, ma presentandoci un pubblicitario
di grande professionalità, Giorgio Gallo. In poco tempo riuscì a
procurarci una grande e crescente mole di inserzioni, costringendoci ad aumentare in proporzione il nostro numero di pagine. Ora
avevamo un ufficio e dei redattori. Ne ricordo qualcuno: oltre a
Piero Di Nepi, che partecipa a questa intervista, Isabella Olper,
Antonella Piperno e Claudia Tedeschi. Per Luciano Tas, che poi
diventò mio marito, il discorso è a parte.
SHALOM: Luciano Tas è stato l’anima politica del giornale…
LEVI: Non sono io a doverlo ribadire. La sua presenza in redazione
è stata fondamentale. Non aveva fatto parte del nucleo fondatore
solo perché si avvicinò a Slalom qualche mese
dopo. Aver letto come poi ha spiegato, le parole
di un giornale che cercava di lanciare un ponte
verso il mondo esterno, lo aveva galvanizzato.
Cominciò a inviarci degli articoli e fu subito
cooptato nella redazione. Divenne sua prerogativa e compito il coordinamento dell’intero
panorama politico di Shalom, in quel momento
davvero fondamentale. Oltre a lui scrivevano
per noi, per dimostrare la loro solidarietà a Israele, grandi giornalisti, ebrei e non ebrei.
SHALOM: Qualche nome?
LEVI: Arrigo Levi e Giorgio Romano, e, principalmente Aldo Garosci che è stato il nostro
maestro e ideologo. E, tra gli altri, il «pasionario» Ennio Ceccarini, più ebreo di un ebreo.
SHALOM: Incontri con i politici italiani ce ne
sono stati?
LEVI: Siamo stati ricevuti da tutti i segretari
di partito, ci tenevano ad essere intervistati
da Shalom. Le sorprese non sono mancate: il
leader di un partito tra i più vicini a noi, prima
di congedarci ci disse, senza malizia: «Tanti auguri per il vostro
Paese». Rimanemmo di sasso e rispondemmo frastornati: «Ma il
nostro Paese è questo». Per molti, anche per quelli in buona fede,
è un concetto ancora difficile da capire…
SHALOM. E la minaccia del terrorismo come ha cambiato il
modo di fare cronaca in un giornale ebraico?
LEVI: Purtroppo il tema attentati terroristici ha costituito sempre la parte centrale del nostro giornale nello scorrere degli anni:
continui attacchi in Israele e ad altri obiettivi ebraici, in Europa e
non solo. Ricordiamoci Monaco, la scuola di Maalot, Entebbe. In
quell’occasione realizzammo una prima pagina con un montaggio
fotografico, da un lato i deportati di Auschwitz, dall’altra i soldati israeliani che liberano gli ostaggi. «Auschwitz si è fermata ad
Entebbe» era il nostro titolo. È quello che più mi è rimasto dentro.
L’eventualità di un pericolo anche per Roma era sempre presente,
ma è terribile quando uno scenario tristemente noto diventa cro-
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Nell’autunno del 1967 viene fondato a Roma “Shalom”. Il mensile
è immediatamente apprezzato e diventa la voce di tutti gli ebrei
italiani. La Guerra dei Sei Giorni aveva per sempre trasformato nel
giugno di quell’anno il destino e la condizione dello Stato di Israele, dunque dell’ebraismo deciso a riprendere il proprio cammino
nella storia, dopo la Shoah. Lia Levi è stata il primo direttore di
questo giornale, durante tre decenni spesso difficili e problematici. Un’esperienza comunque straordinaria. Le abbiamo chiesto di
raccontarcela…
50
2017
renstein. Forse aveva dentro di sé 1967
la nostalgia del periodo chaluzistico
della sua vita, e con noi ne respirava
RA
di nuovo l’aria. Devo chiarire subito
U
ISM
LT
CU
O IN
FORMAZIONE
che i suoi pezzi erano magistrali, puntati sulla realtà ma con una forte scansione biblica. Quando diventammo una redazione professionale, archiviando riunioni casalinghe e letture serali, Alberto ne soffrì.
RA
on l'intervista che segue a Lia Levi, fondatrice del giornale
Shalom che ha diretto per oltre 30 anni, prendono avvio le
celebrazioni per festeggiare i 50 di storia del giornale. Si
tratta di un successo di vita editoriale che pochi altri giornali possono vantare in Italia. Racconteremo e rileggeremo insieme,
nel corso del 2017, le principali vicende ebraiche nell'Italia prima
del benessere, poi del terrorismo, del disimpegno e infine dell'attualità. Sempre con uno sguardo preoccupato alle vicende dello Stato
di Israele.
EB
C
Lia Levi racconta “Shalom”:
così cominciarono i primi 50 anni
21
FOCUS
naca della tua città, qualcosa che è accaduto sotto i tuoi occhi colpendo i tuoi amici e la tua famiglia. Nel numero che abbiamo dedicato all’attentato del 9 ottobre ’82 abbiamo puntato ad esprimere
lo sgomento, il dolore e anche l’indignazione di una comunità che
si è sentita tradita da chi la doveva proteggere.
SHALOM. Avete avuto anche delle minacce personali?
LEVI. Sì è successo. Era una minaccia rivolta a me (abbiamo dovuto cambiare casa), ma l’intero giornale è rimasto coinvolto. Abbiamo dovuto trasferirci in una nuova sede a precipizio. Nessuno è un
eroe, ma va da sé che si continuava a lavorare lo stesso.
SHALOM C’è un aspetto del giornale di cui non abbiamo parlato.
È quello più legato al costume, alla vita degli ebrei romani. Molti
ricordano un’inchiesta esilarante, meravigliosa, sul matrimonio.
LEVI: Certo, “Un cocchio per Giuditta”.
SHALOM: Raccontaci un po’ di queste inchieste, di cosa ne veniva fuori.
LEVI: La maggior parte di Shalom consisteva di pezzi politici, c’erano tanti gravi questioni sul tappeto, non solo in Medio Oriente, ma anche la persecuzione degli ebrei nell’Urss. Lo
spettro di un giornale deve però essere a più ampio raggio e rispecchiare ogni altro aspetto della realtà. Cominciammo una serie di inchieste: una dava la voce ai bambini, li interrogava sul
loro modo di vedere l’ebraismo, la comunità… Ne uscì qualcosa
di divertente, originale e sintomatico, conservo ancora una fotocopia in una cartellina. Un’altra che ci piacque molto fu appunto quella sui matrimoni troppo sgargianti, in una continua gara
di trovate per primeggiare. Era un problema che si è ripetuto
nella Storia, intervennero perfino i Papi con una serie di prescrizioni. Lo titolammo «Un cocchio per Giuditta» perché una volta
una coppia di sposi, cercando l’originalità a tutti i costi si presentò al tempio con una carrozza d’epoca anziché in automobile.
SHALOM: A distanza di anni cosa ricordi di più di quegli anni, al
di là delle dinamiche politiche?
LEVI: Ricordo più di tutti i nostri collaboratori, un tessuto di giovani, alcuni ancora ragazzi che, armati di bloc notes e registratore
andavano in giro a fare domande. Perché per un’inchiesta occorre
allargare il raggio, non ci si può limitare al solo quartiere ebraico.
Erano in tanti a raccogliere pareri e umori nei più svariati ambienti. Il fatto di non poter nominare tutti (me ne scuso, li ringrazio
ancora una volta) è la prova di quanto fosse estesa la nostra vitale
rete. Qualcuno si muove oggi all’interno della grande stampa nazionale, come Antonella Piperno caposervizio di Panorama e naturalmente Maurizio Molinari. Come non essere orgogliosi di aver
avuto tra i nostri ragazzi il futuro direttore della Stampa?
SHALOM: Concludiamo con qualche dettaglio personale: essere un
direttore donna di un giornale politico a quei tempi, è stata dura?
LEVI: Voglio premettere una considerazione: il direttore di un
giornale è come un regista, non è un attore. Ha il compito di farsi
venire le idee, strutturare e tenere i fili dell’impalcatura di ogni
singolo numero. Spesso da fuori questo non si valuta. L’ambiente
ebraico è di struttura patriarcale e il fatto che Luciano si occupasse della parte politica faceva sì che la mia figura fosse ricacciata
nell’ombra. Agli occhi di molti era lui il direttore. Tra noi ormai era
diventato oggetto di scherzo.
SHALOM: Tu poi non sei neanche un’ebrea romana…
LEVI: Sì, è vero. Sono nata a Pisa, ma la mia famiglia era lì di
passaggio, le mie radici sono a Torino. Sono arrivata a Roma
nell’anno della mia quarta elementare e sono entrata nella scuola
ebraica a metà anno scolastico. Non sono stata considerata
romana mai, forse perché non avevo parenti nella capitale. Mi
consideravano diversa, mi facevano il verso perché parlavo con
l’accento piemontese (ora non ce l’ho più) e i ragazzini di “piazza”
pensavano che parlare con l’accento del nord, equivalesse a darsi
delle arie. E neppure ero abituata alle maniere forti e ruvide della
vecchia Roma, di Campo de’ Fiori, di Testaccio. La scuola ebraica
di Torino apparteneva ad un’altra realtà.
SHALOM: Può darsi che questa provenienza esterna, dal nord,
ti abbia in qualche modo aiutato a lavorare come direttrice di
Shalom? Ti ha dato per così dire un po’ di tono? Sarebbe stato possibile in quegli anni per una donna romana cresciuta a
Roma, nell’ambiente della comunità?
LEVI: Ripensandoci, mi sembra che tutti gli incarichi un po’ dirigenziali fossero affidate a donne non romane. Non si tratta di
«tono», forse di una minore confidenza che favorisce un giusto distacco lavorativo.
SHALOM: Una curiosità… In che cosa sei laureata?
LEVI: In filosofia. Diciamolo con Shakespeare: «Filosofia, dolce latte nelle avversità».
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
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Come eravamo: i giovani ebrei alla fine degli anni ‘60
S
fogliando gli Shalom degli esordi, è impossibile non notare
l’ampio spazio dedicato in ogni numero alla gioventù: le
iniziative ed attività organizzate dai movimenti sono esaurientemente documentate, le opinioni sui congressi e dei
partecipanti alle associazioni ampiamente espresse, ed appositi
spazi sono riservati ogni anno per resoconti finali dell’anno scolastico e la menzione degli alunni vincitori di concorsi o meritevoli
delle più svariate borse di studio.
Ciò che colpisce subito riguardo agli istituti formativi è sicuramente l’altissimo numero di iscritti, “la scuola ebraica è senza dubbio l’istituzione di maggior successo della Comunità israelitica di
Roma. I continui progressi tanto della scuola elementare quanto
di quella media sono testimoniati in maniera inequivocabile dal
fatto che le attuali aule si rivelano insufficienti ad accogliere tutti i ragazzi che desiderano iscriversi. Quest’anno gli alunni che
frequentano la scuola elementare sono saliti a 763, mentre quelli
della scuola media sono 320”, si legge infatti su novembre 1967 (il
primo in assoluto numero di Shalom), e su luglio ‘68 veniamo informati che “l’accresciuto numero degli alunni” “ha tenuto sacrificati
i ragazzi nelle classi… e impedito al corpo insegnante di meglio
individualizzare l’insegnamento”. E nonostante ciò “la percentuale dei promossi a giugno di quest’anno scolastico rispetto a quello
precedente è pressoché uguale. Ciò è dovuto più che altro all’alto
senso del dovere che anima ogni insegnante della nostra scuola”.
Altra questione di grande rilevanza in quegli anni, oggi quasi data
per scontata, è la statalizzazione della scuola media, di cui si parla sul numero di ottobre 1969. “La domanda, rimasta a lungo tra
le numerose pratiche da evadere, sebbene non ancora giunta al
suo termine, è giunta oggi all’esame degli organi ministeriali che
sarebbero propensi all’accoglimento... se da un lato questo provvedimento potrà alleggerire notevolmente il bilancio comunitario... d’altro lato può far sorgere certi interrogativi obiettivamente
preoccupanti che riguardano la possibilità di garantire il carattere
ebraico della scuola stessa... lo scopo finale è quello di cercare di
ottenere da parte del ministero quelle garanzie senza le quali è
evidente che, sia pure a malincuore, si dovrà rinunciare... anche
se ciò si tradurrà in un danno economico molto ingente che potrà
tuttavia essere serenamente affrontato per la difesa di alcuni irrinunciabili principi”.
“Lo avranno colpito, in senso sfavorevole, da un lato il disordine
procedurale, l’irruenza giovanile di molti interlocutori, l’accanimento di taluni nel sostenere le proprie opinioni, e nel condannare quelle altrui, l’atmosfera accesa ed agitata che aumentava la
tensione ed esacerbava gli animi dei protagonisti... ma non potrà
essergli mancata, d’altro lato, un’impressione nettamente positiva sull’impegno dimostrato da tutti, sulla serietà delle intenzioni
e delle convinzioni, sulla volontà di non limitare a nessuno, anche
se non delegato, la libertà di parlare, di stendere mozioni, di fare
ogni tipo di proposte, sulla costanza e sullo sforzo continuato...
pur di esaurire convenientemente la serie degli argomenti da
trattare, da dibattere e da approvare. Quest’impegno, che non
troviamo uguale nelle attività dell’ebraismo italiano degli ‘adulti’, si è manifestato essenzialmente nel campo politico e in quello
culturale… i pareri erano i più discordi e moltissime le mozioni
presentate: è questo un fatto positivo, indipendentemente da
quella prevalsa, perché la pluralità delle opinioni, costringendo
alla discussione, impedisce alla FGEI di assuefarsi al mito ‘unanimità’ dell’ebraismo ufficiale”, scriveva Franco Segre su Shalom
del gennaio 1968 riguardo al congresso della Federazione, testimoniandone la vitalità.
Anche se, nel marzo ‘69, in un articolo intitolato ‘dove va la FGEI?’
possiamo notare come anche in quegli anni le difficoltà fossero
non poche, e profeticamente, non molto diverse da quella affrontate dalle associazioni giovanili oggi. “Per la prima volta il congresso annuale si è risolto con un nulla di fatto essendo mancata una
maggioranza per l’approvazione di impegnative mozioni che ne
definissero la linea”; veniamo informati, “che una pausa di ripensamento o più esattamente una vera crisi dovesse intervenire è
naturale e anche salutare: la FGEI nacque 23 anni orsono nel fervore del dopoguerra e all’insegna dell’antifascismo... in questi anni troppe cose sono cambiate, e oggi si impone una revisione degli
obiettivi e dei metodi da proporre ai giovani ebrei… ad ogni modo,
il problema preliminare da risolvere, e su questo pare che tutti siano d’accordo, è quello della rappresentatività... occorre assicurarsi
che la federazione sia effettivamente il centro di riferimento di tutti i giovani ebrei italiani, o almeno di gran parte di essi, e non si riduca a poche decine di iscritti che esprimono un consiglio direttivo
ricco di potere ma privo di base”. “L’ebraismo giovanile italiano è
diviso in una miriade di correnti, come del resto l’opinione pubblica italiana posta di fronte agli stessi problemi”, si precisa infatti
su maggio ‘69, dove si ribadisce come la FGEI abbia “bisogno di
verificare costantemente la propria rappresentatività rispetto alla
base giovanile ebraica, altrimenti rischia di perdersi in attività al
vertice che non hanno alcuna portata pratica né politica”.
Un periodo di crisi venne d’altronde registrato in quegli anni anche dall’allora presentissimo Kadimah, se ci si vuole piuttosto
concentrare sul microcosmo romano, e su novembre ‘67 Augusto Piperno, presidente del club, lamentando come “la comunità spenda ogni anno una cifra superiore ai cento milioni per la
scuola (cioè per ragazzi dai 6 ai 14 anni) mentre si occupa molto
poco dei ragazzi di quelle età nelle quali si comincia a prendere
posizione di fronte ai problemi della vita, si decide se restare o
meno ebreo e in quale modo si comincia a configurare il problema del matrimonio misto, si imposta insomma il proprio futuro”;
esprimeva come a suo parere, in un posto come Roma, dove “i
problemi, che un club giovanile ebraico deve affrontare sono gli
stessi che si notano nelle altre città italiane, aggravati però dalla
particolare situazione della nostra comunità”, “l’unica alternativa potrebbe essere un grande club, con attività molto differenziata, capace di offrire a tutti attività di loro gradimento”. Fortunatamente, nel maggio ‘69, “con l’inaugurazione della sede del
Kadimah non solo si colma una lacuna grave e prolungata nella
vita giovanile ebraica di Roma ma si assiste a un fatto nuovo, la
fondazione di un club modernamente attrezzato che ha le carte in
regola per svolgere in forma continuata e simultanea molteplici
attività in campo ebraico: conferenze, dibattiti, lezioni, gruppi di
studio, proiezioni, teatro, tornei di ping-pong ecc… potrà assolvere la funzione di punto di riferimento per tutti i giovani ebrei
romani e svolgere un programma coordinato e armonizzato con
le altre associazioni ebraiche”. “Il nostro programma e il nostro
obiettivo è proprio quello di portare il nuovo Kadimah ad essere
un centro per tutti i giovani ebrei e l’attuale impostazione a circolo tende proprio a far sì che finalmente si possa offrire ai giovani
un posto piacevole da frequentare in tutte le occasioni e per tutte le attività che vi si svolgeranno all’interno, siano esse di tipo
culturale o ricreativo... pretende di essere adeguato ai tempi e
di essere competitivo nei confronti di tutte le altre attrattive che
una città come Roma offre a dei giovani… il gruppo promotore
del nuovo circolo, si può affermare, si è creato proprio dall’amara
constatazione che a Roma mancava un luogo di riunione dove poter coordinare sforzi e iniziative, scambiare impressioni” dichiara infatti Renzo Gattegna, descritto come “uno dei più entusiasti
animatori del gruppo promotore”.
JOELLE SARA HABIB
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Celebriamo i 50 anni di Shalom scoprendo quello che si scriveva, ripercorrendo alcune pagine
del quadriennio 1967-1970, scoprendo che i problemi di allora sono anche quelli di oggi
23
CINEMA
Il Grande Gigante Gentile:
via libera alla fantasia
L’ultimo film di Steven Spielberg
è un racconto fantastico,
ma con alcuni risvolti autobiografici
“N
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
on mi interessa la tecnologia come centro di una
storia. Questo film – come tutti quello che ho fatto – è stato aiutato a nascere dalla tecnica, ma ne
è solo una conseguenza: l’oggetto del racconto
restano le emozioni.” Steven Spielberg descrive così la profonda
natura fiabesca del Grande Gigante Gentile in cui gli effetti visivi
si sposano ad una favola creata da Roald Dahl. “Il GGG” racconta
la fantastica storia di una ragazzina e del gigante che la introduce
alle meraviglie ed ai pericoli della terra incantata dove vive.
“Quel gigante solitario mi assomiglia molto”, dice Spielberg. “La
mia famiglia mi ha molto amato, ma da bambino ero sempre solo.
Non sono mai stato incluso ‘socialmente’ in qualcosa. E’ accaduto
a lungo: alle elementari e alle medie ed è stato un periodo non positivo della mia vita in cui credevo di essere il bambino più solo del
mondo. Ero uno dei milioni di invisibili che crescono così in tutto
il nostro pianeta e che si rivolgono al cinema per trovare il proprio
senso di appartenenza.” La sceneggiatura è stata scritta da Melissa Mathison (E.T.) e il film ha come protagonisti Mark Rylance,
premio Oscar come miglior attore protagonista per Il Ponte delle
Spie e la piccola Ruby Barnhill.
Da oltre quaranta anni Steven Spielberg racconta le sue storie al
pubblico di tutto il mondo, facendo entrare a fare parte della cul-
24
tura collettiva una serie di personaggi straordinari e catapultando
generazioni intere in mondi meravigliosi, spaventosi, affascinanti
e realistici. Il famoso racconto di Roald Dahl dedicato all’amicizia
tra una ragazzina ed un misterioso gigante è perfettamente in linea con l’opera del regista ed è stato pubblicato per la prima volta
nel 1982, lo stesso anno nel quale la storia raccontata da Spielberg
su un’amicizia inusuale e profonda, “E.T. l’extraterrestre”, ha catturato il cuore e l’immaginazione di grandi e piccoli.
Grande Gigante Gentile è un viaggio meraviglioso in uno di quei
mondi che il regista americano ha esplorato più volte durante il
quasi mezzo secolo di carriera dietro la macchina da presa. Attualmente in pre-produzione in Italia (con Il Caso di Edgardo Mortara
dedicato al rapimento e alla conversione forzata di un bambino
ebreo nell’Italia oscurantista e pre-unitaria di Pio IX), Spielberg ha
da poco terminato le riprese di Ready Player One, dedicato ad una
fuga nella realtà virtuale alla ricerca di un tesoro di un magnate
scomparso.
“Ciò che rende Il GGG speciale – spiega Spielberg - è stata la mia
fuga in ciò che credo di fare meglio, e cioè lasciare libera la mia
immaginazione. Del resto le grandi storie cariche di ispirazione ci
rendono tutti delle persone migliori.”
MARCO SPAGNOLI
LIBRI
Un libro testimonianza di Ugo Volli,
per contrastare la disinformazione e l’ignoranza
I
l semiologo, giornalista e scrittore Ugo Volli, con questo accurato “Israele. Diario di un assedio” composto da cosiddette
“cartoline”, destabilizza l’impianto della trappola ideologica
nella quale l’Europa è invischiata, tanto da camuffarne il chiaro stampo antisemita con una veste di antisionismo.
L’autore, grazie ad una precisa raccolta quotidiana di fatti inconfutabili (corredata da numerosi documenti), dimostra come i media
occidentali, i quali si avvalgono di un linguaggio ben studiato e
filtrato ed una retorica ben oliata, riescano sostanzialmente ad invertire il rapporto di causa ed effetto, vittima e carnefice quando si
parla di Israele, utilizzando la “questione palestinese” come mezzo per diffondere odio e pregiudizio verso lo Stato Ebraico.
Già la scrittrice Bat Yeor aveva dimostrato come gli europei vivano
sotto la condizione di “dhimmi”, tanto da coniare il termine Eurabia per descrivere come la nostra realtà tradizionale, la nostra
identità, la religione, la storia stessa siano protagoniste di una revisione di matrice islamista che invadendo a 360° la vita di ogni
giorno, mira a trasformare (ed in parte c’è già riuscita) l’Europa in
una gigantesca colonia araba popolata da infedeli.
Una serata contro la delegittimazione
I
Il "diario" presentato a Via Balbo
l 12 dicembre al tempio di Via Balbo è stato presentato il libro
di Ugo Volli “Israele. Diario di un assedio”, una raccolta di
documenti e articoli dal 2009 al 2015 che raccontano ciò che
l’ebraismo e Israele rappresentano nella cultura occidentale,
per dimostrare quanto la manipolazione sulle informazioni che
ruotano intorno al conflitto arabo-israeliano, indeboliscano, delegittimino, demonizzino lo Stato di Israele.
Questo libro nasce dal diario quotidiano che Ugo Volli ha pubblicato su “Informazione corretta”, un sito specializzato nell’analisi
della comunicazione giornalistica e mediatica sul Medio Oriente e
in particolare su Israele, e che poi insieme a Pezzana ha deciso di
raccogliere in un volume.
Dopo i saluti del presidente Ruth Dureghello, insieme all’autore
e alla moderatrice Fiamma Nirenstein sono intervenuti Angelo
Pezzana e Daniele Scalise che hanno dibattuto sulle tematiche del
libro: il terrorismo, l’assedio palestinese, le strategie di Hamas e
Hezbollah, parlando insieme all’autore hanno saputo illustrare,
Lampante in questo caso è l’esempio delle ONG che si presentano imparziali e che invece
si scoprono essere una sorta di
concorso a premi a chi scrive più
menzogne contro Israele. E’ un
assedio post-moderno in buona
parte immateriale: c’è una macchina propagandistica enorme
al lavoro per produrre menzogne che nascondano il fatto che
la risoluzione della “questione
palestinese” in realtà sarebbe la
fine dei progetti di dominazione
araba. Per questo il lessico deve
essere attentamente filtrato, per questo il 15 novembre 1988 c’è
stata l’autoproclamazione d’indipendenza palestinese, di cui oggi
non si ricorda nessuno, tanto che ogni tanto la si minaccia secondo
necessità e momento.
I media eurabici appoggiano così tanto la guerra mediatica nei
confronti di Israele da occultarne l’esistenza: ma in fondo ciò che
conta è che lo Stato Ebraico resista strenuamente, non lasciandosi
ammaliare da queste trame, con la forza della libertà conquistata
dopo 20 secoli di oppressione.
YURI DI CASTRO
esaminare e confutare le menzogne
che solitamente si
dicono su Israele.
Nel libro Volli descrive come le proposte
di pace da parte di
Israele siano state
scartate di fronte
al progetto di chi
vorrebbe poter cancellare l’entità sionista dalla terra; nonostante tutto però Israele
resta in piedi perché la democrazia vince su tutto e perché col
cambiare del terrorismo Israele sa adattarsi, e sa comunicare con
i suoi vicini.
Insomma le parole di Volli non sono solo le parole di un semiologo
che ha scritto un eccezionale libro di storia, sono uno strumento
di trasmissione per chi non riesce a cogliere gli stereotipi che si
creano intorno ad Israele semplicemente perché terra ebraica.
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Contro tutte le menzogne:
“Israele. Diario di un assedio”
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LIBRI
Il perdono non si delega
Rav Riccardo Di Segni ricostruisce
in un saggio lo stato delle relazioni
ebraico-cristiane, spiegando cosa
sia un processo di riparazione dei torti
È
uscito recentemente un saggio che riunisce contributi
scritti già pubblicati del rabbino capo Riccardo Di Segni
“Perdonare le offese” edito da Marcianum Press, che riesce a dare molte risposte su temi attuali da sempre dibattuti, offrendo spunti di studio e riflessione della visione ebraica sulla riconciliazione. Dopo un preambolo su come si sviluppi
il processo di ricostruzione di un rapporto alterato, la descrizione
focalizza alcuni punti del rapporto tra la Chiesa e l’ebraismo, con
la pubblicazione di ampi stralci del discorso pronunciato dal Rav
in occasione della visita compiuta nella sinagoga di Roma da papa
Francesco nel gennaio 2015. Di Segni spiega ai lettori nelle prime pagine, innanzitutto, quali debbano essere le caratteristiche
fondamentali del processo riparatorio “sospensione delle ostilità,
riparazione del torto, accordi di buon vicinato, garanzie di non aggressione, stabilimento di comunicazioni e riconoscimento dell’altrui umanità”. Poi, dopo aver sottolineato che il perdono non può
essere delegato, tocca una questione spinosa che ancora oggi riaffiora periodicamente sui media da parte di qualche rappresentante
del mondo intellettuale e della cultura che, volente o nolente, non
prende consapevolezza che alcune tesi non hanno fondamento nei
testi religiosi e fanno parte di quel bagaglio che per molti secoli ha
alimentato un caposaldo della violenza propagandistica antisemita, mettendo in discussione che il D-o della Bibbia ebraica sia il D-o
della misericordia. L’autore, ricordando che in passato ”sul tema
Pagine su pagine. Di ebrei e di cose ebraiche
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
L’
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Ebrei: tra ghetti
e libertà di pensiero
editore Salomone Belforte ha mandato in libreria due
libri di alto livello culturale. L’attività letteraria nel
ghetto (Venezia 1550-1650) di Umberto Fortis prende
in esame le opere di personaggi celebri e celebrati:
Salomon Usque, David De Pomis, Benedetto Luzzatto, Leone
Modena, Simone Luzzatto, Sara Coppio Sullam. Come si può capire si tratta di uno splendido lavoro con implicazioni letterarie, ma
anche religiose e filosofiche. Fortis è uno studioso illustre che non
delude mai. I Minerbi di Sergio Minerbi è la storia di una famiglia
ferrarese dalle prime origini ritrovate nel lontano 1379 fino ai nostri giorni: una grande storia italiana.
Altrettanto importanti sono Il ghetto di Varsavia di Mario Lattes,
edito da Cenobio (Lugano), frutto di una tesi di laurea ottenuta
nel lontano 1960, un lavoro meticoloso ed eccellente di oltre quattrocentocinquanta pagine e L’eclisse dell’antifascismo di
Manuela Consonni, edito da Laterza, dedicato alla questione
ebraica negli anni dal 1943 al 1989, anni cruciali. Si tratta di due
testi diversi tra di loro, ma accomunati da precise caratteristiche
di originalità, rigore ed impegno intellettuale. Il libro di Lattes
getta un fascio di intensa luce su uno dei momenti più drammatici vissuti dagli ebrei durante gli anni della Seconda guerra mondiale. Quello della Consonni che insegna alla Hebrew University
of Jerusalem, si rivela uno strumento utile per comprendere il
senso politico di alcuni cruciali momenti storici della vita italiana.
Il profumo della pioggia nei Balcani di Gordana Kuic, edito da
Bollati Boringhieri, è uno splendido romanzo. Protagoniste sono
le sorelle Salom che vivono a Sarajevo, cinque donne forti, cinque
ebree sefardite che parlano ladino, che sono molto religiose attac-
del perdono nell’ebraismo, e sulla
capacità ebraica di perdonare, ciò
che in generale si conosce è una
serie di informazioni distorte e calunniose che sono proprio la conseguenza diretta di una campagna
antica e sistemica contro l’ebraismo condotta fin dalle origini dalle
Chiese contro l’ebraismo”, riconosce i grandi passi avanti compiuti
dal Vaticano in tal senso, soprattutto con l’opera degli ultimi Pontefici, e spiega con dovizia di particolari, supportato dalla citazione di
fonti bibliche, come il D-o dell’amore abbia provenienza, prima che
dall’esortazione evangelica, dalla legge mosaica. Tra i versi portati
a supporto, la frase celeberrima “Ama il tuo prossimo come te stesso” che si trova enunciata nel Levitico 19,18.
Rav Di Segni descrivendoci come la tradizione esegetica ebraica
ammetta sul piano divino che ci siano due attributi: quello della
misericordia e quello del rigore - “il primo progetto creativo del
mondo, dicono i rabbini, era basato sulla giustizia, ma vedendo
che il mondo non avrebbe potuto resistere, il Creatore optò per il
piano “b” quello della misericordia unita alla giustizia” - ci tiene a
rammentare che la tesi “il D-o degli ebrei, dell’Antico Testamento
quello severo e vendicativo” sia stata “una delle bandiere dell’antigiudaismo cristiano per secoli. Questa dottrina ha un nome preciso, marcionismo, dall’eretico Marcione che ne fece uno dei cardini
del suo insegnamento. Marcione fu condannato dalla Chiesa, ma
l’opposizione da lui drammatizzata tra due divinità fu recepita e
trasmessa dalla Chiesa, che solo da pochi decenni se ne distacca
ufficialmente, riconoscendola non solo come errore, ma anche come
strumento illecito di predicazione, di antagonismo e di odio”.
JONATAN DELLA ROCCA
cate alla tradizione ebraica e che finiranno per essere coinvolte
nella tragedia della Prima Guerra mondiale. Affascinante.
Nei Meridiani Mondadori è apparso il secondo volume di Bernard
Malamud dal titolo Romanzi e racconti 1967-1986. Un libro di oltre 1650 pagine. Splendido. Veramente splendido.
Autore di numerosi romanzi editi da Giuntina Yehoshua Kenaz è
un grande scrittore. Non temere e non pensare è il titolo del suo
ultimo grande romanzo ambientato in Israele negli anni 50 e dedicato alla vita militare. Un libro coraggioso e palpitante.
La settima croce di Anna Seghers (vero nome Netty Reiling),
edito da Superbeat è il miglior libro (opinione di Georg Lukàcs)
scritto sulla Germania fascista. Ebrea tedesca, comunista antinazista, questa autrice ha avuto grande popolarità nel dopoguerra,
nella Repubblica Democratica Tedesca. Nel 1933 si rifugiò in
Francia per sfuggire ai nazisti, poi andò in Messico e alla fine
della guerra tornò in terra tedesca. Il suo romanzo divenne un
successo internazionale.
Racconti triestini di Giorgio Pressburger edito da Marsilio, è un
delicato viaggio in un luogo letterario ormai consacrato. Eppure
come spesso accade è uno che viene da fuori ebreo ungherese
come Pressburger che sa cogliere elementi nuovi.
Perché tu non ti perda nel quartiere di Patrick Modiano, edito da
Einaudi, è un nuovo magistrale romanzo del Premio Nobel 2014.
Il sale della terra di Jozef Wittlin, edito da Marsilio, è un affresco
grande e tragico sulle atrocità della prima guerra mondiale accadute in Galizia austriaca e narrate da un contadino dell’esercito
austro-ungarico. Esule a New York perché ebreo, l’autore fu messo al bando nella Repubblica Popolare Polacca per oltre trenta
anni prima di essere riscoperto e ripubblicato: le sue sono pagine
di rara intensità. Da non perdere.
La storia di Mortimer Griffin di Mordecai Richler, edito da
Adelphi, è un bel romanzo ricco di fantasia e che offre molte godibili pagine: sullo sfondo l’essere ebrei.
RICCARDO CALIMANI
Elena Albertini ha raccolto
le testimonianze dirette e i racconti
scritti in diari
S
ull’incredibile, a dir poco eroica, resistenza del ghetto di
Varsavia agli occupanti nazisti (aprile-maggio 1943), oltre a saggistica minore e ad opere di narrativa, esisteva
anzitutto la diretta testimonianza di Marek Edelman, uno
dei leader della rivolta, ripubblicata nel 2012 dalla casa editrice
La Giuntina col titolo “Il ghetto di Varsavia lotta” (e recensita
su questa testata). Ora, Elena Albertini, studiosa di storia contemporanea attenta soprattutto a memorialistica e fonti diaristiche, collaboratrice del master sulla Shoah all’Università Roma
3, ha pubblicato “La resistenza del ghetto di Varsavia”: saggio
centrato soprattutto su un’analisi sociologica e psicologica dei
resistenti, e sull’esame di varie, importanti testimonianze dirette. Come anzitutto il diario di Mary Berg (ottobre 1939- marzo
1944), ragazza ebrea con madre di nazionalità statunitense; poi,
la testimonianza dello stesso Edelman. Del quale l’Autrice mette
a confronto le due diverse edizioni del Diario, quella del 1985
(pubblicata da Città Nuova, con prefazione di David Meghnagi) e
quella edita appunto da Giuntina nel 2012. Di grande interesse è
anche l’appendice fotografica, con una serie di istantanee (di cui
molte mai viste prima) sulla vita del ghetto dal 1937 alla feroce
distruzione del maggio 1943.
“In questo libro - ha sottolineato, nella presentazione presso la
sede comunale della Casina Vallati, Mario Venezia, presidente
della Fondazione “Museo della Shoah” - è centrale il concetto di
“resilienza”: termine che indica la capacità di far fronte in modo
positivo a eventi traumatici, riorganizzare la propria vita dinanzi
alle difficoltà, ricostruirsi restando sensibili a quelle opportunità
Inviati per caso, viaggio
nell’Italia delle religioni
D
Una graphic novel scritta
da Lia Tagliacozzo
urante la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria,
che si è tenuta dal 7 all’11 Dicembre 2016 presso il Palazzo dei Congressi dell’Eur, è stata presentata la nuova
graphic novel di Lia Tagliacozzo: “Inviati per caso, viaggio nell’Italia delle religioni”.
Alla presentazione hanno assistito diverse scolaresche, alcune
delle quali hanno esposto cartelloni e disegni prendendo ispirazione dal fumetto che è stato fatto leggere in classe. E’ stato aperto
anche un dibattito con i relatori, Lia Tagliacozzo, Eleonora Antonini (la disegnatrice), la rappresentante del tavolo Interreligioso di
Roma Paola Gabbrielli, Sara Cividalli consigliera UCEI, il direttore
di Confronti Claudio Paravati, e Marina Baretta responsabile del
Ministero dell’Istruzione.
Il fumetto narra le avventure di Luca e Martina, due studenti che
per ragioni diverse decidono di intraprendere un viaggio in otto
tappe attraverso i luoghi di culto di alcune delle minoranze religiose presenti in Italia. I due giovani incontreranno Sikh, Musulmani,
Valdesi, Buddhisti e esponenti di svariate altre religioni, e durante
la loro esperienza proveranno a comprendere meglio culti e tradi-
positive che la vita continua a
offrirti, senza alienare la propria identità”. “E’ esattamente
quanto fecero i duecento resistenti, soprattutto giovani, del
ghetto: i quali - ha ricordato la
scrittrice Marina Regno Mandri, autrice della prefazione
- agirono soprattutto perché,
ben sapendo di non avere altra
prospettiva che la morte, scelsero di morire combattendo, e
non da rassegnate vittime”. “E’
questo esempio - ha sottolineato David Meghnagi, direttore
del Master in Didattica della
Shoah a Roma 3 - insieme ad
altri episodi minori soprattutto
locali di resistenza ebraica, contrasta fortemente l’immagine, prevalsa sinora, degli ebrei nella
Shoah solo come “salvati” (per dirla con Primo Levi), ma non
come resistenti. In realtà, un milione di ebrei ha combattuto nella Seconda guerra mondiale (di cui 170.000 nell’Armata Rossa):
mentre migliaia hanno lottato nella Resistenza antinazista sovietica, nella steppa: portandosi dietro donne, vecchi e bambini”.
“Le scelte degli ebrei soggetti, in quegli anni, al dominio nazista hanno sottolineato l’Autrice e Marcello Pezzetti, consulente scientifico della Fondazione “Museo della Shoah - vanno lette, oggi,
in modo moderno e laico: tra essi, alcuni si comportarono bene,
e pochi addirittura da Giusti; altri male, non attuando la minima
resistenza quotidiana anche quando avrebbero potuto, ed altri ancora malissimo, collaborando con gli occupanti. Teniamo presente
però il fatto fondamentale che nei ghetti dell’Europa “nazificata”,
la possibilità di scegliere era davvero ridotta al minimo”.
FABRIZIO FEDERICI
E. ALBERTINI, “La resistenza del ghetto di Varsavia: i testimoni
i raccontano”, Roma, Universitalia, 2016, pp. 146, €. 14,00.
zioni diverse dalle loro.
Il formato del testo è interessante, i disegni di Eleonora Antonini particolarmente
espressivi e il libro riesce a
raggiungere l’intento di fornire
un mosaico di quadri culturali
differenti, senza proporsi come
un’alternativa al testo didattico di Storia delle Religioni.
Fondamentale il riferimento
all’importanza della diversità e
alla bellezza insita nella stessa,
all’attenzione verso le “parole che avvelenano” contro un
gruppo religioso, che causano
paura e rifiuto sociale. Un parallelismo, in questo punto, tra
gli eventi della graphic novel, nel quale una pizzeria di proprietà
di un musulmano viene data alle fiamme, e lo studio della cultura
ebraica, nella quale l’autrice ha voluto inserire la parentesi delle
Leggi Razziali e in riferimento a quanto sia necessario tramandare
il rifiuto verso il razzismo e l’odio religioso. Un fumetto istruttivo
e piacevole, consigliato a tutti i giovani che hanno voglia di apprendere qualcosa di diverso sulle minoranze religiose presenti
in Italia.
REBECCA MIELI
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Ghetto di Varsavia:
la resistenza raccontata
dagli stessi ebrei
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MEMORIA
Non saranno dimenticati i compositori nei lager
Ricerca e conservazione della musica concentrazionaria: l'impegno di Francesco Lotoro
Q
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
uando l’elogio e gli aggettivi sono disinteressati non bisogna aver paura di spenderli. Nell’estate 2016 Francesco
Lotoro ha finalmente visto il sigillo istituzionale sull’impegno di una vita intera spesa al sevizio di una causa nei
fatti dimenticata. Il suo impegno personale per la rinascita ebraica
nel meridione d’Italia è ben conosciuto, e tutti conoscono il festival
della cultura Trani Ebraica del quale è animatore. Ma prima del lavoro di Francesco, quel poco che si conosceva in Italia dei musicisti
deportati e assassinati nei lager nazisti restava affidato soprattutto
ai filmati d’archivio di Theresienstadt/Terezin, la vetrina allestita
28
dai nazisti per le visite della Croce Rossa Internazionale. A coronamento di decenni lavoro, nel 2014 è nata la Fondazione Istituto di
Letteratura Musicale Concentrazionaria (Fondazione ILMC). Si occupa di ricerca, studio, catalogazione, registrazione, pubblicazione
e promozione della produzione musicale concentrazionaria, creata
in condizioni estreme di privazione dei diritti fondamentali dell’uomo. La Fondazione ILMC ha presentato al Comune di Barletta il
progetto “Cittadella della musica concentrazionaria”, per il quale la
Giunta ha espresso parere favorevole alla fine dello scorso agosto.
La Cittadella dovrà essere pienamente funzionale entro il 2020, nel
quadro di un decisivo progetto di recupero di una periferia urbana
altrimenti abbandonata. L’aspetto più significativo della trentennale ricerca di Lotoro va a sfatare il luogo comune che attribuisce alla
memoria ebraica della deportazione e dello sterminio una sorta di
egoistica autoreferenzialità. I sopravvissuti ebrei sono sempre stati
in prima fila, e spesso gli unici, a salvare il ricordo dei popoli Rom
nell’Europa occupata, e quello dei milioni di prigionieri sovietici abbandonati a morire di fame e di freddo dietro il filo spinato. E infatti,
ricorda la Fondazione ILMC, dobbiamo definire musica concentrazionaria il corpus musicale creato nei campi di prigionia, transito,
lavori forzati, concentramento, sterminio, penitenziari, insomma in
tutti i luoghi di prigionia, aperti non soltanto dal Reich ma anche
da Italia, Giappone, Repubblica Sociale Italiana, regime di Vichy e
altri loro alleati. Senza dimenticare altri belligeranti, sia pure in condizioni ben diverse. Le SS e la Gestapo infierirono con particolare
sadismo sugli intellettuali, e forse con una speciale attenzione per
le migliaia di compositori, di solisti, di semplici dilettanti di musica
che arrivavano nei lager. Tra gli scaffali delle biblioteche di storia
della musica del secolo XX manca certamente il settore dedicato
alla musica concentrazionaria; la storiografia musicale dovrà essere riscritta alla luce della voragine aperta dal recupero della musica scritta in cattività dall’apertura del primo lager alla chiusura
dell’ultimo gulag. Definirla concentrazionaria è utile unicamente a
fini di ricerca; il compositore creava a prescindere dal contesto circostante, svolgeva con ammirevole lucidità mentale e tecnica un
lavoro intellettuale e manuale. Privazioni estreme non rappresentavano un ostacolo alla creatività. Il linguaggio musicale sarebbe
stato profondamente diverso o avrebbe percorso ulteriori, inedite
strade se musicisti quali Viktor Ullmann, Gideon Klein, Pavel Haas,
Leo Smit, Nico Richter fossero sopravvissuti. Oggi restituiamo vita e
dignità a migliaia di musicisti e alla loro musica scritta su quaderni,
carta igienica, sacchi di juta, carta per alimenti, fondi di gamella o
tramandata a memoria mentre erano ancora sui treni; riportare alla
luce questa musica è una vera e propria missione. A Theresienstadt
grandi musicisti toccarono vertici assoluti di creatività e forgiarono
un pensiero musicale che rese quel ghetto un crocevia della musica contemporanea. Viktor Ullmann era un musicista che avrebbe
avuto la capacità di influenzare il linguaggio musicale contemporaneo. Morì nelle camere a gas di Birkenau nell’ottobre 1944 con sua
moglie Elizabeth e suo figlio Max. Autore dell’opera Der Kaiser von
Atlantis (scritta a Theresienstadt), Ullmann avvertiva mutamenti
epocali, e della prigionia in attesa della morte così scrisse: “Essa è
servita a stimolare, non a impedire le mie attività musicali e in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; il nostro rispetto per l’Arte era parimenti commisurato alla
nostra voglia di vivere. Io sono convinto che tutti coloro, nella vita
come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno
d’accordo con me”. Ben sei orchestre si costituirono nel complesso
concentrazionario di Auschwitz, tra le quali l’orchestra dei polacchi
di Auschwitz I Stammlager, l’orchestra Romanès presso lo Zigeunerlager, una orchestrina jazz, l’orchestra maschile di Birkenau diretta da Szimon Laks e quella femminile diretta da Alma Rosé.
(a cura di Piero Di Nepi)
Tante le attività in preparazione
alla Cittadella
Il progetto della Cittadella è davvero articolato e complesso. Il
Campus delle Scienze Musicali risulta organizzato su un Master di letteratura musicale concentrazionaria e sul Polo nazionale della musica ebraica “Emanuele Pacifici”. Include il Corso
Triennale di Letteratura musicale ebraica, e il Centro Studi della
Hazanuth nell’Europa continentale e mediterranea. Ospiterà anche l’Archivio storico dei compositori barlettani. Il Campus delle
Scienze Musicali offrirà spazi di ricerca, studio, lettura e aggiornamento, indirizzati sia al patrimonio musicale concentrazionario che alla letteratura musicale ebraica. Il Master di letteratura
musicale concentrazionaria è un Master di alta formazione storica e artistica basato sullo studio della musica creata in cattività
civile e militare dal 1933 al 1953. Sarà avviato l’iter di riconoscimento accademico del Master presso l’Università degli Studi
di Bari con l’obiettivo di costituire un semestre accademico con
regolare piano studi. Il Polo nazionale della musica ebraica è un
progetto avanzato di recupero, salvaguardia e archiviazione della musica ebraica ossia del corpus musicale religioso, popolare e
tradizionale creato e tramandato dal popolo ebraico sia nella sua
terra storica di Israele che nella Diaspora. Il Centro Studi della
Chazanuth è un Dipartimento del Polo nazionale della musica
ebraica “Emanuele Pacifici” e ha lo scopo di recuperare e conservare la hazanuth ossia l’arte della lettura cantata dei testi ebraici
creata dagli ebrei dei Paesi dell’Europa continentale e dei Paesi
dei continenti europeo, africano e asiatico che si affacciano sul
bacino mediterraneo. Il Museo dell’Arte Rigenerata offrirà spazio
espositivo al patrimonio di spartiti, quaderni musicali, documenti, materiale fotografico e fonografico. Completeranno il progetto
il Teatro Nuovi Cantieri e la Libreria internazionale del Novecento, oltre ad un’adeguata Aula Magna.
(P.D.N.)
ROMA EBRAICA
Museo della Liberazione di Via Tasso:
oggi è digitalizzato
Sono consultabili migliaia di documenti che raccontano
la violenza e la brutalità dei nazisti a Roma
Tre generazioni a confronto
La differenza tra memoria e ricordo:
lo spiega ai giovani di oggi Piero Terracina
È
il 18 ottobre del 1943, dal binario 1 della stazione Tiburtina di Roma si appresta a partire un convoglio di 18 vagoni per arrivare, sei giorni dopo, in Polonia. 1023 persone
furono catturate il 16 ottobre ma solo pochi di loro riuscirono a far ritorno. La deportazione degli ebrei di Roma chiede
di essere letta e spiegata con l’oggettività che l’analisi storica sa
fornire, ma questa non basta. Il coinvolgimento di un testimone
risulta ugualmente fondamentale: nutre il racconto di dettagli che
la storia sovente tende a marginalizzare.
Il 19 ottobre presso la Casa della memoria e della storia ha avuto luogo l’incontro tra il testimone Piero Terracina, adulti e alcuni
giovani che, con il viaggio organizzato dall’UGEI, il 27 ottobre sono
partiti per visitare i luoghi della Polonia ebraica e dei suoi legami
con la Shoah. Tre generazioni a confronto: quella che ha vissuto la
guerra, quella di chi che l’ha patita - ma solo di riflesso - e quella
che, di terza mano, si appresta a conoscere come può. La distinzione che Terracina richiama tra i termini memoria e ricordo non
è casuale: il primo si carica di un significato che il secondo non
può avere.
Piero racconta gli anni precedenti la guerra, trascorsi con la famiglia a Monteverde. Frequentava la scuola Francesco Crispi in
cui ebbe la fortuna di trovare amici e una maestra cui imparò a
voler bene. La quotidianità si trasformò in incubo appena le leggi razziali furono imposte sul territorio italiano. All’impossibilità
di frequentare la scuola conseguì la perdita di amici e conoscenti
che, rispettosi della legge, ben si guardavano dal girare lo sguardo
alla vista di un passante ebreo. L’istruzione per la famiglia Terracina era cosa importante, la mamma ripeteva sempre che impegno
e dedizione dovessero ricoprire un ruolo primario nella vita dei
figli. Piero era disperato: quale sarà il futuro se non potrò andare
a scuola? Ciò che divenne una prima soluzione si trasformò poi
in salvezza al lungo termine poiché le conoscenze di quegli anni
nella scuola ebraica risulteranno fondamentali per gli anni successivi alla guerra. Cominciò così a frequentare la scuola ebraica che
vantava nomi importanti al suo interno: Vito Volterra, Guido Coen
e Guido Castelnuovo. I mesi passavano veloci e le limitazioni si facevano sempre più ferree, l’impossibilità di vivere con una giusta
dose di spensieratezza privò delle attività più comuni: si vietava
l’ingresso alle spiagge, la vendita ambulante e altri mestieri. Le
ristrettezze economiche si facevano sempre più pressanti, in casa
erano otto, lo stipendio del padre risultava esiguo e i fratelli di
Piero dovettero andare a lavorare.
Giunse celere la prima sera di Pesach, il 7 aprile dell’anno 1944:
durante le feste si è soliti cedere al buon umore, abbassare la
guardia, concedendosi un po’ di leggerezza. Questo errore fu fatale e i tedeschi giunsero alla porta, su avviso di un fascista che li
vendette in cambio di un po’ di soldi. Il racconto procede spedito
e incalzante, tacendo i particolari dell’inferno e richiamando le parole di Primo Levi. Si ricorda che la Germania che ha creato tutto
ciò è la stessa di Schiller, Goethe, dell’Idealismo tedesco, della Repubblica di Weimar. La narrazione è un taglio e cucito che giustappone l’incontro con Sami Modiano, i fatti storici e il travagliato
ritorno che lo fece tornare a Roma: un’esperienza autobiografica
che merita di essere conosciuta e spiegata alla luce di un passato
che è dietro l’angolo.
MARTA SPIZZICHINO
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Q
uattro giugno 1944, le truppe americane comandate dal
generale Clark sono in procinto di entrare a Roma: non
troveranno alcune resistenza, infatti il feldmaresciallo
Kesserling, comandante delle truppe tedesche, ha deciso
di ripiegare verso nord, e preferisce non combattere all’interno della
città. L’edificio di via Tasso 145 sin dalla fine degli anni ‘30 ospitò l’ambasciata tedesca che ne fece anche sede del proprio ufficio
culturale, oltre che degli addetti militari e di polizia (SIPO), comandata dal colonnello delle SS Herbert Kappler. Dopo l’armistizio del
1943 l’edificio fu interamente destinato
a sede della SIPO dalla quale dipendeva
la Gestapo, e vi fu allestito un carcere,
semplicemente murando quasi interamente le finestre e applicando delle
grate nel sopraluce delle porte. Le condizioni di vita dei prigionieri erano sicuramente peggiori di quelle del carcere di
Regina Coeli, al loro ingresso venivano
spogliati di ogni effetto personale e gli
veniva fornito una solo pasto, se così
si può chiamare, una brodaglia insapore, una sola volta al giorno. Nel 1950 la
proprietà siglò un atto di donazione allo
Stato Italiano, di quattro appartamenti,
già utilizzati come carcere perché fossero destinati ad ospitare “il museo storico della lotta di liberazione di Roma”.
Il museo raccoglie documenti cimeli,
giornali, volantini e materiali iconografici relativi all’occupazione
nazifascista di Roma, le sale sono allestite nelle celle così come i
tedeschi le lasciarono e sono visibili le scritte e i graffiti lasciati dai
prigionieri, ebrei o antifascisti.
In quel giugno del ’44, mentre i tedeschi lasciano Roma, un rogo divampa a via Tasso, i cittadini romani prima hanno liberato i prigionieri lasciati all’interno del carcere tedesco e poi hanno cominciato
a dare fuoco per rappresaglia ai fogli e ai vari materiali appartenuti
al tristemente famoso carcere militare tedesco. Mentre la folla inferocita si è fermata all’ingresso, un uomo di grossa statura si fa spazio sgomitando e sbracciando, entra nelle tetre stanze, raccoglie il
maggior numero di documenti possibili e corre via, verso la propria
casa. Quell’uomo era il commissario di polizia Giuseppe Dosi noto
per aver risolto i più famosi casi giudiziari della sua epoca (quello di
un misterioso incidente a Gabriele D’Annunzio e il celeberrimo caso
Girolimoni) e poi tra i fondatori dell’Interpol. Poliziotto irreprensibile, instancabile, ostinato, per la sua opposizione al regime fascista
fu rinchiuso a Regina Coeli e successivamente in un manicomio
criminale fino al rilascio dopo 17 mesi. Fu il suo fiuto da poliziotto
che gli fece provvidenzialmente decidere di recuperare quelle carte
che poi furono importantissime per l’arresto di Kappler e Priebke, e
riveleranno le responsabilità per le torture e, sopratutto, per la fucilazione dei prigionieri alle fosse Ardeatine, tra cui 75 ebrei romani.
Mercoledì 23 novembre 2016, al Museo della Liberazione c’è stata
la presentazione della piattaforma”DIGILiberazione” dedicata alla
riproduzione digitale del patrimonio archivistico, che si propone
come ausilio alle esigenze di approfondimento sia dei visitatori del
museo che degli storici, e dei ricercatori. Oltre 22.000 immagini di
documenti sono consultabili in apposite postazioni all’interno del
museo. Ora grazie ai documenti custoditi per tanti anni in casa Dosi
siamo a conoscenza che 1.100 persone furono rinchiuse in via Tasso, di cui conosciamo i nomi, percorsi carcerari e le celle occupate.
FABIO ASTROLOGO
29
ROMA
LIBRIEBRAICA
Giulia ci ha insegnato che non è mai tardi per pretendere giustizia
Con coraggio e tenacia Giulia Spizzichino ha lottato contro chi vuole dimenticare.
Grazie a lei fu possibile estradare e poi condannare il nazista Priebke
I
l 13 dicembre è venuta a mancare Giulia Spizzichino, novantenne eroina della nostra comunità che con il suo impegno
riuscì a far estradare in Italia il criminale di guerra nazista
Erik Priebke rifugiatosi in Argentina.
Nata a Roma nel 1926 Giulia riuscì ad evitare prima la deportazione il 16 ottobre ’43 e l’arresto di tutta la sua famiglia materna
il 21 marzo ’44. Dei ventisei membri della famiglia Di Consiglio
arrestati dai tedeschi, sette furono trucidati alle Fosse Ardeatine,
il resto fu spedito ad Auschwitz da cui non fecero ritorno. Giulia si salvò
miracolosamente insieme
alla madre perché al momento della retata non si
trovava insieme al resto
della famiglia.
Nella sua autobiografia
“La Farfalla Impazzita –
Dalle Fosse Ardeatine al
Processo Priebke” scritta
nel 2013 insieme a Roberto Riccardi, viene narrata
tutta la sua storia, dall’espulsione dalla scuola per via delle leggi razziali imposte dal regime fascista, al volo per San Carlos de Bariloche in Argentina nel
1994 per chiedere l’estradizione di Priebke, il responsabile della
rappresaglia per l’attentato di via Rasella.
Inizialmente la sua richiesta di poter processare in Italia l’ex capitano delle SS per omicidio fu respinta, poi accettata quando venne
mutata l’accusa in crimini di guerra, un reato non prescrivibile
da nessun ordinamento giuridico secondo il diritto internazionale. A quel punto, con l’opinione pubblica argentina indignata, fu
possibile processare il criminale nazista a Roma dove venne scandalosamente assolto dal Tribunale Militare di via delle Milizie il
1 agosto 1996. In seguito alle veementi proteste della Comunità
Ebraica romana la Corte di Cassazione annullò la sentenza disponendo un nuovo processo conclusosi nel ’98 con l’ergastolo da
Sar
tor
ia
scontare agli arresti domiciliari per via dell’età avanzata.
Nominata Cavaliere della Repubblica dal Presidente Giorgio Napolitano, Giulia amava parlare alle scolaresche del suo passato.
“Devo raccontare ciò che è stato, non può cadere tutto nell’oblio”,
ha scritto nella sua autobiografia. L’ultimo incontro risale al 26 ottobre quando è stata ospitata dalla scuola media Di Consiglio, un
istituto della periferia romana che porta il nome dei suoi parenti
trucidati dalla follia nazista.
“Una perdita dolorosa
per la Comunità Ebraica
di Roma”, ha affermato
la presidente Ruth Dureghello. “Giulia ci ha insegnato con il suo coraggio
e la sua tenacia che non
è mai tardi per pretendere giustizia. Ci lascia
un’altra testimone della
memoria. A noi spetta il
compito di non dimenticare e ricordare alle
nuove generazioni il suo
esempio positivo”. Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti si è detto “profondamente addolorato per la scomparsa di Giulia Spizzichino, donna
coraggiosa che con la sua preziosa testimonianza permise l’estradizione e la condanna del capitano delle SS Erich Priebke. Giulia,
come tutti quelli che hanno vissuto sulla loro pelle l’orrore della
Shoah, rappresenta parte della memoria storica del nostro Paese.
Il compito delle istituzioni è quello di impegnarsi costantemente
per formare una nuova generazione di testimoni capaci di guardare al futuro con la consapevolezza di quello che è stato”. Messaggi
di cordoglio sono arrivati anche dal Presidente della Repubblica
Sergio Mattarella, dal Sindaco Virginia Raggi e dall’assessore alla
Crescita culturale di Roma Capitale con delega alla Memoria Luca
Bergamo.
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Giulia Spizzichino si impegnò perché la memoria non venisse mai cancellata,
sia quella dei crimini nazisti che dei crimini della dittatura argentina
G
iulia Spizzichino ha scelto una
esistenza vissuta con le armi
della ragione e della memoria,
impegnandosi in una vita di lotte, praticata contro ogni forma di oblio e di
revisionismo antisemita. Giulia è riuscita a
spezzare le logiche del quieto vivere comune, nel ruolo di moglie e di madre, non considerando mai le ferite e i drammi
della famiglia materna (Di Consiglio)
e paterna (Spizzichino) come ferite
private da nascondere per pudore,
nel fondo di un pozzo di un’esistenza priva di memoria e di storia.
Nata a Testaccio, cresciuta nel quartiere, dove suo padre aveva aperto
una attività commerciale, un bel
negozio di biancheria. Elegante nei
gesti e nella persona, Giulia era
quella bellissima signora romana
che poteva raccontare l’orrore. Senza interpretare e esagerare, lasciando al suo racconto un fiume di eventi, di
fatti, parlando delle care persone perdute
con precisione, una persona dopo l’altra,
precipitate sulla via dell’odio che porta allo
sterminio. Quanta rara eleganza e umanità
in lei, con dignità superava blocchi e paure, sentimenti di dolore e di disperazione.
Nulla l’ha fermata nel corso delle sue incredibili novanta primavere.
Malgrado i dubbi che la tormentavano
seppe affrontare il viaggio
in Argentina per giungere all’estradizione di Erich
Priebke; il nazista viveva da
molti anni nel paradiso di
Bariloche, terra dove i nazisti avevano ricostruito una
Germania nostalgica, con le
case dai balconi fioriti a evocare un reich in cartolina,
felice e finto. Quel paradiso
di cartone, venne realizzato
con le coperture delle nazioni democratiche alla fine
della Seconda guerra mondiale, con le complicità internazionali soprattutto del
Vaticano (Odessa), della destra Argentina, con l’aiuto fattivo dei militari fascisti delle diverse organizzazioni
del Sud America, ed in testa gli Stati Uniti
d’America, con le ossessioni della politica
della guerra fredda.
Quell’Argentina volle l’assassinio dei militanti di sinistra, l’assassinio degli antifascisti della chiesa della liberazione, studenti, intellettuali, operai, sacerdoti, suore,
sindacalisti, uomini e donne oppositori alle
giunte militari. Ai desaparecidos venivano
strappati i figli affidandoli alle famiglie dei
persecutori e ai militari.
Giulia non si era chiusa nei ricordi dolorosi della sua famiglia. Il gruppo familiare
romano più colpito e presente alle Fosse
Ardeatine: i sette Di Consiglio, le tre generazioni eliminate in un solo giorno. Da
Auschwitz non torneranno più diciannove
dei parenti arrestati e deportati da Roma.
Lei stessa diventò un simbolo della Madri
di Plaza de Majo, donne che hanno lottato
per conoscere la verità sulla fine dei loro
congiunti, figli e figlie, mariti e padri. Giulia accompagnava le donne argentine alle
Cave Ardeatine, ormai la data del 24 marzo
’44 era divenuta una parte della loro storia.
Dalle inchieste e dalle indagini della magistratura democratica argentina risultava
che un migliaio di desaparecidos erano di origine italiana e molti altri erano ebrei.
Fui convocato in diverse occasioni da Giulia, per guidare quelle donne in visita al
Mausoleo. Ascoltai i loro racconti devastanti, rimanendo
privo di fiato. Negli incontri
con loro mi è capitato spesso
di ricostruire i fili delle storie
umane, politiche e militari dei martiri italiani. Fuori
dall’Italia non è conosciuto il
valore e l’impegno dei GAP
(Gruppi di azione patriottica)
che attaccarono il 23 marzo ’44 il reparto altoatesino
Bozen, con le divise tedesche. L’operazione di via Rasella è considerata una delle
azioni di guerra tra le più spettacolari nei
confronti dei tedeschi, i partigiani hanno
saputo conquistare la libertà di combattere il fascismo e il nazismo, malgrado la
presenza frenante di Pio XII.
Il viaggio di Giulia in Argentina si poté
compiere con il sostegno e la fiducia
dell’A.N.F.I.M., e l’intervento diretto del
Sindaco di Roma Francesco Rutelli, il Comu-
ne provvide all’organizzazione e si impegnò
per le spese di viaggio di tutta la delegazione italiana. Era il 1994. Giulia affrontò
il viaggio considerando i rischi e i pericoli
che l’attendevano. Ricevuta a Buenos Aires
a pieno titolo a rappresentare tutte le famiglie dei martiri. Non si risparmiò mai, fu
accolta dal parlamento argentino come un
capo di stato, una donna autorevole e ferita, rappresentava l’Italia della Resistenza e
della lotta contro tutte le forme di fascismo.
Dopo l’estradizione di Erich Pirebke, ebbe
luogo il processo al Tribunale Militare in
viale delle Milizie. Tutto era predisposto fin
dall’inizio, come se si trattasse di una rappresentazione teatrale, per accontentare
i giornali e la TV. Priebke sarebbe tornato
da dove era partito, ma quando fu resa nota
la sentenza, i romani diedero luogo ad una
vera e propria rivolta, se Priebke fosse tornato a Bariloche, senza nessuna condanna
avrebbe offeso e beffato la dignità del popolo di Roma e della nostra memoria. Era
il 1996, Riccardo Pacifici con un gruppo di
valorosi non vollero piegarsi all’operetta
concertata dai giudici militari. Fu così che
Priebke restò in Italia e fu costretto ad affrontare altri giudici e giudizi, soprattutto
le terribili testimonianze di coloro, che nonostante il tempo trascorso, non avevano
dimenticato.
Il ricordo di Giulia è impresso nel cuore
delle pietre di Roma, un fiore rosso che non
morirà mai, lei appartiene a quei fiori rossi
che portano il nome di Teresa Gullace, di
Caterina Martinelli, di Carla Capponi, della
vedova del Generale Simone Simoni e delle figlie Piera e Vera, di Ester Di Consiglio
e di tutte le donne che lottarono, amarono e piansero per la libertà, Giulia ha però
avuto al suo fianco il figlio Marco, che l’ha
amata e sostenuta.
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Una farfalla rivoluzionaria
31
ROMA
LIBRIEBRAICA
Ma quanti siamo
e dove andiamo?
Come cambia la demografia del popolo
ebraico, in bilico tra crescita e denatalità.
Una lezione del prof. Sergio Della Pergola
I
l 15 Novembre, in occasione della pubblicazione del libro “Conversioni all’ebraismo” di Emanuela Trevisan Semi, l’associazione culturale Hans Jonas ha organizzato presso il Centro
Bibliografico UCEI una lezione aperta al pubblico sul tema della demografia ebraica con Sergio Della Pergola, uno dei maggiori
esperti in materia e consulente per il governo dello Stato d’Israele.
Il professor Della Pergola ha illustrato l’andamento della demografia ebraica mondiale ed i suoi
movimenti migratori.
Dal 1945 in poi il totale degli ebrei
nel mondo è cresciuto di circa tre
milioni, un quantitativo in linea
con l’incremento della popolazione mondiale. Mentre però Israele
continua a crescere esponenzialmente la Diaspora mostra una
certa involuzione dagli anni ’90.
Questo perché si è verificata una
redistribuzione della popolazione ebraica nel mondo che ha interessato tre grandi macroaree:
Europa dell’Est, Stati Uniti e Israele. Se fino al 1948 la comunità ebraica nel Mandato di Palestina
rappresentava una piccola parte dell’ebraismo, con la nascita dello Stato Ebraico si è verificata una migrazione di massa dai paesi
appartenenti al blocco sovietico, dove erano presenti i maggiori
centri ebraici, che ha accresciuto notevolmente il numero di ebrei
residenti in Israele. Inoltre a questa migrazione si è aggiunta quella proveniente dai paesi arabi degli anni ’60 che ha sancito la fine
della presenza ebraica in luoghi che avevano svolto un ruolo fonda-
mentale come l’Iraq, lo Yemen, l’Iran ed i paesi del Nord Africa. Gli
Stati Uniti hanno visto invece un iniziale aumento della popolazione
ebraica per poi cominciare a diminuire verso la fine degli anni ’80. Il
2015 ha infatti sancito il sorpasso dello Stato Ebraico sugli Stati Uniti per numero di ebrei residenti. Un gap che secondo le proiezioni
del professor Della Pergola è destinato ad aumentare finché il totale
della Diaspora sarà minore al numero di ebrei israeliani.
I motivi che spingono gli ebrei a cambiare cittadinanza sono vari e
rispondono spesso a stimoli esterni: crisi economiche e persecuzioni sono fattori decisivi ma quella che sembra essere la spinta più importante è la ricerca di condizioni migliori per mantenere la propria
identità ebraica. Si spiegano così ad esempio la fuga dalla Francia,
dove è diminuito il senso di sicurezza, e l’aumento in Canada, un
paese percepito come sicuro e favorevole alla vita ebraica. In ogni
caso i numeri attestano che ovunque ci siano condizioni di salute,
reddito e istruzione maggiori la
popolazione ebraica cresce.
Per quanto riguarda l’Italia il 2015
è stato l’anno in cui si è toccato
l’apice di aliyot dal 1950, un numero che indica come nel nostro
paese siano in corso profondi
cambiamenti societari che hanno
interessato anche la demografia
ebraica.
La lezione è poi proseguita analizzando le diverse definizioni di
ebraismo, da quella strettamente
religiosa a quella più ampia della multi-identità molto affermata
in America. A livello sociologico
sembra quindi finita la dicotomia
ebrei-non ebrei con la comparsa di individui che si definiscono “anche ebrei”. L’identità infatti, come ha spiegato Della Pergola, non
è solo un parametro ma un complesso di valori e fattori profondamente diversi, all’aspetto religioso si fondono tradizioni familiari,
influenze culturali e lo spirito di aggregazione, tutti tenuti insieme
dall’unico punto di intersezione: il sentimento di appartenenza al
popolo ebraico.
MARIO DEL MONTE
Firenze, Lorenzo il Magnifico e gli ebrei
Se ne è discusso in occasione della presentazione del libro di Giulio Busi
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
M
32
ercoledì 7 dicembre al Jewish Community Center di Via Cesare Balbo si
è svolta la presentazione del libro “Lorenzo de’ Medici – Una vita da Magnifico”. Insieme all’autore Giulio Busi era presente la
docente di Diritto Costituzionale Comparato e Direttrice del Progetto Talmud Clelia Piperno. La serata,
aperta dai saluti della Presidente Ruth Dureghello,
si è concentrata sulla vita di Lorenzo de’ Medici toccando anche il rapporto che quest’ultimo intrattenne con gli ebrei di Firenze, suoi strenui sostenitori
fino alla morte nel 1492. Le ragioni di questo rapporto privilegiato sono da ricercare principalmente
nella protezione che il nonno Cosimo approntò nei
confronti di alcuni medici e banchieri di religione
ebraica, ma l’entusiasmo nei confronti della famiglia de’ Medici si protrasse per via del clima di libertà religiosa ed
opposizione all’antisemitismo dei Signori di Firenze, qualcosa di
difficilmente riscontrabile nell’Europa del ‘400. Lo stesso Lorenzo
arrestò un potenziale pogrom nei primi anni di potere.
Dalla serata è uscito fuori un ritratto di Lorenzo de’ Medici mol-
to complesso: mecenate, poeta e collezionista, fece
degli artisti della sua corte veri e propri ambasciatori di Firenze e della fiorentinità, per mostrare quanto valesse la città in termini di influenza culturale.
Di certo gli intrighi di palazzo e la corruzione non lo
rendono un santo, ma è pur vero che la sua politica
di elusione dei conflitti gli ha fatto guadagnare il
titolo di “ago della bilancia” della Penisola italiana
mantenendo la pace fino alla sua morte. Da buon
uomo rinascimentale, Lorenzo de’ Medici era un
uomo capace in tutto ma non eccelleva in nulla se
non nella costruzione del mito di se stesso. In molti
infatti ritrovano tante delle sue caratteristiche nel
“Principe” di Machiavelli, l’uomo che secondo il letterato fiorentino avrebbe riunito l’Italia sotto un unico regno. Piacevole a leggersi e preciso nel contenuto storiografico, il libro di Giulio Busi è decisamente consigliato a
tutti coloro che sono interessati alla storia di Lorenzo il Magnifico,
ai suoi amori, alle sue amicizie e alla sua scalata ai vertici della
politica italiana e internazionale.
MARIO DEL MONTE
Un flash mob per imparare
la rianimazione cardiopolmonare
Un'iniziativa delle scuole ebraiche
“Salviamo tutti quelli che voi ci date la possibilità di salvare”
ha infatti continuato, procedendo a mettere in atto una simulazione con un ragazzo delle medie ed uno del liceo, “proprio voi
siete l’anello principale, basilare, della sopravvivenza, e ben tre
dei quattro compiti contemplati dalla cosiddetta ‘catena della sopravvivenza’ - riconoscimento, rianimazione e defibrillazione - vi
sono affidati, mentre solo l’ultimo, le cure avanzate, è di nostra
competenza”.
A seconda della gravità del caso descritto al telefono, ha spiegato
l’infermiere, ci vogliono minimo 5-10 minuti perché arrivi l’ambulanza, durante i quali “senza tralasciare l’importanza della solidarietà, si è obbligati a rimanere con l’individuo in crisi anche per
la legge italiana”. E’ quindi importante sapere che “l’emergenza
è in continua evoluzione”, e se la situazione peggiora bisogna testare la reattività del soggetto chiamandolo e pizzicandolo, ascoltarne il battito per 10 secondi, e qualora ne si notasse la mancanza provvedere all’iniziazione del massaggio cardiaco, al ritmo
di 20 al secondo, eseguibile unendo le mani l’una sopra l’altra e
premendo al centro del torace (a metà tra l’ombelico ed il collo).
Una volta insegnata a tutti la manovra, anche tramite dei cuscini
a forma di cuore, si è perciò realizzato il vero e proprio flash mob,
addestrando gli alunni alla coreografia a coppie in cui si svolgeva
la rianimazione cardio-polmonare a tempo di musica.
JOELLE SARA HABIB
Gara di cucina al Beth Michael
Terza edizione del Kitchen Chanukkà, per
festeggiare insieme lo spirito e il palato
I
l 26 dicembre al tempio Beth Michael si è svolto il Beth Michael’s Kitchen Chanukkà, la terza edizione della gara di cucina,
organizzata da Alessandra Caló, Ruben Spizzichino e Giordana
Moscati, assessore ai giovani.
Cinque squadre di giovani ragazzi si sono sfidate preparando tre
piatti ciascuna: un antipasto, un primo e un dessert da servire alla
giuria composta da Clelia Terracina, Barbara Di Castro, Elisabetta Moscati, Semy Pavoncello, Roberto Di Porto (Pucci) e Deborah
Guetta, e soprattutto al pubblico, uomini e donne, bambini, anziani
e signore dalle papille gustative esigenti.
Due i premi in palio: per i secondi classificati scelti dal pubblico, che
ha assaggiato i piatti e votato la sua squadra preferita, una coppa;
mentre per i primi classificati scelti dalla giuria, oltre alla coppa una
cena offerta dal nuovo ristorante “La Reginella”.
Il ricavato dell’evento sarà devoluto in memoria di Alisa Cohen Z’’L
contribuendo al progetto musicale fortemente voluto dalla famiglia.
Accompagnata dalla simpatia del conduttore Livio Anticoli e introdotta dal presidente Ruth Dureghello, la serata si è svolta in maniera divertente e nello spirito della festa di Chanukkà (infatti subito
dopo la prima portata è stata accesa la Chanucchià nel giardino del
Beth Michael).
A vincere entrambi i premi è stata la squadra Gialla composta da
Ruben Bondì, Edoardo Del Monte, Marco Della Seta, Ruben Moscato, Josef Fatucci e Samuel Naim che ha servito bocconcini di pollo
alla zucca con pomodorino al forno, pane alle noci e caffè, seguiti
da un risotto aglio, olio, zucchine alici e menta, e dulcis in fundo
tiramisù parvè ai lamponi.
GIORGIA CALÓ
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
“L’
arresto cardiaco è un importante problema sanitario che colpisce ogni anno oltre 400.000 persone in Europa - mietendo circa 1.000 vittime ogni
giorno - ed oltre 60.000 in Italia. Il 70% degli arresti cardiaci in Europa avviene in presenza di qualcuno che potrebbe effettuare la rianimazione cardiopolmonare (RCP) che, se
iniziata prima dell’arrivo dell’ambulanza, raddoppia o triplica le
possibilità di sopravvivenza. Tuttavia questa rianimazione viene
cominciata solo nel 15% dei casi, e ogni 90 secondi un tentativo
non ha successo perché iniziato tardi. Se riuscissimo ad aumentare la percentuale dall’attuale 15% al 50-60% dei casi, potremmo
salvare circa 100.000 persone all’anno solo in Europa”.
Queste le scioccanti statistiche enunciate da Christian Manzi,
infermiere 118 dal 1989, ai ragazzi delle scuole ebraiche, in occasione del flash mob di sensibilizzazione e promozione della RCP,:
si tratta di imparare e saper eseguire manovre, “semplici, sicure,
e che chiunque di noi, anche senza una preparazione sanitaria
specifica, è in grado di attuare”, ma che possono sottrarre alla
morte.
33
ROMA
LIBRIEBRAICA
Dall’Italia in Israele:
da soli a 15 anni
Un’esperienza forte di crescita: Sara Spagnoletto
racconta la sua esperienza con il ‘Progetto Naalè’,
così uguale e così diversa rispetto
a quella di tanti altri coetanei
M
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
olto si sente parlare del “Progetto Naalè”, che propone
di portare ragazzi dai 14 ai 17 anni in Israele, senza
famiglia, a studiare, ma soprattutto a vivere.
Ma cos’è veramente? Cosa comporta esattamente abbandonare la famiglia per vivere questa esperienza, in un paese che
non conoscono, con una lingua che non parlano?
Proverò a raccontare la mia esperienza che mi accomuna a tanti
altri miei coetanei ebrei.
Ogni anno, infatti, partono dall’Italia gruppi di
5-15 ragazzi, pieni di speranza, pieni di volontà,
di propositi. Quest’anno
sono partiti 20 ragazzi,
molti di più degli appena
3 ragazzi del 2012.
Perché si parte? Perché il progetto sta avendo così successo? Perché si abbandonano gli agi e la sicurezza della propria casa?
I motivi sono svariati, e di certo sono diversi per ogni singolo ragazzo, perché diverse sono le aspettative e sopratutto diversi gli
obiettivi.
Senza dubbio c’è l’amore per Israele; c’è lo spirito sionista con la voglia di vivere in mezzo a correligionari, di combattere per la nazione,
di liberare il proprio potenziale; di fare da ‘apripista’ alla famiglia.
Ma la verità, che si scopre parlando con i diretti interessati, è che
pochissimi sono partiti per andare in Israele; quasi tutti sono partiti
per lasciare l’Italia, quasi incuranti della destinazione.
È la voglia del cosiddetto “fresh start”, un nuovo inizio, che spinge
questi ragazzi ad andare. Come la semplice voglia, che ogni adolescente ha, di viaggiare, di conoscere ed esplorare. La consapevolezza di andare a vivere da soli, di essere in grado di gestire la propria
vita, di conoscere nuove persone da tutto il mondo, che hanno avuto il tuo stesso sogno di lasciare tutto e partire. Questo desiderio,
che nasce fin dalla tenera età, il desiderio umano di essere nomade,
di esplorare, e il desiderio adolescenziale dell’essere libero, consapevole, adulto. E sopratutto, la speranza di un futuro migliore, che
sicuramente l’Italia non sarà in grado di offrirti. In questa Italia sempre più vecchia, più in crisi, in questa Italia deturpata dalle generazioni precedenti, che costringe oggi i ragazzi a non avere le stesse
possibilità che invece avevate avuto voi, e che li obbliga, quasi, ad
dover emigrare; la cosa che l’ebreo sa fare meglio, emigrare da un
34
Correre attraverso i luoghi
della Memoria
Prima iniziativa a Roma per una corsa
non competitiva. Appuntamento il 22 gennaio
I
l prossimo 22 gennaio si terrà a Roma, nell’ambito delle celebrazioni per il Giorno della Memoria, una gara di corsa non
competitiva aperta a tutti e che si correrà lungo i ‘luoghi
della Memoria’. La corsa – promossa su iniziativa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dell’Associazione Maccabi
Italia – si svolgerà lungo due percorsi alternativi: uno lungo circa
10 km per le persone allenate e l’altro, breve di circa km 3,5 che
posto all’altro quando inizia a sentirne l’esigenza. Anche in questa
sorta di egoismo, nell’abbondare tutto perché non gli è più “comodo”. La speranza di trionfare, di farcela.
Ma non è semplice come sembra, non è tutto perfetto. Ci sono le
insicurezze che questo passo può comportare, i momenti di sconforto, che solo un ragazzo con la famiglia lontana può capire. Ci sono
i pianti, il rimorso di averlo fatto, combattuto dal rimpianto nel non
averlo fatto. Le indecisioni durante l’anno, che, a chi più a chi meno,
sono venute a tutte. La mancanza di una madre, di un padre, di un
fratello o di una sorella. Figure essenziali nella vita di un ragazzo.
La mancanza quasi di autonomia, la mancanza di privacy, il dover
sempre interagire con diverse persone. Ritrovarsi a soli 15 anni a
programmare la propria vita, a mettere la firma in qualcosa che andrebbe forse affrontato più avanti. Le regole dell’istituto. L’alienazione. Perdere la cultura che solo un liceo italiano riesce a darti, il
latino, la letteratura, come a volte anche la lettura in sé. Perdere
la storia. Per guadagnare di scienza, in un liceo dove la matematica conta più di ogni altra
cosa, dove il computer, la
tecnologia, la modernità,
vengono messe davanti
a tutto.
Ci sono le nuove amicizie, nuovi tipi di feste,
un’esperienza che rende
una cosa semplice come
prendere l’autobus, un’avventura. Si imparano in fretta due nuove
lingue. Sempre in compagnia, prendere aerei, dormire in camera
con un americano a destra e un giapponese a sinistra. E giorno dopo
giorno, ci sono gli incontri la mattina, le lezioni in inglese o in ebraico, lo studio; e si inizia a vedere il proprio gruppo, come una famiglia allargata. Tra madrichot (educatrici), punizioni, sport, parenti,
attività, la vita non sta mai ferma.
E così, un ragazzo di quest’età, catapultato in una nuova dimensione, molto diversa da quella in cui è abituato a vivere inizierà a crescere, forse anche una crescita prematura. Da un ragazzo semplice,
anonimo, si evolve in quello che è un ragazzo maturo, in grado di
gestire la propria vita, un ragazzo che ha viaggiato, che ha conosciuto, che ha visto nuove società, che si è confrontato. Forse troppo
in fretta, ma chi dice che è negativo? Padrone di se stesso, capace
di parlare, di pensare, ma soprattutto di interpretare, confrontare,
distinguere.
È cosi, che ogni anno, il numero degli intrepidi che si buttano nel
viaggio, si duplica quasi, senza sosta. Senza uno scopo preciso, senza neppure essere al cento per cento consapevoli di dove si va, si
parte comunque. In una scuola che è stata colonizzata dagli italiani.
Da italiani con tradizioni, caratteri, modi di fare, molto diversi da
quelli americani, israeliani, tedeschi o brasiliani. Che per la prima
volta si confrontano, si aprono, conoscono, esplorano, crescono, e,
sopratutto, imparano.
SARA SPAGNOLETTO
sarà svolto a passo di passeggiata veloce.
La partenza è prevista da Largo 16 Ottobre 1943, il luogo simbolo
della deportazione degli ebrei romani. La corsa passerà attraverso
la Piazza degli Zingari, nel rione Monti, dove è posta una lapide
dedicata alla Memoria di Sinti e Rom, poi per Via Urbana, presso
la targa dedicata al prete antifascista perito alle Fosse Ardeatine Don Pietro Pappagallo; si proseguirà per il Museo Storico della
Liberazione di via Tasso, il Giardino Famiglia Di Consiglio a Testaccio, dedicata a una famiglia ebraica vittima del nazismo, e si
concluderà nel quartiere ebraico.
In ciascuna di queste tappe sono previste iniziative dedicate alla
Memoria, con l’allestimento di pannelli esplicativi, deposizioni di
fiori, appuntamenti artistici con personalità del mondo della musica e dello spettacolo, cori di bambini, accensioni di candele e
letture di brani.
L’intenso scambio culturale
con le altre scuole ebraiche europee
“S
iamo l’unica scuola a fare questo tipo di scambi alle
medie, gemellaggi in Europa che permettono di vedere altre realtà”, dice la professoressa Bazevi dei progetti per le terze da lei coordinati e curati che, promossi e appoggiato dal preside Rav Carucci, sono nati 5 anni fa, prima
con l’assessorato di Ruth Dureghello, ed ora con Daniela Debash.
Le città finora visitate sono state, in ordine cronologico: Istanbul,
Praga, Budapest, Bucarest, Berlino e Vienna con formule ormai
consolidate, che prevedono il soggiorno in un ostello, cibo kasher
proveniente soprattutto dalla scuola e dalla comunità, attività con
la scuola ebraica del posto, e durante il pomeriggio, visite per la città, prevalentemente in siti interessanti dal punto di vista ebraico.
“Si tratta di esperienze ebraicamente molto forti” descrive la professoressa, “per esempio a Budapest abbiamo recitato il kaddish
davanti al monumento ‘Scarpe sulle rive del Danubio’ che ricorda
il massacro di ebrei gettati nel fiume dai nazisti, mentre lo scorso
anno a Berlino, durante l’anniversario della Kristallnacht, abbiamo
ascoltato un dvar Torà di rav Amedeo Spagnoletto nella piazza
dove furono bruciati dai tedeschi migliaia di libri, ed ora si trova
come monumento simbolico una libreria vuota”.
Un momento “aggregante per tutti”, ribadisce, dove all’esplorazione a carattere ebraico e al gemellaggio con i coetanei, si accompagnano i ‘diversivi’, come il giro turistico in pullman o l’immancabile
momento dello shopping.
“Molto bella e ben organizzata”, secondo i ragazzi, la scuola ebraica di Vienna visitata: “una struttura dalle grandi aree, in cui tutti
gli alunni parlavano perfettamente inglese ed ebraico”.
Accompagnati dai professori - Tesciuba, Limentani, Barbato, Mantin, Bazevi e Spagnoletto - gli studenti hanno quindi potuto visitare
la residenza invernale degli Asburgo, dove hanno potuto ammirare
36 delle quasi 2000 stanze, tra cui quelle delle principessa Sissi e
del marito; il Museo del Belvedere “dove erano esposte molte delle opere di Klimt, di cui parecchi ritratti su commissione di donne
ebree”; e il Museo Ebraico che racconta la storia di una comunità
che aveva raggiunto nel tempo 200mila persone, addirittura 1/10
dei totali degli abitanti di Vienna.
Il soggiorno, che includeva anche il 9 novembre, ha coinciso con
l’anniversario della Notte dei cristalli, ed è stata svolta una fiaccolata partita da un’enorme sinagoga distrutta dai tedeschi – di
cui rimangono solo due colonne, altissime – e conclusa di fronte
all’unico tempio non distrutto dai nazisti, poiché non riconoscibile
dall’esterno. Il giorno dopo incontro con quattro sopravvissuti alla
Shoà, tre dei quali - nati a Vienna, trasferitisi dopo la guerra, in
Canada, Sudamerica ed Israele, per poi da anziani ritornare nella
città d’origine - potevano vantare un’amicizia lunga ben 70 anni.
“Un’esperienza fantastica, che ci ha dato la possibilità di confrontarci, dibattere, discutere”, tirano le somme gli studenti.
JOELLE SARA HABIB
Shimon Peres: la sua vita
ispirazione per le generazioni future
Se ne è discusso in un incontro congiunto
tra Benè Akiva e Hashomer Hatzair
C
on la fine delle festività, sono ricominciate le attività e i
progetti del Dipartimento Educativo Giovani, tra questi
anche la Rassegna Stampa per Ragazzi. Per l’inaugurazione, tenutasi il 27 ottobre, il tema scelto è stato la figura
di Shimon Peres z”l, ultimo dei ‘padri fondatori’ dello Stato d’Israele, venuto a mancare un mese prima. A questo incontro l’ospite
d’onore è stato Giacomo Kahn, direttore di questo mensile, che ha
partecipato a diverse visite formali e non, con il presidente. Oltre
ai membri dello staff, hanno partecipato attivamente anche le rappresentanze del Benè Akiva e del Hashomer Hatzair, tra i quali gli
Shlichim dei due movimenti giovanili. Per rendere più stimolante
il dibattito con i ragazzi presenti, il direttore ha iniziato chiedendo
loro di parlare della loro vita nel minor tempo possibile, scoprendo
anche diverse sfaccettature di chi parlava in quel momento.
Il direttore non si è limitato ad un’attenta analisi della figura di
Peres, che sarebbe risultata inadatta, e soprattutto noiosa ai destinatari del progetto, ma ha invece trattato temi attuali, ovvero
quelli che preoccupano gli ebrei nel mondo e in Israele, come la
recente risoluzione UNESCO, facendo accenni illuminanti sulla
fondamentale figura di Peres nel corso dello sviluppo dello stato di
Israele. A partire dalla sua biografia, il direttore ha analizzato l’attività politica di Peres cercando di far comprendere a noi giovani
non solo i motivi delle sue scelte pubbliche, ma anche la complessità della sua interiorità. Una figura che ha rivoluzionato Israele
strategicamente, rendendola una delle maggiori potenze militari
al mondo, ha donato allo Stato ebraico il primo accenno di stabilità
nel contesto mediorientale, non considerando l’idea dei suoi superiori ma contando solo sulla sua capacità di guardare al futuro.
Accordi come quelli di Camp David gli valsero la vincita del premio
Nobel per la pace nel 1994, rendendolo una delle figure di maggior
interesse della politica del XX secolo.
La vita del presidente Peres, secondo Kahn, è l’esempio perfetto
per le future generazioni, durante la sua vita lui è riuscito a fare
di tutto, sotto qualsiasi punto di vista, noi dobbiamo essere come
lui; se abbiamo un sogno, non dobbiamo scoraggiarci perché
crediamo di non avere abbastanza tempo per farlo, ma dobbiamo credere in noi stessi e autoconvincerci che invece è possibile
renderlo realtà.
LUCA SPIZZICHINO
Comunità Ebraica di Venezia cerca segretario
Il candidato/a dovrà:
- avere un’età minima di 30 anni;
- essere iscritto/a ad una Comunità ebraica italiana;
- essere in possesso di un diploma di scuola media superiore (liceale o equipollente);
- avere buona conoscenza della lingua inglese scritta e parlata;
- avere adeguata formazione in materia amministrativa/giuridica;
- avere elementi di conoscenza della cultura e della Tradizione
ebraica;
- avere conoscenza IT di base;
Titoli preferenziali
- conoscenza della lingua ebraica;
- titolo di studio universitario o equipollente;
- precedenti esperienze lavorative in Comunità e/o enti ebraici;
- capacità di lavoro in team ed esperienza nel settore organizzativo.
Il trattamento economico – adeguato all’esperienza - comprende il
godimento di un’abitazione di servizio a Venezia.
I candidati dovranno far pervenire domanda e CV presso la Segreteria della Comunità Ebraica di Venezia - Cannaregio, 1146 - 30121
Venezia entro il 15 marzo 2017. Indicare sulla busta “RIFERIMENTO BANDO SEGRETARIO”.
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Viaggiare per conoscere gli altri,
per conoscere se stessi
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GENNAIO 2017 • TEVET 5777
STORIE
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LA PILLOLA DEL MESE DOPO
Breve vocabolario italiano/giudaico-romanesco
accanto in momenti così delicati.
GIUDAICOROMANESCO: Attacchi tutta la
desditta.
8. ITALIANO: Credo sia giusto tu debba attendere la
giusta retribuzione per quelle che sono state le tue azioni.
GIUDAICOROMANESCO:
Pan tosto per te è riposto.
9. ITALIANO: Il numero di
persone partecipanti all’evento risultò inferiore alle
aspettative.
GIUDAICOROMANESCO:
C’erano Haimme a sore o
sediaro e la moje.
10. ITALIANO: Preferisco un
ruolo primario in un’organizzazione compatta che essere subalterno in una grande
società.
GIUDAICOROMANESCO: Mejo testa di
alice che coda di storione.
11. ITALIANO: Per quanto l’israelita presti
la massima attenzione nel rispetto delle
regole alimentari che la sua fede richiede,
capita che possa inavvertitamente ingerire un cibo proibito.
GIUDAICOROMANESCO: Judio che un
magna porco, in capo a un anno ce ne ha
uno ‘n corpo.
12. ITALIANO: Quasi sempre l’ambiente
rispetta la personalità di chi ci vive. GIUDAICOROMANESCO: Così so’ i stanzi così
só i mobbili.
Spero di esservi stato utile nel farvi comprendere meglio alcune terminologie della
comunità ebraica romana, anche se bisogna ammettere che, a volte, si ha la necessità che i nostri interlocutori non appren-
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel segno di
uno humor che non vuole offendere nessuno, ma sorridere di tutto.
Troppi “Ebrei del Principe”, ovunque e comunque. Troppi ebrei,
non importa se liberal o conservatori, che sgomitano per lasciarsi
onorare (o almeno così credono) dal potente di turno. La Germania imperiale del Kaiser e poi la Repubblica di Weimar non hanno
insegnato nulla. Almeno, ai tempi del Califfato – quello vero- in
Al Andalus (la Spagna islamica) e dei re cristiani di Castiglia e
Aragona prima del 1492, non si poteva certo dire di no se il medico, il filosofo o il grande mercante venivano chiamati dal sovrano
per gli incarichi più rischiosi e prestigiosi. Oggi, negli USA di fine
mandato, il caso è stato esemplare. I liberal si sono disperati per
la sconfitta di Obama e sembrano del tutto disinteressati ai disastri accumulati dall’Amministrazione uscente in tutte le aree del
pianeta. Ma sono felici per i dispetti tardivi e definitivi, perché
li credono tali, di Obama e Kerry a danno del premier israeliano.
Invece è solo business, basta guardare la lista di acquisti Made in
Usa degli ayatollah di Teheran. Quanto a Netanyahu, guadagna
consensi quando può giocare la partita contro il resto del mondo.
Con più di una speranza di non essere lui il coach perdente.
Smokéd
GALATEO
Caro direttore, provo sempre rancore ogni
volta che vado da Equitalia a rateizzare
le cartelle esattoriali che mi
arrivano. Lei che è uomo di
mondo, in che maniera, magari elegante,potrei rispondere all’addetto che mi chiede:” In quante rate?”
DIRETTORE: semplice, risponda:” Ad mea ve esrim!”(
fino a 120!).
SORVEGLIANZA
Gentile direttore, ringrazio
sempre i volontari che fanno
la sorveglianza nelle nostre
istituzioni, ma da un po’ di
tempo devo dire che li trovo un po’ più
scortesi, solo perché dico loro che lascio la
macchina 5 minuti. Cosa posso fare per instaurare con loro un diverso rapporto?
Mamma ‘82
DIRETTORE: la smetta di aggiungere ai 5
minuti: “Mi ci dai un’occhiata e ti dispiace
se ti lascio le chiavi?”
RAPPRESENTANZE:
Caro direttore, mi rivolgo a lei ed alla sua
provata esperienza per rivolgerle questa
domanda:”Ma c’è un modo per far smettere i rappresentanti che vengono nel mio
negozio quando c’è gente di dire: ‘Ah!
Quando entro io nei negozi si riempiono!’?”
Commerciante 62
DIRETTORE:”Più facile di quello che si
creda; li chiami tutti i giorni di novembre
e febbraio dicendogli di sbrigarsi a venire
che non si lavora e che ha bisogno della
loro presenza. Vedrà che la smetteranno...
27 dicembre: Yom charatodde
È
fernito o momento dell’acqua pe l’orto
oje comenza o festival del morto
sogni da generale da sordato i mangoddi
avanza o popolo di charatoddi
manco o tempo de accenne na lampadina
ce n’hai già due piazzati in vetrina
pasti storici li hai già inquadrati
dondolano i fianchi i busti ciancicati
co la scusa de vede se la giornina è montata
esci sui fagotti butti na ngainata
e..... mangase satanne c’avria giurato
lo marore vennuto a forza de fiato
sto zachennume è pejo de la cavallina storna
so 4 natali che o venno e me ritorna
ecchete che m’bocca cappottuzzo
de nonnema occhialuzzi spessi
coraggio Settì è tornato a casa Lessi.
DANIELE VOLTERRA
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
N
on sempre si conosce la provenienza esatta delle parole
giudaico romanesche; a volte
traggono origine direttamente
dall’ebraico (storpiato naturalmente), altre
dalla saggezza e dall’ingegno popolare.
Alle volte sono in grado di semplificarci la
vita, dandoci traduzioni altrimenti difficili
da spiegare in modo altrettanto efficacie
con l’italiano comune. Ecco alcuni esempi
1. ITALIANO: Non è in grado di fare proprio tutto e a volte pecca nelle cose più
semplici
GIUDAICOROMANESCO: Un’è bòno nè a
morti piagne ne’ a vivi riconsolá.
2. ITALIANO: A volte l’interscambio non è
così equilibrato per ambedue.
GIUDAICOROMANESCO: ‘Ndo se cagne
uno ne chiagne.
3. ITALIANO: Non capisco come tu abbia
potuto perdere quella semplice vendita.
GIUDAICOROMANESCO: Ma chi pasto da
veludde che sí...
4. ITALIANO: Sappi che il disagio da te
provato in questo momento è probabilmente ciò che anche io ho subito sulla mia
persona. GIUDAICOROMANESCO: So’
cholaimmi provati!
5. ITALIANO: Probabilmente hanno ripensato alla loro condizione attuale ed hanno
capito di aver errato nella valutazione
delle conseguenze. GIUDAICOROMANESCO: Se so trovati a caratodde.
6. ITALIANO: Sono talmente accomodanti
che riescono a districarsi bene in tutte le
situazioni.
GIUDAICOROMANESCO: Se fanno anna’
bene pure a fevre in mezzo a 'o ciorvello.
7. ITALIANO: Ritengo che nelle alterne
fortune forse è meglio che tu non mi sia
dano perfettamente ciò di cui stiamo parlando. Non avete capito? Vabbè, si...dai...
insomma...DAVARE PE I CHIUSI!
ATTILIO BONDÌ
37
DOVE E QUANDO
GENNAIO
16
19.45 il PITIGLIANI
Lezione di Talmud a cura di Rav Benedetto Carucci
L U N E D Ì Viterbi: pagine scelte dal trattato di Rosh Ha-shanà
Info: Micaela 065897756 - [email protected]
-------------------------------------------------------------------------------
17
18
16.30 ADEI WIZO
A grande richiesta gita di una giornata all’Outlet
M A R T E D Ì di Firenze. Info e prenotazioni in sede: 065814464
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16.30 LE PALME
Incontro con la Torà a cura di Marco Del Monte
MERCOLEDÌ Gli incontri avranno luogo tutti i mercoledì del mese
18.00 ADEI WIZO
Per un libro al mese: presentazione del libro
“Tramonto libico” di Raphel Luzon ed. Giuntina.
Con la partecipazione dell’autore e testimonianze
dal vivo. Interverrà Evelina Meghnagi
24
-------------------------------------------------------------------------------
10.00 ADEI WIZO
Palazzo Braschi Visita guidata dalla Prof.ssa Paola
M A R T E D Ì Sonnino alla mostra “Artemisia Gentileschi e il suo
26
29
tempo” Info e prenotazioni in sede
-------------------------------------------------------------------------------
17.00 LE PALME
Non dimentichiamo: pomeriggio dedicato al ricordo
G I O V E D Ì della Shoah
-------------------------------------------------------------------------------
10.30 il PITIGLIANI
Memorie di famiglia: i giovani tramandano le storie dei
Parashà: Bò
Venerdì 20 GENNAIO
Nerot Shabath: h. 16:52
Sabato 21 GENNAIO
Venerdì 3 FEBBRAIO
Nerot Shabath: h. 17.09
Sabato 4 FEBBRAIO
Mozè Shabath: h. 17:56
-------------------------------------Parashà: Vaerà
Mozè Shabath: h. 18.14
-------------------------------------Parashà: Beshallach
Nerot Shabath: h. 17.01
Nerot Shabath: h. 17.18
Venerdì 27 GENNAIO
Sabato 28 GENNAIO
Mozè Shabath: h. 18.05
Venerdì 10 FEBBRAIO
Sabato 11 FEBBRAIO
Mozè Shabath: h. 18.23
NOTES
IL PITIGLIANI
GRUPPO GHIMEL
Tutti i giovedì alle ore 16.30
19 gennaio Massimo Moscati: “La musica e la tradizione ebraica: il controverso rapporto tra la musica e l’Ebraismo dalla Torah
a Schoemberg”
9 febbraio Daniel Fisher: Un paese attraverso i francobolli
Info: David [email protected] 3934288178
FELDENKRAIS
Domenica 18 dicembre dalle ore 10.00 alle ore 14.00
Seminario Feldenkrais con Irene Habib: “La mandibola: abitudini posturali e rigidità” Il seminario a carattere pratico prevede
lezioni mirate a favorire la libertà dei movimenti Giovedì 19 gennaio dalle ore 19.00 alle ore 21.00
Serata Feldenkrais a tema “Il torace può essere flessibile?”
FEBBRAIO
Domenica 5 febbraio dalle ore 10.00 alle ore 14.00
Seminario Feldenkrais con Irene Habib: “Muoversi dalle anche”:
il ‘segreto’ per migliorare la postura e l’efficacia di ogni azione
quotidiana Info: Irene [email protected] – 3403680717
05
08
12
17.30 LE PALME
13
19.45 il PITIGLIANI
La merenda che passione! Creatività in cucina
DOMENICA -------------------------------------------------------------------------------
10.00 ADEI WIZO
Riflessioni al femminile sulla Torà con Anna Coen
MERCOLEDÌ Info e prenotazioni in sede
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Parashà: Shemot
DOMENICA nonni – a seguire pranzo. Per partecipare all’evento è
necessario accreditarsi scrivendo a: [email protected]
-------------------------------------------------------------------------------
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SHABAT SHALOM
-------------------------------------------------------------------------------
11.00 il PITIGLIANI
“Essere ebreo a… Istanbul”. Secondo appuntamento
con
il nuovo progetto per conoscere l’ebraismo nel
DOMENICA
mondo: istituzioni, cibo, musica, tradizioni…
Per partecipare all’evento è necessario accreditarsi
scrivendo a: [email protected]
------------------------------------------------------------------------------Lezione di Talmud a cura di Rav Benedetto Carucci
L U N E D Ì Viterbi: pagine scelte dal trattato di Rosh Ha-shanà
15
Info: Micaela 065897756 – [email protected]
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ADEI WIZO
Gita di una giornata a Firenze con il treno
MERCOLEDÌ Info e prenotazioni in sede
17.00 LE PALME
Do Re Mi Fa Sol:pomeriggio musicale con Alberto Mieli
PROGRAMMI EDUCATIVI
Domenica 15 e 29 gennaio e 12 febbraio dalle 10.30 alle 15.30
Proseguono le domeniche di ebraismo: per i bambini dai 3 agli
11 anni – identità e cultura ebraica, feste e tradizioni, lingua
ebraica e corso post bar/bat mitzvà. Info e prenotazioni: Giorgia
Di Veroli 065898061 - [email protected]
LE PALME
Proseguiranno anche questo anno gli incontri quotidiani pomeridiani che permettono agli amici de Le Palme di proporre argomenti di conversazione e dibattiti utili a sentirsi partecipi agli eventi
che accadono nel mondo, dando luogo ad uno scambio di idee e di
opinioni.
“UNA STORIA NEL SECOLO BREVE.
L’orfanotrofio israelitico italiano
Giuseppe e Violante Pitigliani. Roma 1902-1972”
Una libro e una mostra al Pitigliani,
domenica 19 febbraio ore 17.30
La storia dell’Orfanotrofio Pitigliani, raccolta in un libro che sarà
presentato al Pitigliani domenica 19 febbraio alle 17.30.
Ne parleranno Rav Riccardo Di Segni, Marco De Nicolò, Clotilde
Pontecorvo, Alessandro Portelli insieme alla curatrice Micaela
Procaccia e alle autrici Noemi Procaccia, Sandra Terracina e Ambra Tedeschi. Oltre alla presentazione sarà allestita una mostra
di foto, documenti e testimonianze.
NASCITE
MATRIMONI
Daniele Calò – Fabiana Di Porto
Yonatan, Victor Amati di Simone e Shulamit Shuly Elias
Ludovica Biagiotti di Maurizio e Federica Anticoli
AUGURI
Lizzie Aviva Pontecorvo di Gianluca e Sharon Piazza Sed
È nata Lizzie Aviva Pontecorvo. I migliori auguri ai genitori
Gianluca Pontecorvo del progetto Dreyfus e a Sharon Piazza Sed.
BAR/BAT MITZVÀ
Manuel Di Castro ha celebrato il suo Bar Mizvà. Mazal tov al
festeggiato, alle famiglie in particolare ai nonni Rav Crescenzio
Di Castro e a Lea Dell’Ariccia, ex insegnante della scuola elementare ebraica.
Manuel Di Castro di Mauro e Nensi Abrichamtchi
RINGRAZIAMENTI
Michael Dell’Ariccia di Ruben e Rossella Piperno
Alberto Di Porto di Attilio e Letizia Di Veroli
Michelle Raccah di Gary e Noemi Halfon
Rebecca Pagani di Alberto e Tamara Tagliacozzo
Nicole Nahum di Clemente e Manuela Lombroso Di Segni
e sempre pe’ questo ce se venga ...
partecipazioni - mishmaroth - birchonim - editoria ebraica
Via Giuseppe Veronese, 22 - Tel. 06.55302798
Comunità Ebraica di Torino
BANDO RICERCA PERSONALE
Internal auditor - full time - tempo indeterminato
La Comunità Ebraica di Torino ricerca un Internal Auditor, per
un incarico a tempo indeterminato, e full time di 38 ore a settimana, che dovrà operare a supporto della Giunta e del Consiglio
della Comunità. Titolo preferenziale è rappresentato dall’iscrizione ad una Comunità Ebraica.
FUNZIONI: L’Internal auditor eserciterà, secondo gli indirizzi impartiti dal Presidente e/o dalla Giunta e/o dai Consiglieri addetti
al Personale, al bilancio, al controllo di gestione, le funzioni di
verifica del bilancio e della situazione patrimoniale di ogni comparto comunitario, fornendo analisi, valutazioni, raccomandazioni, informazioni sulle attività prese in esame.
In particolare sarà responsabile di:
· Verificare l’efficacia delle procedure amministrative interne,
individuando le aree di rischio;
· Formulare protocolli di comportamento e direttive aziendali;
· Controllare le procedure relative all’iter autorizzativo interno;
· Valutare la rispondenza delle procedure e formulare i correttivi
ritenuti necessari;
· Predisporre report periodici.
PROFILO: Il candidato ricercato è un laureato in discipline giuridiche o economiche o ingegneria gestionale (votazione minima 100/110) con esperienza lavorativa. Completano il profilo la
predisposizione al lavoro in team, competenze relazionali, flessibilità, capacità di mettersi in gioco. E’ richiesta la buona conoscenza della lingua inglese e di un’altra lingua, preferibilmente
l’ebraico.
Necessaria la buona conoscenza degli strumenti informatici.
DOMANDA DI PARTECIPAZIONE: E’ necessario inoltrare a: Comunità Ebraica di Torino, Piazzetta Primo Levi 12 10125 Torino
o all’indirizzo di posta elettronica: [email protected] il
proprio curriculum vitae et studiorum, dettagliato con l’evidenza
dei propri dati personali e professionali, datato e sottoscritto, la
fotocopia del documento di identità in corso di validità, il certificato di laurea con l’elenco degli esami sostenuti con relativa
votazione. Le domande di partecipazione dovranno pervenire, a
pena di decadenza, entro le ore 12 di martedì 31 gennaio 2017.
Il Presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli desidera ringraziare la Signora Fernanda Di Cave per aver donato
quanto destinato ai suoi regali al sostegno delle famiglie in difficoltà della nostra Comunità; il Consiglio intero augura i più
sinceri auguri per i suoi primi 90 anni, uno splendido traguardo
raggiunto.
Il Presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli ed il
Consiglio desiderano esprimere i loro più affettuosi auguri e
sentiti ringraziamenti a Giancarlo e Gioia Di Castro, da sempre
grandi amici e sostenitori, che in occasione delle loro Nozze d’Oro hanno generosamente devoluto quanto destinato ai lori regali
al sostegno delle famiglie in difficoltà della nostra Comunità.
A Giancarlo e a Gioia un affettuoso Mazal Tov!.
PER LA VOSTRA PUBBLICITÀ
[email protected]
Cell. 392.9395910
Rinnovate le cariche del KKL Italia onlus
Lo scorso dicembre si è rinnovato il Consiglio di Amministrazione del KKL Italia Onlus, che è così formato: Sergio Castelbolognesi (Milano), Presidente; Daniel Hayon (Roma), VicePresidente; Shariel Gun, Shaliach/Direttore Generale; consiglieri Raffaele
Sassun (Roma), Letizia Piperno (Roma), Aldo Anav (Roma), Filippo Fiorentini (Siena), Roberto Lanza (Torino), Simonetta Novelli (Trieste), Donia Ellis Shaumann (Milano), Franco Modigliani
(Milano).
CI HANNO LASCIATO
Rachele Bondì ved. Mieli 13/06/1928-25/11/2016
Alisa Coen 19/05/1998-02/12/2016
Claudio Della Seta 18/06/1931-28/11/2016
Rina Guetta ved. Bokhobza 20/11/1919-24/11/2016
Vittorio Leoni 15/08/1938-28/11/2016
Anselmo Pavoncello 19/06/1929-20/11/2016
Elia Pavoncello 31/05/1947-29/11/2016
Ester Pavoncello ved. Vivanti 01/11/1931-08/12/2016
Pacifico Sed 02/05/1929-22/11/2016
Samuele Soued 04/04/1942-05/12/2016
Celeste Spizzichino in Balducci 09/09/1937-24/11/2016
Clorinda Spizzichino ved. Di Cori 08/02/1925-24/11/2016
Giulia Spizzichino 04/12/1926-13/12/2016
IFI
00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 A
TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
Daniel Isacco Fellah di Moshè e Lydia Zarfati
39
LETTERE AL DIRETTORE
vocedeilettori
GENNAIO 2017 • TEVET 5777
La
40
In ricordo di Alisa
Cari Sabrina, Daniel, Benjamin; cari Franca, Giorgio, Roberta, Riccardo, Federico. “Ho perso le parole eppure ce le avevo qua un attimo
fa”, e come nella canzone di Ligabue anche io ho perso le parole
per confortarvi, ho perso le parole per esprimervi i miei sentimenti,
ho perso le parole per spiegarmi perché la morte rapisce così dolorosamente, perché una così giovane vita sia recisa. Se una piccola,
piccolissima luce c’è in fondo al tunnel buio nel quale vi ha gettato
la morte di Alisa è la garanzia che vi offriamo che non siete soli. Tutte le lettere che seguono, e che mi è sembrato doveroso pubblicare
mettendo a disposizione un piccola parte di questo giornale, lo testimoniano. Tutti coloro che vi conoscono e vi amano sono lacerati con
voi, piangono con voi, soffrono insieme a voi. Questa Comunità, così
spesso litigiosa, si è unita in un grande abbraccio, davanti alla bara,
nella vostra casa, vi ha forse addirittura soffocati, perché siamo tutti
consapevoli che questo lutto deve spingerci ad essere più generosi,
a guardare agli altri con più solidarietà, ad abbattere gli steccati, le
divisioni, i sospetti. Nelle ore della tragedia riscopriamo il valore e il
significato di essere tutti garanti l’uno dell’altro - kol Israel ‘arevim
ze ba zè. L’impegno che ci dobbiamo assumere è sentirci uniti non
solo in queste tristissime ore ma in ogni momento, anche nelle ore
della gioia e della felicità che non dovranno mancare, nella memoria
di Alisa, il cui ricordo sia di benedizione per tutti. “Ho perso le parole
oppure sono loro che perdono me”.
Giacomo Kahn
e i maschi di là, ci hanno provato, ma eravamo troppi e l’abbraccio
collettivo premeva attorno alla bara, alla famiglia, agli amici stretti
che si stringevano di più cercando il conforto e l’anima, tutti zitti in
un silenzio ascensionale, in un sospiro corale. Ci sono state anche
le preghiere, ma erano come un mormorio. Ci sono state anche le
parole, ma erano come sassi buttati nell’abisso, non se ne sentiva il
tonfo di arrivo. La continuità ha avuto un’interruzione e, quando ha
ricominciato a girare, nulla era come prima, anche se lo sembrava.
Ho guardato l’amore degli amici. Ho guardato noi, congelati nell’impossibilità di un’espressione dialogica, le nostre facce svuotate. Abbiamo provato a farci le carezze, ma non bastava. Abbiamo provato a piangere, ma non bastava. Una sola domanda informulabile ci
tesseva tutti assieme come una tela: ridacci la vita, ridacci la vita,
ridaccela viva.
Anna Segre
Solo pochi giorni fa una figlia della nostra Comunità ci ha lasciati.
Alisa Coen, di 18 anni è andata incontro ad un destino terribile. Un
destino che nessun genitore, fratello, nonno vorrebbe mai vivere. Un
incubo purtroppo che la famiglia Coen sta vivendo, ed ha vissuto in
quei giorni, contornata e stretta attorno da tutta la Comunità. Ciascuna delle innumerevoli persone che hanno partecipato al dolore
della famiglia, chi più manifestamente, chi scegliendo il silenzio dettato dalla impossibilità di aggiungere una parola ad una tragedia
che ha dell’innaturale, avrebbe voluto portare conforto in un momento che mette a dura prova chiunque, qualsiasi genitore. Non so se
ciò è stato possibile, non so se ciò sarà mai possibile. Alisa è uscita
di casa quella maledetta mattina, è andata a scuola come sempre
e come sempre sarebbe voluta ritornare a casa dalla sua mamma,
dal suo papà, dal suo fratellino, dagli affetti più cari. Tornare a casa
quel venerdì, per lo Shabbat. Ciò purtroppo non è accaduto. Noi, non
dobbiamo chiederci il perché di tutto questo. Abbiamo l'unico dovere
di ricordarla, da ebrei quali siamo, interrogandoci, studiando e raccogliendoci. Purtroppo nessun conforto sarà sufficiente a lenire una
ferita che nulla e nessuno potrà mai guarire. Riposa in pace piccola
Alisa, figlia del popolo Ebraico, che mai dimenticherà te e tutti i suoi
figli le cui vite sono state spezzate da una morte prematura. Che la
terra ti sia lieve.
Ruth Dureghello,
presidente della Comunità ebraica di Roma
Eri bellissima mentre col pennarello nero stretto tra le dita riempivi
di disegni il tuo diario, traspariva la tua calma e la tua precisione. In
quegli occhiali che erano parte del tuo viso, nel tuo maglione beige.
Eri bellissima e lo sei nei miei pensieri. Non accetto di dover chiudere gli occhi per vederti, perché se li apro in questa classe non ci sei.
Ali, ti voglio bene e dentro di me non morirai mai.
Anna Giometti
Sono la mamma di uno studente del Virgilio. Non ho avuto la fortuna
di conoscere Alisa, ma ho visto in molte foto il suo viso allegro e sorridente. Vorrei stringere in un abbraccio la sua mamma, il suo papà,
Benjamin, e i suoi compagni di scuola, e fargli sapere che siamo tutti
uniti a loro in questo momento di grandissima tristezza.
Giovanna Borsellino
Il 5 dicembre 2016 a Roma c’era il sole. A Prima porta, davanti alla
sinagoga astronave, il sole bruciava e la luce era di una bellezza straziante. Eravamo forse mille, forse anche di più, zitti, con le lacrime
in tasca per non esibire il dolore, e la giacca in mano, assiepati nel
giardino, perché dentro non ci saremmo entrati. Le femmine di qua
Sono la mamma di un alunno del Liceo Virgilio internazionale francese. Ho appreso della tragedia e soffro tanto per Alisa e la sua famiglia. E’ assurdo come una giovane vita possa essere spezzata così.
La vita è una lotta impari e una dura prova di fronte al mistero della
morte. Sono vicina alla famiglia di Alisa e farei qualsiasi cosa per
aiutarli. Spero che si realizzi presto il giardino in Israele. Se posso
incontrarli, mi farebbe piacere. Mia nonna, nata a Roma si chiamava
Ines Sestieri.
Daniela Mirra
Ciao amore mio, oggi mi hanno detto che avrei potuto scrivere un
pensiero per te. Mi chiedo solo se riuscirò a racchiudere in una lettera la nostra amicizia. Inizierei dicendo che tu per me sei sempre stata
come una sorella, mi hai sempre aiutata per ogni minimo problema,
ci sei sempre stata per me, e mi hai motivato quando ne avevo bisogno. Ora più che mai avrei bisogno di te, ma tu non ci sei... Ed io
ancora non mi capacito di ciò che è successo. L’unica cosa che mi fa
andare avanti ora è chiudere gli occhi e immaginarti mentre mi sorridi, come facevi sempre dopo avermi consolato, il tuo sorriso mi ha
sempre calmata... Ricordo perfettamente il giorno in cui ci siamo conosciute, il giorno prima del Sayarim (viaggio organizzato dal Bene
Akiva in Austria). Raramente prendo l’iniziativa di conoscere nuove
persone, ma con te è stato diverso. Mi sono infatti seduta vicina a te
in senif e dopo pochi secondi ti ho stretto la mano per presentarmi.
Una mia amica mi aveva già parlato di te, descrivendoti come una
ragazza dolce e altruista, e, conoscendoti più a fondo, non ho potuto
darle torto. Dal nostro primo incontro infatti è stato difficile separarci.
Molte delle mie prime esperienze le ho fatte con te. Eri la mia complice. E ora la mia complice non c’è più. E pensare che ora non sentirò
più il tuo tono di voce, e non vedrò più i tuoi sorrisi, i tuoi giganteschi
occhiali neri, intonati perfettamente con i tuoi capelli lunghi e lisci,
mi fa soffrire... Come posso pensare di tornare di nuovo a Campo de’
fiori? Dove prima di ogni yeshiva in mezzo alla settimana, mi portavi in un posto diverso a provare un piatto nuovo, tutto nelle regole
della kasherut. Oppure tornare al ristorante giapponese? Dove per la
prima volta sono stata con te? Sai, qualche giorno fa lo Shaliach del
BA ha organizzato un limud per te a casa sua, dove eravamo soliti
andare per fare le yeshivot di sera. È stato deprimente fare quelle
scale senza di te, sedermi nello stesso posto sul divano e dover sta-
La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è
come se fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu
sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo
ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole
cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi,
pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. La Nostra
vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di
prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere
fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla
tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai
la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere se mi
ami: il tuo sorriso è la mia pace. (Sant’Agostino). Alisa sarai sempre
dentro il cuore di chi ti ama e di tutti noi genitori del Virgilio.
Franca Morreale
C’è una cosa che accomuna ogni essere umano, un qualcosa di grandioso che molto spesso si dà per scontato come fosse una cosa da
poco, la vita. L’esistenza di un essere che prende forma dalla nascita
e termina con la morte. Morte, ultimo pezzo del grande puzzle della
vita, ultimo scalino della grande scala dell’esistenza. Cosa si prova
mentre si muore? Pensiamo a tutte quelle persone che hanno avuto
esperienza della loro morte, ovvero andando contro i principi epicurei,
sapendo di star per morire proprio in quell’attimo. Si pensi a quelle
ultime immagini che compaiono nella mente di quelle persone, quegli
ultimi pensieri, quell’ultima speranza di continuare a vivere e vederla
svanita senza nemmeno accorgersene. Genitori, nonni, fratelli, sorelle
e chi più ne ha più ne metta, in quel fatidico momento in cui la notizia
giunge. Shhh... sembra quasi di sentirlo, il cuore inizia a battere, le
voci delle persone iniziano a perdere il suono, sovrastare dall’ansia
che piano piano sale dal collo arrivando al cervello che capisce, si
purtroppo capisce. Si pensi ora allo sforzo di un genitore che fin dalla
nascita si prende cura del proprio figlio, lo accudisce, lo sostiene, fa
sacrifici per lui, vederlo uscire di casa e non vedendolo più tornare.
Alex Aaron Pandolfi, Liceo Renzo Levi
Cari papà e mamma di Alisa. Anche se non abbiamo avuto il piacere
di conoscere vostra figlia, una parte di noi è volata via insieme a lei
ed una parte di Alisa vivrà per sempre in noi. Un abbraccio celeste
e tanta tanta fede nell’Eterno per sopportare il dolore di una così
immensa perdita. Shalom.
Mari Magliona
Gli studenti e i genitori della IIG del liceo Virgilio si stringono alla
famiglia di Alisa in questo straziante momento. Non ci sono parole,
ma vorremmo far sentire loro il grande e sincero abbraccio di una
comunità.
Domitilla Conte
Cara Alisa, è stato bello avere avuto la possibilità di conoscerti. Mi
ricordo che abbiamo velocemente scambiato due parole mentre an-
davamo in comunità, e io ti raccontavo l’esperienza dell’UGEI, invitandoti più o meno scherzosamente a candidarti come consigliera.
Non avrei mai potuto pensare che solo una settimana dopo sarebbe
potuta succedere una tragedia simile. Per quel poco che ti ho potuta
conoscere sono sicuro che saresti stata un’ottima ugeina, e certamente un’ottima nuova amica. Riposa in pace, noi non ti dimentichiamo.
Simone Bedarida (Firenze)
Mi manca la forza nelle dita, non riesco a scrivere ci credi? Le lacrime
quelle non mancano, ne ho versate tante e non sembrano finire… è
tutto un incubo vero? Stanno tutti mentendo, è una bugia questa; tu
sei ancora qui, non ti hanno portato via da noi. Se fossi qui per prima
cosa ti abbraccerei, ti guarderei e ti direi che mi dispiace, mi dispiace per tutto. Ricordi? Siamo cresciute insieme… ieri sera ho trovato
le tue lettere, i bigliettini che ci scambiavamo in classe alle medie
che se avessero beccato le prof. sarebbe stato un bel casino e mi
sono tornate in mente tante troppe cose. Adesso ascoltami, in una
lettera mi hai scritto che quando mi sarei sentita sola avrei dovuto
pensare ai tuoi abbracci e avrei dovuto rileggere quello che mi avevi
scritto, ‘top secret’; beh io lo sto facendo da ieri Ali, mi sento sola,
ma perché sento un vuoto dentro, nel cuore, nel petto, i ricordi non
riesco a metterli in pausa non mi lasciano nemmeno dormire. Ricordi quando siamo partite per Milano Marittima due anni consecutivi
l’abbiamo fatti insieme lì, la notte avevo paura di dormire e così tu
che mi hai sempre fatto da mamma: avevi unito i letti, ricordi quando andavamo in palestra insieme a fare zumba? Tu ballavi sempre
e io mi fermavo ogni 5 minuti per bere e sedermi, ti ricordi invece
quando facevamo le sfilate in corridoio con i tacchi di tua mamma e
di mia mamma? E quando abbiamo cantato quella canzone bellissima all’esame di terza media per musica? Sai qual è la cosa strana
che spesso fatico a ricordare? Come sia fatta casa mia nonostante
io ci abiti e invece la tua la ricordo alla perfezione, ricordo persino i
piatti che usavamo per pranzare e cenare arancioni di vetro, ricordo
che giocavamo a just dance quando dovevamo rimanere a casa, tu
eri la mia migliore amica, mia sorella, la mia protettrice, il mio conforto, la mia forza, mi rifugiavo in te, sapevo che c’eri sempre non come
gli altri. La foto che hanno messo sull’articolo dell’incidente te l’ho
fatta io ricordi? Stavamo a casa mia, ci stavamo facendo le foto tu
avevi quel maglione rosso, i capelli legati nella tua solita cipolla e il
tuo sorriso semplice ma pieno di gioia. Nonostante tutto questo vorrei solo poterti dire grazie, grazie di tutto Ali mia, grazie per avermi
reso una persona migliore, grazie per avermi tenuto la mano quando
nessun’altro mi aiutava a rialzarmi ogni volta che cadevo, grazie per
avermi insegnato tanto, per avermi fatto ridere, per avermi regalato
ricordi indelebili che terrò sempre nel mio cuore, grazie per avermi
fatto capire che con la determinazione e il sorriso anche nei momenti
più duri (entrambe cose che avevi), si può fare tutto, e si affronta
qualunque cosa. Ti voglio tanto bene, ricordalo sempre.
Eleanor Kay
Molto spesso D. ci pone delle prove che pensiamo siano più grandi
di noi, spingendoci ad essere certi di non essere all’altezza di superarle. Una volta, durante una lezione di Torà chiesi al Rav per quale
motivo D. avesse chiesto ad Avraham di sacrificare Yitzchak se sapeva che l’avrebbe ucciso senza porsi domande per la grande fede
che aveva in H. Il Rav mi rispose che le prove che D. ci pone non
servono ad Akadosh Baruchu, perché lui sa se possiamo affrontare
una certa situazione o meno, in quanto Onnisciente, bensì queste
prove servono a noi per capire quali sono i nostri limiti, fino a che
punto di sopportazione possiamo arrivare, di cosa siamo capaci, e
quanto sappiamo essere forti. Circa un anno fa, dopo la perdita improvvisa di una donna, lessi un racconto che diceva che D. spesso prende dalla terra le persone migliori e le fa salire verso di lui;
noi, esseri umani, ci chiediamo per quale motivo proprio le persone
migliori siano quelle ad abbandonarci; non troviamo risposta, e la
ricerca di quest’ultima diventa per noi un’agonia tremenda, con la
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re vicino qualcun altro, ed andare fuori in balcone a prendere una
boccata d’aria e parlare con qualcuno che non sia tu.. Ringrazio il
Bene Akiva per averci fatto conoscere e soprattutto per averci fatto
trovare un po’ di tempo per poter stare insieme tra i vari impegni,
anche se ovviamente la nostra amicizia non si racchiudeva tutta lì,
mi dispiace di non poter dire tutte le esperienze fatte insieme, ma
tanto quelle le sappiamo tu ed io, ed è questa la cosa più importante.
Non spiegherò come ho reagito quando ho saputo la notizia, perché
è facile da immaginare. Mi limito semplicemente a chiederti se puoi
continuare a starmi vicina come hai sempre fatto.
Carlotta Mieli
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LETTERE AL DIRETTORE
convinzione che durerà per sempre. Poi però troviamo la fede, che si
rivela automaticamente l’unica ancora di salvezza. Siamo tutti scioccati dall’incidente datato in quel venerdì 02/12, ma la fine di quel
racconto diceva che H. decide di tenere al suo fianco le persone migliori perché sulla terra sono sprecate. E allora per cercare di placare
questa agonia apparentemente interminabile, io preferisco pensarla
così. Forse questa sofferenza durerà per sempre, poiché tragedie del
genere rimangono impresse nei cuori e nelle menti di tutti, ma è
compito dell’uomo sciogliere questo gomitolo di domande e pensieri
per imparare a convivere col dolore che sembra volerci far cadere
nell’oblio. Può sembrare la prova più difficile del mondo, ma dimostriamo a noi stessi che ce la possiamo fare. Addio Alisa, sia la pace
su di te. Baruch Dayan Aemet.
Sharon Leghziel
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Abbiamo conosciuto Alisa anni fa quando era ancora piccola e venne nella nostra Scuola di musica per partecipare come cantante nel
corso di musica d’insieme. Era figlia di amici e da subito nacque un
rapporto basato sul sorriso e su un affetto spontaneo, un po’ speciale; poi, come molti ragazzi fanno, per qualche anno decise di sospendere il corso, ma, fatto singolare e che accade ogni tanto a chi
insegna, il suo viso dolce, pulito e pieno di ottimismo rimase sempre
ben impresso. Circa un anno fa Alisa decise di riprendere il corso
di canto, sua passione da sempre. Era sempre la stessa, più grande
chiaramente, ma dolce, tenera e desiderosa di collaborare con gli
altri, una persona sempre affabile. Improvvisamente, in un giorno
come tanti, la notizia ha colpito tutti noi lasciandoci senza parole
e con un grande vuoto dentro. Dopo aver vissuto e condiviso questa tragedia, insieme e stretti in un grande abbraccio, sentiamo che
dobbiamo continuare a portare avanti, adesso ancor di più, questa
grande umanità che il suo e nostro gruppo di ragazzi molto speciali
ha saputo mostrare anche in questa circostanza molto triste e pesante. Alisa era ed è la dimostrazione di un’anima pura spontanea nel
condividere amore e amicizia vera e che ci è stata tolta, purtroppo,
come amica nella vita di tutti i giorni, ma che deve divenire una spinta per tutta la comunità a cercare e fare cose belle nei confronti di chi
ci è vicino ogni giorno. Siamo certi che Alisa ha lasciato a tutti noi ed
ai suoi amici una grande opportunità per imparare a trasformare le
cose brutte in amore e consapevolezza da restituire ad altri. Noi siamo due musicisti e siamo più bravi a parlare con la musica che con le
parole e faremo di tutto per continuare a raccontare Alisa attraverso
la nostra umile arte; questa è una promessa di chi arrivato vicino
ai cinquanta anni non sa ancora rispondere e dare un significato a
quello che avviene in certe circostanze della vita, ma che crede fermamente che quando si ha la fortuna di incontrare persone e ragazzi
così speciali bisogna impegnarsi a gridare al mondo il bello e il bene.
Questo è quello che gli occhi di Alisa ci hanno raccontato e insegnato! Per sempre grazie!
Micki e Silvia
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Ciao Ali, le parole come le lacrime non mancano. Noi ti pensiamo,
tanto e ancora non capiamo come sia potuto accadere. Ci sembra così
improbabile e surreale. Lunedì ti sono venuta a salutare per l’ultima
volta, ma preferisco parlare di tutte le cose belle che mi ricordo di te.
Mi ricordo quando l’anno scorso a fine febbraio sei arrivata all’Accademia. Ti sei subito mostrata felice e serena, quello che eri. Avevi
iniziato cantando Rehab di Amy. Mi piaceva tanto come la facevi.
Mi ricordo anche quando siamo andati tutti a casa tua a maggio, di
quel pomeriggio ho solo bei ricordi, anche quello di te che scherzando ti arrabbi perché avevo finito tutte le crostatine al cioccolato. Mi
ricordo quando facevamo le prove la sera anche fino a tardi perché
dovevamo fare il concerto di fine anno, e tu ridevi e sdrammatizzavi
sempre. Eri sempre tu quella che mi metteva una mano sulla spalla
per dirmi di stare tranquilla. Ridevi e ridevi Ali, ci contagiavi un po’
tutti e credo non ci fosse cosa più bella. Poi la sera del concerto che
mi avevi convinta ad uscire, ed è stata una delle serate più belle per
me. Quest’anno avevamo legato tanto, sei sempre stata accanto a
me durante le lezioni e eravamo contente, nonostante l’ansia di non
sapere le cose. Come quando Silvia non ci ha fatto fare lezione perché non avevamo i libri, siamo uscite dall’aula e siamo scoppiate a
ridere. Oppure quando quell’esercizio di solfeggio ci ricordava quella
canzone, e non smettevamo di ridere con Silvia che intimava di mandarci fuori. Quando cantavi ci mettevi il cuore, cantavi con Fede che
suonava ed eravate bellissimi e innamorati. “Isn’t she lovely, isn’t
she wonderful?”. Ieri però a lezione non c’eri, è stato difficile per
tutti. C’era un posto vuoto accanto a me e anche nel mio cuore e a
volte spero che tutto questo sia un enorme incubo. Che domani mi
sveglio e ti incontro vicino casa tua. Ci sarà sempre un po’ di te nei
miei pensieri e in quelli di tutti noi. Eri bella, sorridente, intelligente
e gentile. Lo sarai sempre perché ti ricorderò sempre così. Ti voglio
bene e te ne vorrò sempre, sarai la mia Stella.
Elena
Potrei pensare che tutto ciò che mi rimane di te sia un quadro appeso
in camera. Ciò che mi hai lasciato, però, vale molto di più di qualsiasi
oggetto. Ricordi. Milioni e milioni di ricordi, accumulati in anni di amicizia, che in questi pochi giorni non mi danno pace, mi tormentano.
Mi ricordo che quando ero bambina avevo paura di andare a dormire
fuori, non volevo venire a casa tua, venivi sempre tu. Mangiavamo
la pizza, guardavamo un film, ci mettevamo a cantare a squarciagola
le canzoni di Disney channel, e facevamo finta di sfilare davanti allo
specchio della camera dei miei genitori. Volevamo rimanere sveglie
fino a tardi, come “i grandi”, e quando ci infilavamo a letto facevamo
finta di dormire, e poi ci mettevamo a parlare fino a che non crollavamo. Ci piaceva fare gli scherzi ai genitori, ricordo quando una volta
mettemmo un ragno finto nel letto dei miei, che ovviamente non si
spaventarono, ma noi ci divertivamo così tanto. Il nostro obiettivo
era quello di rimanere sveglie per fare lo spuntino di mezzanotte di
nascosto, biscotti, merendine, nutella, tutto ciò che ci stuzzicava andava bene. Poi ci veniva sonno e allora ci promettevamo che la prima
che si fosse svegliata avrebbe svegliato anche l’altra; perché l’ultima
cosa che avremmo voluto era restare da sole, anche solo per un’ora.
E ora? La mattina poi la colazione a base di panino alla nutella non
poteva mancare. Ricordo che la prima volta che sono andata a dormire fuori sono venuta da te. Avevo così paura, eppure sapevo che di
te mi potevo fidare, che non avevo nulla da temere, perché ci saresti
stata tu accanto a me, per qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. Giocavamo fino allo sfinimento, sempre. Ci arrampicavamo sugli alberi,
e sognavamo di quando avremmo avuto una vita tutta nostra, dei
ragazzi, perfino mariti, dei figli. Di quando saremmo potute andare a
ballare la sera, di quando avremmo potuto bere la nostra prima birra,
prendere la patente, guidare fino al mare. Sognavamo l’età dell’indipendenza, della libertà, il momento in cui saremmo potute partire
alla scoperta del mondo, senza ostacoli, ancora ignare di quello che
ci aspettava. Non avevamo paura del futuro, lo desideravamo piuttosto. Volevamo tutto dalla vita, non ci saremmo mai accontentate.
Siamo state da sempre simili in questo, testarde, ma anche volenterose propositive e coraggiose. Non avevamo paura di allontanarci,
dalla famiglia, dagli amici. Sapevamo che saremmo tornate prima
o poi, e che avremmo riconosciuto ciò che ci era familiare. Io ogni
volta che tornavo riconoscevo te, la mia certezza, il mio punto fisso,
il mio “familiare”. Ci siamo sempre ritrovate. Se dovessi pensare alla
peculiarità della nostra amicizia sarebbe proprio questa: la capacità
di ritrovarsi. E ti ritroverò, sempre. Nei miei gesti, nei miei pensieri,
nei miei ideali, nel mio cuore, nel mio mondo. Ti ritroverò ovunque,
perché non te ne andrai mai del tutto, resterai sempre qui con noi.
Guardo il mio polso e vedo il braccialetto che mi hai regalato, ha una
“A”, tu avevi quello con la “C”. Me lo avevi portato la prima volta
che eri stata a Madrid, pensa quanto tempo che è passato. Resiste
da anni, sta li, ormai un po’ consumato, ma non si stacca. “Tu sei una
parte fondamentale di me. Probabilmente senza di te non sarei quella che sono, mi hai cambiata mi hai aiutata, mi hai sopportata. Sei
stata per me un punto di riferimento, un punto fisso nella mia vita,
un qualcosa che se anche non lo vedi sai che c’è, e che ci sarà se nei
Ciao Alisa io non ti ho conosciuto personalmente
ma da quel triste 2 dicembre un grande dubbio si annida nella mia
mente.
Come può il nostro amato Signore
aver permesso che nella nostra Comunità ci fosse un così grande
dolore.
Nessuno potrà ridare ai tuoi genitori il tuo dolce sorriso
che ogni giorno si irradiava dal tuo bel viso.
Nessuno potrà ridare al tuo amato fratello minore
la tua protezione il tuo affetto e il tuo sconfinato amore.
Poi rifletto bene e anche se no ti ho mai conosciuto
un pensiero bello viene in mio aiuto.
Ti immagino mano nella mano con tanti bambini in un prato fiorito
so che tu eri una brava madrichim e tanti ragazzi e ragazze hai con
amore seguito.
Ora forse ho capito finalmente
e il dubbio che avevo non è più nella mia mente.
Il Signore nostro un posto speciale ti ha assegnato
una guida e un insegnante serviva per chi purtroppo troppo presto
ci ha lasciato.
Per noi che siamo rimasti qua certo è una magra consolazione
ma il tuo ricordo sarà per noi sempre di benedizione.
Fabio Mieli
Vorremmo ringraziare oltre agli amici e tutta la comunità, l’agenzia Gan Eden e il signor Vittorio Pavoncello per la professionalità e discrezione con cui ha svolto il servizio in occasione
della perdita di nostra figlia Alisa.
FAMIGLIA COEN
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Visto si stampi 3 gennaio 2017
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Prof. Emanuele Di Porto scrivendo alla Segreteria della Comunità - Lungo­tevere Cenci - Tempio
00186 - Roma • Tel. 06/68400641.
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hai bisogno. Alcune cose le direi solo a te, sei una di quelle persone
di cui so che mi posso ciecamente fidare. La cosa bella è che anche
dopo tanto tempo che non ci vediamo, appena ritrovate noi siamo
le stesse di sempre, siamo quelle stupide che si saltano addosso e
che si abbracciano. Io voglio che tu sappia, che per te continuerò
ad essere quella stupida che ti salta addosso e ti abbraccia, quella
stupida che si mette a ballare davanti alla televisione, continuerò ad
essere sempre quella bambina che aveva paura di dormire fuori, che
per la prima volta si è fidata ed è venuta da te, continuerò ad essere
quella bambina che mangiava la nutella a colazione insieme a te, e
quella che rimaneva sveglia per fare gli scherzi ai genitori. Io non ti
abbandonerò, su questo puoi starne certa. Per sedici anni noi siamo
state amiche, più che amiche, e non ho intenzione di lasciarti andare,
sei qualcosa che non se ne va. Tu sei la mia metà. Sei la mia persona.” Questo ciò che ti scrissi per il tuo compleanno dei sedici anni.
Fisso questo braccialetto e penso a quanto siano vere queste esatte
parole. La cosa buffa è che in questo momento d’infinito dolore, l’unica persona con cui vorrei parlare sei tu, l’unica che sarebbe capace
di confortarmi, di farmi credere al solito “andrà tutto bene”, l’unica
con cui sarei capace di sfogarmi come con nessun altro. Tu sai tutto
di me, e ci sono cose di me che resteranno per sempre solo con te.
Ricordo così tante cose, ma non ricordo un momento della mia vita
in cui tu non sia stata presente. Non so come vivere in un mondo in
cui tu non ci sei. Per fortuna ti avrò sempre dentro di me. Grazie di
essermi stata fedele sempre.
Chiara Sed
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